
Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciannovesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE IX
l. I sindacati nelle campagne
La questione più importante fra quelle che il futuro riserverà al lavoro sindacale sarà quella dell’attività dei sindacati nelle campagne. Dopo l’ultimo Congresso del partito abbiamo assistito a un lavoro abbastanza vivace ed energico delle diverse organizzazioni sindacali nelle campagne. In virtù di ciò, oggi abbiamo abbastanza elementi per valutare, verificare, se il percorso da noi fatto sia stato quello giusto, ovvero portando i metodi e il lavoro sindacali nelle campagne nella stessa misura in cui li avevamo fino ad allora praticati. Possiam già subito dire che questi metodi e queste forme, come lo slogan gridato a gran voce “tutti i sindacati nelle campagne!” («все профсоюзы в деревню») si sono rivelati sbagliati.1
Con questo incipit si apre un’altra pagina dell’intervento di Tomskij. Consideriamo che, nel 1925, solo un abitante su quattro era cittadino. Gli altri tre vivevano nelle campagne, non appartenevano alla “avanguardia operaia”, molti non erano neppure iscritti al partito. Ecco allora che la questione delle campagne assumeva un’importanza veramente strategica, tale da dover influenzare, nelle intenzioni del segretario, la linea sindacale in maniera veramente rilevante. Per questo, per motivi sostanziali, e non per il gusto di fare pulci, anche in questo caso Tomskij si sente in dovere di muovere obiezioni e sottolineare come, l’approccio adottato dall’ultimo Congresso, fosse sostanzialmente errato. Perché “questi metodi e queste forme” si erano rivelati errati?
Si sono rivelati errati, perché quello che noi ci aspettavamo dal lavoro sindacale nelle campagne, ovvero lo stabilirsi di un legame (смычок) fra il proletariato urbano (городский пролетариат) e i contadini poveri (бедняк) e gli strati intermedi (середняк) nelle campagne, ebbene questo obbiettivo non è stato raggiunto. Ci sono andati “tutti i sindacati nelle campagne”. Si, ma come ci sono andati? Tenendo in una mano il Codice delle leggi del lavoro (Кодекс законов о труде) e, in un’altra, i contratti collettivi, tutte le sue ordinanze, le sue istruzioni, eccetera. Persino nelle condizioni di un’economia contadina, nelle condizioni di una situazione contadina, essi han finito coll’impiegare i metodi, le pratiche, le forme di organizzazione del lavoro tipiche del sindacato urbano.
È stata bruciata una quantità colossale di energia, ma l’effetto è stato insignificante, a volte persino negativo, o controproducente. Dobbiamo reimpostare da capo e correttamente la questione del lavoro sindacale nelle campagne. Questo lavoro, come indicato nelle Tesi, è concepito svolgersi lungo questi canali. Il compito di classe del proletariato, realizzato tramite i sindacati delle campagne, è stabilire un legame, un’alleanza, un’amicizia fra la classe operaia e i contadini più poveri da un lato, e gli strati intermedi dei contadini dall’altro. Questo lavoro deve assumere forme e metodi diversi dagli attuali. 2
Avere il coraggio di tirare due somme e tornare indietro, a volte fino al punto di partenza. È l’unico modo per non svegliarsi troppo tardi, come nel caso dell’URSS gorbacioviana; o, nel caso della RPC, prima o poi, quando mai, se mai qualcuno avrà la forza di mettere in discussione l’attuale dogma di partito secondo il quale per fare il socialismo occorra prima assaporare (e goderne dei frutti per l’elite al potere) tutte le cinquanta sfumature di grigio del capitalismo, dell’imperialismo, del complesso militare-industriale, dell’economia fittizia e a prevalenza finanziaria, speculazione borsistica, dei conti off-shore, della bolla Evergrande e bitcoin inclusi, eccetera... e prima o poi puff, come per magia, sboccerà il socialismo… o, peggio ancora, senza aspettare né il prima, né il poi, se sia questo il “socialismo”.
I bolscevichi non erano di questa pasta, con tutti i difetti che avranno potuto avere, erano coerenti: con loro stessi, col loro ideale, con quanto avevano sinora realizzato e quanto era invece in corso d’opera, col patto di sangue stretto tra di loro, anzitutto, con il debito d’onore contratto sul campo di battaglia coi loro compagni morti per la stessa loro causa, e con quella classe che vedevano crescere giorno dopo giorno: classe per cui sentivano che, anche se “la quantità colossale di energia bruciata era stata colossale” (количество энергии затрачено колоссальное), e il risultato era stato poco più che nullo, il totale non sarebbe mai stato pari a zero!
Senza quell’esperienza, anche negativa, non ci sarebbe mai stata una vera e propria critica della stessa. Si sbaglia, si cade a terra, ci si rialza, si riparte e, possibilmente, si vince.
In questo senso, notiamo come le critiche di Tomskij, anche in quelle classificabili come vere e proprie cazziate, non siano mai distruttive: non si umilia chi sbaglia o, peggio ancora, non si getta via il bambino con l’acqua sporca, come fecero Gorbacëv o tre generazioni di dirigenti cinesi, e a prescindere dai risultati ottenuti, ovvero portando il Paese alla catastrofe il primo, facendolo ascendere al rango di prima potenza mondiale i secondi. In entrambi i casi è innegabile il fatto che, qualora gli interessi siano altri, ovvero qualora per gli stessi “non importa se il gatto sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi il topolino” , , allora non solo valga tutto, ma sia necessario prima sbarazzarsi di tutto il vecchiume antecedente: prima ancora, passare tutto quanto accaduto prima come vecchiume di cui sbarazzarsi.
Non era questo, per niente, il caso dei bolscevichi. Tornando infatti al suo discorso, dopo queste righe Tomskij lasciava la pars destruens e iniziava la pars construens, sempre lungo lo stesso “canale” (русло), partendo sempre dallo stesso campo base, ma provando ad attaccare la vetta da un’altra direzione, aprendo un’altra via e avendo il coraggio di percorrerla:
Il primo compito in questo nostro operare consiste in un lungo, ostinato lavoro di educazione di classe, di innalzamento del livello culturale rivolto allo strato sociale degli operai appena giunti dalle campagne. Ecco il nostro primo canale per diffondere l’influenza operaia nelle campagne. Tramite questa categoria di operai, che ancora non hanno tagliato i ponti con le campagne, incrementando il loro livello culturale otterremo anche il risultato di stabilire un primo legame con le campagne.
A seguire, viene quindi l’Unione sindacale panrussa dei lavoratori della terra e delle foreste (Всероссийский союз работников земли и леса, abbr. Vserabotzemles) che occorre migliorare e rafforzare in maniera significativa. Già ora il lavoro del VseRabotZemLes (abbreviazione dell’Unione sindacale, NdT) assume una valenza estremamente, grandemente significativa, ma al contempo soffre anche di altrettanto gravi carenze. Fra i suoi successi annoveriamo senz’altro il fatto che sia riuscito a diffondersi grandemente fino a raggiungere le campagne più remote. Fra i suoi insuccessi, invece, non possiamo non notare come non sia ancora riuscito ad avere, al suo interno, un ATTIVO (актив), composto da autentici proletari agricoli. Ecco in cosa consiste la sua maggiore mancanza. Il vserabotzemles deve approcciarsi al lavoro sindacale partendo dall’obbiettivo primario di creare UN ATTIVO composto da BRACCIANTI (батрак) e PROLETARI AGRICOLI (сельскохозяйственные пролетарии).3
Cosa intende Tomskij con questa critica? Che senso ha un sindacato agricolo che – ironia della sorte! – non ha ancora un “attivo” (“aktiv”) composto da “autentici proletari delle campagne” (настоящиe пролетарии деревни)? Ma cos’è, soprattutto, un AKTIV?
Lascio la parola alla Grande Enciclopedia Sovietica, che alla voce corrispondente recita:
L’attivo è la componente più avanzata, operativa, intraprendente, esperta di qualsiasi organizzazione: partito, komsomol, sindacato, unità produttiva, eccetera. L’attivo rappresenta il pilastro della direzione di tale organizzazione, nonché il maggior bacino da cui attingere i suoi nuovi ingressi. Ruolo fondamentale è rappresentato dalle riunioni dell’attivo, in cui si discutono le questioni di lavoro più importanti e l’esperienza della direzione si arricchiesce con quella delle masse. Partito, Komsomol, sindacato posseggono scuole permanenti di formazione per gli attivi, oppure organizzano corsi brevi, dove gli attivisti ricevono le conoscenze necessarie per ottenere successo nel loro lavoro.4
L’attivo, quindi, raggruppa i migliori militanti, quelli che poi dovranno mobilitare e motivare gli altri, ma non solo: l’attivo o nasce come distillato, concentrato delle forze migliori espresse da TUTTI i membri di partito, da TUTTI i giovani comunisti, da TUTTI i lavoratori, o attivo, aktiv, non è. Qui siamo invece in una situazione DIAMETRALMENTE OPPOSTA: a comporre l’attivo dell’Unione sindacale dei lavoratori delle campagne… sono operai “infiltrati”! Ora è chiaro su dove Tomskij voglia andare a parare. Così, infatti, prosegue:
Se consideriamo l’attuale attivo del vserabotzemles vediamo che, per la maggior parte, è fatto di compagni chiamati dalle città, più qualche operaia inserita tramite cooptazione (кооптированный ovvero “tirata dentro”), ma in ogni caso operai delle industrie, che poco sanno di cosa voglia dire vivere e lavorare da bracciante o da proletario agricolo. Perciò, il compito che ora il vserabotzemles si trova di fronte è far nascere e crescere questo attivo: solo quando ciò sarà accaduto, allora noi potremo dire di aver creato la spina dorsale del vserabotzemles e sarà garantito un normale, corretto sviluppo del sindacato nelle campagne5.
Come, infine, spesso accade nella vita associativa, a questo paradosso se ne associano altri: da un lato, il VseRabotZemLes ha un attivo composto per la maggior parte da operai delle città; dall’altro, “si fa entrare chiunque”, senza nemmeno considerare se il neoiscritto sia un lavoratore salariato, un artigiano, o un piccolo proprietario! Con l’assurdo che buona parte del bracciantato non è ancora entrata, mentre i piccoli proprietari lo sono tutti e assumono posizioni di forza all’interno di una struttura nata per favorire chi, a questo punto, ne è restato escluso! Prosegue Tomskij:
A seguire abbiamo altre malattie, altre mancanze del vserabotzemles, che sono da ricondurre a una crescita troppo rapida di iscritti, entro una fascia sociale troppo ampia e composita all’interno del villaggio. Si fa entrare chiunque, senza neppure considerarne caso per caso l’ammissibilità: è il caso, per esempio dei lavoratori autonomi. Infatti, a entrare nel sindacato non sono solo i proletari agricoli e i braccianti, che anzi sono ancora lontani dal sindacato ma anche, per esempio, quel contadino che per parte dell’anno lavora al trasporto dei tronchi coi suoi cavalli, ed essendo proprietario di due o più cavalli, dal luogo di taglio a quello di raccolta e scarico al fiume: anche lui riesce a iscriversi come lavoratore salariato, grazie a questo intruppamento massivo, senza nessun controllo preliminare. Così, assistiamo sì a un aumento di iscritti, ma grazie e ad appannaggio di elementi non proletari, mentre i veri braccianti rimangono fuori. 6
Tomskij mette il dito in una piaga endemica, diffusa a ogni latitudine. I numeri… si ma quali numeri? Vogliamo interpretarli questi numeri? Perché, ancora negli anni Trenta, la scena era perlopiù questa (e non solo in un kolchoz uzbeco!): uno che legge e il resto che ascolta, probabilmente perché ancora non è in grado di prendere autonomamente quel pezzo di carta e farlo proprio?

Qui si pone una quantità enorme di problemi, a partire da quello più PARADOSSALE: un bracciante semianalfabeta resta fuori dall’organizzazione che dovrebbe rappresentarlo, mentre il contadino mediamente più agiato vi entra, prende contatto diretto con i quadri mandati dalle città e che nulla sanno della realtà locale, li cucina a dovere e continua a migliorare la propria posizione a scapito di chi avrebbe realmente bisogno.
Risultato: quello denunciato da Tomskij. Lo sforzo enorme del sindacato nelle campagne ha prodotto effetti non solo poco o per nulla apprezzabili, ma che rischiano nel medio e lungo periodo di essere controproducenti: mancanza di iniziativa operaia autonoma, insabbiamento di provvedimenti “sgraditi” al direttivo locale, stagnazione. Ora, la domanda sorge spontanea: in una condizione del genere, in un perpetuarsi di situazioni di privilegio e di consolidamento del cosiddetto kulak, il contadino ricco, al posto del pomeščik, il latifondista prerivoluzionario, ma sempre sul gobbo del batrak, del bracciante, PERSINO NEL SINDACATO… come diavolo si creano le precondizioni per una transizione alla collettivizzazione?
Queste parole di Tomskij, rilette oggi, cent’anni più tardi, ci devono far riflettere, alla luce di quanto accadde cinque anni più tardi nel Paese dei Soviet; non solo, ma dovrebbero farci riflettere a quanto accadde nella nostra, di realtà sindacale. Alla creazione di nicchie e di relative RENDITE DI POSIZIONE. E zone di privilegio, inevitabilmente. Fra categorie, fra contratti collettivi, fra gli stessi iscritti e la loro composizione sociale all’interno di una stessa categoria. Fino ad arrivare a oggi, al fatto che in Italia abbiamo una triplice fatta di pensionati, sindacati di base arroccati su poche categorie (a volte sottocategorie...) forti e in aree delimitate e ben precise, il deserto intorno: il tutto, condito da una quantità impressionante di micropartiti se-dicenti comunisti e cespugli vari autodefiniti “di sinistra” intenti ciascuno a coltivare la propria biolca, o anche meno, di orticello.
Continuava Tomskij, nella sua analisi del lavoro da fare nei campi. Se il primo punto da cui partire era modificare la composizione organica del vserabotzemles in favore dei proletari agricoli, il secondo era – in attesa di avere quadri e dirigenti realmente operai agricoli, per cui occorreva il periodo necessario di formazione – non restare con le mani in mano e cominciare da qualcosa. Uno di questi “qualcosa” era la fabbrica dislocata nelle campagne:
La seconda condizione, imprescindibile per il lavoro sindacale nelle campagne, è rafforzare, irrobustire l’opera che già compiamo nelle aziende ivi dislocate. Se guardassimo al ruolo culturale da loro giocato nel nostro Paese, scopriremmo che, laddove si trova una fabbrica, anche la più male in arnese, lì si trova anche il centro delle attività culturali. Così come l’elettricità che serve il villaggio è prodotta dalla fabbrica, dalla sua centrale elettrica, allo stesso modo anche la cultura è da lì che parte e si diffonde. La popolazione agricola locale solitamente ingrossa le fila degli operai non qualificati all’interno di tale fabbrica. Ecco perché è particolarmente importante, in quanto esemplare, il modo in cui questi operai si collocano e lavorano nel nuovo contesto di fabbrica, piuttosto che la loro sempre maggiore formazione di classe, nonché un’impostazione del lavoro di risveglio ed educazione culturale che parta proprio da lì, dalla fabbrica: tutto ciò costituisce lo strumento più importante di influenza del proletariato nelle campagne.7
In questo passo riecheggia lo slogan “Più soviet, più elettricità”… ma non come luogo comune, non come frase fatta da ripetere come un rosario, o come un mantra, come fanno i burocrati di partito, infilando il verbum del Segretario attualmente al potere anche nelle ricette di cucina. È anzi proprio da queste righe che emerge il ruolo della fabbrica come fulcro della rivoluzione, capace di uscire da quelle mura ed entrare nella vita di ognuno come portatrice di un messaggio di liberazione e salvezza. Parliamo di operai semianalfabeti che entrano in una fabbrica e lì trovano il loro riscatto, lì acquistano coscienza delle loro potenzialità, lì iniziano un percorso che li porterà a svilupparle, lì acquistano anche coscienza della loro forza, della loro importanza, della loro collocazione all’interno di un contesto storico realmente rivoluzionario: in altre parole, del fatto che il luogo in cui abitano non è più un impero, da quando un posto da loro lontano (in tutti i sensi! Perché città, perché lontano migliaia di km, perché si parla un’altra lingua, perché… letteralmente un altro mondo!) è successo qualcosa di straordinario! Che gente come loro si è rivoltata contro i padroni, ha preso il potere, e non a nome loro soltanto, ma di tutti quelli come loro! Nelle campagne e nelle città! E hanno fatto una rivoluzione. E ora questi loro compagni, che neanche poco prima sapevano di avere, hanno bisogno di loro, della loro voglia di riscatto, per trasformarla in rinnovato protagonismo sociale e costruire una società, un’economia, una vita con regole completamente diverse da quelle che, fino ad allora, li avevano visti “plebe all’opra china” e nulla più.
Per questo Tomskij condanna senza appello pratiche come la seguente, che rischiano soltanto di compromettere l’intera politica di coinvolgimento dei contadini nel processo rivoluzionario:
Tuttavia, questo lavoro non deve essere condotto, come invece avvenuto finora, copiando pedissequamente e trasferendo nelle campagne i metodi elaborati per le città. È andata così quando, per esempio, un sindacato degli edili ha proibito a un contadino di costruirsi da solo la propria izba, dicendo che non ne aveva diritto perché non era iscritto al sindacato e perché, dal momento che vi erano dei muratori disoccupati, doveva farla fare a loro, anche se non aveva chiamato nessuno e se la stava costruendo da solo. Ecco cosa è successo!
Dobbiamo smettere di adottare nelle campagne le stesse metodologie di lavoro sindacale delle città. Dobbiamo compiere un enorme lavoro sulla psicologia dei nostri sindacalisti, altrimenti meglio impedirgli di far danni nelle campagne. Lo ripeto, è fondamentale che il nostro lavoro nelle campagne segua una linea di integrazione progressiva di elementi fino a oggi estranei alle comunità locali, e per farlo cerchi l’aiuto degli operai di quei luoghi, in particolare gli stagionali, oltre che l’appoggio delle fabbriche e degli stabilimenti dislocati nelle campagne. 8
Anche qui, a volte noi oggi, ventunesimo secolo (almeno… quei quattro gatti rimasti), scriviamo pagine e pagine di dibattito ideologico, sul passato, sul presente, sul possibile. Giusto. Ma a volte dimentichiamo che ogni teoria, ogni piano o progetto, ha una prassi, un’esecuzione, uno che materialmente fa andare le mani e che spesso e volentieri non è quello che ha fatto la pensata. E che spesso e volentieri ha una testa completamente diversa da chi ha fatto la pensata. Se Michelangelo avesse dovuto affidare parte della Sistina all’imbianchino in bicicletta col pennellone sulle spalle della réclame “parete grande, pennello grande” …non si sarebbe preoccupato minimamente PRIMA di formarlo? Da noi, tutto questo o è mancato, o non è stato sufficiente.
Tomskij, un secolo fa, all’atto pratico, lo sottolineava infilando proprio il dito nella piaga e arrivando a constatare che a volte è meglio far poco, iniziare piano ma col piede giusto, piuttosto che, fare i fenomeni e cercare, enfatizzare ciecamente i risultati, a tutti i costi, ovvero nascondendo irresponsabilmente, ipocritamente, la testa sotto terra, col rischio (o la certezza!) di distruggere a mazzate quel poco che si è fatto in anni di lavoro di costruzione di una società e di un modo di produzione autenticamente socialisti. Come la storia ci racconta, inascoltato.






































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