Il pensiero economico dominante scopre la politica fiscale?
di Angelantonio Viscione*
I modelli economici mainstream hanno commesso grandi errori di previsione, soprattutto durante gli anni della crisi, e questo ha spinto alcuni economisti a rivisitarli per avvicinarli maggiormente alla realtà. I cambiamenti proposti restano però vani: il pensiero economico dominante affonda comunque le sue radici in invadenti e controverse teorie neoclassiche
Dinanzi alle evidenze empiriche raccolte durante gli anni della crisi economica, gran parte degli economisti appartenenti a scuole di pensiero mainstream ha dovuto ammettere che le ricette di politica fiscale suggerite dai propri modelli economici si sono rivelate a dir poco inefficaci[1]. Ci riferiamo, in particolare, alle teorie d’ispirazione liberista secondo cui l’intervento dello Stato nell’economia dovrebbe ridursi al minimo e la politica monetaria dovrebbe mirare solo al controllo dell’inflazione[2]. In questo saggio vedremo brevemente quali sono le caratteristiche principali del modello teorico oggi dominante e, a titolo d’esempio, analizzeremo una proposta di sua rivisitazione apparsa sulla prestigiosa Oxford Review of Economic Policy a firma di due economisti mainstream esperti di politica fiscale, Christopher Allsop e David Vines (2015). Il nostro scopo è capire qual è la direzione verso cui si muove il pensiero economico dominante e, allo stesso tempo, cercare di capire se i ripensamenti in seno all’economia mainstream possano essere considerati sufficientemente adeguati ad affrontare le crisi economiche.
1. Il Nuovo Consenso in Macroeconomia
Il paradigma teorico dominante viene spesso definito come “Nuovo Consenso in Macroeconomia” e va a combinare ipotesi di ispirazione neoclassica come l’ottimizzazione temporale, le aspettative razionali e il Real Business Cycle con le ipotesi neokeynesiane di concorrenza monopolistica, di vischiosità dei prezzi e di centralità del ruolo di stabilizzazione della politica monetaria (Goodfriend 2007, p. 59). Una versione estremamente semplificata del modello del Nuovo Consenso in un’economia chiusa prevede un sistema di tre equazioni[3]:
y – y* = f(r)
p = g(y – y*)
r = h(p – pT)
Nella prima equazione y – y* rappresenta l’output gap, ossia la differenza tra l’output effettivo y e l’output potenziale y*. Quest’ultimo indica il livello che raggiunge l’attività economica quando tutti i fattori impiegabili nel sistema produttivo vengono impiegati e, nella visione mainstream, è legato a dinamiche dell’offerta (shock della tecnologia e della produttività ad esempio) e non viene influenzato da variazioni dal lato della domanda (si parla infatti di output potenziale supply-determined). Come mostreremo più avanti, però, il concetto di output potenziale è parecchio controverso. L’equazione spiega che l’output gap (y – y*) è essenzialmente funzione inversa del tasso di interesse reale r. Se ad esempio r si riduce, gli investimenti sono più convenienti ed il risparmio più costoso: la spesa del settore privato in consumi ed investimenti cresce, y cresce e (y – y*) si riduce[4].
La seconda equazione p = g(y – y*) richiama il funzionamento della celebre curva di Phillips, secondo cui esiste una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e il tasso di inflazione. Variazioni del livello dell’attività economica y influenzano il tasso di disoccupazione e, di conseguenza, anche il ritmo di crescita del livello dei prezzi p. Da notare che nell’equazione il tasso di inflazione risulterebbe costante in corrispondenza di un output gap pari a zero, ossia quando il livello dell’attività economica è pari al suo livello potenziale[5].
La terza equazione sintetizza il comportamento delle Banche centrali nel fissare i tassi di interesse. La funzione di risposta del tasso di interesse r = h(p – pT) è simile alla famosa Regola di Taylor (1993), dove r dipende dallo scarto tra il tasso di inflazione effettivo p e il tasso di inflazione obiettivo pT. Se l’inflazione supera il livello-obiettivo, la Banca centrale dovrebbe aumentare il tasso di interesse nominale, influenzando positivamente il tasso di interesse reale e negativamente la spesa privata, in modo tale da raffreddare l’economia. Questo è un punto centrale nello schema teorico del Nuovo Consenso: manipolando i tassi di interesse si influenza il livello di attività economica nel breve periodo e questo, a sua volta, può influenzare il tasso di inflazione (Sawyer 2009, p. 550)[6].
Per concludere questa rapida e semplificata esposizione del modello del Nuovo Consenso volgiamo infine lo sguardo alla politica fiscale. Nella prima equazione non si trova generalmente alcuna menzione esplicita alla politica fiscale e alla sua funzione di stimolo della domanda[7]. Secondo gli economisti mainstream, infatti, la politica fiscale rischia di essere sterilizzata dalle aspettative (razionali) degli agenti economici e di spiazzare la spesa privata[8]. Dal punto di vista teorico, valgono dunque le controverse teorie dell’equivalenza di Barro-Ricardo e dell’effetto spiazzamento (crowding out). Secondo il teorema dell’equivalenza di Barro-Ricardo, infatti, il maggiore debito pubblico con cui si va a finanziare politiche fiscali espansive indurrebbe famiglie e imprese a prevedere un futuro aumento della pressione fiscale per ripianare il debito. Queste previsioni si tradurrebbero in una riduzione dei consumi e in un incremento del risparmio nel presente con effetti negativi per la domanda complessiva e la crescita. Secondo l’effetto spiazzamento, invece, una maggiore spesa pubblica non fa altro che provocare un aumento dei tassi di interesse e quindi “spiazzare” la spesa privata, facendola ridurre talmente tanto da controbilanciare gli effetti positivi della manovra economica[9].
2. La proposta di rivisitazione del Nuovo Consenso
La crisi economica scoppiata nel 2008 ha dimostrato che la sola politica monetaria non è sufficiente a rilanciare un’economia in recessione e che politiche fiscali restrittive sono addirittura controproducenti. Gran parte degli economisti appartenenti a scuole di pensiero mainstream ha dovuto ammettere che, almeno durante periodi di crisi economica, la politica fiscale è efficace e necessaria.
Dal punto di vista teorico, la riscoperta della politica fiscale nel mainstream è giustificata principalmente con l’ammissione dell’esistenza di regimi dove non vige l’ipotesi dell’equivalenza di Barro-Ricardo e che sono individuati, in genere, nelle economie a sovranità monetaria, ossia in quelle economie che possono emettere o stampare moneta e possono quindi evitare una crescita incontrollata del debito pubblico grazie all’intervento della propria Banca centrale (Tcherneva 2013, p. 10). La logica di questi economisti è la seguente: l’espansione del deficit pubblico comporterebbe una maggiore emissione di moneta o di titoli del debito pubblico (money drop o bond drop) che genererebbe un prezioso effetto ricchezza e migliori aspettative nel settore privato. Il miglioramento della situazione patrimoniale degli agenti economici privati permetterebbe poi l’aumento di consumi, investimenti e prestiti. Come fa notare Tcherneva (2013, p. 11), non siamo di fronte ad un riconoscimento pieno del ruolo dello Stato: “qualunque effetto sull’occupazione è il risultato combinato di questo effetto ricchezza corretto per le aspettative”.
Si tratta di tesi legate essenzialmente alla Fiscal Theory of the Price Level di Woodford (1995) e agli studi di Bernanke (1999) sulla deflazione giapponese degli anni Novanta, oltre che a contributi di economisti come Blinder (2004), Krugman (2005) e Allsop e Vines (2005). L’idea condivisa da quest’ala del mainstream è che la politica fiscale abbia un impatto positivo sulla domanda grazie all’effetto ricchezza provocato dalla spesa in deficit e che, infatti, non sarebbe possibile nei regimi definiti ricardiani (dove cioè vale il teorema di Barro-Ricardo) che sono la norma nello schema tradizionale del Nuovo Consenso (Tcherneva 2008, p. 7). Ad ogni modo, però, resta ferma anche tra questi economisti l’idea mainstream di un livello di disoccupazione tenuto conto del quale gli stimoli fiscali vanno comunque rimossi con largo anticipo per evitare la minaccia inflazionistica (Tcherneva 2013, p. 13). Secondo questi economisti, quando durante una crisi il tasso di interesse è pari o prossimo allo zero (e dunque le autorità monetarie non possono ridurlo ulteriormente), la politica fiscale diventa efficace nello stabilizzare l’economia nel breve periodo. Non si tratta quindi di tesi radicalmente al di fuori del pensiero ortodosso, ma rappresentano sicuramente un’apertura a politiche anticicliche che il pensiero economico finora dominante, sintetizzato analiticamente nel sistema delle tre equazioni richiamato poc’anzi, non contempla affatto.
Non manca infatti tra questi economisti chi ha provato anche a riscrivere lo schema tradizionale del Nuovo Consenso. Ci soffermiamo su una proposta realizzata sulla prestigiosa Oxford Review of Economic Policy da Christopher Allsop e David Vines nel 2015. Il modello teorico proposto dai due studiosi ci permette infatti di dare una forma analitica sintetica alle tesi a cui ci stiamo riferendo e, probabilmente, anche a capire dove potrebbero indirizzarsi eventuali prossime evoluzioni del mainstream.
Innanzitutto, bisogna precisare che secondo Allsop e Vines (2015), il modello teorico del Nuovo Consenso ha comunque lavorato bene durante il periodo della Grande Moderazione, ossia prima della crisi scoppiata nel 2008, e che la politica monetaria è diventata inefficace solo quando i tassi di interesse hanno raggiunto il limite zero.
Il modello proposto prevede in particolare cinque equazioni. Le prime tre sono una differente declinazione delle tre equazioni viste in precedenza, mentre le due nuove equazioni rappresentano il vincolo di bilancio pubblico e la funzione di reazione della politica fiscale. Allsop e Vines non forniscono una rappresentazione analitica nel proprio lavoro ma, per motivi espositivi, proviamo a produrre noi stessi una versione semplificata del sistema di equazioni di un’economia chiusa a cui si riferiscono gli autori (Allsop e Vines 2015, pp. 145-6):
y – y* = f(r, b)
p = g(y – y*)
r = h(p – pT, b)
g – t = w(ḡ – t)
b = z(g – t)
(y – y*) rappresenta l’output gap, ossia la differenza tra l’output effettivo e l’output potenziale, ed è funzione del tasso di interesse reale r e, per via dell’effetto ricchezza descritto in precedenza, anche del livello del debito pubblico b. La seconda equazione richiama la curva di Phillips, dove p è il tasso di inflazione e dipende essenzialmente dall’output gap. La terza equazione è una funzione di risposta del tasso di interesse simile alla Regola di Taylor, dove r dipende dallo scarto tra il tasso di inflazione effettivo p e il tasso di inflazione obiettivo pT e, questa volta, anche dal debito pubblico b: quando b cresce, infatti, le autorità monetarie tendono ad aumentare il tasso per tenere costante il livello della domanda. La quarta equazione, ossia la funzione di risposta della politica fiscale, esprime il livello del deficit pubblico g – t (differenza tra spesa pubblica e entrate fiscali) come funzione di decisioni governative, per cui ḡ è una grandezza data[10]. Infine, il livello del debito pubblico b dipende dal livello del deficit (g – t).
La logica del modello in tempi “normali”, ossia in periodi non segnati da crisi economica, è la seguente: una politica fiscale espansiva (o restrittiva) influenza la domanda aggregata e conduce ad un maggiore (o minore) tasso di interesse (secondo la funzione di reazione del tasso di interesse della nota Regola di Taylor). Adottando il comportamento da “Stackelberg leader” indicato da Bean (1998), il modello prevede che il Tesoro interiorizzi questa prevedibile funzione di reazione delle autorità monetarie e rinunci dunque a qualunque tentazione (ad esempio pre-elettorale) di politica fiscale espansiva oltre il pieno impiego che possa provocare un boom inflazionistico. In termini analitici: quando vi è pieno impiego, g – t non aumenta (e dunque neanche b) perché la crescita di y oltre il suo livello potenziale provocherebbe solo inflazione e la prevedibile reazione delle autorità monetarie. In tempi “normali” operano essenzialmente le prime tre equazioni, arrivando a conclusioni di politica economica del tutto simili al modello standard del Nuovo Consenso. Il processo dinamico di interazione tra autorità fiscali e monetarie segue infatti questa logica: una politica fiscale che incrementa il deficit pubblico condurrebbe ad un incremento anche nel debito pubblico futuro. Un incremento del debito pubblico farebbe crescere la ricchezza detenuta dal settore privato stimolando la domanda. Allo stesso tempo, però, un debito pubblico più alto spingerebbe le autorità monetarie ad aumentare il tasso di interesse al fine di mantenere la domanda costante.
Ad eccezione delle tesi sul debito pubblico dettate dall’equivalenza di Barro-Ricardo, quindi, le teorie cardine del Nuovo Consenso non vengono rigettate e la politica monetaria conserva il suo potere di determinare il livello della domanda nel breve periodo[11].
Le cose cambiano in periodi di crisi economica. Questo modello a cinque equazioni viene utilizzato infatti nel tentativo di fare quello in cui il tradizionale modello del Nuovo Consenso ha fallito: affrontare una crisi come quella scoppiata nel 2008. Poiché durante la Grande Crisi i tassi di interesse toccano il limite zero (zero lower bound) e l’inflazione è per lo più bassa e stabile, la funzione di reazione del tasso di interesse e la curva di Phillips non operano concretamente e vengono messe da parte (Allsop e Vines 2015, pp. 153-154).
Una volta raggiunto lo zero lower bound, quando la politica monetaria perde gran parte della propria efficacia, lo Stato deve aumentare il deficit pubblico (g – t). Il debito pubblico b, che è funzione di (g – t), è destinato quindi ad aumentare. In questo modo si innesta l’effetto ricchezza che induce gli agenti economici ad aumentare la domanda e a ridurre l’output gap y – y* (che è infatti funzione inversa di b). È secondo queste dinamiche che il modello di Allsop e Vines contempla l’intervento pubblico nell’economia durante le crisi economiche.
3. Alcuni aspetti controversi del nuovo modello mainstream
Con riferimento in particolare alla politica fiscale, in quest’ultima sezione ci chiediamo cosa cambia nella sostanza tra le due versioni del Nuovo Consenso e se la “nuova” versione sia davvero adeguata ad affrontare la crisi economica.
La rappresentazione analitica proposta in precedenza aiuta a risaltare meglio le differenze tra la versione tradizionale del Nuovo Consenso e il modello di Allsop e Vines. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nel nuovo modello vengono introdotte due nuove equazioni (vincolo di bilancio pubblico e funzione di reazione della politica fiscale) e viene incluso il debito pubblico tra le variabili indipendenti della tradizionale funzione di domanda aggregata e della tradizionale funzione di risposta della politica monetaria. Come anticipato, infatti, il nuovo modello teorico si inserisce in quell’ala del pensiero mainstream che vede un ruolo per la politica fiscale, ma si tratta di un ruolo limitato a scenari di zero lower bound e che si esplica principalmente attraverso il canale dell’effetto ricchezza indotto da asset finanziari come, ad esempio, i titoli del debito pubblico detenuti dal settore privato.
Tcherneva (2013, p. 13) metteva in luce i problemi di questo approccio già prima della proposta di Allsop e Vines guardando proprio alle evidenze empiriche degli ultimi anni: l’esplosione delle riserve bancarie tra il 2008 e 2009 non si è tradotta in prestiti a imprese e famiglie e il tanto decantato money drop non ha incrementato consumi e investimenti ai livelli desiderati. È evidente che l’effetto ricchezza indotto dagli asset finanziari posseduti non costituisce né l’unico né il principale canale con cui la politica fiscale va a stimolare la domanda aggregata nella realtà.
Si tratta certamente di un aspetto molto importante, ma proviamo a seguire comunque il ragionamento dei due economisti. Allsop e Vines sostengono che il proprio modello sia più efficace di quello tradizionale perché in una situazione di zero lower bound consente politiche fiscali discrezionali che il modello tradizionale, al contrario, non ammette[12]. Secondo il modello dei due economisti, infatti, durante una crisi, quando l’inflazione è bassa, la crescita del debito pubblico dovrebbe essere ignorata finché le componenti private della domanda aggregata non conoscono una ripresa: solo allora si correrebbe il rischio di surriscaldare l’economia e far crescere eccessivamente i prezzi, riattivando la curva di Phillips e la funzione di reazione delle autorità monetarie[13]. Allsop e Vines (2015, p. 163) scrivono infatti che solo “quando la politica fiscale, insieme alla ripresa nella spesa del settore privato, provoca un incremento della domanda sufficiente a indurre pressioni inflazionistiche” è necessario mettere in atto politiche d’austerità.
Che questo nuovo modello teorico sia davvero in grado di affrontare una crisi economica come quella scoppiata nel 2008 è però quanto meno discutibile[14]. Al contrario dello schema tradizionale del Nuovo Consenso, il nuovo modello mainstream apre finalmente alla possibilità di adottare politiche fiscali discrezionali, ma prevede anche che queste politiche di stimolo alla domanda vadano interrotte prima di raggiungere l’output potenziale per evitare pressioni inflazionistiche.
Il concetto di output potenziale a cui fa riferimento l’economia mainstream non è però una verità assoluta o una grandezza oggettiva. Esso non coincide ad esempio con l’idea di produzione di equilibrio di pieno impiego di Keynes, ma si tratta invece del livello di output in cui si trova l’economia quando salari e prezzi sono perfettamente flessibili e, nel breve periodo, corrisponde al livello di disoccupazione raggiunto il quale l’inflazione non accelera (Tcherneva 2008, p. 4). Nella logica mainstream, infatti, il livello dell’occupazione si determina nel mercato del lavoro grazie all’interazione tra le richieste di imprese (domanda) e lavoratori (offerta). Se viene lasciato libero, ad esempio senza interventi normativi che irrigidiscono i rapporti di lavoro e i salari, il mercato del lavoro raggiunge il suo tasso di occupazione naturale[15]. È da questo livello di occupazione che, in combinazione con gli altri fattori produttivi pienamente impiegati, si raggiunge il livello di output potenziale.
Dal punto di vista empirico, la stima di queste grandezze è oggetto di numerose controversie (Gordon 1997; Richardson et al. 2000; Ball 2009). Dal punto di visto teorico è l’intera logica a non reggere secondo gli insegnamenti di Keynes e secondo gli economisti post-keynesiani, per i quali il livello dell’occupazione si determina nel mercato dei beni e non in quello del lavoro (Keynes 1936, capp. XIX-XX). In altre parole, il livello dell’occupazione dipende dalla domanda aggregata e non esiste alcuna tendenza gravitazionale verso un equilibrio determinato dal lato dell’offerta. In uno schema teorico simile, di conseguenza, “la disoccupazione involontaria esiste ed è provocata da un’insufficiente domanda effettiva, non da imperfezioni nel mercato del lavoro” (King 2013, p. 486)[16]. L’ipotesi di produzione naturale supply-determined viene dunque rifiutata. L’inflazione da domanda esiste, ma si tratta di un concetto slegato da qualunque nozione di tasso naturale di disoccupazione (Robinson 1979, p. xix)[17].
Se non esiste un livello naturale della produzione e dell’occupazione, i limiti imposti alla politica fiscale per prevenire la minaccia inflazionistica che Allsop e Vines incorporano nel modello proposto sulla Oxford Review of Economic Policy rischiano quindi di far interrompere gli stimoli fiscali prima di portare l’economia realmente fuori dalla crisi.
L’ipotesi teorica di un output potenziale supply-determined non permette al nuovo modello neanche di raccogliere gli stimoli provenienti dalla stessa letteratura empirica mainstream sugli effetti permanenti che gli shock della domanda hanno sull’output (Ball 2014; Martin et al. 2015; Fatás e Summers 2016)[18]. Dal punto di vista teorico, infatti, sia il modello tradizionale del Nuovo Consenso e sia la rivisitazione proposta sulla Oxford Review of Economic Policy condividono il concetto di produzione naturale di ispirazione neoclassica e non possono quindi concepire che nel tempo gli stimoli fiscali finiscano con l’incrementare proprio l’output potenziale.
Secondo la teoria post-keynesiana, al contrario, il livello dell’output potenziale non è indipendente dall’output corrente e quindi neanche dalle componenti della domanda. I post-keynesiani usano infatti la nozione di path-dependency per indicare gli effetti permanenti che gli shock della domanda hanno sull’economia. Come spiegano Arestis e Sawyer (2003, p. 6), lo stock di capitale rappresenta una determinante della capacità produttiva ed il livello della domanda aggregata ha un impatto sulla spesa in investimenti e quindi sullo stock di capitale. Per usare le parole di Setterfield (2002, p. 5), “il tasso di crescita naturale è in definitiva endogeno al tasso di crescita effettivo determinato dalla domanda”. La politica fiscale, di conseguenza, diventa efficace anche nell’incrementare l’output potenziale (Fazzari, 1994-95, p. 233).
La distanza tra la teoria economica mainstream e la teoria economica eterodossa sulla politica fiscale è dunque molto ampia. Tra le teorie degli economisti ortodossi, inoltre, sono state proprio quelle più scettiche verso un ruolo attivo della politica di bilancio a dominare il dibattito economico negli anni precedenti lo scoppio della crisi economica. Come abbiamo visto in precedenza, però, proprio a causa della crisi sono emerse con maggior vigore quelle di economisti mainstream in un certo senso più aperti verso la politica fiscale come Woodford (1995), Blinder (2004) e Krugman (2005) e in larga misura coincidenti con la critica e la rivisitazione modellistica del Nuovo Consenso operate da Allsop e Vines (2015).
Dinanzi alle evidenze che continuano ad emergere dal mondo reale, il pensiero economico dominante non può che ammettere i grandi limiti dei propri modelli economici ma, allo stesso tempo, i diversi tentativi a cui assistiamo negli ultimi anni di perfezionare i modelli mainstream con nuove ipotesi ad hoc sono vani ed illusori. La teoria economica dominante affonda le sue radici più profonde nei modelli di equilibrio economico generale e finisce inevitabilmente per limitare l’intervento pubblico dinanzi a presunti livelli naturali della disoccupazione e della produzione.
Il dibattito economico ha un gran bisogno di andare oltre il pensiero unico dell’economia mainstream e di aprirsi concretamente alle teorie degli economisti critici. Un’apertura che deve cominciare dagli angusti e omologanti meccanismi con cui oggi nelle università si valutano i contributi degli studiosi di economia e che deve proseguire nelle analisi delle istituzioni che guidano la politica economica nel mondo.