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Una politica per crescere

Catturare la domanda globale

Sergio Parrinello

Quando si pone il problema delle politiche dell’offerta lo si fa solitamente per riproporre ricette di politica economica che invocano il contenimento del costo del lavoro e la riduzione della spesa pubblica. Si è in altri termini posseduti da una versione moderna della Treasury view sposata incautamente da Winston Churchill nel 1929. Eppure progettare politiche dell’offerta è un compito troppo serio per essere lasciato ad una visione (e cultura) economica miope, sebbene dominante. Questa visione tollera la vulgata in cui “riduzione della spesa” è diventata  sinonimo di riduzione degli sprechi e che il senso di “contenimento del costo del lavoro” sia quello rassicurante di riduzione del cuneo fiscale, invece che del salario. La stessa visione tollera che, quando quelle ricette per la crescita sono poste in discussione da fondate obiezioni teoriche, si risponda che si tratta di  ricette necessarie anche se non sufficienti: quindi esse diventano inattaccabili, perché la loro (in)efficacia non potrà mai essere confutate dall’evidenza empirica. Intanto – si dice – sono ricette che vanno attuate, in attesa che si realizzino quelle sufficienti. Proveremo qui di seguito ad affrontare questo muro di gomma da un punto di vista Post-Keynesiano adattato a un’economia globalizzata. L’adattamento riguarda il lato dell’offerta, la teoria degli scambi internazionali e la traduzione della domanda effettiva da globale in nazionale.

Uno dei problemi economici che affliggono oggi l’Italia consiste nella morsa che costringe le performance commerciali delle sue imprese[1] e che induce molte di esse a delocalizzare.

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Crisi finanziaria e capitalismo cognitivo

D. G. Lassere intervista Yann Moulier-Boutang

La crisi che scuote il mondo intero da cinque anni pare non voglia calmarsi. Il discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona e produttiva, e una finanza semplicemente parassitaria, tagliata fuori da ogni connessione col mondo concreto. Da parte tua, sebbene non sottostimi per nulla il dominio e il ricatto esercitati dai mercati e dagli operatori finanziari, rifiuti ogni distinzione così netta. Pertanto, ritieni che non ci si possa più limitare a invocare un fantasmagorico ritorno al reale. Potresti spiegare perché le cose non son così semplici come sembrano?

In effetti bisogna distinguere la parte finanziaria dell’economia reale, dalla parte non finanziaria dell’economia reale. Entrambe sono pienamente reali. Del credito, che è la sostanza della moneta la cui forma consiste nella più o meno grande liquidità o esigibilità (le famose forme della massa monetaria M1, M2, M3), genera immediatamente delle possibilità d’investimento, dei salari, degli acquisti di beni e servizi, degli impieghi. Ciò che succede è che la parte finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca a mano a mano che l’economia diventa più complessa, e che si accrescono l’interdipendenza e la mutualizzazione degli impegni contrattuali o legali e regolamentari. Per 150 miliardi di dollari quotidiani di PIL mondiale e altrettanto di commercio di beni, si hanno 1500 miliardi di transazioni che coprono il rischio di cambio e 3700 miliardi di transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi prodotti derivati.

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quaderni s precario

Reddito di povertà

di Andrea Fumagalli

26 novembre 2013: una news fa scalpore tra i media italiani. In Italia è stato introdotto il reddito minimo garantito! Colpo di scena! “Prove di reddito minimo”, titola Repubblica festante. “Spunta il reddito minimo” risponde il Corriere della Sera. Ma è vero? Pas du tout. Quello che è stato introdotto (solo in via sperimentale per tre anni), nel maxi emendamento che dovrebbe essere votato con la fiducia per approvare la legge di stabilità 2014, è in realtà un miserevole reddito parziale, selettivo, di povertà. E non può essere altrimenbti, visto che sono sati stanziati 40 milioni (meno che per la Social Card)  e la sua attuazone vale solo per 12 aree metropolitane. Ancora una volta in Itala parlare di reddito di base come misura non selettiva per consentire la fuoriuscta dalla povertà e favorire il diritto di scelta di via e di lavoro è un vero e proprio tabù.

* * * * *

In Italia qualunque intervento di sostegno diretto al reddito incontra, come ben sappiamo, notevoli difficoltà, in primo luogo culturali. Nonostante il tasso di attività nel nostro Paese sia tra i più bassi a livello europeo, resta radicata un’etica del lavoro di calvinistica memoria, che considera  immorale qualunque sostegno al reddito slegato dall’obbligo di una prestazione lavorativa.

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Il futuro pre-industriale dell’economia italiana

di Guglielmo Forges Davanzati

Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione (link), e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 20201. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo.

 

E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari)2, così come è attestato che il grado di finanziarizzazione delle imprese italiane è notevolmente più basso di quello della gran parte dei Paesi OCSE (v. Salento e Masino, 2013). Ci si trova di fronte a un puzzle che rinvia alla domanda: per quale ragione la deindustrializzazione è più accentuata in Italia a fronte del fatto che le nostre imprese mostrano minore propensione a destinare risorse, per finalità speculative, nei mercati finanziari? In altri termini, se la deindustrializzazione viene fatta dipendere dalla finanziarizzazione, ci si dovrebbe aspettare che laddove il grado di finanziarizzazione è basso, è maggiore l’accumulazione di capitale.

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one euro

Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sul debito pubblico italiano

di Thomas Fazi

Qualche giorno fa, Carlo Cottarelli, ex direttore del dipartimento delle politiche fiscali del Fondo monetario internazionale (FMI) – e l’uomo scelto dal governo italiano per redigere l’ennesima spending review della spesa pubblica italiana – ha annunciato un ambizioso piano di tagli per il periodo 2014-6: la cifra ancora non è chiara, ma si va dai 10 ai 32 miliardi (pari all’incirca al 2% del PIL) in tre anni, il che triplicherebbe gli obiettivi di risparmio delineati nella Legge di Stabilità. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni ha parlato di «una piena condivisione del piano di lavoro» preparato dal commissario, anche in considerazione del fatto che è «cruciale» tagliare la spesa pubblica, tanto che la revisione della spesa è «un elemento cardine della politica economica del governo».

Non è ancora chiaro dove e come saranno effettuati i tagli. Come sempre in questi casi, Cottarelli si è affrettato a dire che intende colpire principalmente gli «sprechi» e le «inefficienze» dell’amministrazione pubblica (un argomento molto caro agli italiani, che pare non si stanchino mai di sentirlo) e che non ci saranno tagli lineari alla spesa. Ma il sospetto che non sia esattamente così, alla luce della storia recente (vedi la spending review dell’anno scorso), è lecito. E difatti, lo stesso giorno, il governo ha ammesso che intanto intende recuperare 2-3 miliardi di euro «immediatamente», a partire dalla sanità: la previsione è arrivare a 1-1,5 miliardi di tagli nel 2014, tanto per cominciare. Entro fine anno, poi, dovrebbe arrivare anche il piano sulle dismissioni-privatizzazioni del patrimonio pubblico, che a quanto pare interesserà non solo gli immobili ma anche le partecipazioni azionarie. L’obiettivo della manovra, dice Cottarelli, è duplice: ridurre le imposte sul lavoro e ridurre il debito pubblico.

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Il sostegno agli investimenti in un’economia tecnologicamente in ritardo

Stefano Lucarelli, Daniela Palma, Roberto Romano

La crisi economica in corso è stata acuita dalle fragilità che caratterizzano il sistema istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. Le cattive teorie economiche su cui le politiche monetarie e fiscali europee sono disegnate hanno svolto un ruolo rilevante. Tuttavia, nel caso italiano, le criticità risultano accresciute da un sistema produttivo già caratterizzato da profonde difficoltà[1]. Queste sono legate principalmente alla crescente incapacità di sviluppare all’interno del sistema produttivo nazionale le innovazioni tecnologiche necessarie a mantenere una posizione di rilievo sui mercati internazionali. A partire dalla fine degli anni ’80 in poi l’incremento degli investimenti privati si è tradotto, nella maggior parte dei casi, in un incremento delle importazioni dall’estero che non si è accompagnata ad una ripresa delle esportazioni sufficiente ad evitare un incremento del disavanzo commerciale; in queste condizioni di ritardo tecnologico, laddove si potessero realizzare politiche espansive sul lato della domanda, queste non si tradurrebbero automaticamente in opportunità di crescita. In altri termini, l’aumento dei beni strumentali impiegati dalle imprese può costituire un vincolo estero e può innescare un processo di riduzione del reddito nazionale[2]. La quota degli investimenti in macchinari[3] sul PIL è una variabile che continua ad assumere un ruolo importante nella spiegazione dei tassi di crescita. Ma attenzione a proporre un generico aumento degli investimenti! Infatti l’evoluzione qualitativa dei beni di investimento – che si traduce in processi produttivi che necessitano di un minore impiego dei beni strumentali tradizionali – è diventata sempre più importante, è cioè cresciuta la rilevanza del progresso tecnico disembodied[4].

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La prima manovra economica a sovranità limitata

Luigi Pandolfi

Il Governo italiano ha varato il disegno di legge di Stabilità 2013 contenente gli interventi di finanza pubblica per il triennio 2014-2016. Prima di analizzare sommariamente le linee essenziali del documento, è importante ricordare che per la prima volta, dalla nascita dell’Europa di Maastricht, lo stesso sarà prima vagliato dalla Commissione europea, che potrà imporre correttivi e comminare sanzioni in caso di inadempienza, e poi discusso ed approvato dal Parlamento.

Con l’entrata in vigore del cosiddetto “two-pack”, il pacchetto di due regolamenti approvato dal parlamento di Strasburgo nel maggio scorso, si è infatti chiuso il cerchio in tema di “sorveglianza” europea sui bilanci dei paesi dell’Eurozona, con tutto quello che ciò comporta per la “sovranità” e l’autonomia politica degli stessi.

E’ del tutto evidente che dentro un meccanismo così congegnato la funzione dei parlamenti nazionali è quasi del tutto esautorata: quali margini di manovra avranno le forze politiche parlamentari per modificare l’impianto e la filosofia del documento di che trattasi se alla Commissione europea è stato riconosciuto un  sostanziale diritto di veto sui bilanci nazionali? Un margine pari a zero, evidentemente.

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Gli effetti perversi del consolidamento fiscale

di Domenico Mario Nuti

Il consolidamento fiscale (aumento di imposte più tagli della spesa del governo) ha l'effetto di fare aumentare, anziché diminuire, il rapporto debito pubblico/Pil

Nel periodo 2011-2013 vari documenti e saggi dell'FMI hanno riveduto al rialzo le stime precedenti dei moltiplicatori fiscali, che per quarant’anni dal 1970 al 2009 il Fondo e altre organizzazioni internazionali ipotizzavano in media intorno a un valore di 0,5 nei paesi avanzati (Blanchard e Leigh 2012, 2013; Batini et al. 2012, Cottarelli e Jaramillo 2012 e altri ricercatori associati all'FMI).

La revisione al rialzo si applica dal 2010 ed ha varie giustificazioni: l’inefficacia dell’espansione monetaria vicino al limite inferiore zero del tasso di interesse; la mancanza di opportunità per svalutare il tasso di cambio soprattutto nell’Eurozona; l’esistenza di un ampio gap fra reddito potenziale ed effettivo (perché i moltiplicatori sono più elevati nella recessione che nel boom); nonché la simultanea realizzazione di recenti consolidamenti in diversi paesi. Inoltre, contrariamente a conclusioni precedenti, le ricerche recenti indicano che il moltiplicatore fiscale per tagli di spesa è molto più elevato (fino a dieci volte) che per gli aumenti di imposte.

In parole povere, il consolidamento fiscale è più costoso in termini di perdite di produzione di quanto non si credesse in precedenza. Ma c’è di più e di peggio: tanto maggiori sono i moltiplicatori fiscali, e tanto maggiore è l’indebitamento pubblico, tanto maggiore è la probabilità che il consolidamento fiscale abbia l’effetto perverso di far aumentare il rapporto fra Debito Pubblico e PIL.

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quaderni s precario

Reddito di base incondizionato come reddito primario

di Andrea Fumagalli e Carlo Vercellone

Negli ultimi mesi sia sul sito di Sbilanciamoci che su Il Manifesto sono apparsi alcuni articoli critici in materia di reddito di cittadinanza (vedi, tra gli altri, gli articoli di Pennacchi, Lunghini, Mazzetti). In questa sede, vorremmo chiarire alcuni principi di fondo per meglio far comprendere che cosa, a nostro avviso, si debba intendere quando in modo assai confuso e ambiguo si parla di “reddito di cittadinanza”. Noi preferiamo chiamarlo reddito di base incondizionato (RBI) ed è su questa concezione che vorremmo si sviluppasse un serio dibattito (con le eventuali critiche). Le note che seguono sono una parte di una più lunga riflessione che è apparsa sul n. 5 dei Quaderni di San Precario.

La proposta di un RBI di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego poggia su due pilastri fondamentali.

Il primo pilastro riguarda il ruolo di un RBI in relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista.

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marx xxi

Il nesso che lega Telecom, difesa della Costituzione e ricostruzione della sinistra

Domenico Moro

La questione Telecom chiama in causa tre altre questioni fondamentali: le trasformazioni economiche strutturali degli ultimi quindici anni, la difesa della Costituzione e la ricostruzione della sinistra in Italia.Il problema nel caso Telecom non è soltanto la perdita dell’italianità, ma soprattutto la sistematica distruzione operata ai danni di uno dei fiori all’occhiello dell’industria italiana. Il lascito più importante dello Stato-imprenditore, che condusse l’Italia a posizioni di leadership mondiale nel settore strategico delle telecomunicazioni.

Il vero responsabile del disastro attuale si chiama privatizzazione, eseguita dal governo di centro-sinistra Prodi I (1997) e successivamente avallata anche dal governo D’Alema (Opa di Colaninno 1999). I nomi più prestigiosi del capitalismo italiano si sono passati il bastone del comando in Telecom: Agnelli, Colaninno (oggi ancora “capitano coraggioso” in Alitalia), Tronchetti-Provera.

I privati che acquistarono, però, lo fecero con una forte leva di debito (leverage buyout) e controllando la società con investimenti minimi, attraverso il sistema delle scatole cinesi. In questo modo, i privati hanno finito per saccheggiare risorse, anziché investirne per innovare.

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Prodi e lo "stato di diritto"

di Quarantotto

Prodi "c'arifà".

Noncurante delle lievi imprecisioni con cui si è manifestato, in una delle sue recenti "uscite", insiste.

Comincia col dire che la ripresa può essere agganciata, anche se deve ammettere che non ce n'è traccia degli indicatori minimamente significativi, e, ovviamente, che ciò può essere fatto se si seguono le pressanti indicazioni "europee" (e che altro poteva essere?): "spendere meno e mettere in atto le riforme per camminare stabilmente al di sotto del fatidico 3%".
Nel far ciò ci dice, necessariamente, in partenza, che:

a) la recessione - e comunque la mancata crescita (che peraltro dura da venti annetti, in termini di output-gap) - sarebbe dovuta all'eccesso di spesa pubblica (...!!!?);
b) eliminato ciò, rispettando un deficit pubblico al di sotto del 3%, si potrebbe "dare una spinta all'economia"! (Cioè, limitando il deficit in situazione recessiva...si stimola l'economia);
c) il "pareggio di bilancio", che l'UE, inderogabilmente ci chiede a partire dal 2015, non è...pervenuto (cioè è "rimosso"). E proprio mentre l'aggiornamento, previsto in settimana, del DEF, ricalibra il deficit per il prossimo anno dall'1,8% al 2,5%.

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Disoccupazione giovanile, diseguaglianze distributive e “meritocrazia”

di Guglielmo Forges Davanzati*

L’ultimo Rapporto OCSE (link) mette in evidenza il fatto che il tasso di disoccupazione è in crescita in quasi tutti i Paesi industrializzati e, in particolare, nell’eurozona e in Italia. Banca d’Italia, fin da 2010, registra che la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti (link), e che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato, portando il tasso di disoccupazione giovanile a circa il 40% (fonte ISTAT), fatto del tutto inedito nella storia dell’economia italiana. Ciò nonostante, sembra che il dibattito su questi temi si concentri quasi esclusivamente sulle misure di contrasto al fenomeno, in assenza di una preventiva individuazione delle cause.

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Politiche monetarie espansive e restrizione del credito

di Guglielmo Forges Davanzati

ZECCHE DI STATO CLANDESTINELe principali banche centrali dei Paesi industrializzati – BCE inclusa – stanno, da tempo, inondando di liquidità il sistema economico, adottando politiche monetarie definite “non convenzionali”. Con quali risultati? Ci si aspetterebbe un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Ci si aspetterebbe anche un aumento del tasso di inflazione. Per contro, sta accadendo il contrario o comunque non si stanno verificando i risultati attesi.

Su fonte ISTAT, si registra che, in Italia, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione del 3.3%, il tasso di disoccupazione è aumentato, dal 2012 al 2013, di circa un punto percentuale e le (più ottimistiche) previsioni indicano un tasso di crescita nell’ordine del -1.4%. Il tasso di inflazione resta sostanzialmente fermo su valori di poco superiori all’1%. Le principali motivazioni che spiegano la sostanziale inefficacia delle politiche monetarie espansive nell’attuale configurazione del capitalismo sono così sintetizzabili.

1) In una condizione di aspettative pessimistiche, la riduzione dei tassi di interesse non costituisce un incentivo rilevante per effettuare investimenti o, al limite, è una condizione totalmente irrilevante nelle decisioni di spesa delle imprese.

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Per una inversione delle politiche economiche

di Riccardo Achilli

L'ossessione per il debito

Le politiche economiche attuali sono ossessionate dal moloch del debito, e risultano totalmente dominate da tale ossessione. La verità è però che la teoria liberista secondo cui non ci deve essere debito oltre una certa percentuale del PIL, base stessa della concezione monetarista dell'euro, non ha niente di tecnico, è solo ideologia.

Già Marx ci segnala chiaramente che il debito è il modo normale con cui funziona un'economia capitalista. Il debito è addirittura un fattore fondamentale per la nascita di un'economia capitalista: nel suo capitolo sull'accumulazione originaria nel Libro I del Capitale, Marx dice infatti che

“Il debito pubblico (...) imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita (...) Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario”.

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Ristrutturare il debito

di Guido Viale

Spese militari, grandi opere, pensioni d'oro, evasione: anche cambiando molte voci della spesa l'Italia non potrà evitare il tracollo e lo spettro della Grecia. Lo dicono le cifre degli 80-90 miliardi di interessi sul debito, più i 45-50 per riportarlo al 60% del Pil. È giunto il momento di ristrutturare il nostro debito pubblico?

Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un'intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine.

Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare - e paghi - 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall'anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL.