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palermograd

Requiem per il tempo libero

di Salvatore Cavaleri

Appunti a voce alta dopo la lettura di "24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno", di Jonathan Crary

1454444083 12593812 925827734164984 1001664142758161366 oGeneralmente la mattina faccio colazione davanti al computer. Controllo se la puntata che avevo messo a scaricare si è completata, apro Facebook, guardo la mailing list con cui facciamo i passaggi di consegne tra colleghi di lavoro, accendo Radio 3e altre banali attività che ormai vanno in automatico. Poi, dopo la sigaretta, vado in bagno, faccio una partita ad un videogioco online e mentre faccio la doccia attivo la riproduzione casuale di Spotify. La seconda colazione la faccio al bar con Giro e gli altri genitori vicino la scuola dei nostri figli. Ogni mattina escono fuori due o tre idee che ci faranno svoltare definitivamente - tipo brevettare il passeggino per adulti o mettere su una band rocksteady – poi ci si saluta e si va a lavorare.

Il lavoro che faccio comprende alcune attività che atterrebbero generalmente alla normale vita quotidiana, tipo passare del tempo a parlare con dei ragazzi, pranzare insieme, giocare alla Play Station e anche dormire durante i turni di notte. Per i contatti con i vari servizi con cui ho a che fare, poi, vado in giro, mando qualche mail, ricevo un po' di messaggi via fax e passo diverse ore al telefono con i colleghi.

La sera, prima di andare a casa, passo dal negozietto bangla che per fortuna fa orario continuato e compro quelle due cose che sono terminate all'ultimo momento. Torno a casa e vedo che Massimo mi ha inviato la bozza di un progetto da rivedere e quindi, mentre ceno, butto un'occhiata e gli rispondo. Finalmente verso le 22 riesco a mettermi sul divano per guardare la puntata che avevo scaricato la notte prima. Più o meno arrivati alla terza scena arriva un messaggio sul gruppo WhatsApp dell'equipe di lavoro. C'era una comunicazione urgente che non poteva aspettare. Ed ovviamente arrivano le risposte degli altri, qualche faccina e poi parte il cazzeggio. Arrivato alla fine della puntata mi accorgo che mi sono perso qualche passaggio. Comunque, spengo la tv, chiudo WhatsApp e vado a dormire, senza prima dimenticare, però, di mettere a scaricare una nuova puntata.

Normali attività quotidiane comuni a molti. Ovviamente ho esagerato, passo anche del tempo con la mia famiglia, una volta a settimana vado a giocare a pallone e ogni tanto vado a correre. Ma a pensarci bene, anche lì mi sembra di stare tutto il tempo connesso ad un qualche dispositivo. Per prendere i bambini a scuola c'è ogni giorno un giro incredibile di messaggini tra tre quarti dei genitori che sa di arrivare in ritardo, per organizzare la partitella abbiamo il gruppo Facebook e quando vado a correre attivo Runtastic. Ok, ok, ho esagerato ancora. Passo anche del tempo al giardino pubblico, dove grazie al cielo c'è la connessione Wi-Fi e poi faccio normali attività quali cucinare, magari controllando la ricetta su Giallo Zafferano, o leggere un libro sul mio magnifico e-reader, per poi postare immediatamente un commento in rete.

Alla fine quindi mi rendo conto che ho certo esagerato, ma neanche troppo. Resta il fatto che alla fine delle 24 ore mi chiedo quanto tempo ho lavorato? Quando ho smesso di essere un consumatore? Ed, in generale, quando ho realmente smesso di essere connesso?

Marx, nell'ottavo capitolo de Il Capitale, descriveva la giornata lavorativa come una grandezza variabile. Sosteneva, cioè, che il capitalista tende ad estendere il più possibile la lunghezza della giornata lavorativa, anche se questa non è prolungabile al di là di un certo termine, in quanto sussistono limiti sia fisici che sociali. “Ma” avverte Marx, “tanto gli uni che gli altri sono di natura assai elastica e permettono un larghissimo margine di azione. Così troviamo giornate lavorative di otto, dieci, dodici, quattordici, sedici e diciotto ore.”

Si sa, Marx era un inguaribile ottimista. Ma certo, anche per il più illuminato critico de Il Capitale doveva essere difficile immaginare a metà '800 fino a che punto il capitalismo sarebbe stato in grado di rimuovere i limiti della propria espansione. In un recente saggio di Jonathan Crary, dal titolo emblematico 24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno (Einaudi, 2015), vengono infatti descritti i dispositivi attraverso cui, nel neoliberismo contemporaneo, si è imposta una nuova temporalità a ciclo continuo. Per 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, il capitale ci mette a lavoro, ci vende merci e indaga sui nostri gusti, abitudini ed attitudini.

Crary inizia il suo libro descrivendo le ricerche che l'esercito americano ha svolto sugli uccelli migratori per comprendere il funzionamento dei neuroni inibitori del sonno. Come fanno, cioè, questi volatili ad affrontare traversate oceaniche senza mai addormentarsi? Evidentemente i militari non hanno curiosità di natura ornitologica, ma il loro interesse è finalizzato a condurre esperimenti sui soldati impegnati in combattimenti sul campo per stimolarne la veglia artificialmente, senza interruzioni, per lunghi lassi di tempo.

Questo esempio, che evidentemente è un caso limite, in realtà è abbastanza esplicativo di come la diffusione del paradigma 24/7 si sia estesa in modo molto più netto di come possa sembrare: basti pensare all'apertura di supermercati e altri esercizi commerciali a ciclo continuo o ancor di più a come, con la diffusione delle nuove tecnologie digitali, sia possibile lavorare, fare acquisti, scommettere, usufruire di materiale pornografico e compiere altre attività potenzialmente compulsive praticamente in ogni luogo e in ogni istante.

Già Fredric Jameson e David Harvey, tra gli altri, avevano descritto la postmodernità a partire dalle trasformazioni delle coordinate spazio-temporali ma, la vera novità, secondo Crary, è che la temporalità che si sta diffondendo oggi ha la caratteristica di essere unica e assoluta.

Unica perché non esiste luogo al mondo che non sia diventato un nodo della rete. Assoluta perché contemporaneamente non esiste attività umana che non venga catturata in questa nuova dimensione. All'inizio degli anni novanta, quando il neoliberismo s’imponeva come legge universale e il cyberspazio ridisegnava la psicogeografia collettiva, si è venuta ad affermare una sincronizzazione globale tale per cui, oggi, ogni possibilità di distinzione tra tempo produttivo e improduttivo, tra lo spazio della giornata dedicato al lavoro e quello dedicato agli affetti, tra operosità e ozio, è saltata del tutto.

Se Marx basava la sua critica al capitale sulla teoria del valore lavoro, cioè sulla possibilità di individuare nell'ora di lavoro l'unità di misura in grado di quantificare il valore di una merce, oggi è al contrario la “dismisura”, esattamente l'impossibilità di quantificare temporalmente l'attività cognitiva, a diventare la cifra interpretativa del lavoro contemporaneo.

Se agli albori del postfordismo erano in pochi quelli che avvertivano che con la precarizzazione del lavoro non si sarebbe lavorato di meno e che anzi l'attività produttiva avrebbe invaso l'intera quotidianità, oggi sappiamo bene che la flessibilità, lungi dal concederci di rilassarci quando vogliamo, al contrario impone di non guardare l'orologio. Oggi, insomma, in pochi hanno dubbi rispetto al fatto che la precarietà porti a lavorare molto di più e, semmai, a guadagnare molto meno.

Il capitalismo contemporaneo si afferma, allora, come una temporalità a ciclo continuo che non subisce interruzioni, dentro cui però ogni lavoratore rappresenta un frammento di tempo, un segmento intercambiabile che viene chiamato ad intermittenza, ma che deve dimostrarsi sempre pronto a rispondere alla chiamata.

In ognuna delle 24 ore e in ciascuno dei 7 giorni ognuno è potenzialmente contattabile. Tutti siamo in possesso di un tablet, di uno smatphone o di un computer portatile, tutti siamo quindi potenzialmente raggiungibili ovunque, e di conseguenza obbligati a rispondere. Quando ci arriva un messaggio WhatsApp noi sappiamo che chi ce lo manda sa che l'abbiamo letto, sa che ci ha raggiunti, e a quel punto, quindi, non possiamo non rispondere. Anche e soprattutto se si tratta di un messaggio di lavoro arrivato proprio quando eravamo arrivati a casa dopo una giornata infinita. Proprio il fatto che questi dispositivi telematici vengono usati indistintamente per le comunicazioni private e per quelle di lavoro rende la raggiungibilità ancora più invadente.
 
Il tempo libero tende a scomparire all'interno di un tempo omogeneizzatamente produttivo, tanto che anche le attività extra-lavorative finiscono per rispondere ad un tempo organizzato e mercificato. Il tempo libero non è più il momento in cui “staccare la spina”, ma quello da dedicare ad attività in cui migliorare le proprie prestazioni. In ogni piccola ed intima passione siamo chiamati all'efficienza: dalla corsetta della domenica, al laboratorio creativo per bambini, bisogna sempre  raggiungere il risultato migliore. Perché nella temporalità 24/7 non sono ammessi vuoti, ogni singolo frammento deve essere riempito. Non è concessoperdere tempo.

Una volta  si diceva che un terzo della giornata doveva essere dedicato al lavoro, un terzo alla vita privata e l'ultimo terzo al sonno. Ma se non è più possibile fare una netta separazione tra luoghi, tempi e strumenti di lavoro e quelli dedicati alla vita privata, e se quindi la separazione tra i primi due terzi della vita non è più così netta, allora l'ultima frontiera rimane il sonno. Il sonno è stato sempre considerato la parte della vita improduttiva per eccellenza, quella dell'inattività assoluta. La siesta è da sempre il simbolo dell'inoperosità. Eppure, anche questo limite naturale, che apparentemente non può essere scalfito, diventa agli occhi del capitalismo contemporaneo sempre più insopportabile.

Innanzitutto il tempo medio dedicato al sonno è drasticamente diminuito nel corso dell'ultimo secolo. Le statistiche dicono che si è passati dalle 10 ore per notte dei primi del '900, alle 8 ore di qualche decennio fa, fino ad arrivare alle 6 ore e mezza che un americano medio dorme ogni notte. Contemporaneamente, la qualità del sonno è sempre più disturbata. Le patologie tipiche della vita nelle metropoli (depressione, disturbi bipolari, iperattività), producono mutazioni del sistema nervoso tali da produrre aggregati globali di individui con un metabolismo alterato in sincrono. Ma ancora di più, la diffusione incredibile di sostanze psicotrope, tanto legali quanto illegali, tanto di droghe e quanto di farmaci, la cui composizione chimica tra l'altro è incredibilmente simile (guardare a proposito Requiem for a dream), hanno prodotto un'alterazione della percezione temporale che, vista la scala della loro diffusione, assume le caratteristiche della trasformazione antropologica.

Le notti insonni sono quelle in cui si finiscono i lavori del giorno prima o ci si rigira nel letto chiedendosi se il prossimo mese si avrà un lavoro, in cui si rimugina sull'ultimo discorso del capo o non ci si dà pace per la frase di un collega, quelle in cui ci si alza e si inizia a mangiare compulsivamente o a giocare a poker online fino all'arrivo della sveglia. Ma se non si riposa mai del tutto, allora, non si è mai neanche completamente coscienti.

Il paradigma 24/7, per tornare al libro di Crary, si impone quindi come una nuova temporalità impossibile da reggere. Ed è proprio questa impossibilità a trasformarlo in un mot d'ordre pervasivo e subdolo. Nessuno può realmente lavorare, consumare o stare sveglio 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, ma al tempo stesso tutti siamo chiamati a farlo. Questa distanza tra l'ingiunzione alla disponibilità per un tempo innaturale e la cruda naturalità del tempo biologico rappresenta un nodo fondamentale dei meccanismi di controllo contemporanei. Per quanto ognuno di noi si possa sforzare di reggere il peso di questa ingiunzione, infatti, alla fine questi sforzi risulteranno essere una inutile fatica.
 
Alla fine dei conti, allora, tutto il libro di Crary risulta interessante non tanto per le cose che dice quanto per le cose che evoca. Non perché arriva a dimostrare l'affermazione del paradigma 24/7, ma perché offre una prospettiva ottica che permette di comprendere una vasta quantità di fenomeni. In fondo è vero che tutta la vita è sotto controllo? Siamo diventati tutti degli automi? Messa così sembrerebbe che non esistano piani di resistenza. Ma noi sappiamo che negli interstizi di ogni dinamica didominio rimangono sempre infinite possibilità di sabotaggio. Lo stesso Jonathan Crary, del resto, conclude il libro domandandosi “quali sono gli incontri che possono condurre a nuove formazioni, a nuove capacità di opposizione e dove possano avere luogo, in quali spazi o temporalità?”

Fa un certo effetto porsi questa domanda sulla temporalità che sapranno assumere i movimenti, in una fase in cui, almeno dalle nostre parti, si avverte una certa aria di fiacca, in cui le piazze sono tutt'altro che piene e l'erosione degli spazi di partecipazione procede spedita. Mi viene da pensare, però, che non dovremmo avere paura di questi vuoti. Che sottrarsi alla temporalità imposta dal capitale deve voler dire saper coltivare anche il tempo dell'attesa. Chi ha vissuto dentro i movimenti sa bene come una certa frenesia dell'attivismo sappia assumere essa stessa qualcosa di patologico. C'è sempre una scadenza da rincorrere e c'è sempre un nuovo scontro finale per il quale bisogna farsi trovare pronti, finendo così per replicare la stessa coazione a ripetere che si vorrebbe combattere. Il tempo dell'attesa è esso stesso un tempo utile alla trasformazione, quello in cui ci si guarda in faccia e ci si mette in discussione. Quello in cui si elabora il passato e ci si prepara alle rotture col presente. Affrontare i propri vuoti vuol dire smetterla di nascondersi, smetterla di essere uguali a se stessi ed essere fino in fondo pronti al cambiamento.

Ma fa altrettanto effetto porsi questa domanda mentre i giorni e le notti francesi sono stravolte da un movimento che, guarda caso, si chiama “Nuit Debout”. Quasi nessuno si aspettava questa ondata di proteste contro la nuova legge sul lavoro, in una Francia in cui lo Stato d'emergenza aveva imposto la sospensione della democrazia in nome della sicurezza nazionale. Questo movimento trae la sua forza non dall'opposizione ad una legge, ma dalla dimostrazione di esistenza di una nuova composizione sociale che rimette al centro i diritti di chi lavora. Questa presa di parola, questo riappropriarsi delle strade e delle piazze, rappresenta anche un esempio contagioso di come il tempo imposto dal capitale ad un certo punto possa subire un'incrinatura, nella quale il ritmo delle lancette smette di rispondere alla logica della fretta e dell'efficienza per lasciare spazio a curve temporali dedicate al piacere di stare insieme per difendere ciò che si ha in comune. Non a caso, tutto ciò nasce proprio da una rivoluzione temporale che, nella migliore tradizione francese, è riuscita a sconvolgere e riscrivere anche il calendario, trasformando Marzo in un mese che non finisce mai.

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