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Il “Manifesto per l’accoglienza degli immigrati” e la sinistra francese

di Alessandro Visalli

image007A settembre 2018 Mediapart ha lanciato un “Manifesto per l’accoglienza degli immigrati”, che ha avuto un grande riscontro in Francia, con oltre 40.000 adesioni in particolare nel mondo intellettuale (da Etiene Balibar, Jean-Louis Cohen, Thomas Piketty), un commentatore, cogliendo bene lo spirito, ha scritto in calce alla petizione di Change.org “Firmo perché, bastano i bla! Siamo prima di tutto umanisti …”. Con lo stesso rispettabile spirito le Chiese Evangeliche italiane hanno promosso questo altro Manifesto, che, onestamente, si presenta come posizione essenzialmente morale.

Definirsi “prima di tutto umanisti” coglie molto bene lo spirito attuale di buona parte della sinistra contemporanea, orfana di visioni sintetiche che forniscano il punto di vista dal quale criticare il mondo essa si è ritirata nel principale deposito di senso della civiltà occidentale, erigendosi a suo custode: l’umanesimo cristiano.

Una postura morale carica di orgoglio, in buona misura mal riposto[1], che sostituisce interamente, nella mente e nel cuore di una donna e uomo di sinistra, il punto di vista socialista che ha corposi elementi di derivazione dal cristianesimo, ma che in esso non si esaurisce. Il punto di vista del marxismo socialista sulla storia è la lotta. In essa intravede costantemente lo scontro tra chi domina, e si appropria della ricchezza e della vita, e chi è dominato, ovvero sfruttato e costretto da rapporti sociali che sono preordinati a sottrarre il surplus prodotto. È la dinamica dello sfruttamento, ovvero della creazione ed estrazione del surplus, a determinare la struttura della società. Come scrive sinteticamente Paul Sweezy, “agli inizi fu la schiavitù, in cui il lavoratore è proprietà del suo padrone.

Poi venne la servitù, in cui il lavoratore ha raggiunto un certo grado di libertà, ma è sempre legato alla terra. E infine vi è il lavoro salariato, in cui il lavoratore è legalmente del tutto libero, ma deve lavorare per il profitto di altri, perché non ha i mezzi di produzione di sua proprietà”[2]. Questa società è dunque caratterizzata essenzialmente dal fatto che i mezzi di produzione sono privati. E’ la funzione pubblica dei mezzi di produzione, dunque l’insieme delle regole e dei limiti che vengono posti dalla società al loro uso, ad essere il centro dell’attenzione del socialismo, in ogni sua forma, non l’umanesimo. La privatizzazione dei mezzi di produzione, ovvero il loro impiego per fini e logiche meramente private[3], determina una contraddizione essenziale ed inaggirabile tra la finalità del possidente gli stessi a massimizzarne il rendimento[4], ovvero il profitto, e la finalità dell’umanità nel suo insieme a vivere, godendo dei beni della natura e della tecnica. Ma questa finalità si manifesta (questo punto essenziale differenzia l’analisi socialista dalla critica moralista), per effetto della competizione tra proprietari, ovvero tra capitali, ed è inscritta essenzialmente nella loro stessa natura. Anche qui si manifesta la lotta, principio dell’organizzazione del mondo. Il capitalismo come sistema sociale non è, dunque, interessato alla massimizzazione del benessere generale, piuttosto al massimo sfruttamento della capacità di produzione umana per accumularla come ‘valore’[5].

Questo è il rapporto sociale essenziale della forma di vita e produzione capitalista, che determina, senza che il punto sia morale, la subordinazione di tutto alla massimizzazione del profitto e delle forme del valore. La forma privata dei mezzi di produzione, nella pluralità del possesso e nella competizione reciproca, determina la pressione costante a comprimere i costi. Ovvero ciò che dal punto di vista della massimizzazione del profitto appare come ‘costo’. Ma che, qui la contraddizione, dal punto di vista sociale appare come ‘ricchezza’, ovvero come trasformazione della natura, grazie alla tecnica, in ‘abbondanza’.

L’effetto di questa contraddizione è descritto da Sweezy, nella conferenza “Il socialismo marxista”, nel 1956, in questo modo: “ci troviamo di fronte al paradosso che il capitalismo schiaccia il freno per quanto riguarda il consumo e schiaccia l’acceleratore per quanto riguarda la produzione”[6].

Questo punto di vista non si rintraccia nel Manifesto di Mediapart, che non andrebbe letto, come il commentatore di sopra come posizione morale in quanto è invece un testo politico.

Dunque leggiamolo (qui in francese):

“Ovunque, in Europa, l’estrema destra sta avanzando. Il valore dell’uguaglianza è soppiantato dall’ossessione per l’identità. La paura di non sentirsi più a casa propria vince sull’opportunità del vivere assieme. Ordine e autorità schiacciano il senso di responsabilità e la condivisione. ‘L’ognuno per sé’ prevale sul senso pubblico.

È tornato il tempo dei capri espiatori. L’intensità dei processi di finanziarizzazione, l’incessante circolazione delle merci, la spirale delle disuguaglianze, delle discriminazioni e della precarietà, vengono dimenticate al punto da divenire invisibili. Ci viene detto - a dispetto dei dati reali - che la causa delle nostre disgrazie è ‘la pressione migratoria’. Da qui a dire che per sradicare il malessere basta arrestare i flussi migratori il passo è breve e piuttosto trascinante.

Non l’accettiamo. Le radici dei mali del nostro tempo non stanno nella mobilità degli esseri umani, ma nel potere sconfinato della competizione e della governance, nel primato della finanza e nella sordità delle tecnocrazie. Non è la manodopera immigrata a pesare sulla classe dei salariati, ma le leggi sempre più universali della competitività, del profitto e della precarietà.

È illusorio pensare di poter contenere o, ancor più, interrompere i flussi migratori. A volerlo fare, si finirà sempre per essere costretti al peggio. Le norme intensificano i controlli di polizia, e la frontiera si fa muro. Ma la chiusura, inevitabilmente, genera violenza… e così aumenta il numero degli immigrati clandestini soggetti a sfruttamento.

Nel mondo globalizzato, così com’è, capitali e merci circolano senza controllo né restrizioni; gli esseri umani, al contrario, non possono fare lo stesso. La libera circolazione degli uomini non appartiene al credo del capitale, oggi come ieri.

Nei prossimi decenni, volenti o nolenti, le migrazioni si espanderanno. Toccheranno le nostre coste e anche il nostro Paese, come già oggi, avrà i suoi espatriati. I rifugiati in fuga da guerre e disastri climatici saranno sempre più numerosi. Cosa faremo? Continueremo a chiudere le frontiere lasciando che i più poveri accolgano i poverissimi? È indegno moralmente e stupido da un punto di vista razionale.

Significherebbe adottare la “strategia dello struzzo”… verrà il diluvio dopo di noi? Ma il diluvio andrà bene per tutti noi!

Non bisogna lasciare il campo a queste idee, imposte dall’estrema destra, troppo spesso accolte dalla destra e che tentano persino una parte della sinistra. Noi, intellettuali, artisti, attivisti, sindacalisti e soprattutto cittadini, non chineremo certo il capo. Non scenderemo a patti con gli interessi della destra estrema. La migrazione è un male soltanto nelle società che voltano le spalle alla condivisione. Per gli immigrati presenti nei paesi ospitanti la libertà di movimento e l’uguaglianza dei diritti sociali devono essere diritti umani fondamentali.

Non faremo alla destra estrema il dono di credere che ponga delle giuste istanze. Rigettiamo le sue domande, così come le sue risposte”.

Come racconta Anna Maria Merlo, in questo articolo de “Il Manifesto”, il testo ha spaccato la sinistra francese, raccogliendo consensi entro l’area del vecchio Partito Socialista, e in parte del Pcf, ma ha visto anche la presa di distanza di Mélenchon di France Insoumise (che con questa scelta si distanzia invece da Clémentine Autain, che lo ha firmato) e di Emanuel Maurel (che è uscito da sinistra dal Partito Socialista su questo punto). Questo genere di tensioni nel campo della sinistra non sono affatto nuove, avevamo già visto simili scontri entro la stessa France Insoumise tra Kuzmanovic e la stessa Autain. In quel caso mentre il tono di Kuzmanovic era più pratico, quello della Autain era morale ed identitario. Il conflitto delle posizioni può essere descritto da una parte tenendo presente l’orizzonte politico di cercare di avanzare in terreni ed insediamenti sociali ormai da lungo tempo abbandonati dalla sinistra, quelli popolari[7], dall’altra di conservare l’insediamento sociale di fatto oggi esistente a sinistra, quello ancorato ai ceti medi istruiti (in pratica le firme del Manifesto in oggetto). A ben vedere la posizione di Kuzmanovic parte dall’esigenza di un riscatto, riprendendo la strada di un rapporto emotivo con i bisogni e i desideri (e le paure) dei ceti popolari da decenni abbandonati, mentre quella della Autain appare difensiva, rivolta a tenere le piazzeforti nelle quali la sinistra nel lungo gelo degli anni novanta e zero si è rifugiata.

Del resto il primo è un ex militare che radica la sua vita politica nelle aree in sofferenza sociale del nord, il bacino di voti consolidato del Fronte Nazionale, mentre la seconda è una borghese parigina, che viene da ceti medi improduttivi e nipote di un deputato socialista, membro di associazioni femministe ed ambientaliste che ha la sua base elettorale nell’hinterland parigino (Sevran).

Leggendo il Manifesto questa profonda divergenza si manifesta in pieno.

Viene creato un potente e netto dualismo, moralmente fondato, tra una posizione interamente negativa, attribuita ad una posizione politica (la “estrema destra”) che lavora alla costruzione di “capri espiatori” e quindi sulla “paura di non sentirsi più a casa propria”, sulla “ossessione per l’identità” e quindi su “ordine ed autorità”. Questo discorso cerca, ci viene detto, di far dimenticare le vere cause dei nostri problemi spostandoli sulle “pressioni migratorie”, e quindi associando il malessere a queste.

La posizione dalla quale il manifesto si esprime, invece, difende il “valore dell’uguaglianza” (a fronte alla “ossessione per l’identità”, cui non viene quindi riconosciuto valore), la “opportunità di vivere insieme” (a fronte della paura), e il “senso di responsabilità e condivisione” (rispetto a “ordine e autorità”). La causa del malessere che determina queste fughe identitarie è brevemente tratteggiato come “intensità dei processi di finanziarizzazione, incessante circolazione delle merci, spirale delle disuguaglianze, discriminazione e precarietà”. Più avanti si dice che la radice dei mali è “nel potere sconfinato della competizione e della governance, nel primato della finanza e nella sordità delle tecnocrazie”. Quindi, si afferma quindi che “non è la manodopera immigrata a pesare sulla classe dei salariati, ma le leggi sempre più universali della competitività, del profitto e della precarietà”.

Leggendola da una chiave di interpretazione interna alla tradizione socialista, pur in modo confuso e affastellato, sembra quindi di poter leggere in questa presa di posizione il nucleo di una critica del capitalismo finanziarizzato e della mondializzazione senza limiti e controlli che determina effetti nella distribuzione sociale attraverso la prevalenza universale del principio di organizzazione sociale della competizione di tutti verso tutti. Ovvero una critica del mondo per come esso è oggi, che “pesa sulla classe dei salariati”, determinando precarietà per molti, esasperando l’accumulazione di profitti e quindi incrementando l’ineguaglianza, attraverso, appunto la competizione.

Se così fosse sarebbe una critica giusta; ma naturalmente questa nella sua essenza non esclude affatto la possibilità che la manodopera immigrata sia parte di questa competizione, e dunque sia al di là delle intenzioni e delle posizioni dei singoli, ovvero al di là del punto di vista morale, che qui non è pertinente, fattore di aggravamento dei suoi effetti.

Ad esempio, nel documento sull’immigrazione “Né buoni, né cattivi[8] di “Rinascita! Per un’Italia sovrana e socialista”, si legge che “il continuo ed incontrollato afflusso di migranti … ha aggiunto incertezza ad incertezza, precarietà a precarietà, povertà a povertà”. Non è la causa di queste, ma si aggiunge dato che segue la stessa logica che le provoca.

A impedire, però, l’ipotesi che il discorso ruoti verso una critica del ruolo dell’immigrazione come fattore di aggravamento dello sfruttamento sociale dei lavoratori, viene subito una frase affermativa e senza possibilità di discussione: “è illusorio pensare di poter contenere o, ancora più, interrompere i flussi migratori”. Chi volesse ragionare, come il documento di “Rinascita!”, sul contenimento dei flussi e la richiesta di sicurezza e protezione dei ceti lavoratori (protezione dalla competizione, ovviamente), si trova davanti questo muro, presentato come argomento di fatto. Che pretende essere vero.

Dunque perché è “illusorio” cercare di contenere i flussi? Il meccanismo che lo dovrebbe spiegare slitta stranamente su un altro piano, si sposta sul piano morale[9]; infatti se provo a contenere i flussi devo necessariamente farlo attraverso l’autorità, ovvero esercitando le prerogative dello Stato nazionale, e irrobustire controlli alle frontiere. Se lo faccio, però, “la frontiera si fa muro” e “genera violenza”. E’ dunque un’opposizione morale che viene presentata come obiezione funzionale: si legge dopo che questa politica di contenimento “aumenta il numero degli immigrati”, ma ovviamente “clandestini”, e quindi lo sfruttamento. Detto in altro modo, se cerco di contenere gli arrivi, invece che accogliere e regolarizzare tutti quelli che si presentano[10], allora chi passerà sarà clandestino, dunque questi aumenteranno (non gli immigrati, ma i clandestini) e saranno sfruttati. Bloccare i flussi, dunque, aumenta lo sfruttamento[11].

Si tratta di uno strano argomento, a dir la verità: il contenimento sarebbe ‘illusorio’ perché se non apro le frontiere, accogliendo tutti e regolarizzandoli come lavoratori, quelli che comunque passano sarebbero clandestini e dunque sfruttati. Lo smarrimento del concetto di sfruttamento, come effetto dello squilibrio di forze che deriva dall’esercizio del possesso dei mezzi di produzione, della tradizione socialista qui emerge in piena luce. Sembra di poter dire che se un numero indefinito di persone entra in un paese, di fatto competendo con i lavoratori già presenti (siano essi immigrati precedenti o locali), non c’è sfruttamento perché è semplicemente il mercato che li colloca. Ma tutto questo è coperto dalla parola ‘illusorio’, che sembra voler indicare un’impossibilità di fatto.

Lo dico diversamente: il senso dell’argomento sembra che se apro alla completa mobilità dei lavoratori, e consento a tutti di agire liberamente, il mercato si assesterà senza ostacoli o violenza, naturalmente. Se, invece, pongo limiti alla circolazione, esercitando autorità sul mercato, determinerò necessariamente un risultato di sfruttamento. Questa è l’essenza della posizione liberale[12].

Seguono due frasi di difficile interpretazione, tronche:

Nel mondo globalizzato, così com’è, capitali e merci circolano senza controllo né restrizioni; gli esseri umani, al contrario, non possono fare lo stesso. La libera circolazione degli uomini non appartiene al credo del capitale [nazionale], oggi come ieri.

Se anche fosse vero che “capitali e merci circolano senza controllo[13], e fosse vero che gli esseri umani sono trattati diversamente[14], da ciò cosa deriverebbe? Che anche gli uomini si devono muovere per pareggiare merci e capitali? Ovvero che il libero movimento di merci e capitali è il valore in sé che gli uomini devono raggiungere?

In realtà non stupisce che questa frase, in particolare, abbia provocato la rottura di Maurel, si tratta di un distillato di altissima purezza del pensiero neoliberale (ed anche delle sue false coscienze, dato che i capitali si muovono solo se sono autorizzati dal potere e le merci anche di più). Tra l’altro anche l’ultima frase, che si capisce se al “capitale”, si aggiunge “nazionale”, è perfetta espressione del liberismo mondialista (alleato con il libertarismo di destra e sinistra).

Segue un altro esercizio di affermazione apodittica e non suffragata (del resto per definizione, trattando del futuro) da fatti: “nei prossimi decenni, volenti o nolenti, le migrazioni si espanderanno”. Insomma, al mondo globalizzato non c’è soluzione, occorre solo adattarsi. Di più, è in fondo giusto, perché corrisponde alla libertà di movimento. Peccato che nella prima parte si era detto che la causa dei danni non sono gli immigrati, ma la competizione[15].

Sulla base di questa ipotesi, che le migrazioni siano inarrestabili, il Manifesto afferma che se chiuderemo le frontiere allora “i poveri accoglieranno i poverissimi”[16], cosa che è “indegno moralmente e stupido da un punto di vista razionale”. Perché sia anche ‘stupido’ non lo chiarisce, ma probabilmente deriva dal sottostante modello economico neoliberale: avere più lavoratori deboli aumenta l’efficienza economica, perché prestano forza-lavoro ad un costo più basso, quindi producono più output a parità di imput economico.

La chiusa torna sulla “estrema destra”, ma mostra anche il vero bersaglio, che è una lotta interamente dentro il campo della sinistra, si tratta di idee, infatti, che “tentano persino una parte della sinistra”.

“Noi, intellettuali, artisti, attivisti, sindacalisti e soprattutto cittadini, non chineremo certo il capo. Non scenderemo a patti con gli interessi della destra estrema. La migrazione è un male soltanto nelle società che voltano le spalle alla condivisione. Per gli immigrati presenti nei paesi ospitanti la libertà di movimento e l’uguaglianza dei diritti sociali devono essere diritti umani fondamentali.

Non faremo alla destra estrema il dono di credere che ponga delle giuste istanze. Rigettiamo le sue domande, così come le sue risposte”.

Questa prosa, fatta di frasi corte e slogan, riassume una posizione che trova la sua forza principalmente in una postura identitaria. Un noi/loro che non ammette alcuno spazio all’altro e lo ‘rigetta’.

Rigetta, per la precisione, sia le domande sia le risposte.

Con un talmente radicale rifiuto della logica argomentativa, in favore di uno pseudo-argomentare per posizione identitaria, fondata su una superiorità morale; ancorato ad un’intransigenza che “non china il capo”[17], si conferma come il multiculturalismo sia da lungo tempo diventato l’architrave di un ordine morale per una élite orfana dei quadri di senso socialisti.

Il “potere sconfinato della competizione” è un nucleo di analisi molto noto al pensiero marxista, a partire dal capitolo “La concorrenza” di “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, di Friedrich Engels del 1844, ma da questo, a seguirne la logica, si potrebbe ragionare sui rapporti tra lavoratori e tra lavoratori e capitalisti, e comprendere che, lungi dall’esserne colpevoli, flussi di immigrati regolati esclusivamente dalla domanda di mercato (ovvero ‘liberi’ come merci e capitali), esercita una pressione che inibisce la possibile competizione tra capitali per acquisire il lavoro. Ovvero impedisce che i rapporti di forza tra capitale e lavoro siano portati a favore di quest’ultimo.

Malgrado quel che sostiene il Manifesto, in altre parole, anche se le risposte della destra vanno rigettate, la domanda ha senso.

Ecco, ad esempio, come la mise Engels:

“questa concorrenza tra gli operai ha un solo limite; nessun operaio vorrà lavorare per meno di quello che è necessario per la sua esistenza; se proprio deve morire di fame, preferisce subire questa sorte rimanendo in ozio piuttosto che lavorando. Naturalmente, questo limite è relativo; c’è chi ha bisogni maggiori o è abituato a maggiori comodità di un altro; l’inglese, che conserva un certo grado di civiltà, ha maggiori esigenze dell’irlandese, che si veste di stracci, mangia patate e dorme in un porcile. Ma ciò non impedisce che l’irlandese faccia concorrenza all’inglese, abbassando gradatamente il salario, e con esso il grado di civiltà, dell’operaio inglese al proprio livello” (p.143).

Dunque la concorrenza è la radice del problema (in questo post un’analisi più articolata da fonti marxiane).

Rispetto a questa posizione c’è, però, la svolta determinata nelle sinistre occidentali dalla caduta repentina e totale della intera tradizione della lotta di classe. A partire dagli ultimi anni settanta, e poi negli anni ottanta e novanta, la percezione di liberazione prima incorporata nella lotta tra produttori e capitale che ne organizza, sfruttandolo, il lavoro si è trasferita in una sorta di individualismo proiettato su scala astratta. Come la mette Jonathan Friedman, in “Politicamente corretto”, “le élite assumono la forma di un cosmopolitismo che celebra la combinazione della diversità di fusioni ibride nel quadro di una cittadinanza mondiale, considerata come l’unico futuro moralmente accettabile per il mondo” (p.26). La conseguenza è molto evidente in questo Manifesto: la moralizzazione dell’universo sociale e la dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire.

Si tratta di un potente interdetto la cui evidente funzione è il controllo dei discorsi e tramite questi delle soggettività. Come disse Foucault nella relazione programmatica all’avvio dei suoi corsi al College de France: “in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”[18]. Dunque interdetto (ciò di cui non si può parlare), la partizione della ragione dalla follia, e quella tra ‘vero e falso’.

Ma evitare che temi sensibili siano affrontati, che “domande” possano essere avanzate, esplica la matrice di un controllo sociale, precisamente la matrice di una creazione di socialità nella quale sia possibile il controllo della circolazione e creazione dei discorsi. Dunque controlla la creazione delle soggettività.

Questo Manifesto, come ogni documento di questo genere, ha, a ben vedere, solo questa funzione: assicurarsi della soggettività di chi lo accoglie come discorso ‘vero’, con le sue espresse partizioni. Il potere che utilizza, al fine di creare questo soggetto ‘di sinistra’, che identifica se stesso in relazione ad un ‘altro’ costituito come puro negativo, è quello della vergogna. L’intero discorso esercita interdetto attraverso la mobilitazione, su chi non si piegasse alle affermazioni, della vergogna e non della ragione, della classificazione e non della convinzione. Sono singolarmente assenti argomenti di cui si possa apprezzare l’interna logica, la fattuale evidenza, o la sistematica coerenza.

Il multiculturalismo è diventato del resto da tempo sinonimo di progressismo.

Ciò che conta, per superare lo smarrimento di senso che profondamente ha colpito la sinistra, orfana della narrazione marxista, è ormai solo “stare dalla parte giusta”. Un discorso simile, sostiene l’antropologo Jonhatan Friedman, è tecnicamente (ovvero in termini di struttura) simile al razzismo: “nell’identificare un ‘altro’ come appartenente ad un ordine differente che non può essere accettato e bollato come incarnazione del male”[19].

Fin qui la lettura del testo.

Vediamo di fare un passo avanti. Il mio amico Fabrizio Marchi, in “La variante di (ultra) destra del sistema capitalista”, ricorda che sarebbe però un errore sottovalutare l’insorgenza di forze neo-reazionarie che si oppongono alle conseguenze più nefaste della mondializzazione[20], ma che lo fanno dal punto di vista dell’affermazione del capitale nazionale e della difesa delle sue possibilità di accumulazione e sfruttamento (della natura e dell’uomo, immigrato o non). Pierluigi Fagan, nel commentare in questo articolo il probabile successo di Bolsonaro in Brasile, richiama ad esempio la reazione che si è già data altre volte[21] dell’ordine liberale, che perdendo capacità si muta in caos, si rovescia a servizio delle medesime forze in un ordine direttamente autoritario[22].

Un simile timore porta il mio amico Marchi a identificare un possibile errore speculare a quello di chi, senza avvedersene, sposa interamente un punto di vista liberale e “politicamente corretto”, come nel Manifesto che abbiamo letto, asserragliato nelle cittadelle assediate di una mondializzazione che sta precipitando nel caos per effetto delle sue conseguenze necessarie[23]. L’errore, cioè, che compie parte della cosiddetta “sinistra sovranista” che, a suo parere, si trova a “fare eco alla destra”.

Precisamente scrive:

“… questo concetto della ‘analisi concreta della situazione concreta’, insieme alla logica della ‘contraddizione principale’ (entrambe condivisibili, sia chiaro, a patto però di aver elaborato un’analisi corretta della realtà…) porta questi compagni, sulla scorta della loro analisi, a considerare la destra un problema del tutto secondario. Non solo, li porta – come dicevo – ad inseguirla pericolosamente sul suo stesso terreno, nella speranza, così facendo, di riconquistare consensi fra i ceti popolari”.

Questa critica interna, mentre quella del Manifesto è condotta da posizioni liberal, ad alcune posizioni che cercano di leggere la fase come crisi terminale, e per ottime ragioni, dell’ambiente mondialista e quindi multiculturalista della fine del secolo scorso, individua una sorta di né, né. Bisogna opporsi in pari modo alla sinistra subalterna al capitale mondializzato ed ai suoi travestimenti ideologici “politicamente corretti” (sia essa moderata o radicale), e alla destra che rivolta il guanto ideologico lasciando immutato il contenuto di classe[24].

Un vecchio articolo di Michal Kaleki può aiutare a comprendere il punto, in “Aspetti politici del pieno impiego”, nel 1943, l’economista ed amico di Joan Robinson che cerca di mostrare la relazione tra le spese dei capitalisti, in investimento e consumo, e il grado di monopolio, ovvero la competizione effettivamente all’opera nel sistema economico. Polemizzando con Varga (nel 1932) e con Hilferding Kaleki contesta sia che i monopoli siano più stabili dell’economia competitiva, sia che dalla crisi si possa uscire per via deflattiva. La domanda centrale che pone è perché i cosiddetti “capitani di industria” e gli intellettuali ad essi legati rigettano ed impediscono anche in condizioni di crisi e stagnazione della domanda che lo Stato intervenga creando il circuito della crescita che essi non sono più in grado di determinare. In altre parole, perché preferiscono vendere di meno a vendere di più.

La ragione è di potere. Se il governo riesce a mostrare che può creare posti di lavoro con la spesa pubblica ne viene indebolita drasticamente la fonte di controllo del capitale, che è l’obbligo di garantirsi sempre la ‘fiducia’ degli imprenditori (ovvero, come si dice oggi, dei “mercati”). In altre parole, se il governo scopre un “trucco” con il quale incrementare l’occupazione con i propri mezzi, allora questo potere scompare.

Né è diverso per il sostegno diretto ai consumi di massa, che viola un potente principio morale: “tu ti guadagnerai il pane con il sudore”.

Ed infine è da valutare la minaccia del piano impiego, una condizione nella quale il potere disciplinare dei datori di lavoro è enormemente ridotto e i rapporti di forza si invertono di segno.

Kaleki si chiede, insomma, perché, invece, sotto i regimi autoritari del fascismo e del nazismo si sia potuto, con il beneplacito del capitale, superare tutte e tre le opposizioni. Creando un sistema economico nel quale ci sono di nuovo investimenti pubblici in chiave anticongiunturale e stabilizzante, sussidi e pieno impiego.

La ragione è che si tratta di regimi autoritari nei quali l’ipotesi che il pieno impiego rafforzi il potere dei lavoratori è escluso in radice.

Questa mossa, insomma, che Kaleki, come Polanyi, videro sotto il loro occhi, nella quale ad un sistema economico liberale incapace di liberarsi della stagnazione per paura delle reazioni popolari (temibili una volta che la pressione del bisogno che spegne l’ambizione[25] sia attenuato), si muta in un sistema autoritario sostenuto dalle medesime classi che ora non temono più la dinamica popolare perché la controllano con altri mezzi, è probabilmente ciò che oggi si può immaginare all’orizzonte.

Si tratta di un timore corretto. Ma non si può combattere negando, con una mossa puramente morale dimentica di tutte le lezioni del materialismo e della stessa logica (oltre che di corposi fatti[26]), che l’immigrazione possa essere un problema per alcuni ceti ed alcuni territori particolarmente fragili. Non si può rispondere a questo che è un problema per alcuni, dicendo che per altri è un vantaggio[27], e non si può rispondere sostenendo che un futuro multirazziale e ‘meticcio’ sia inevitabile e preferibile[28].

Non si può, torno al documento[29] di “Rinascita!”, non comprendere che ci sono impatti reali, anche qui sommati ad una dinamica in corso intrinseca al capitalismo, che dissolvono il legame sociale[30], o le richieste di sicurezza e di protezione, che non sono reazionarie e conservatrici così come il liberismo non è progressista[31]. Certo, la destra strumentalizza l’immigrazione, al fine di deviare l’attenzione e creare artificialmente un ‘popolo’ con il vecchio trucco costitutivo di costruire un nemico. Crea, insomma, il “capro espiatorio”, la cui funzione è di “etnicizzare il conflitto sociale”, deviandolo dalla lotta di classe. Come la mette il testo di “Rinascita!”: “l’etnicizzazione del conflitto sociale è il pericolo principale in quanto alimenta la guerra fra gli ultimi e allontana la possibilità di lotte unitarie per la conquista di migliori condizioni di lavoro, vita e democrazia. Ed è cosa assolutamente insensata in quanto, ripetiamolo, le cause e i responsabili criminali della situazione che vivono le masse africane e di altri paesi e quelle italiane sono gli stessi”.

Ma l’immigrazione, mal gestita e regolata dal mercato, che ne determina entità, direzione e natura, sfruttandola per i suoi fini, porta alla rottura di legami sociali, frammentazione politica, esasperazione della disuguaglianza e “all’addensamento dei poveri intorno a città sempre più grandi ed ingestibili”. Parte di questi sradicati dalle dinamiche di rapina del capitale (occidentale o non), si muove verso l’occidente stesso, sottraendo risorse ai paesi di provenienza ed andando ad indebolire ulteriormente le condizioni competitive e quindi conflittuali dei lavoratori poveri locali. La posizione apparentemente morale del Manifesto, con le sue quarantamila firme di tranquilli borghesi, che non pagano alcun prezzo (casomai ottengono benefici) dall’accrescimento della competizione solo dal lato dei lavoratori deboli, sotto questo profilo assume un sapore del tutto diverso.

Bisogna, io credo, rispondere rovesciando il discorso e mettendo a margine il mercato, come veicolo di integrazione sociale subalterna alla logica dello sfruttamento[32], e invece mettere al centro il Pubblico. Come avevo scritto in “Immigrazione e questione sociale”, infatti, se la crescente immigrazione è tra i fattori (non l’unico, né il principale, ma per alcuni il più facilmente visibile) che aggrava una sottostante condizione di deprivazione ed esclusione, governata dal mercato, allora bisogna assicurarsi che non sia questo a socializzare gli individui, ma che questa funzione essenziale sia assunta, apertamente e coscientemente dal pubblico, come peraltro prevede la nostra Costituzione.

È necessario definire una strategia sociale e politica, e quindi solo da ultimo economica, che ricomprenda l’immigrazione come caso particolare, per quanto severo, di una crisi di scopo molto più ampia della nostra civiltà. In estrema sintesi ciò che va posto è il tema della concorrenza come ordinatore fondamentale della nostra civiltà, spostandolo in direzione della protezione dei lavoratori tutti, a salvaguardia dell’equità nei rapporti tra le persone e della creazione di una società ben ordinata.

Qui la vera questione, quella più radicale, non è l’immigrazione ed i suoi effetti diretti, ma piuttosto quella più generale dell’emancipazione della classe produttiva tutta e la riduzione dell’inclusione sociale meramente ad inclusione affidata al mercato. Solo riprendendo sotto la responsabilità collettiva e pubblica l’inclusione sociale degli individui, per via di corretta socializzazione e adeguata capacitazione, si può ottenere una società ben ordinata nella quale è possibile una vita buona e perciò giusta.

Ma l’unico modo per conservare una società accogliente ed aperta è che questa lo sia per tutti. Ciò significa che non si può affidare ai meccanismi del mercato ed alla concorrenza senza freni il compito di sedurre, sradicare ed importare, come fossero merci, persone da tutto il mondo e socializzarle solo e nella misura in cui servono allo scopo di farne utensili in macchine produttive, respingendo il resto dell’umano che portano come scarto.

La soluzione è invece il potenziamento, radicale e drastico, dell’offerta dei servizi sociali e del welfare; non sono i muri, ma neppure l’indiscriminata accoglienza finta, perché affidata alle forze dell’individuo. Bisogna capirsi bene: nessuno può essere accolto se viene subito affidato alla socializzazione di mercato, perché questa scaricherà sempre su di noi tutto ciò che per esso non ha valore. Lo scaricherà nelle nostre periferie e nelle aree di abbandono.

Evitarlo porta a dover affrontare importanti conseguenze, occorre cioè recuperare la capacità della società, nella sua espressione politica, di riprendere in mano il suo destino.

Ottenere ciò è necessario prima di accogliere e per poterlo fare integralmente. Dunque puntare ad una società inclusiva, che è quel che vogliamo, significa necessariamente ottenere e mantenere la piena occupazione ed un società nella quale ognuno si sente protetto e riconosciuto per il contributo che può dare.

Infine è necessario muoversi verso questo obiettivo con una chiara e consapevole strategia di transizione, che rimette il lavoro al suo posto come veicolo primario di socializzazione e che passa per un sistematico potenziamento delle capacità dei nostri territori di sostenere una vita dignitosa, della pubblica amministrazione di far fronte ai bisogni dei cittadini e del lavoro di non sottrarsi a chi lo desidera. Ed inserire questa strategia entro un ripensamento delle strutture più estrattive della mondializzazione, superando “free trade” e piena mobilità dei capitali e libertà di spostare gli investimenti, ma anche tagliare le lunghe catene del debito che intrappolano il mondo e costringono in posizione coloniale più di metà dello stesso.

Se il Manifesto avesse individuato questi obiettivi allora la sua posizione morale sarebbe stata più salda, in questo modo, viceversa, appare espressione di una comoda posizione di rendita, una difesa della propria posizione di privilegio sociale, al vertice della catena di sfruttamento che alla base è alimentata dalla continua competizione tra poveri.

Tra Kuzmanovic e la Autain chi difende una posizione di rendita è la seconda, chi rischia su un terreno difficile e occupato dal nemico per contendergli lo spazio, è il primo.

Se l’obiettivo fosse stato di avviare un grande progetto di infrastrutturazione ed investimenti pubblici, di occupazione di ultima istanza, di potenziamento delle strutture di socializzazione ed accoglienza affidate alla mano pubblica e non privatizzate, di ridefinizione ed innalzamento delle politiche per il diritto alla casa, di sostegno delle economie dei paesi di emigrazione ed in primis di interruzione delle politiche di saccheggio (a partire dalle multinazionali francesi, e dei loro bombardieri), cioè di socializzazione. Allora la regolazione dell’immigrazione potrebbe diventare un problema secondario, essa sarebbe ancora necessaria (perché nulla è senza limiti), ma sarebbe possibile calibrarla su una soglia alta e probabilmente essa si ridurrebbe, per attenuazione delle cause a monte[33].

Ma certo, questa politica ha un costo, e questo dovrebbero pagarlo i firmatari. Meglio ritrarsi nella posizione dello sdegno morale.


Note
[1] - In quanto, ovviamente, nessuno ha il monopolio dei valori essenziali di una civiltà, e la destra di tali valori fornisce con la stessa legittimazione una interpretazione diversa.
[2] - Paul Sweezy, “Il presente come storia”, Einaudi 1962 (ed. or. 1953), p.72.
[3] - In questa formulazione mi pongo prima della alternativa pratica se la soluzione sia di sottrarre interamente la proprietà di tali mezzi al privato, riconoscendone la funzione eminentemente pubblica e sociale, o se sia rendere indisponibili alcuni caratteri del rapporto giuridico di possesso, per socializzarli.
[4] - E’ fondamentale precisare che questa finalità alla massima estensione dei ‘profitti’ è un vincolo di sistema, non è il risultato di una coscienza individuale, giusta o sbagliata, morale o immorale, del singolo operatore del capitale.
[5] - Direi per trasformarla in valore, entro il circuito dello scambio.
[6] - In quanto il consumo presuppone la distribuzione del valore, al fine di poter acquistare le merci nel mercato di scambio dove sono immesse dopo la produzione al fine di tradurle in ‘valore’, e la produzione richiede l’investimento del capitale, dunque il suo accumulo. Il capitalismo è organizzato internamente per massimizzare l’accumulo di capitale, e dunque potenzialmente di accrescere la produzione (la conferenza cade in una fase di relativamente bassa finanziarizzazione, ovvero in piena vigenza del Compromesso di Bretton Woods), mentre allo stesso momento riduce la distribuzione di valore e dunque il consumo, togliendo la base stessa della valorizzazione che, sola, la giustifica.
[7] - Si veda, ad esempio, per un’analisi certo non radicale del tema nel caso italiano il libro di Luca Ricolfi “Sinistra e popolo”, oppure, da una posizione più vicina a chi scrive, Barba e Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, o per un’analisi generale Wolfgang Streech, “Tempo guadagnato”, e Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra”.
[8] - Si veda https://www.rinascitaitaliasocialista.it/blog/documento-finale-del-seminario-sullimmigrazione/
[9] - Lo dico differentemente: frenare i flussi è dichiarato “illusorio”, ma la ragione non è che sia impossibile, ma che sia immorale. Un ben strano modo di argomentare, ma caratteristico del discorso identitario della sinistra “politicamente corretta”, come vedremo.
[10] - Posizione “no border”, evidentemente qui difesa, ma non enunciata per timore di perdere qualche firma.
[11] - In questa formula è contenuto l’abbandono del punto di vista marxista da parte della sinistra contemporanea, infatti lo sfruttamento deriva dai rapporti di forza sociali e dal possesso senza vincoli dei mezzi di produzione, non dallo status giuridico. I lavoratori formalmente liberi, ma sottomessi dalla mancanza di possesso (che può significare anche controllo attraverso la legge) dei mezzi di produzione, sono parimenti sfruttati.
[12] - E’ questo il senso nel quale il documento di “Rinascita!” afferma che “la sinistra ha abbandonato il suo popolo per inseguire i miti della globalizzazione, della finanza, dei mercati, dell’Unione Europea”. E anche “la sinistra radicale, che afferma di contrastare le politiche liberiste con la logica dell’accoglienza senza se e senza ma, fino alle posizioni no-border, finisce per rientrare nel campo liberista”.
[13] - In realtà la circolazione dei capitali e quella delle merci avviene solo sotto importanti restrizioni e solo per chi ha il potere di renderlo possibile, basti pensare ai capitali ed alle merci africane che certo non sono liberi di circolare (vedi la questione, ad esempio del Franco Cfa) e sono anzi soggetti ad uno sfruttamento neocoloniale frutto dello “Sviluppo ineguale” (Amin, 1973).
[14] - Ciò vale solo per gli esseri umani non dotati di sufficiente capitale, che certamente nessuno impedisce a Soros di circolare.
[15] - Leggendo il testo come un esercizio di logica argomentativa è un “non sequitur”, ma naturalmente il punto è che la competizione è riletta in chiave neoliberale, un bene se lasciata libera, un male se costretta da vincoli innaturali, e soprattutto il testo si deve leggere come posizione morale, e come chiamata identitaria.
[16] - Ovvero i rifugiati in fuga da paesi nei quali i danni climatici ed il saccheggio dei capitali occidentali, o delle guerre che questi provocano, saranno costretti ad andare nei paesi limitrofi, anche essi poveri.
[17] - Molto interessante questo riferimento ad una posizione fisica di coraggio e orgoglio di sé, allusiva di posizioni eroiche come quel cittadino che, isolato, nell’adunanza nazista non alzò il braccio e ne pagò le conseguenze.
[18] - Michel Foucault, “L’ordine del discorso”, 1970, Einaudi, p.9
[19] - Jonathan Friedman, “Politicamente corretto”, p.103.
[20] - Vedi “La globalizzazione come crisi
[21] - L’ovvio riferimento è al classico di Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944.
[22] - Uno straordinario documento di questa reazione, si ha nella relazione che un ormai anziano Werner Sombart nel 1932 pronunciò alla “Società degli Studi per l’economia monetaria e creditizia” a Berlino. In essa l’ex sociologo marxista, dall’alto della sua enorme fama, accredita una svolta autoritaria che riconduca l’economico sotto controllo del sociale per effetto della ‘volontà’, senza aspettare che il marxiano passaggio “dal regno della necessità a quello della libertà”, proprio per evitare che “senza di essa si precipiti nel caos”.
[23] - Riassumibili come prevalenza del valore fittizio sulla ricchezza, concentrazione e diradamento del valore stesso, perdita di senso, disgregazione sociale in particolare nelle aree deboli, e via dicendo.
[24] - A ridosso dell’avvio della campagna sugli immigrati, a sostegno di questa posizione scrissi questo post.
[25] - Si veda “Scarcity” circa la trappola della povertà.
[26] - E’ pur vero che la dinamica della domanda ed offerta, e la competizione, operano su tanti e diversi piani, e che ci sono fattori molteplici, come la tecnologia, l’apertura al free trade, le politiche del lavoro, lo stesso individualismo che ostacola la cooperazione tra i lavoratori, che pesano certo di più, ma per alcuni anche la competizione concreta e ravvicinata dei lavoratori immigrati pesa.
[27] - ad esempio per ‘l’economia’, ovvero per i profitti.
[28] - Esercitandosi in una straordinaria postura radical lontanissima dalla sensibilità di chi lotta la vita giorno per giorno, e casomai desidera solidarietà concreta che si nutre di reciprocità.
[29] - https://www.rinascitaitaliasocialista.it/blog/documento-finale-del-seminario-sullimmigrazione/
[30] - Vedi, ad esempio, Richard Sennett “La cultura del nuovo capitalismo”, e “l’uomo flessibile”, ma anche Zigmun Bauman “Individualmente insieme”, e “Il demone della paura”.
[31] - Per un’aspra critica del progressismo della sinistra liberal si veda Cristopher Lash, “La ribellione delle élite”.
[32] - ovvero alla concorrenza ed alla competitività ricercata al ribasso per paura di perdere il controllo
[33] - Questo breve elenco è del tutto sincrono con quello che conclude il testo di “Rinascita!”, con il quale concordo.

Comments

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Mimmo
Saturday, 20 October 2018 10:14
Citazioni decontestualizzate , mistificazioni , rossobrunismo a quintali . Che brutta fine che ha fatto sinistrainrete.
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