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Barzellette seriose

di Augusto Illuminati

Le barzellette berlusconiane in genere mirano a solleticare con sconcezze poco sofisticate l’immaginario pecoreccio degli ascoltatori, con cui il locutore si identifica esibendo un sovrappiù di potenza (virile e monetaria). Notevole invece che a volte sappia tenersi sul registro del reale, con una iper-identificazione che non passa attraverso l’ingenua identificazione del pubblico. Questa ultima barzelletta (comizio al Palasharp del 7 maggio per la campagna elettorale milanese) suona infatti così, sobria e agghiacciante, tutta giocata sulla doppia intonazione – interrogativa e constatativa – dell’avverbio adesso:

«Vi racconto una storiella, è pulita e non so se vi piacerà. Racconta che una volta c'era un dittatore, un tiranno, un uomo che possedeva televisioni, i giornali e anche la squadra di calcio. A questo punto un bambino chiede: "E adesso?". Adesso c'è ancora».

Appunto, in barba a tutte le spallate, i conflitti di interesse, gli astuti progetti di farlo fuori con le più improbabili combinazioni, adesso Berlusconi sta sempre lì, il che in termini e tempi politici significa che rischia di starci quasi per sempre. Magari domandiamoci perché. Forse perché la sinistra ha sognato di estrometterlo facendo concessioni alla Lega sul federalismo? Oppure sposando contro la Lega la buona causa delle spedizioni umanitarie in Kosovo, Afghanistan e da ultimo Libia? Forse perché il Pd strizza l’occhio ai cattolici casiniani sulle tematiche etiche?

Forse perché il nuovo potenziale alleato è la brava Confindustria, quella che alle sue assise bergamasche ha invitato a parlare e applaudito il manager di Thyssenkrupp in Italia, Herald Espenhahn, condannato a 16 anni e mezzo dalla Corte di Torino per il rogo di 7 operai? Per omicidio volontario, ricordiamo. Forse perché le varie frazioni pieddine corteggiano Bonanni o Marchionne. Montezemolo o Draghi? Forse perché della fatale quiete tu sei l’imago, flaccida sera della politica?

La snervante trattativa sui sottosegretari e il gioco delle parti con le mozioni sulla Libia (entrambe condotte sotto l’arcigna vigilanza di Napolitano) non hanno portato risultati particolarmente apprezzabili per l’opposizione, che nel secondo caso ha finito per dividersi e schiacciarsi su posizioni più interventiste del Governo, in una situazione peraltro di drôle de guerre che nessuno sta veramente combattendo. Mentre nel caso di uno scontro reale, lo sciopero del 6 maggio, la Cgil ha dato l’impressione di non voler vincere e il Pd quella di voler perdere. Susanna Camusso preoccupata di contenere e addirittura commissariare la Fiom per ristabilire buone relazioni con gli altri sindacati e indirettamente con la controparte confindustriale, Veltroni e Fioroni speranzosi in un dialogo diretto con Bonanni, per non dire di Marcegaglia e Montezemolo, Chiamparino in attesa della prossima partita a scopa con Marchionne. Un’accolita di perdenti, alcuni dei quali già bruciati dall’operazione Calearo e tutti contenti per la “rivincita” nel referendum dell’ex Bertone – come hanno vergognosamente interpretato la “legittima difesa” della Rsu locale.

Caduta la speranza di un ribaltone, lontana e incerta la prospettiva elettorale (dove comunque la maggiore preoccupazione non è di vincere, ma di far fuori il concorrente Vendola ed esorcizzare le primarie), frammentato e riluttante a vaste alleanze il Terzo Polo – tutte le opposizioni battono la fiacca e lasciano che il degrado dell’esperienza berlusconiana scivoli lentamente verso un ricambio Tremonti, garantito dalla Lega. Ricambio che deve avvenire senza scosse endogene (le accelerazioni della crisi internazionale formano un altro discorso), quindi lasciando che il signore di Arcore si sfaldi da sé, tutto concentrato sui suoi processi, affari finanziari e sessuali – basta che non si occupi di politica, soprattutto internazionale!

Non tutto va liscio, perché il disegno di una placida successione di centro-destra continua a poggiare sull’ambiguo sostegno della Lega e sull’ipotesi (ovviamente rovinosa) di un totale immobilismo politico, dato che Berlusconi è l’unico che può vincere le elezioni ma è notoriamente unfit a governare e questo in tempi di crisi è piuttosto rischioso. Il tandem Tremonti-Berlusconi funziona sono a un certo punto, perché rigore finanziario e populismo di spesa mal si conciliano e il superministro non è proprio allineato con i diktat europei e soprattutto americani. Il governo infine è una corte dei miracoli, per non parlare della sua “responsabile” maggioranza mercenaria, e tutte le sue componenti (tranne leghisti e Tremonti) hanno come unica base elettorale e di durata il favore del Capo – una situazione successoria da Basso Impero. Cosa garantisce la tenuta di questa amministrazione incartata? L’ignavia delle opposizioni, inutile ripeterlo, la marginalità sullo scacchiere europeo e mediterraneo, che la sottopone a distratti condizionamenti, il provincialismo bancario che le ha risparmiato il grosso della crisi finanziaria e infine il pavido clientelismo degli industriali, che non vanno oltre il lamento e la richiesta di sussidi e appoggi antisindacali, senza avere la forza di imporre una politica di sviluppo. Tanto lo slittamento verso l’abisso è lento e il disagio sociale è ancora (non per molto) frenato dai risparmi familiari e dal residuo salario differito. Solo dal mondo precario e migrante e dai settori operai un tempo garantiti e oggi precarizzati vengono segnali di rivolta, che da un momento all’altro (e difficile fare previsioni dentro la de-composizione di classe post-fordista) potrebbero raggiungere la massa critica e far saltare il teatrino della politica.

Fino allora, un bel dibattere sulla Costituzione, sui valori traditi, sulla rigenerazione antropologica, ma lui c’è ancora.

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