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la citta futura

Quale strategia per i comunisti? In risposta ad Alessandroni

di Alessandro Pascale

39caac1103b5a375784200f85bd017c6 XLQuelle che seguono sono alcune considerazioni su “Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea”, un saggio pubblicato da Emiliano Alessandroni su “Marxismo Oggi” il 25 agosto 2018 [v. anche qui]. Con esso la rivista intende “aprire una discussione sulla questione europea, e più in generale sulle contraddizioni e i problemi dell'attuale quadro internazionale”. L'interesse per lo scritto è dato non solo dal fatto che Alessandroni è considerato uno degli “allievi” più promettenti di Domenico Losurdo, ma anche dalle sue conclusioni, che lo portano ad affermare la necessità di rigettare “l'eurofobia”, così la definisce, che avrebbe colpito gran parte della sinistra. Nelle righe che seguono cercherò di dimostrare come l'Autore non sia rimasto fedele all'intento espresso nell'apertura del suo lavoro, nel quale denuncia l'indebolimento del “campo della riflessione dialettica” e il “rafforzarsi di prospettive meccaniciste e logiche binarie”. Prima però occorre riconoscere il valore qualitativo del saggio, sia per la cura scientifica, sia per la sua capacità di illuminare su alcuni aspetti della storia contemporanea.

 

L’ottica antimperialista

Quali sono nello specifico i pregi di tale lavoro? Anzitutto la capacità di concentrare l'attenzione sulla contraddizione principale, costituita dalla permanenza dell'Impero statunitense. Fa bene l'Autore a denunciare la “rimozione del Project for the new american century” nella “cultura critica del Vecchio Continente”. Un'accusa che va a colpire soprattutto quei settori della sinistra dimentichi della questione antimperialista. Ciò che avrebbe forse meritato maggiore considerazione è la constatazione del declino di tale Impero, il quale assomiglia ad un vecchio leone ferito che si dimena con impeto furibondo per frenare il proprio deciso tramonto.

Nonostante l'attivismo militare e politico, legale e illegale, svolto tuttora in ogni parte del mondo, particolarmente visibile in Stati come il Venezuela, il Nicaragua, la Siria, ecc., l'ascesa di un assetto multipolare e la progressiva messa in crisi del dollaro come valuta dominante mondiale sono fattori che annunciano, se pure non con certezza assoluta, la caduta dall'Olimpo divino di Washington e il suo ridimensionamento “umano” a superpotenza internazionale al pari di altri blocchi in ascesa impetuosa.

Fa bene l'Autore a ribadire “i rischi di guerra mondiale” che caratterizzano quei momenti storici di passaggio da una forma imperiale in crisi ad un nuovo ordine internazionale. In tal senso è utile sottolineare con maggior forza le molteplici contraddizioni che si riscontrano tra gli USA e l'UE, in un rapporto che è certamente molto più complesso di quanto non sia stato semplicisticamente definito finora dagli analisti.

 

La politica estera del PCC

Illuminante poi è la ricostruzione della “teoria dei tre mondi”, che serve a chiarire in un lungo arco storico la politica cinese sull'Unione Europea. Pechino ci identifica come un possibile argine agli Stati Uniti d'America e quindi come un potenziale alleato nell'imposizione di un nuovo ordine internazionale fondato sulla cooperazione economica pacifica e sullo sviluppo universale dei popoli. Con tutte le possibilità future che questo scenario apre nella lotta di classe mondiale, diventa più comprensibile la scelta attuata di non appoggiare politicamente un'eventuale secessione greca dall'Unione Europea. Rimane allo stesso tempo una declinazione della tattica discutibile, in quanto ha favorito le correnti opportunistiche di Syriza nella scelta di obbedire ai diktat di Bruxelles, secondo quella deleteria visione che ha portato all'idea di poter ottenere un progresso sociale stando all'interno delle strutture imperialiste internazionali. In questo senso la vicenda greca ha indebolito la già debole autorità sia della Sinistra Europea e del GUE-NGL, sia l'intero movimento comunista europeo. È stata forse concordata con i comunisti europei questa strategia? Non mi risulta.

 

Ancora la “via italiana al socialismo”?

Quali critiche si devono dunque muovere a questo lavoro? Innanzitutto si può constatare un uso strumentale e riduttivo della categoria imperialista così come declinata da Lenin, il quale oltre ad essere ridotto ad un accenno incompleto su un singolo tema, scompare poi completamente di scena. Seppur improntato ad un'ottica antimperialista, non si tratta quindi di un saggio “leninista”. L'ottica è invece ben improntata alla difesa della “via italiana al socialismo”, tanto duramente contestata dall'intero COMINFORM nel 1947, finendo in sordina fino alla sciagurata svolta del 1956. Solo in quell'anno, in cui il revisionista Chruscev avviò la “destalinizzazione” introducendo una serie di riforme che posero i semi della tarda crisi dell'URSS, divenne possibile per Togliatti rilanciare una strategia che era stata messa da parte negli ultimi anni “staliniani”.

Alla necessità di avere un ripensamento critico alla “via italiana al socialismo” sono giunto lavorando all'opera “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo”. Ho studiato attentamente le relazioni tra l'URSS e il movimento comunista internazionale, dando una particolare attenzione alle vicende del PCI. Si tratta di una ricerca dedita a cercare una sintesi delle ultime scoperte ottenute dalla storiografia più avanzata e scientifica, tra cui chiaramente le opere di Domenico Losurdo, che ho usato criticamente, come richiede la prassi comunista. I materiali riportati a supporto di queste tesi dovrebbero portare a ripensare criticamente non tanto la grandezza del personaggio e delle opere di Togliatti, quanto l'attualità della strategia da lui tracciata ormai 70 anni fa.

Da questo punto di vista è auspicabile che il movimento comunista riapra il dibattito sui limiti che ha riscontrato praticamente la strategia gramsciana della lotta per l'egemonia, ragionando di conseguenza sulle problematiche e le crisi che si sono verificate in tutti i partiti comunisti, non solo in Italia e nell'est europeo. Credo che occorra tornare a riflettere sul ruolo della teoria rivoluzionaria e della differenza che c'è tra una via nazionale al socialismo che vi applichi i principi del marxismo-leninismo, e una via nazionale al socialismo riformista che ha ormai scambiato, per fattori non naturali ma da studiare, la tattica per la strategia, e viceversa. Occorre consapevolezza che sono mutati i tempi e che serve un ripensamento su una questione strategica: come può agire un partito comunista in una società che ormai costituisce un moderno totalitarismo “liberale”?

 

L'analisi sulla società attuale

Nell'affermare che questa società sia una forma di totalitarismo mi prendo le mie responsabilità e se ho ragione lo giudicheranno i lettori che troveranno nelle librerie quest'autunno il libro in cui dimostrerò questa affermazione, provando anche ad offrire alcune direttrici ideologiche inedite al movimento comunista italiano [1]. Il regime odierno in cui viviamo è una forma di dittatura della borghesia dai tratti inediti per le capacità tecnologiche di cui dispone e per la particolare congiuntura storica favorevole al grande Capitale. Da qui consegue la necessità di adottare uno sguardo un po' diverso rispetto a quello classico della “democrazia liberale” (e non oso dire “progressiva”) a cui siamo stati educati, portandoci ad uno sguardo un po' troppo edulcorato. Contesto quindi ad Alessandroni anzitutto un'analisi sbagliata della nostra società, un'incapacità di coglierne le caratteristiche profonde e di denunciarne con forza la violenza assoluta e intollerabile sotto ogni punto di vista.

 

I rischi della strategia cinese

“Porsi in accordo anziché in contrasto rispetto alla linea politica del Partito Comunista Cinese costituisce, per qualunque marxista che intenda vedere sconfitte le pretese egemoniche americane e che abbia a cuore la democratizzazione dei rapporti internazionali, una sorta di imperativo categorico; tanto più che dall'esito della partita tra Stati Uniti e Cina dipenderanno non soltanto le sorti del mondo ma anche il grado d'incidenza del movimento comunista internazionale” (dal cap. 3 – La Repubblica Popolare Cinese e la Teoria dei tre mondi).

Nego risolutamente l'idea che l'unica ambizione possibile per il movimento comunista italiano sia la subalternità al progetto di salvare un'Unione Europea imperialista, solo perché questo potrebbe ipoteticamente portare, nell'idea del PCC, ad una possibile alleanza rivolta contro gli USA. Siamo orfani di un'Internazionale Comunista, che sola potrebbe definire una strategia globale e una declinazione tattica nazionale per il movimento comunista dei singoli Paesi. I successi della Cina, che pochissimi conoscono o hanno capito davvero in Italia (e Losurdo era uno di questi), creano in noi grandi speranze, ma non possono esimerci dal sottolineare che ci sono diverse correnti revisioniste e borghesi (più o meno ricche o “sussunte”) interne al PCC, e che in un progetto di lunga durata come quello tracciato dagli organismi dirigenti (l'avvio della costruzione del socialismo verso il 2050) il rischio di una presa dall'interno del potere da parte dei settori borghesi può sempre essere possibile, come lo è già stata in passato anche laddove sembrava impossibile.

Finchè sussistono rapporti di produzione capitalistici, e ancor più quando sono così sviluppati come nella Cina attuale, permane sempre il rischio di una destabilizzazione interna, di un “golpe” interno, magari incruento e poco appariscente, magari sostenuto e sollecitato da agenti internazionali di vario tipo. È ormai un dato storico acquisito che le potenze imperialiste occidentali abbiano avuto tra le proprie tattiche quella di infiltrare i movimenti e le organizzazioni dei comunisti in Europa Occidentale e fin dove altro potevano nel mondo.

 

Quando Stalin disse no a Mao

“Oggi, mutatis mutandis, esiste una identità di scopi tra le classi lavoratrici del mondo occidentale, tra le forze politiche che si richiamano alla tradizione marxista, tra i comitati contro la guerra e la politica di pace promossa dalla Repubblica Popolare Cinese. Un'identità di scopi che, come allora, non dovrebbe essere messa in discussione” (dal cap. 4 – Isolare e combattere il nemico principale).

Abbiamo già due ottimi motivi per cui il movimento comunista italiano non dovrebbe subordinare la propria linea alla strategia emanata nei documenti del PCC. Ce n'è però un terzo. Alessandroni ricorderà bene che lo stesso Stalin scoraggiò Mao dal provare a portare a termine il processo rivoluzionario in Cina. Siamo al termine della Seconda Guerra Mondiale. Mao non se la prese ma replicò che lui la Rivoluzione l'avrebbe fatta con successo, cosa che poi accadde, senza peraltro nessuna scomunica. In quel singolo caso Stalin sbagliava, Mao aveva ragione. Per il semplice fatto che un grande dirigente comunista come Mao aveva maggiore contezza di quanto accadesse nel proprio Paese, come è naturale che sia, e di come bisognasse quindi agire.

Non era prevista per i cinesi, allora, l'abdicazione dell'ottica rivoluzionaria per potenziare la politica estera decisa a Mosca, che pure rimaneva un punto di vista sentito come vincolante da molti altri dirigenti. Stalin ragionava negli interessi del movimento comunista internazionale e di quelli del popolo sovietico (gli interessi del secondo erano in effetti presupposto per il rafforzamento del primo, e viceversa, dialettica...), e riteneva di non aver la possibilità di sostenere politicamente un impegno in Cina. Oggi la Cina, seppur per ragioni diverse, utilizza la stessa logica di Stalin dell'epoca, ed è comprensibile, dato che l'attuale strategia cinese si fonda su un antimperialismo “celato”, una cooperazione pacifica economica che fa breccia tra i singoli Stati di tutto il mondo, incrinando lentamente come un virus il dominio economico-politico dell'imperialismo occidentale.

Tale antimperialismo “occulto”, certamente progressivo, non si tramuta però in un internazionalismo proletario attivo, in quanto non ci sono rapporti “speciali” di collaborazione con i partiti comunisti del resto del mondo. Ci sono molteplici ragioni sensate per cui ciò accade. Resta però il fatto che il PCC ha scelto di giocare questa partita mondiale scegliendo da sola la strategia internazionale, nonostante il fatto che oggi sarebbe la forza più legittimata a costruire una nuova Internazionale Comunista al fine di rafforzare la propria strategia di sviluppo. Se non l'ha fatto è perché non ne ha interesse o perché una tale mossa indebolirebbe la sua strategia attuale. Finché funziona, non si può obiettare nella sostanza. Non si può che gioire la saggia politica fin qui seguita dal PCC. Ciò però, che consente ai comunisti italiani di ragionare a partire da un tale quadro, non può esulare dal compito di delineare e mettere in atto una propria strategia per la conquista del potere politico.

 

Socialismo, tempi lunghi ed Europa

“Siamo sicuri che l'uscita di un paese dall'Unione Europea costituisca di per sé un'operazione politica emancipatrice destinata ad avvantaggiare la condizione dei ceti subalterni?” (dal cap. 5 – L'Unione europea e la questione sociale)

Il compito dei comunisti in Italia è di prendere il potere e costruire una società socialista. Per fare questo bisogna non solo sconfiggere la borghesia del proprio Paese, ma bisogna anche eliminare il doppio vincolo che lega la nazione alle sovrastrutture imperialiste della NATO e dell'Unione Europea, le quali si opporrebbero con ogni mezzo possibile all'avvento del socialismo in Italia. La difficoltà del compito, specie in riferimento alla condizione attuale, non può in ogni caso portare ad accettare passivamente l'esistenza di un'organizzazione imperialista di primo livello come l'Unione Europea.

L'accusa di “eurofobia” a tal riguardo è davvero ridicola. Non si tiene conto delle politiche imperialiste condotte fin qui nel comune accordo dei più importanti settori politici ed economici borghesi nazionali. Si stende un velo sul massacro sociale che mantiene della disoccupazione e nella miseria decine di milioni di esseri umani in tutto il continente. Si deturpano Marx e Gramsci, veri rivoluzionari, dipingendoli come dei riformisti delle istituzioni borghesi affermando che “l'assioma dell'irriformabilità, che orienta le posizioni politiche dell'indipendentismo sardo come dell'antieuropeismo, fa oltre tutto astrazione da un'importante lezione che possiamo desumere dalle analisi di Marx e di Gramsci”. Si dimenticano le ragioni profonde che devono guidare i comunisti: come vorrebbe provare a costruire il socialismo Alessandroni, stando all'interno degli attuali trattati internazionali imperialisti che hanno vincolato la sovranità nazionale, violando sistematicamente di conseguenza anche la sovranità popolare?

La strategia proposta da Alessandroni conduce all'idea dell'attualità del modello organizzativo e strategico togliattiano classico, quello del “Partito nuovo” che mira a trasformare lo Stato borghese dall'interno. Con la differenza però che Alessandroni ci conduce nel tunnel dove inizia la tragica parabola intrapresa dal Governo Tsipras, che sta lì ad indicare l'impossibilità di un simile scenario. Permane inoltre una grave sottovalutazione della cultura politica complessiva presente nel GUE-NGL (non parliamo della Sinistra Europea...), chiedendo loro di attuare una serie di interventi tipici del taglio organizzativo comunista. Il problema è che una gran parte delle forze del GUE-NGL comunista non è, e tanto meno leninista, altrimenti forse certe cose come la costruzione di un serio sindacato europeo di classe l'avrebbero già fatto, no?

Forse Alessandroni non vuole allora costruire il socialismo. Forse vuole farci ripetere il grande errore strategico commesso dal PCI: non aver saputo trovare un equilibrio tra la costruzione di un partito di massa, aperto e popolare, e la tenuta di un livello ideologico adeguato nella base militante e nei suoi organismi dirigenti. Evidentemente c'era qualcosa che non andava nei corsi di formazione di Botteghe Oscure, oppure c'era un problema strutturale, se si è potuti passare da Togliatti a Occhetto...

 

Il “nemico principale” e l’articolazione della lotta di classe

Se Alessandroni sbaglia bersaglio è anche perché sottovaluta, in tutto il discorso, la supremazia dell'elemento strutturale (il potere delle multinazionali, alcune delle quali ormai più ricche di Stati come l'Austria) rispetto a quello sovrastrutturale (il potere degli Stati), che, pur essendo capace di rendersi autonomo dall'influenza dell'economia, tende in fin dei conti sempre a diventarne un riflesso, in un regime borghese. La sua prospettiva dimentica gli insegnamenti del compagno Losurdo, il quale declinava la lotta di classe lungo tre prospettive: conflitto di genere, conflitto Capitale-Lavoro, conflitto internazionale e “questione nazionale”.

La strategia prospettata da Alessandroni, che si impernia schematicamente sul concetto del “nemico principale”, viene così resa subalterna ad un unico fattore, quello del conflitto internazionale, con il rischio di degenerare nella geo-politica borghese. In quest'ottica la lotta di classe nazionale, il conflitto Capitale-Lavoro e perfino la questione di genere non passano solo in secondo piano, ma vengono di fatto azzerati. Qui occorre davvero dialettica per trovare un equilibrio adeguato che sappia coniugare una strategia e una tattica adatti al tipo di società in un cui si agisce. Occorrerebbe identificare un “nemico principale” per ognuno dei tre scenari del conflitto, cercandone una sintesi adeguata.

Se in futuro in Italia, o più verosimilmente in un altro Paese europeo, i comunisti prenderanno il potere, avranno trovato il modo migliore per aiutare la lotta di classe mondiale, dando un esempio concreto ai lavoratori degli altri Paesi sul “che fare?”, su come si possa tornare a rialzare la testa diventando padroni del proprio destino. La questione della rivoluzione socialista in Occidente è oggi più matura che mai, quanto meno nelle condizioni oggettive. Mancano evidentemente quelle soggettive, e non da poco tempo. L'Italia, potenza industriale e tecnologica di primo piano, ha tutte le condizioni necessarie per poter costruire in tempi rapidi una società socialista. Quello che manca oggi è un Partito ben formato sulla consapevolezza di dover costruire un simile progresso anche attraverso un recupero critico della categoria della dittatura del proletariato, la quale rimane la formula, se ben applicata, che ha dimostrato la migliore democrazia sostanziale finora storicamente realizzata.

 

Le lotte necessarie

Il problema vero è che sono in pochi in tutta Europa a dire e pensare queste cose, che dovrebbero essere assodate, dato che l'elaborazione teorica di Marx, Engels, Lenin, perfino Gramsci, è stata abbastanza chiara a riguardo. Tanto forte è però il revisionismo oggi in Occidente, perfino tra i comunisti... Non invoco solo un pur fecondo richiamo ai classici ma anzitutto alla dura prova dei fatti, della realtà, che ci mostra come in nessun Paese sia stato possibile abbattere il regime capitalista e avviare la costruzione di una società socialista per via meramente pacifica. La lotta di classe degenera sempre, in determinate circostanze, ad un certo grado di violenza, offensiva o difensiva, che bisogna mettere in conto senza straparlare di stalinismo.

Tutto questo però si può fare solo se c'è il sostegno politico delle masse, del popolo, della maggioranza attiva e più cosciente delle classi lavoratrici. Come si potrà andare da questi lavoratori a dirgli che non bisogna essere “eurofobi” perché sennò scontentiamo la Cina? Non è, come ritiene qualcuno, questione di adattare il linguaggio o i messaggi con toni populisti, o di abbassarsi alle pulsioni più irrazionali dei proletari abbruttiti moralmente, come è naturale che avvenga in un regime capitalistico (già segnalato da Engels fin dal 1844 peraltro). È questione di tornare a dire le cose come stanno, spiegando l'irrazionalità del sistema capitalista e descrivendo come funzionava e come funzionerebbe oggi, con il supporto delle moderne tecnologie (si pensi solo alla rivoluzione informatica), una società socialista. Per fare questo diventa inevitabile smentire tutte le panzane che sono state raccontate dagli storici borghesi sul “socialismo reale”. Una tale lotta però non può restare ancorata alle aule universitarie, dove verrebbe inevitabilmente distrutta stante i rapporti di forza attuali, ma deve poggiarsi sull'azione di un'avanguardia popolare capace di assumerla come parte della propria battaglia per il progresso sociale.

 

Basta con l’eurocomunismo

“Comprendiamo le diffidenze che esistono in certi settori della sinistra di fronte alla presente realtà sociale e politica della Comunità, ma a noi sembra che tali diffidenze dovrebbero essere superate davanti a tanti fatti e dati che provano come una maggiore cooperazione e integrazione corrisponda agli interessi più vitali dell'Europa e, in primo luogo, a quelli della classe operaia, dei lavori intellettuali, delle donne, della gioventù. La dimensione comunitaria è quella adeguata per far fronte con una vera forza economica, politica e culturale alle sfide e alle trasformazioni del nostro tempo. Ed è anche una dimensione che crea un terreno nuovo, certo, ma più ampio e più favorevole all'unità delle classi lavoratrici e alla loro lotta per trasformare l'attuale stato di cose, caratterizzato dalla sostanziale prevalenza degli interessi dei grandi gruppi monopolistici”. (Enrico Berlinguer, citato nel cap. 7 – Il PCI e l'Europa)

Che dire sulla concezione catastrofista sulla Italexit, che trascura un ricco dibattito che coinvolge fior fior di economisti marxisti? Già da tempo i migliori tra questi hanno ben spiegato come l'Italexit (dall'UE e dall'euro) sia tranquillamente ammortizzabile nei suoi contraccolpi nel giro di breve tempo, stante misure politiche eccezionali che certamente uscirebbero dalla legalità borghese attuale. È chiaro che questa sarebbe un'uscita da “sinistra”, che può avviare un processo rivoluzionario verso il socialismo. Questo scenario è oggi totalmente irrealizzabile per due ragioni:

1) il movimento comunista europeo non ha ancora, nel suo complesso, recuperato la piena supremazia nel campo della “sinistra” europea, e rimane spesso associato e in liaison sospette con la socialdemocrazia responsabile di disastrosi massacri sociali. Il PCF, citato come esempio di elaborazione teorica da Alessandroni, fatica, così come molti “eurocomunisti” nostrani, ad abbandonare l'idea di alleanze con la socialdemocrazia. Una dimostrazione di come un'ideologia comunista revisionista diventi ormai talmente futile e deteleria, da poter essere surclassata da un Mélenchon assai più dialettico e capace di tracciare una strategia adatta a raccogliere consenso. Il tutto senza che Mélenchon sia comunista, peraltro...

2) è lo stesso movimento comunista nel suo complesso a non volere un tale esito. Tale è stata la rimozione del “marxismo-leninismo” da aver dimenticato i principi originari fondamentali e i più fecondi insegnamenti fornitici dai classici. Quanti oggi sostengono non solo la legittimità ma la giustezza della linea del “socialismo in un solo Paese”? Non parlo solo dei tempi in cui venne enunciata ma della sua fattibilità pratica odierna. Oggi è in atto un duro scontro dentro la Sinistra Europea, ma sono i temi stessi del dibattito ad essere invecchiati. Ci si attarda ancora a discutere di riformare l'Europa o si sostiene il progetto di una nuova Europa in cui sia garantita la sovranità nazionale locale: nessuna concretezza effettiva, un passo avanti e uno indietro. Rimangono alcuni baluardi come il Partito Comunista Portoghese, ma si può constatare come la lotta per il recupero del marxismo-leninismo sia presente in molti partiti comunisti. Questa lotta riveste oggi un ruolo fondamentale e sarà in ultima istanza il fattore decisivo che mostrerà un possibile progresso sociale per i prossimi anni. Una lotta che non può e non deve servire a costruire un'Europa socialista.

La presa del potere delle classi lavoratrici nei propri Paesi può avvenire solo su scala nazionale ed è giusto quindi che ogni popolo, con i suoi tempi e le sue modalità, cerchi la strada giusta per la conquista del potere politico. Coloro che arriveranno prima avranno il compito di costruire un sistema socialista nel proprio Paese e di sviluppare un diverso sistema di relazioni sociali e internazionali, non necessariamente rivolte solo all'Europa. Avranno il compito di sostenere i partiti fratelli di tutto il mondo nella loro lotta contro le borghesie locali. Avranno il compito di sopportare l'offensiva borghese e di supportare l'attacco finale all'Impero Statunitense, indebolendo organizzazioni guerrafondaie come la NATO e armi imperialiste controllate da Washington come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.

 

Per una dialettica rivoluzionaria e socialista

Chiaramente questo scenario è e resterà fantascienza finché la forza degli uomini, e meglio ancora delle organizzazioni, non si muoverà per trasformarla in realtà. Difficilmente questo accadrà se continueremo a concentrare l'attenzione sulla razionalità del reale, piuttosto che sulla realtà del razionale. Seppur hegeliana è sempre dialettica, no? Gli obiettivi delineati da Alessandroni sono i tre seguenti: “avviare una battaglia contro il Project for the new american century, che tenda ad isolare l'asse USA-Israele e spinga l'Europa verso una maggiore ‘autonomia d'iniziativa’, vale a dire verso uno sganciamento dalla Nato, dal potere degli Stati Uniti e dalle loro ripetute ingerenze, si manifestino queste per via diplomatica o attraverso l'installazione di basi militari. In secondo luogo, occorre avviare una lotta politica per un'estensione dell'Unione Europea che non si limiti al perimetro occidentale ma comprenda l'intero ‘spazio tra l'Atlantico e gli Urali’, secondo quanto suggerito da Togliatti, una lotta volta a stringere maggiori rapporti con le economie emergenti e in particolare con Russia e Cina per la costruzione di un mondo multipolare e una maggiore democrazia nei rapporti internazionali. In terzo luogo, è opportuno organizzare le energie in vista di un maggior coordinamento politico tra le sinistre anticapitaliste europee, al fine di imbastire all'interno dell'Europa una lotta di classe per maggiori diritti sociali, per una dignità del lavoro, per una pianificazione economica indirizzata allo sviluppo delle forze produttive del continente” (cap. 9 - Conclusioni)

Si tratta di obiettivi tipici della socialdemocrazia che da un punto di vista dei rapporti di produzione si appiattiscono sull'identità del reale risultando incapaci di comprendere non solo le potenzialità dell'azione di un soggetto collettivo organizzato, ma in fondo la stessa essenza della lezione leninista, molto lontana dall'appiattirsi a certi determinismi e schematismi dogmatici. Nelle parole di Alessandroni non c'è traccia di rivoluzione né soprattutto di socialismo.

L'insistenza sulla costruzione dell'Europa concentra l'attenzione sulle elaborazioni di intellettuali ma trascura l'assenza di un'identità popolare europea, che laddove esiste o è riducibile ad un vago cosmopolitismo liberale riscontrabile nella cultura “Erasmus”, o si va forgiando, specie nelle sempre più vincenti correnti di destra, in una costruzione mitica poggiante sulle radici bianche, civili, borghesi e cristiane. Una narrazione che prende forza a seguito delle migrazioni internazionali, causate dalle stesse politiche imperialiste di cui anche l'UE è artefice. Si sta insomma verificando una combinazione esplosiva su cui agiscono con successo non solo le forze xenofobe e reazionarie, ma anche il padronato moderatamente liberale. Il mantenimento di un'unità europea imperialista e cosmopolita non è la soluzione ma rischia in ultima istanza di sollecitare uno sdoganamento del pensiero razzista, non solo nel dibattito politico e in una larga parte dell'opinione pubblica, ma anche in campo culturale o perfino nell'ambito scientifico. Il rischio è di far precipitare l'Europa in un nuovo medioevo, in un totalitarismo non più “liberale” quale quello odierno. Pensare quindi che una strategia sia adeguata per portare un attacco al cuore di questo sistema mi sembra un suicidio collettivo per i comunisti.

Abbiamo tutti un enorme bisogno di studiare per evitare di restare ancorati al passato. Senza una strategia politica chiara, concreta ed aggiornata agli insegnamenti storici dell'ultimo secolo non si andrà molto lontano. Se si sarà capaci di avviare questo corso di aggiornamento si sarà fatto un importante passo in avanti. Se poi si riuscirà a unirvi una prassi rivoluzionaria tesa a dare l'unica risposta concreta alla classe lavoratrice, ossia che il capitalismo ha fallito ed è ora di tornare a parlare di socialismo, sarà un ulteriore grande passo in avanti. A chi non condivide questo orizzonte rimane l'insignificanza socio-politica o la ricerca di accordi con la “sinistra imperiale” collaborazionista per cercare di sopravvivere politicamente un altro po' con i residui di militanza attiva rimasti.


Note
[1] Mi scuso per la digressione ma ho necessità di rendere noto che dietro tali affermazioni c'è stato un lavoro di un certo scavo durato anni, che ho concretizzato nell'opera già citata prima. Questo è necessario per seguire il filo logico dell'argomentazione.

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