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carmilla

Le false promesse del “capitalismo di Stato”

di Sandro Moiso

Mark Harrison, Ulrich Herbert, Larry Liu, Otto Nathan, Peter Robinett, La politica economica del nazionalsocialismo, Countdown Studi sulla crisi/2, Asterios, Trieste 2018, pp. 270, euro 30,00

comedonchisciotte controinformazione alternativa auschwitz cancelli 300x225Ciclicamente tornano in scena i dibattiti, sia da sinistra in chiave keynesiana che da destra con richiamo orgoglioso ai fasti statalisti del Ventennio, sull’utilità dell’intervento dello Stato nell’economia, esattamente come è avvenuto nei giorni successivi al crollo del ponte Morandi a Genova. Tale dibattito rimuove sempre la funzione ultima dello Stato, relegandolo al ruolo di agente neutrale della regolazione del sistema economico, ma dimenticando che, in realtà, fin dalla sua prima apparizione ha avuto come scopo ultimo quello di garantire che la ricchezza socialmente prodotta forse drenata quasi esclusivamente verso un solo polo della società: quello dei detentori dei mezzi di produzione, siano questi ultimi sotto forma di capitale costante oppure di capitali finanziari. Siano questi rappresentati da individui, aziende, società per azioni o partiti.

Lo dimenticano anche coloro che si esaltano per i “socialismi nazionali”, dimenticando così che dall’URSS di staliniana memoria a tutti gli altri esperimenti condotti in seguito, dalla Cina al Sud America, tale nazionalizzazione degli apparati produttivi ha svolto la funzione di un’accumulazione capitalistica primigenia giunta in ritardo, ma poi svoltasi spesso, anche se non sempre, in maniera accelerata rispetto a quella originale dell’Occidente. Appare così utile, ai fini di una riflessione più ampia e meno superficiale, la pubblicazione del testo della casa editrice Asterios di Trieste, nella collana Countdown -Studi sulla crisi /2, dedicato alla disanima della politica economica nazionalsocialista.

Countdown, il cui sottotitolo recitava e continua a recitare Studi sulla crisi, è stata fin dalla sua prima comparsa nel 2016, all’epoca per le edizioni Colibrì, una rivista attenta ai motivi della crisi economica che travaglia l’economia mondiale da diversi anni a questa parte, che ha indagato con articoli quasi sempre legati ad una lettura non ‘ufficiale’ e non superficiale della stessa.

Asterios, con il volume qui recensito, insieme ad altri due ha creato a latere una specifica collana di volumi monografici dedicati a case studies di ordine storico-economico. Il primo dedicato allo sviluppo e al declino dell’economia sovietica, il secondo all’economia nazionalsocialista e il terzo, infine, alle dinamiche economiche della Cina.

Cinque sono i saggi che compongono l’attuale volume. Il primo è di Larry Liu ed è intitolato La politica economica della Germania nazista: 1933-1945 e mostra in dettaglio le scelte di politica economica del partito hitleriano a partire dalla sua costituzione. Il quarto, Mobilitazione delle risorse per la Seconda guerra mondiale in U.S.A., Regno Unito, U.R.S.S. e Germania 1938-1945 di Mark Harrison, esamina e mette a confronto tra di loro le dinamiche della mobilitazione delle risorse economiche ed umane nei principali paesi coinvolti nel II conflitto mondiale. Il quinto, L’economia del nazionalsocialismo: difficoltà di interpretazione di Peter Robinett, prende in considerazione alcune delle tesi degli studiosi più accreditati del fenomeno nazionalsocialista, come Tim Mason o Richard Overy, per metterne in evidenza convergenze e contrapposizioni in esse contenute. Chiude il volume un’appendice in cui è riproposto un saggio di Otto Nathan, La finanza di guerra del nazionalsocialismo e il credito, originariamente redatto nel 1944 e teso a dimostrare come tutti gli interventi di politica economica operati dai nazisti in Germania avessero come obiettivo la realizzazione di un complesso militare-industriale in grado di conquistare il cosiddetto Lebensraum, lo spazio vitale necessario al pieno dispiegamento della potenza economica ed industriale tedesca su scala europea.

Ho volutamente tralasciato di citare rispettivamente il secondo saggio, Contro le interpretazioni correnti: le privatizzazioni dei nazionalsocialisti nella Germania degli anni ’30 di Germà Bel (che stranamente non appare tra gli autori citati in copertina), e il terzo, Il lavoro forzato nel Terzo Reich: una panoramica di Ulrich Herbert, poiché, senza voler sminuire il valore degli altri contributi, mi sembrano i più interessanti e stimolanti. Soprattutto se messi a confronto con le trasformazioni economiche, sociali e dell’immaginario politico attuali.

Il saggio di Germà Bel mette infatti a confronto le politiche di privatizzazione di aziende ed imprese, già nazionalizzate durante la Repubblica di Weimar o dai governi ancora precedenti, messe in atto dal Partito Nazionalsocialista tra il 1934 e il 1938 con le privatizzazioni operate nell’ambito della comunità europea tra il 1997 e il 2000.

Tale privatizzazione nazista è stata spesso rimossa dagli studi sulla governance economica hitleriana successivi al secondo conflitto mondiale, mentre era piuttosto rimarcata dagli studi pubblicati all’epoca della sua effettiva esistenza.

Mentre gran parte degli studi successivi sembra aver sottolineato la centralizzazione economica messa in atto dallo stato tedesco tra l’ascesa di Hitler e la sua caduta, il saggio di Bel1 riporta significativamente alla luce il fatto che quasi tutti i settori dell’economia nazionale furono interessati da tali privatizzazioni. Ferrovie, industrie dell’acciaio, miniere, banche, cantieri navali, linee di navigazione, trasporti e servizi locali o correlati al lavoro e anche i servizi sociali furono tutti interessati dalle politiche di privatizzazione.

Le privatizzazioni se da un lato costituirono una fonte importante di entrate per il Tesoro tedesco e contemporaneamente una forma di alleggerimento fiscale per lo stesso, dall’altro furono indirizzate nello specifico a favorire industriali e gruppi finanziari che avevano sostenuto il partito nazionalsocialista già da prima della sua salita al potere. Tra questi Fritz Thyssen che manteneva una posizione di leader nel trust delle Acciaierie Unite e la cui posizione all’interno del trust fu notevolmente rafforzata dalla loro riorganizzazione finanziaria che, immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler, vide la quota di proprietà del governo scendere dal 52% al 25%, quota che, secondo la legislazione tedesca, non era più sufficiente a garantire al governo alcuna priorità sul controllo della società.

Contemporaneamente, però, furono anche favorite specifiche organizzazioni del Partito o ad esso riconducibili come il Die Deutsche Arbeitsfront (Fronte tedesco del lavoro) che non faceva parte della macchina dello Stato, ma era un’organizzazione giuridicamente indipendente del partito, oppure il Nationalsozialistiche Volkswohlfart (NSV – Benessere popolare nazionalsocialista), organizzazione direttamente affiliata al partito. Entrambe operarono nel settore dei servizi per i lavoratori, per i poveri o più genericamente destinati ai cittadini, non in nome dell’interesse di tutti questi ultimi ma in quello del vantaggio economico e politico delle stesse organizzazioni e del partito stesso.

Nello scorrere il testo resta indubitabile l’idea che la socializzazione delle risorse, fatta attraverso lo Stato, non costituisse altro che uno strumento del rafforzamento dell’autorità del Partito all’interno dello Stato e di ridistribuzione della ricchezza sociale a vantaggio dello stesso e dei settori industriali e finanziari che ne avevano sostenuto e favorito l’ascesa ai vertici dell’organizzazione statale.

Lo stesso Hitler affermò, rispondendo ad una domanda riguardante la socializzazione dell’economia: «Perché perdere tempo con queste mezze misure quando ho cose ben più importanti da fare, così come il popolo stesso? Perché mai dovremmo affrontare le difficoltà di socializzare le banche e le fabbriche? Dobbiamo socializzare gli esseri umani».

Socializzare e nazionalizzare le masse attraverso la promessa di un comune interesse tra lavoratori e capitale, tra lo Stato e i cittadini senza apparente distinzioni di classe tra questi: questa la promessa farlocca contenuta nello statalismo e nei socialismi nazionali di ieri e di oggi, che se non viene continuamente smascherata non può avere altro fine che quello di rafforzare gli egoismi nazionali a discapito dell’opposizione di classe e a vantaggio degli interessi dei monopoli finanziari ed industriali. Già costituiti o in formazione che siano.

Una lezione che non serve a smascherare soltanto l’azione dei passati governi, dalla Dc del dopoguerra alle varie forme assunte dal centrosinistra, ma anche quella del governo attuale per il quale gli interessi delle imprese, soprattutto del Nord, e delle banche contano ben più e in maniera decisiva rispetto a quelli dei disoccupati e dei territori che hanno creduto alle promesse sul reddito di cittadinanza e lo stop alle grandi opere.

Utile a stimolare una riflessione sul fatto che nazionalizzazioni e privatizzazioni in realtà costituiscono le due facce di una sola medaglia. Quando serve, si pensi soltanto alle politiche del Ventennio con la creazione dell’IRI destinata a salvare alcune aziende strategiche in crisi mettendole al riparo dell’investimento statale, gli imprenditori sono liberati da costi al momento non più proficui, mentre in altri, si pensi alla privatizzazione della stessa voluta da Romano Prodi, proprio nel periodo 1997-2000 preso in esame dal testo per l’Europa, tali aziende possono essere restituite al capitale privato dopo averle rafforzate e rese nuovamente appetibili per il mercato.2

Ecco allora che il capitalismo di Stato si rivela nient’altro che una sorta di strumento di salvataggio e successiva redistribuzione di capitali ad esclusivo vantaggio delle classi dirigenti. Sia che si tratti dell’Italietta prima fascista e poi prodiana che delle privatizzazioni messe in atto dalla Lady di ferro negli anni Ottanta che, ancora, dell’accentramento statale nazista accompagnato da una contemporanea privatizzazione di ciò che, negli anni della crisi ed esattamente come il regime di Mussolini, la Repubblica di Weimar aveva dovuto salvare attraverso l’intervento dello Stato.

Una lezione rafforzata anche dal saggio di Ulrich Herbert, uno storico specializzato in storia della Germania e del regime nazionalsocialista durante la Seconda Guerra Mondiale, che insegna all’Università di Friburgo. In tale saggio la complessità e la molteplicità degli aspetti del lavoro forzato nell’economia del Reich, soprattutto durante la guerra, viene affrontata con dovizia di dettagli e, nonostante alcune ripetizioni dovute non si sa se alla pedanteria dell’autore o a una mancata revisione dell’editing, con un’attenzione al particolare che manca in molti altri lavori dedicati allo stesso periodo ed argomento.

I milioni di lavoratori che furono sottoposti alla rigida disciplina del lavoro dei campi e delle officine tedesche, sia per impegni di alleanza dei loro governi, per esempio gli Italiani, oppure per lo status di prigionieri o di cittadini di serie B dovuto alla loro condizione di prigionieri di guerra o di deportati dai territori occupati dalla Wermacht, costituirono almeno il 25% della forza lavoro complessiva utilizzata dall’economia nazionalsocialista, soprattutto a partire dal 1939.

Costituendo così un cospicuo risparmio per le imprese e per lo Stato’ effettuato attraverso una diversificazione salariale che andava da una differenza minima per il salario dei lavoratori civili portati in Germania per l’Arbeitseinsatz (programma di lavoro) e comunemente chiamati Fremdarbeiter (impiego di manodopera) al nulla o quasi nulla pagato ai lavoratori provenienti dagli Stalag (campi di prigionia) e dai campi di concentramento e/o sterminio.

Per le stesse SS l’utilizzo della manodopera schiava si dimostrò un vero affare considerato che spesso erano le maggiori aziende a richiedere che i campi fossero costruiti in prossimità delle stesse, e ciò finiva col costituire sicuramente un motivo di ritorno economico per l’organizzazione paramilitare di protezione e salvaguardia del partito.

“Fino ad oggi non è stato possibile trovare una sola grande impresa nel settore della produzione che durante la guerra non abbia utilizzato il lavoro forzato degli stranieri. Ciò riguarda soprattutto i lavoratori civili e i prigionieri di guerra, mentre i detenuti dei campi di concentramento e i lavoratori forzati ebrei furono richiesti principalmente dalle imprese più grandi. La richiesta per l’utilizzo dei lavoratori forzati appartenenti a tutte le categorie partì dalle aziende e se non ne avessero fatto richiesta, non li avrebbero avuti; per cui l’idea che le imprese furono costrette ad utilizzare il lavoro forzato è priva di fondamento e non permette di mettere in evidenza il carattere di cooperazione (tra nazionalsocialisti e imprese) nella gestione del lavoro durante la guerra”.3

Trattandosi di un numero di lavoratori che oscillò tra i 9,5 e i 10 milioni si capisce come ancora oggi la questione delle riparazioni e degli indennizzi costituisca ancora un serio problema per la Germania odierna e per le sue maggiori imprese, come ben dimostra l’autore nella parte finale del suo saggio.

Un sistema basato sulla differenziazione politica, nazionale, razziale e salariale della forza lavoro che ancora oggi sta alla base del dibattito scellerato sui migranti sia a livello italiano che europeo e internazionale. Sia quando questo indossa i panni del peggior armamentario ideologico fascio-salviniano-securitario, sia quando riveste i panni di una pelosa opera di assistenza tesa a trattenere i migranti in Italia, nei suoi campi ed officine, per un lavoro sottopagato nascosto dalle parole della carità cristiana o dalla generica e ambigua ‘accoglienza’ sottesa ai farfugliamenti elettoralistici della sinistra ‘democratica’.


Note
  1. Docente di Economia presso il Departament de Política Econòmica – Universitat de Barcelona, specializzato in economia del settore pubblico, economia e politica delle privatizzazioni, economia politica delle infrastrutture e dei trasporti
  2. Si consulti in proposito l’autentico manifesto delle privatizzazioni italiane contenuto in R. Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995
  3. U. Herbert, Il lavoro forzato nel Terzo Reich: una panoramica in M. Harrison, U. Herbert, L. Liu, O. Nathan, P. Robinett, La politica economica del nazionalsocialismo, Asterios, Trieste 2018, p. 121

Comments

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Mario Galati
Saturday, 17 November 2018 08:40
E' un piacere leggere recensioni nelle quali stato nazista, sovietico e cinese vengono accostati ed equiparati. In fondo non hanno socializzato, nazionalizzato e costruito il capitalismo di stato?. E infatti, l'autore della recensione sostiene con levità questa tesi anche quando nei libri da lui recensiti si rimarca la politica di privatizzazioni del nazismo che, naturalmente, "socializzava le risorse", "gli esseri umani" e "socializzava e nazionalizzava le masse" in vista della conquista del lebensraum tedesco. Esattamente la stessa cosa, nella sostanza, della statalizzazione sovietica, come è autoevidente.
Il ragionamento si fonda su un sillogismo davvero complesso e "marxista": lo stato è lo strumento del dominio e dello sfruttamento di classe capitalistico; i capitalisti statalizzano per curare i loro interessi; da ciò si deduce che qualunque statalizzazione è funzionale al capitalismo ed alla sua accumulazione. Punto. Veramente notevole questo procedimento teorico.
Pare di capire che questo ragionamento è solo il cappello posato dall'autore della recensione a testi che invece trattano dello stato capitalistico nazista. In questo modo il recensore se ne appropria e ne falsifica il senso.
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