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Mario Galati, sulle letture di Macerata: ragione e colonialismo

di Alessandro Visalli

15292 30441 1 PBNella seconda parte della risposta di Eros Barone e Mario Galati al mio testo su Macerata “Lo scontro delle secolarizzazioni”, sono trattati i temi: la violenza e le sue cause e quindi la questione dello “scontro delle secolarizzazioni”; l’interpretazione concettuale dei processi di astrazione del lavoro e della mobilità interregionale; la riaffermazione dell’importanza dell’irrazionale dei riti e del simbolico, con il riferimento alla ‘religione del capitalismo’ e la ‘questione della tecnica’. Nell’ambito di una divisione del lavoro concordata tra di loro, Eros Barone aveva invece scelto di trattare i seguenti temi: della mia accusa, a suo dire, di schematismo e tradizionalismo nei suoi confronti; della dinamica di emigrazioni ed immigrazioni; della proposta di politica economica alternativa e dell’interpretazione dell’ultimo Marx.

Si tratta quindi di un apprezzabile e raro dialogo nel merito al quale non posso sottrarmi: al testo di Barone (“Fisica e metafisica dei fatti di Macerata”) ho quindi già risposto in “Eros Barone, circa ‘fisica e metafisica’: internazionalismo, sinistra e immigrazione”, a quello di Galati (“Ancora su ‘letture del dramma di Macerata’”) lo faccio ora.

Come già detto Si tratta di una sequenza di post che su Sinistrainrete partiva dalla pubblicazione di “Sui fatti di Macerata”, un dialogo con Roberto Buffagni, e che nelle sue articolazioni ha avuto più o meno 3.000 letture.

Per venire al testo, Mario Galati muove da quella che ritiene essere una citazione da un testo di Samir Amin (l’unico autore, tra quelli citati, che i due amici reputano essere adeguatamente marxista).

In altre parole, se entro il modo di produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano anche inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la sua logica viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica) diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel 1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista sociale”.

Questa affermazione Galati la condivide, anche se, in effetti non è una vera e propria citazione, ma più una riformulazione. Conviene, però, riprenderne il contesto specifico: scrive Amin nel suo libro più famoso del 1973, e lo riprende anche in quelli dei decenni successivi, che contrariamente alla normale interpretazione marxista (o meglio, volgarizzazione) la macchina produttiva che fa dell’uomo risorsa e della natura supporto manipolabile è solo una forma storica creatasi in un ambiente particolarmente violento e predatorio. Non vede quindi un’unica e necessaria via allo sviluppo, passante per l’industrializzazione pesante, poi per la fase monopolista per arrivare quindi alla necessaria trasformazione dialettica nel socialismo per via di progressiva razionalizzazione (termine che sarà ripreso dalla coppia di amici, influenzati dal marxismo, Max Weber, in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904, e Werner Sombart “Il capitalismo moderno”, 1902). Una interpretazione del genere, anche se di diversa tradizione, la dà del resto anche Diamond in “Armi, acciaio e malattie”.

Questa forma predatoria, che costringe la natura nella forma del tempo lineare razionalizzato, misurabile, e produce alienazione, si è estesa nel resto del mondo (grazie alle armi, alle vele ed alla forza demografica) travolgendo ogni altra forma di organizzazione sociale, tra le quali Amin individua le promettenti forme protocapitaliste orientali, che sarebbero molto meno individualiste, ma per questo meno dinamiche e in qualche modo più gradualiste, all’atto pratico non in grado di reggere lo scontro militare (guerra dell’oppio). In “La crisi”, ad esempio, l’economista egiziano ribadisce la necessità dello “sganciamento” (il modello storico è l’associazione degli stati non allineati nella Conferenza di Bandung) ed il diritto di ‘essere ciò che si vuole e volere quel che si è’. Il diritto a cercare anche altre forme di razionalità e di organizzazione sociale, di perseguirle, di difenderle.

La Cina, ad esempio, prima dell’occidente inizia a superare la forma di produzione e riproduzione sociale ‘tributaria’ (secondo stadio nel modello aminiano), grosso modo comparabile con lo stadio ‘feudale’ del modelli a cinque stadi occidentale (comunismo primitivo, schiavismo, feudalità, capitalismo, socialismo), ma questa possibilità di evoluzione autonoma è spezzata con la forza. Il capitalismo storicamente affermatosi nella regione mediterranea/europea costringe ad una polarizzazione violenta centro/periferia. La differenza affonda le sue radici nella stabilità raggiunta dalla forma tributaria in Cina, a fronte della endemica instabilità europea (che per Diamond alla fine è curiosamente una delle ragioni del suo successo finale). Amin evidenzia la solida integrazione del mondo contadino nella generale costruzione del sistema e l’accesso alla terra oltre alla diffusione delle manifatture nelle zone rurali che a lungo ha dato alla Cina un deciso vantaggio in tutti i settori produttivi (è noto che dal tempo dell’impero romano, fino a quello inglese, la Cina è autosufficiente e non desidera comprare in pratica nessun prodotto occidentale, di fatto limitandosi a drenarne i metalli preziosi, problema che la Compagnia delle Indie risolve con il ‘commercio triangolare’ imposto con la forza). La Cina, però, in età preindustriale non è solo un modello produttivo e di stabilità sociale, è anche un modello di organizzazione amministrativa. Inventa il servizio pubblico indipendente da aristocrazie e religione, reclutandolo per concorsi (in Europa solo dal 1800 a partire dalla Francia) e impiega tecnologie avanzate e universalmente ammirate in pratica in tutti i campi. Come dice Amin: “la Cina era dunque avviata sulla strada dell’invenzione del capitalismo, in forme che sarebbero state molto diverse da quelle del capitalismo/imperialismo di conquista” (p. 45). Parliamo di cinque secoli di anticipo che però determinano anche una maggiore ‘lentezza’ che alla fine si è risolta in svantaggio decisivo.

Viceversa il “capitalismo per esproprio” occidentale, giustificato con la tesi che l’uomo sarebbe naturalmente lupo agli altri uomini ed egoista, è naturalmente espansivo e imperialista, polarizzante per effetto delle leggi interne che lo governano. È inseparabile dalla conquista del mondo ed indissociabile dall’ideologia eurocentrica “una forma per definizione non universale di civiltà” (p.54).

Lo sviluppo capitalista, insomma, secondo Amin non sarebbe una necessità storica, tanto meno di una qualche ‘legge’ soprastorica, ma solo un accidente. Tuttavia, questa tesi che Galati sembra al fine attribuirmi come si vede è di Amin; le caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista occidentale (la generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale forma da parte della “forza-lavoro”, quindi la reificazione e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrova peraltro intatta anche in molte forme di esperienza del socialismo reale, che è quindi proprio per l’autore egiziano un “capitalismo senza capitalisti”. Una critica non certo nuova, né trascurabile.

È da qui che si attaccava la citazione condivisa dal nostro. Comprendere il capitalismo come forma storica è da intendere in questo senso. Il calcolo, onnipresente ed indiscutibile entro il sistema di rapporti e priorità che la forma occidentale del mondo ha inteso proiettare come universale, è invece relativo ed anche “irrazionale dal punto di vista sociale” se si determina una diversa priorità.

Ma quale è la contraddizione che Galati mi attribuisce, nel dire ciò? “Sostenere il carattere storico-sociale delle categorie di razionale e irrazionale” e sostenere, al contempo, “la persistenza di forme irrazionali archetipiche”. Mi pare ci sia un equivoco, o una proiezione di qualche altro avversario che non sono io: non sostengo affatto che ci siano forme archetipiche dell’umano ed inclino anche io ad un orientamento relativista circa le categorie di razionale-irrazionale. Peccato che forse non lo faccia Galati, che sul punto mi appare ondeggiante; per lui contestare una determinata razionalità (ma non sono tutte determinate?), storicamente data, che può manifestarsi anche in aspetti apologetici e strumentali, troverebbe il suo limite nella impossibilità di rinunciare “a spiegare razionalmente, scientificamente (proprio così, con tutte le approssimazioni, la parzialità, le distorsioni e i difetti possibili) i fenomeni umano-sociali”. Fare ciò è direttamente e definitivamente qualificato come “irrazionalismo” e quindi comporta il rifugiarsi nella trascendenza metafisica o nel naturalismo.

Vedremo nel seguito che questo fermare il carattere trascendente dell’impresa scientifica, una sorta di realismo forte, mentre al contempo si sostiene la dipendenza del razionale dal sociale, determina una rigidità che fa precipitare il discorso del nostro, anche grazie alle fonti, in un significativo schematismo non privo di interne contraddizioni.

Se davvero, cioè, “è cosa scontata che la razionalità presentata dalla scienza economica borghese non è una razionalità assoluta” perché vale solo per quella ‘economica’? E la razionalità dell’impresa scientifica in generale (che si è sviluppata tra il millequattrocento ed il millesettecento, nei luoghi commercialmente ed economicamente più dinamici, man mano che le esigenze di tecnomacchine sociali sempre più sofisticate, e degli stati assoluti in competizione che ne erano utenti e committenti, si sviluppavano) non è anche essa interrogabile? O questa è invece una forma trascendente dell’essere? Nell’epoca in cui si formano le discipline come noi le conosciamo, si creano interi mondi e si consente anche di organizzare la discussione su di essi, portando nello stesso gesto in luce (per così dire) l’articolazione delle identità e degli interessi che si propongono come cruciali. Ogni disciplina è dunque interamente politica, nel suo essere anche costrutto sociale di un sottoinsieme degli attori rilevanti per l’azione. Purtroppo le discipline, invece, si auto comprendono come “scientifiche” in senso di non-politiche; si immaginano ancorate ad un metodo (che qualificano come “scientifico”) che gli consente di elevarsi sopra lo spazio del conflitto e “dire il Vero”.

L’economia, ad esempio, alla fine si riconduce al Vero della maggiore ‘efficienza’ (a ben vedere il fondo anche della superiorità attesa dal discorso marxiano). Dire qualsiasi altro esce dai limiti di competenza; è ciò di cui non si può parlare, che non è annoverabile come “vero” o “falso”, ma solo come “opinione”, o, peggio, è “irrazionale”.

Se per Galati fosse vero che “pertanto il discrimine vero non è tra razionalità e irrazionalità, ma tra diverse razionalità determinate da diversi rapporti storico sociali e contrastanti interessi” come si legherebbe questa affermazione di pura marca relativista (glossata da “i quali si trovano intersecati nella medesima società, come risultato della storia e dei rapporti di classe in essere”), con la definizione della scienza, fornita più avanti, come “attività conoscitiva di un oggetto reale”, ovvero come “attività veritativa”? Qualcosa che attiene al rapporto soggetto-oggetto e che pretende una sua “validità”, e nel suo sviluppo determina una sorta di progresso, quindi di universalità? Ovvero, come conclude, che prevede “la validità universale e l’oggettività del progresso scientifico”?

Sono questioni davvero difficili, sembra dire in sostanza Galati che da una parte la razionalità è incorporata nei rapporti storico sociali, e quindi in interessi contrastanti, mentre dall’altra che la scienza è universale e oggettiva. Probabilmente la contraddizione si risolve nell’ipotesi che quella economica è ideologia, mentre la sua matrice, la scienza ‘dura’ è vero linguaggio della natura. Esisterebbe, cioè, una qualche proprietà intrinsecamente conoscibile (avendo noi catturato “il linguaggio di dio”, come disse Galilei) delle cose, indipendente da ogni contributo del linguaggio e della mente (e dunque della società concreta, con il suo potere ed i suoi interdetti). Un concetto problematico, già nella prima critica definito “ding an sich” (vuoto) da Kant. Un concetto che esclude il carattere politico di ogni disciplina e la sua stretta dipendenza da una decisione di potere.

Ma nello svolgere questa critica non si tratta affatto di “contrapporre ai comportamenti utilitari razionali borghesi” (tratteggiati ad esempio nelle ricostruzioni di Sombart e Weber) ipotetici “comportamenti irrazionali” trascendenti. Oppure, come sembra proporre Galati, di estendere la nozione di “irrazionale” alle altre sfere umane, dissolvendo il confine con “razionale”, radicalizzando il relativismo (con buona pace per le successive affermazioni ambiziose) e perdendo ogni capacità di demarcazione. Ma si tratta di affermare che il discorso scientifico è propriamente senza fondamenti. In altre parole, è umano.

Come avevo provato rischiosamente a scrivere nella replica ad Eros Barone, la scienza non esprime mai formule finali, o affermazioni sull’essere. Anzi, da Newton in poi essa si forma proprio a partire da questa partizione, la particolare e contraddittoria metafisica della scienza (quando diventa scientismo ed ideologia) è tutta in questa pretesa, di poter dire senza affermare la Verità. Di dire attraverso il mezzo del ‘metodo’, ovvero attraverso numero e classificazione.

Per come la vede un grande epistemologo contemporaneo, il recentemente scomparso Hilary Putnam, la scienza è un potente distruttore di risposte e credenze metafisiche, ma non ne crea. Non le può sostituire realmente. Ogni fondamento che propone è allo stato fluido; essa “ci ha messo nella condizione di vivere senza fondamenti” (“La sfida del realismo”, p.42). La verità è, in questo contesto, solo una forma particolarmente stabile di validazione intersoggettiva che evita, fino a prova contraria, “alienazione” e quindi “falsa coscienza” e quindi, in altro linguaggio, rende e scaturisce da posizione “autonome” (in senso kantiano).

Questa nozione di veridicità, in altre parole, non si lascia tanto articolare sulla rubrica razionale/irrazionale, quanto su quella di emancipato/eteronomo. La verità è, così, l’effetto di una interazione sociale nella quale sono state disinnescate sul piano materiale, fisiologico e psicologico, le aspre forme di eteronomia, di soggezione e di sottodeterminazione dell’individuo ed ha acquistato centralità l’ideale di “pensare con la propria testa” che è presente in rango centrale nella costruzione kantiana, in particolare in “La religione nei limiti della semplice ragione”. In questa particolare versione di una fondazione della verità sull’autonomia (che è sia individuale sia intersoggettiva), il fatto che ogni fondazione più forte sia indisponibile non è un disastro, è anzi un bene. È la condizione stessa dell’autonomia. Una versione hegeliana di questa idea si ritrova in Honneth (per certi versi in un altro interprete di Hegel come Taylor).

Se, invece, si prova a definire “irrazionalismo”, tutte quelle forme di conoscenza che “rinunciano a spiegare razionalmente, scientificamente i fenomeni umani e sociali” si fa uso di una versione eccessivamente metafisica del termine.

Non facendolo forse si eviterebbero gli equivoci che seguono:

Se Visalli si fosse attenuto alla citazione riportata, non avrebbe proceduto poi nel farsi sostenitore, sostanzialmente, della separatezza tra un mondo calcolatore, dominato dalla tecnica, razionale, capitalistico, e un mondo prigioniero della tradizione, dell’irrazionale o diversamente razionale, contadino precapitalistico; i quali mondi, secondo i suoi desideri, conservando ciascuno la sua “economia politica”, nonostante siano ormai indissolubilmente intrecciati, possono e debbono entrare in contatto, instaurando giusti rapporti, volontariamente e volontaristicamente su iniziativa di un non meglio precisato “potere pubblico” occidentale, in un processo che può essere ben ricondotto nello schema contrattualistico illuministico-liberale, a dispetto della rivendicata estraneità.

Proprio perché si rifiuta l’ ”identitaria” dialettica materialistica storica, sfugge che non di due economie politiche si tratta, ma di una ormai, della quale le diverse realtà esaminate sono le facce.

Sono sorpreso: io non immagino alcuna separatezza, almeno di natura ontologica, ma solo una differenza inframmezzata da tante ibridazioni e crescenti. E quando parlo delle “due economie politiche” compio una distinzione meramente analitica tra due circuiti intrecciati di creazione di valore mobilitati dalle medesime forze. È chiaro che si tratta di una economia politica articolata in condizioni differenti e produttrice di effetti differenti (ma altrettanto pericolosi). Completamente incomprensibile è poi il richiamo al contrattualismo, qui si tratta meramente di conflitti.

Del resto di seguito, senza ripercorrere il meccanismo che provo a descrivere, Galati si dichiara d’accordo con la caratterizzazione dello sfruttamento ed il suo legame con la logica astratta della valorizzazione. Giunge fino a considerare non da escludere l’ipotesi del legame con ‘secolarizzazioni’ incomplete, ovvero la tesi forse centrale dell’articolo.

Di seguito tuttavia scivola in nuove domande metafisiche che sarebbero per lui “il vero problema”, ma che sono estranee all’impostazione del mio pezzo (che, casomai, si muove sul registro di un discorso politico con alcune limitate affermazioni che pretendono di esser prese per veridiche):

Il vero problema è: la dimensione tradizionale, magico-religiosa, sacrale, irrazionale, è eterna, comunque latente e destinata a riaffiorare carsicamente e fatalmente per il fatto di essere natura, o impronta ancestrale, primordiale, o, a scelta, trascendenza spirituale? Oppure questa è il portato della storia e di relazioni economico-sociali determinate e, quindi, passibile di estinzione?

La strana domanda se la ritualità sia passibile di estinzione, viene quindi articolata facendo uso di un sociologismo che la riconduce semplicisticamente alla falsa coscienza derivante da insicurezza, precarietà, incertezza, oppressione. Viene, cioè, in modo del tutto tradizionale connessa con il bisecolare discorso sulla secolarizzazione, che ha sempre inteso se stesso come alto e coraggioso e il reverso come arretrato, oscuro, vile. Il progresso crea un uomo autonomo, “liberamente associato”, e capace di autentico e cosciente controllo di sé (attraverso un piano), che sarà capace di superare l’irrazionalismo infantile e arretrato.

Qui lavora una delle idee più potenti della tradizione occidentale, forse una delle molle della sua distruttiva potenza: l’idea di progresso. Si tratta di una delle più potenti costruzioni intellettuali che l’uomo abbia mai prodotto, in un certo senso parte dell’autocomprensione della nostra stessa natura propria. Nessuno agirebbe, oltre l’immediato e reattivo, se non si prefigurasse un progetto che individua un “meglio” essenziale, una direzione nella quale si avanzi. Avanzare è, del resto, una potente metafora in quanto radicata nella stessa esperienza fisica dell’uomo, da quando il neonato inizia ad esplorare il mondo.

Anche nelle versioni più sofisticate questa idea tende a creare un punto di vista normativo, spesso implicito, immanente che esplica una sorta di trascendenza dall’interno (termine proposto da Amy Allen), spesso attraverso metafore basiche come ‘apprendimento’.

Provenendo da questa posizione morale, che ha grande tradizione (chiaramente di derivazione illuminista), il desiderato dissolvimento delle “forme irrazionalistiche” non deriva da un semplice sviluppo della tecnica, ma più profondamente da uno sviluppo dei rapporti sociali di produzione che per Galati sarà compiuto solo nel comunismo.

Questa posizione molto nota e tradizionale, quasi un catechismo, giunge quindi a definire la “validità universale e l’oggettività del progresso scientifico”, superando e disinnescando tacitamente anche i precedenti filosofemi relativisti, attraverso la radice sociale e politica delle affermazioni di verità. Ed il progresso nel contesto della “storia universale” è ricondotto abbastanza banalmente al dispiegarsi della potenza delle tecniche, con esempi da quelle meccaniche.

Per rimanere su un piano di concretezza, basso e banale quanto si vuole, quando la scienza e la tecnica borghese arrivano a costruire trattori e macchine agricole che aumentano la produzione e scongiurano il pericolo per la comunità di soccombere per carestia, hai voglia a parlare di tecnica borghese e di non neutralità della scienza che la sottende. Su questa base l’organizzazione socialista dovrebbe rifiutare il progresso tecnico conseguito dalla forma sociale precedente, il quale verrebbe ridotto a mera ideologia. Stesso discorso vale per la cultura in generale, sulla quale torna alla mente la critica leniniana del “Proletkult”.

Ma che si dice se l’esempio è più contemporaneo, e si prende in esame ad esempio la tecnologia del cloud, con i suoi effetti sulla concentrazione delle informazioni cruciali in server privati ad accesso individuale? È neutra questa tecnica, può essere trasferita in rapporti sociali meno individualisti e più comunitari? Immaginare che ‘tecnica’ e ‘ragione’ sia sempre internamente connessa con potere e relazioni sociali non implica affatto che non sia ‘ragione’, ma che in modo specifico non ci si può sottrarre alla costante riflessione su premesse e modalità di affermazione (l’esempio, anche se vecchio, di applicazione di questa strategia di critica è in questa ricerca sulla costruzione della cartografia scientifica).

Certo il comunismo è quasi per definizione lo sviluppo più efficiente delle possibilità ‘liberate’ dalle tecniche. È in effetti la liberazione di Prometeo (uno degli eroi di Marx), non è affatto il ritorno al passato, e tanto meno alla povertà, ma è il superamento dialettico del presente nello sviluppo delle forze produttive. Uno sviluppo che non ha a che fare con l’azione intenzionale di soggetti pubblici più o meno statuali, ma con l’automovimento intrinseco della storia e della classe. Insomma, qui siamo alla polemica tra Marx ventisettenne e List anziano, 1845 ad un anno dalla morte di quest’ultimo: come noto Marx vide nella teoria “nazionalista” di List un ostacolo che avrebbe rallentato l’estensione del dominio dei grandi capitali industriali e con essa la riduzione dei prezzi, e dunque dei salari. Ciò, in una perfetta logica politica del “tanto peggio, tanto meglio” avrebbe ridotto l’antagonismo. Il libero scambio (diremmo la mondializzazione) “spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato… è solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio” (K. Marx, “Discorso sulla questione del libero scambio”, 1848)

Nel settembre 1888, la prefazione di Engels al medesimo discorso di Marx di quaranta anni prima in occasione di un convegno sul libero scambio a Bruxelles a due anni dalla abrogazione delle leggi sul grano e quindi dall’offensiva dell’industria inglese, cade di nuovo in occasione di un grande movimento strategico-commerciale: la riapertura del mercato americano. Il grande rivoluzionario anche qui non nasconde affatto che il libero scambio è sempre stato un’arma imperialista, non nega, insomma l’argomento di List di quarantadue anni prima: è chiaramente una parola d’ordine della grande industria ed una fede, un vangelo, che nasconde un progetto imperiale. Ma ricorda Engels che Marx, “in ultima istanza” ed “in linea di principio” si era egualmente pronunciato in suo favore; con le sue parole: “poiché il libero scambio è l’atmosfera naturale e normale per questa evoluzione storica, l’ambiente economico nel quale le condizioni di questa inevitabile soluzione sorgono più rapidamente – per questo, e soltanto per questo – Marx si dichiarò a favore del libero scambio”.

Alla fine quella di Galati è la stessa logica: in fondo è un fatto che le economie piccole sono “attratte e dominate dalle economie ricche. Un dato di fatto che nessuna lamentazione sentimentale può evitare”; non è evitabile “la loro sottomissione e il loro sfruttamento”. Questa è (ancora in riferimento al 1848) dunque una “necessità storica di tendenze di sviluppo oggettivo”. Una strada che, pur duramente, va percorsa come dice Luckacs, per acquisire le fondamentali condizioni materiali del suo affrancamento reale e definitivo, cioè le condizioni del socialismo. Scrive ciò il filosofo ungherese nel 1966, quando il modo di produzione fordista volge al termine e con esso l’unità della classe agente per la rivoluzione.

Il libero scambio ha da allora fatto il suo duro lavoro, esattamente come prevedevano Marx e Engels, ha abbassato salari e prezzi, ha reso difficile la vita delle classi subalterne, ma questa volta, nel contesto dell’ambiente tecnologico contemporaneo (con la cosiddetta accumulazione flessibile e la rivoluzione ICT), non ha reso più forte la classe; anzi l’ha dissolta.

Forse dunque oggi Marx valuterebbe diversamente, e, “in ultima istanza”, per questo e solo per questo, sarebbe contrario. Ma il nostro era capace di cambiare idea, lo siamo anche noi?

Di seguito al testo e verso la fine ritrovo un richiamo a Gramsci, che alla proposta di Labriola di fare schiavi i popoli bambini ed arretrati, opponeva comunque il diritto dei popoli ad un grado superiore di civiltà (il proprio, naturalmente), di educare i popoli arretrati (ad esempio indiani e cinesi), anche arruolandoli ed istruendoli. Mi spiace, ma questa formulazione odora di implicito colonialismo e di eurocentrismo, nulla di male in un uomo nato nel 1800, ma assai più problematica dopo Bandung.

Del resto per Galati, in fondo “il potere pubblico è un’entità vuota”, dunque tanto vale lasciar fare agli spiriti animali della tecnica e alla dinamica dei poteri, che andranno automaticamente per il meglio per effetto della fortunata provvidenza. Oppure bisogna comunque spingere ed industrializzarsi, per resistere (con un certo grado di incoerenza con buona parte del discorso è richiamato alla fine il maoista Losurdo nel suo ultimo libro).

Questa affermazione del vuoto del potere pubblico, nel momento in particolare in cui si cita con favore un libro come “Il marxismo occidentale” di Losurdo, appare particolarmente singolare. L’opposizione idealtipica tra le due forme di marxismo, avanzata da questi, si impernia infatti proprio sul ruolo dello Stato. A suo parere questa opposizione si incardina nella vicenda storica, più che in invarianti culturali:

  • Dove il marxismo ha trionfato, sempre in paesi deboli e periferici rispetto al centro imperiale del capitalismo occidentale, il tema che si è guadagnato la centralità è sempre stato la sopravvivenza. Quindi l’indipendenza e la difesa dal colonialismo (vedi Bandung, promosso da stati forti come quello cinese ed indiano), ferocemente perseguito con assoluta determinazione dalle potenze occidentali.
  • Dove il marxismo, invece, si è sviluppato come pensiero e prassi critica di opposizione, sbarrata nell’accesso reale al potere, ovvero in occidente, il tema divenuto centrale è stato l’antiautoritarismo in chiave di antinazionalismo e di attesa messianica e millenarista di una finale dissoluzione dello Stato. Il marxismo all’opposizione si è confrontato infatti con Stati forti e di successo, e nel centro del potere imperialista, ma ha finito a volte a far sovrapporre un’inconsapevole ripresa della tradizione religiosa occidentale (e prima della tradizione cinica) alla concreta percezione delle forze in campo e delle priorità che una lettura materialista di queste avrebbe consigliato.

In entrambi i casi, nelle diverse condizioni, la molla dello sviluppo della costruzione ideologica è, hegelianamente, il riconoscimento e quindi la reazione al disprezzo. Mentre in occidente il patriottismo è letto con crescente sospetto, visto nelle condizioni del primo novecento come sentimento connesso con le guerre interimperialiste e bandiera della reazione contro il movimento internazionale dei lavoratori (anche, e soprattutto, su due arene strategiche ed esemplari come la Germania e l’Italia), in oriente al contrario è la bandiera che chiama alla riscossa; ne è espressione, ad esempio, il primo Ho-Chi Minh.

È vero che quindi allo spirito utopico occidentale (fine del denaro, del lavoro, etc.) il comunismo orientale oppone lo sviluppo delle forze produttive, al prezzo di far diventare tutto una grande fabbrica anche con elementi dispotici (creando il “capitalismo senza capitalisti”), come leva indispensabile per difendere le conquiste sociali dalla concreta aggressione economica e militare occidentale. Ovvero dal capitalismo di rapina occidentale.

È vero che Lenin nel 1923 nella famosissima “Lettera al Congresso”, un Lenin ormai morente scrive:

“sarei pronto a dire che per noi il centro di gravità si sposta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall’obbligo di lottare per la nostra posizione su scala internazionale …davanti a noi si pongono due compiti fondamentali, che costituiscono un’epoca. Si tratta del compito di trasformare il nostro apparato statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al completo dall’epoca precedente”.

E prosegue:

“il nostro secondo compito consiste nel lavoro culturale fra i contadini. E questo lavoro ha come scopo economico appunto la cooperazione” (in questo riecheggiano i temi dell’ultimo Marx stesso).

Ma, e questo è cruciale:

“questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale”.

E’ vero anche però che questo primo obiettivo (in termini di necessità) ha teso ad andare ad ostacolare il secondo, sovrapponendosi all’obiettivo della cooperazione e travolgendolo (una tesi del genere anche nell’ultimo Trentin), estendendo la disciplina di fabbrica all’intera società.

Siamo al centro delle contraddizioni di cui è piena la storia (anzi di cui è fatta).

Ma non si può neppure dimenticare, al converso, che nella feroce critica al colonialismo inconsapevole, incorporato nella nozione di razionalizzazione come progresso, della tradizione messianica occidentale, trasposta nel marxismo nostrano, Losurdo arriva ad attaccare scivolamenti di Adorno come il seguente:

“Persino le invasioni dei conquistatori dell’antico Messico e nel Perù, che là devono essere state viste come invasioni da un altro pianeta, hanno contribuito sanguinosamente – in modo irrazionale per gli Atzechi e gli Incas – alla diffusione della società razionale in senso borghese fino ad arrivare alla concezione one world, che inerisce teleologicamente al principio di tale società” (A., 1966).

Il mondialismo sarebbe dunque, persino nella distruzione (armi, acciaio e malattie) condotta spietatamente da Cortes a danni di una grande e antica civilizzazione, un contributo alla razionalizzazione del mondo? Hernàn Cortés Monroy, strumento della Ragione?

Occorre fare molta attenzione alla “ragione”, che ci prende alle spalle.

Insomma, mi pare che il complesso sistema messo in campo da Galati risenta di un certo schematismo tratto in sostanza dalle fonti, in esse necessario in quanto si tratta in ultima analisi di un’arma. Un pensiero in lotta che in molti punti cruciali piega la parsimonia necessaria del discorso scientifico alle esigenze imperiose della fase. Un pensiero che sotto questo profilo si fa confinare nel suo tempo, alla metà dell’ottocento, età di sviluppo imperioso di tecniche ‘del braccio’ e dell’imperialismo conseguente, età di rapina.

Un pensiero che naturalmente risente anche dello sviluppo spirituale e delle acquisizioni del suo tempo e la cui traduzione nell’epoca dello sviluppo imperioso delle tecniche ‘della mente’ e del conseguente imperialismo sfidato, nel suo costante, ma mutato, istinto di rapina, è insieme difficile ed affascinante, ma va compiuta con attenzione.

Una traduzione che, a mio parere, richiederebbe meno schematismo.

Comments

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Mario Galati
Sunday, 25 March 2018 15:39
Cercherò di essere breve, sintetico e schematico, a vantaggio, spero, della sobrietà e della chiarezza.
Parto dalla coda dell’articolo.
-Visalli ipotizza che vi sia un pensiero che non nasce dalla lotta, perciò scientifico, al di sopra delle contingenze, che non “si fa confinare nel tempo”. Quello marxiano sarebbe della specie confinata nel tempo perché nasce dalla lotta, mentre quello veramente scientifico, che si eleva sui condizionamenti della lotta, augusto e imperturbabile, sereno, olimpico, sarebbe quello kantiano, relativista soggettivista, par di capire, proprio come avevo ipotizzato nella mia replica.
Certo che la critica di ogni assunto partendo dalla pregiudiziale che tutto è relativo e soggettivo , che “la nozione di veridicità” “si lascia articolare” solo sulla coppia “emancipato/eteronomo”, laddove per emancipato si intende autonomo soggettivo, il “pensare con la propria testa” (che è il tribunale del mondo; anzi, il creatore), deve essere oltremodo difficile. Un compito arduo (che, si badi bene, si assolve con l’applicazione di un unico “schema”: tutto è relativo, soggettivo, non esiste l’oggettività). Questa difficoltà è comodamente evitabile, invece, da chi ragiona con la testa degli altri, secondo schematismi precostituiti.
Non lo sfiora il dubbio che il relativismo soggettivo altro non è che assolutismo: l’assolutizzazione del soggetto. Si divinizza il soggetto proclamando di voler demistificare l’oggetto. Non c’è male come criticismo antidogmatico.
-questo relativismo applicato alla storia, concepita come successione di fasi distinte (qui c’è il pensiero della differenza, mi sembra), se non addirittura come semplice percezione di fasi distinte, non invece come totalità diacronica, unitaria, in divenire, deve necessariamente escludere la nozione di apprendimento e di progresso (nessuno si chiede se la prostrazione attuale dei lavoratori non abbia a che fare anche con questa mancanza di prospettiva storica e di senso storico e se la critica alla nozione in sé di progresso, a qualsiasi progresso, non sia un’arma ideologica delle classi dominanti, nell’eterno presente della merce).
-Visalli trova incoerenza e contraddizione nell’affermare la storicità relativa delle categorie di razionale e irrazionale e del sapere in generale e, contemporaneamente, nell’affermare l’oggettività del progresso scientifico e tecnologico.
Secondo una visione schematica non può non essere contraddittorio. Non secondo la nozione marxiana di ideologia (certo, distante dal relativismo kantiano), la quale non è semplice realtà illusoria, invenzione soggettiva, creazione arbitraria. Ma è visione della realtà, seppure deformata. Seppure funzionale, apologetica, deformata e deformante, errata, è comunque conoscenza oggettiva. E, in ogni caso, è sempre realtà ideologica, ossia modo di essere dei soggetti; in tal senso elemento reale (si veda la critica di Marx all’ideologia della diade stato politico/società civile e alle nozioni di cittadino astratto e di uguaglianza formale, ne “La questione ebraica”. L’astrattezza era per lo schematico Marx ideologia e realtà contemporaneamente. E’ la realtà ad essere contraddittoria. Ma un pensiero lineare non si pone in un’ottica dialettica).
Preciso che non ho fatto separazione tra scienze sociali e scienze naturali.
La teoria economica di Ricardo ci ha lasciato qualcosa di (almeno provvisoriamente) oggettivo o è tutta ideologia soggettiva e illusione borghese?
Penso che anche le scienze naturali siano soggette alla storicità, come la stessa natura. E non sono così ingenuo da credere che la sperimentabilità o l’evidenza empirica garantiscano l’oggettività e la verità scientifica (sulla base dell’errato sistema tolemaico-aristotelico si facevano calcoli astronomici esatti per es.).
La Verità, con la maiuscola, la Realtà, con la maiuscola, l’Essenza, il Noumeno, la Cosa in sè, non le raggiungeremo mai; perché esse coincidono con la totalità (non c’è nessuna cosa in sé, ma solo in relazione col tutto), la quale a sua volta, nel linguaggio teologico, non è che dio. Sapere tutto significa essere tutto, abbracciare tutto. Mi pare un’impresa un po’ difficile per l’umanità. Mi accontento dell’approssimazione, della parzialità, ecc., ma non del nulla. Su questo mi dichiaro un ortodosso leninista. Ma non dimentico neppure qualche riflessione di Gramsci (v. “Esiste una realtà esterna oggettiva?”), che sarebbe troppo lungo riportare.
-Sulla neutralità o meno della tecnica, mi sembra che si perda il senso della misura nel fare affermazioni assolute: la tecnica è neutrale; la tecnica non è neutrale. Il cloud nasce in un contesto di controllo privato delle informazioni. Vero. Ma si è già certi che questa tecnica non possa rivelarsi utilizzabile in altro contesto sociale? Sarebbe un modo di ragionare schematico, che assume delle variabili indipendenti (la tecnica non neutrale in se stessa) e ne fa dipendere le altre variabili. Così, anche in un contesto sociale mutato, ossia interagendo in una realtà diversa, queste rimangono uguali a loro stesse. Il contrario di quella totalità dialettica che è la realtà. Si perde di vista il movimento complessivo e le interazioni reciproche degli elementi (Samir Amin, Come funziona il capitalismo?, Jaca Book, Milano, 1974, pag. 33).
Se la tecnica è così “assolutamente” relativa, mi chiedo perché continuiamo ad usare ancora l’invenzione sumera della ruota.
Le garanzie formali dello stato di diritto, l’habeas corpus, tutele tipicamente e storicamente borghesi, possono essere assunte in uno stato socialista? Losurdo, per es., ritiene di si; ritiene che, anzi, debbano essere assunte. Come sarebbe possibile ciò se si assolutizza il relativismo?
La divisione sociale del lavoro in un contesto di proprietà privata dei mezzi di produzione è la stessa cosa della divisione delle funzioni produttive in un contesto collettivistico? Il lavoro è astratto in entrambi casi? Marx nega questa identità (Marx, Per la critica dell’economia politica, Newton Compton Editori, Roma, pag. 45). Sarebbe schematico, cioè non dialettico, affermare il contrario.
-Quanto al capitalismo senza capitalisti e Samir Amin.
L’affermazione di Amin viene presa alla lettera e avulsa dal contesto del suo pensiero. Il quadro nel quale si opera questa deformazione, naturalmente, è quello dell’ostilità all’esperienza sovietica e del socialismo reale.
Amin definisce paradossalmente “capitalismo senza capitalisti” una formazione sociale nella quale i mezzi di produzione sono statizzati e la divisione tra lavoro manuale e intellettuale presenta una certa rigidità, tale da non garantire la formazione onnilaterale dell’uomo e, addirittura, da permettere il persistere o il riprodursi di velate differenze di classe (questo problema se lo era posto anche Lukacs, in una intervista del 1969); una formazione nella quale è presente una logica puramente quantitativa dell’aumento della produzione (l'enfasi sull'accumulazione socialista, quando invece i “fiumi della ricchezza” nel comunismo, secondo Marx, sono altra cosa, ma, attenzione, non sono puri valori spirituali ascetici); una formazione nella quale la statizzazione dei mezzi di produzione non è accompagnata da una piena socializzazione della gestione.
Ma la definizione è paradossale, non scientifica. Non mi sembra presente nel pensiero di Amin l’idea che l’URSS e i paesi del socialismo reale fossero paesi capitalistici, come troppo semplicisticamente e maldestramente da qualche parte si afferma (Preve si era sottratto a questo semplicismo e, pur nella sua visione critica, sbagliando, a mio avviso, considerava il socialismo reale una formazione sociale particolare, ma non semplicemente capitalistica).
La tematica è presente in Lenin, nella faccenda del capitalismo di stato. Ma, sia in Lenin che in Amin, queste società nella quale persistono forme capitalistiche, non sono più capitalismo, bensì forme di transizione, che bisogna superare (a pag. 83 del citato Come funziona il capitalismo? Amin parla espressamente di periodo di transizione al socialismo, nel quale è necessaria ancora l'accumulazione, seppure già trasformata).
Mi sembra, comunque, che la critica di Amin alla corsa quantitativa della produzione sovietica e socialista reale,all'accumulazione socialista, difettasse di realismo storico. Senza quella corsa quantitativa l’URSS sarebbe stata spazzata via e la stessa Cina maoista (Amin riporta una citazione di Ciu En Lai nel suo Come funziona il capitalismo?) non avrebbe avuto nemmeno occasione di formulare quella critica.
Quanto all’affermazione che la semplice statizzazione dei mezzi di produzione non è immediatamente socialismo senza la socializzazione della gestione, non è altro che una riformulazione del principio marx-leniniano che non ci si può semplicemente impossessare della macchina statale borghese così com'è per poi volgerla ai propri fini. Ma qui ci troviamo negli elementi della teoria marxista dello stato e del socialismo, credo a tutti noti.
Mi sembra che Amin, senza dover rinnegare alcun principio e posizione precedente, si sia oggi spostato su una posizione più aderente al reale processo storico, alla luce dell’evoluzione della storia mondiale. Se nel 1973 poteva tranquillamente muovere certe critiche e suggerimenti (grazie al fatto che un blocco socialista esisteva comunque e si veniva da una fase di espansione progressiva), la situazione attuale lo mette in condizione di sottolineare altro. In un'intervista del 2009 ( Il socialismo è più che un capitalismo senza capitalisti, reperibile su resistenze.org) Amin sottolinea l'importanza del possesso della tecnologia da parte della Cina e della rottura del monopolio tecnologico occidentale. Altro che critica della tecnica in sé.
Nel suo scritto del 1973 Amin basa le sue analisi (sullo scambio ineguale, in particolare) sull’unitarietà del sistema capitalistico mondiale e sull’integrazione, velata (“occultamento del rapporto capitalistico in forme apparentemente diverse”. V. Come funziona il capitalismo?, pagg. 40 e 41) o esplicita, delle altre forme di produzione precapitalistica (il presupposto dell'analisi è che il valore della merce si formi nello spazio mondiale unitario, comunque e dovunque prodotta). Su questo Visalli ha giustamente chiarito che non intendeva separare le varie forme di produzione. Ne prendo atto. Ma le soluzioni che prospettava Amin erano orientate verso il socialismo, mi pare, non verso la protezione delle forme precapitalistiche. Intanto Amin rilevava che è lo stesso capitale che cerca di mantenere forme di produzione precapitalistiche nel terzo mondo, per evitare la proletarizzazione degli sfruttati (pag. 93) e per conseguire alti profitti (ne analizza i modi specifici nel sistema del cosiddetto scambio ineguale). Poi, facendo propria una frase di Ciu En Lai, asseriva che la contraddizione principale è tra proletariato e borghesia, non tra paesi socialisti avanzati e paesi arretrati. Mantenendo le critiche all'accumulazione socialista, non difendeva comunque le forme precapitalistiche, perfettamente integrate e subordinate al profitto capitalistico. Nè vedeva in esse la prospettiva dei popoli sfruttati. La contraddizione era sempre tra proletariato e borghesia.
Non credo che potesse derivare altra soluzione da uno che sostiene che essere marxisti significa essere comunisti (“Essere marxista implica necessariamente essere comunista”. V. l'intervista citata).
Le stesse considerazioni di Amin sulla storia del “capitalismo” cinese mi sembra confermino quanto dicevo sull’impossibilità di sottrarsi al dominio occidentale senza uno sviluppo “quantitativo” delle forze produttive. La Cina che sviluppava il suo originale capitalismo non è stata lasciata tranquilla. I possessori della tecnica non si sono mantenuti in una posizione di coesistenza. La Cina è stata piegata, messa in ginocchio e umiliata. Come non scorgere questo dato elementare? Se non si capisce questo non si capisce il capitalismo e la sua necessità di riproduzione ed espansione (e la sua capacità di farlo). Non ha nulla di fatalistico prendere atto di queste dinamiche. Che il capitalismo sia il frutto “accidentale” (entro quali limiti sarebbe da vedere) della storia e non di una fatalità, non toglie nulla a quanto detto.
-La polemica con List evidenzierebbe un Marx cosmopolita? Mi sembra un travisamento. La polemica con List non è tra astratto liberoscambismo, che acuirebbe la lotta di classe, e protezionismo che la ritarderebbe. C’è ben altro. Il protezionismo tedesco rappresentato da List non sarebbe altro che la posizione della borghesia tedesca che vuole costruire e sviluppare la sua industria nazionale, non certo la dichiarata protezione degli interessi dei lavoratori tedeschi (di questo tipo di protezionismo hanno saputo qualcosa i lavoratori italiani nell’età postunitaria, avendone pagato i costi). Il libero scambio sarebbe stato confinato nel territorio nazionale, non rimosso. Era interesse dei lavoratori? Forse è meglio riflettere di più sulla posizione di Marx invece di lasciarsi trascinare sulle posizioni sovraniste borghesi (che non sono esattamente quelle nazional popolari), sulle posizioni di certe frazioni della borghesia e della piccola borghesia. Se si perde l’ancoraggio di classe si diviene subalterni. E tralasciamo pure le posizioni di Marx sull’indipendenza polacca e irlandese, a proposito di cosmopolitismo o internazionalismo.
-Dopo Marx cosmopolita si aggiunge un Gramsci ottocentesco venato di colonialismo. Dalla citazione di Gramsci si può arrivare a questa conclusione soltanto partendo dal rifiuto, tipicamente postmodernista, dell'universalità della storia e della dialettica. La matrice è il pensiero della differenza. Ma ciò che ne risulta non è Gramsci.
-Quanto a Losurdo e il potere pubblico.
L'importanza del fattore nazionale nella lotta anticoloniale, l'importanza della contraddizione nazionale, dell'indipendenza nazionale, dello stato, non è astratto nazionalismo. E' lotta dei popoli oppressi. E' anche lotta per il riconoscimento, come quella proletaria, d'altronde. Ma non è un caso che le lotte dei popoli oppressi trovino il loro punto di riferimento nella rivoluzione d'Ottobre, nell'URSS e nel movimento di liberazione dei lavoratori (v. per es. Sun Yat Sen, tra i tanti). Se così non fosse, anticolonialismo e nazionalismo fascista sarebbero la stessa cosa. C’è troppo schematismo e linearità sillogistica in simili concezioni. Non è che l'inclinazione verso il cosiddetto sovranismo aclassista ha bisogno di equivocare anche l'inequivocabile pensiero di Domenico Losurdo?
Ma, a parte ciò, la mia critica di vaghezza all'uso del sintagma “potere pubblico” puntava a rilevare che non si dà ad esso alcuna connotazione sociale. Un potere pubblico capitalistico o socialista? O che altro? Non serve rispondere che anche Losurdo attribuisce importanza allo stato e all'organizzazione statale. Non consisteva in questo la necessità di chiarezza.
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