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losguardo

Conflitto e potere

L’inquieta persistenza del classico: Machiavelli tra filosofia e politica

di Antonio De Simone

machiavelli.630x360Perché Machiavelli?

Perché quando tutto cambia, quando «solo la continuità consente, per contrasto, di misurare la discontinuità»1, come nelle epoche di crisi schiacciate e oscurate dalle urgenze del presente, i classici registrano una loro straordinaria persistenza? Quale legame sussiste tra i classici, la crisi e il mutamento sociale e politico? Per potersi affermare, ogni classico non può che scompaginare i canoni della vecchia tradizione e decostruire l’ordine del discorso che lo precede. Il classico autentico è colui che «avverte e traduce nella propria scrittura» le contraddizioni del proprio tempo storico: egli è consapevole della «friabilità della propria costruzione», perché sa che essa «poggia su una faglia fragilissima, sempre sul punto di spezzarsi»2. Il classico, e non potrebbe essere altrimenti, «non è fuori dal tempo, al riparo dal vento della distruzione», egli sa che «la distruzione è più forte di ogni costruzione», poiché «eterna è solo la finitezza che scava dall’interno le nostre opere e i nostri giorni»3.

Come ho già osservato altrove4, ogni esercizio di lettura dei ‘classici’5 non è solo un esercizio di scrittura che ci sospinge a rileggerli ma anche a scrivere su quanto scritto da altri e, quindi, a riflettere (e scrivere) su scritti altrui per tentare di comprendere quanto di inalterato sia rimasto della loro «attualità» o meno e cercare di capire, nella scansione epocale che ci separa da loro, ciò che della loro luce o della loro ombra possa ancora riflettersi nella condizione umana contemporanea.

Ogni interpretazione di un classico, in questo caso, filosofico-politico, non può pretendere di essere ‘perfetta’ in quanto non è mai in grado di presentarsi come il duplicato dell’autore e del testo interpretati: essa, pertanto, è sempre un’interpretazione selettiva e non ha mai alcuna ambizione ‘olistica’ rivolta a comprenderne la presunta ‘verità’. Ma, allora, date queste premesse, la domanda sorge spontanea: perché leggere i classici? Come è noto, Italo Calvino6 ha risposto a tale quesito sostenendo che «la sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici». Oggi, nel nostro inquieto presente, non solo la domanda torna a riproporsi e spesso viene riformulata, anche brutalmente, nella sua versione contemporanea: «a che servono i classici»? Non si tratta soltanto di un mutamento stilistico di forma ma anche di sostanza. La riformulazione della domanda coinvolge l’ambigua nozione di «attualità» che ricade sui classici qualora fossero proiettati, nel loro ‘valore d’uso’ descrittivo o normativo, sulle esigenze e le contraddizioni del presente. Detto, altrimenti, in che modo, ci si chiede, i classici possono ancora riguardare i problemi o le risposte ai-problemi-del-presente? Di un presente, che, tra l’altro, non è sempre e comunque il frutto lineare e inevitabile del passato. L’alterità e caducità storica dei classici come spiegano la loro eventuale eredità, persistenza e ‘attualità’ nell’era dei new media? Per i contemporanei i classici sono precari o imperituri? E, quanto più ci si allontana dagli antichi e ci si avvicina ai moderni, che significa leggere i classici? Sicuramente i ‘classici’ sono tali perché sporgendosi «oltre le barriere del loro tempo storico», possono contribuire «a chiarire e a illuminare situazioni anche assai distanti nel tempo e nello spazio, le quali, a loro volta, dimostrano la ricchezza e la varietà dei motivi che, come un tesoro, ogni ‘classico’ racchiude in sé»7.

Ma, se per molti aspetti i ‘classici’ sono ancora «i nostri compagni di studio e di lavoro» che possono aiutarci a comprendere cosa significa ‘orientarsi nel pensiero’, allora perché Machiavelli? Perché, oltre ogni ‘mito’ machiavelliano8, è impossibile occuparsi di storia della filosofia politica moderna senza riferirsi a Machiavelli e alla sua teoria politica. Nei suoi sviluppi problematici, tale filosofia non solo ha mostrato nel tempo una certa ‘diffidenza’ nei confronti del «carattere perturbante» e della «qualità costitutivamente antinomica»9 del pensiero machiavelliano, ma non ha saputo altresì misurarsi adeguatamente con la «sfida radicale» che esso paradigmaticamente ha comportato e comporta per la comprensione della natura conflittuale e contingente dell’agire umano10: un agire per il quale la stessa politica, in continuo movimento, si palesa come competizione e conflitto e dove il conflitto stesso è il risvolto politico dell’esistenza umana, anche e soprattutto nei periodi di crisi11. Come si può «essere presenti nel passato»12 riparlando oggi di Machiavelli? Perché, con lo ‘sguardo obliquo’ della sua antropologia politica, con cui osservava gli attori della commedia umana, egli può ancora essere considerato ‘un classico nostro contemporaneo’ che può servirci da orientamento nel nostro agire politico per governare il difficile equilibrio conflittuale che caratterizza gli antitetici condizionamenti della vita reale fatta di passioni, di dissidi, e, come diceva lo stesso Machiavelli, di «mala contentezza»? Può il ‘sorriso di Niccolò’13, speculare espressione di saggezza politica e di saggezza del vivere, aiutarci machiavellianamente a comprendere con originalità e spirito critico anche il nostro presente? Perché Machiavelli, nella sua declinazione e trasmissione nella modernità contemporanea14, in tutta la sua complessità e contraddizione, è ancora ‘attuale’, quando il suo tempo è lontano dal nostro, anche se al nostro appartengono comunque alcuni di quelli che furono anche i suoi problemi?15 Perché, soprattutto nei momenti di maggiore crisi politica e di grandi svolte, si ritorna, nelle «pinacoteche politiche» dei paesi del vecchio Continente16, a scrutare la scrittura della pagina politica, storica e letteraria machiavelliana per poter meglio comprendere la contemporaneità, ritenendo appunto che il conflitto, nella vita e nella storia, non può che finire ineludibilmente col denotare la natura umana, e in modo precipuo quella del politico? Perché, infine, l’ermeneutica del Principe17, cinque secoli dopo la sua pubblicazione, continua ancora ad arricchire le molte pagine della sua Wirkungsgeschichte critica18 in un’epoca, come la nostra, di grandi metamorfosi del potere in cui, come ha scritto Moisés Naím in The End of Power19, il potere è divenuto più facile da conquistare, ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere? Oggi, non solo i «fatti del potere non sono immediatamente evidenti»20, ma la stessa «complessità delle relazioni è, volontariamente o non, dissimulata e coperta, anche a causa della volontà di forma e di rappresentazione identificante che il potere vincente esprime»21: esso «è scarsamente visibile anche perché oggi più che mai si ha displacement, dislocazione dei rapporti, e i fatti del potere vanno cercati in luoghi inusitati non ufficiali»22.

 

Soggetti e dialettiche del conflitto: attraverso Machiavelli

Questi interrogativi, retoricamente strategici e necessari per articolare la trama ricostruttiva svolta in questo saggio, come si vedrà, devono farci riflettere sulla peculiarità che assume la filosofia politica di Machiavelli, «tutta centrata a mettere in scena una forma della politica come composizione sempre mobile e aperta del conflitto, come sfruttamento dell’energia pulsionale e razionale del Principe per mantenere gli uomini all’interno di una artificiale socievolezza»23. Infatti, discutere qui di conflitto a partire da Machiavelli significa innanzitutto che abbiamo ancora bisogno di comprendere meglio come non solo il conflitto non possa prescindere da un ordine, ma la stessa unità della politica sia in un certo senso immanente al conflitto. Non c’è comunità umana in sé pacificata e conciliata di gruppi e di individui che storicamente vivendo insieme, convivendo, possa neutralizzare l’ambivalenza del conflitto: nella scena della città, in condizioni di diversificazione sociale, che permea l’esperienza dell’agire pubblico e politico, la pluralità umana, nello spazio immanente della contingenza e della differenza, dell’evento e della finitezza, genera conflitti. Per il vivente umano, dunque, c’è tensione continua tra politica, unità, ordine e conflitto. Pertanto, la certezza che il conflitto pervada la realtà dell’umano è antropologicamente, politicamente e storicamente evidente. Ciò che occorre dirimere è il rapporto tra la politica come conflitto e la politica come conoscenza di questo conflitto. Se ci installiamo nel discorso filosofico-politico contemporaneo, che «identifica la politica con il ‘conflitto’», allora, come ha osservato Sebastian Torres, la questione la si può anche intendere ritraducendola nel seguente interrogativo: «che cosa implica l’assunzione della politica essenzialmente come conflitto?»24. Tutto ciò ci riporta inevitabilmente a Machiavelli. Come è noto, la riflessione sul conflitto inteso come componente dell’azione politica appartiene di per sé alla tradizione della filosofia politica. Infatti, la nozione di conflitto, come osserva José Luiz Ames, era già presente «in negativo» nell’ideale di omonoia presso i Greci, o in quello di concordia ordinum della tradizione ciceroniana e medievale e anche nella ‘dottrina della costituzione’ mista, «conosciuta fin da Aristotele e ripresa da Polibio in un’opera nota (almeno in parte) a Machiavelli, la quale è elevata alla condizione di soluzione ideale per comporre gli interessi opposti dei differenti segmenti della società in conflitto fra loro»25. Il conflitto politico, dunque, appartiene come tema ‘originario’ ai pensatori che hanno preceduto Machiavelli. Diversamente da essi, però, l’«originalità» di Machiavelli su tale materia di riflessione «si manifesta nella rottura che essa promuove in rapporto a una tradizione, riconducibile alla filosofia greca, secondo la quale la comunità civile si fonda sulla socievolezza umana, sul desiderio del bene e dell’amore per la concordia»26. Machiavelli, come si vedrà, al posto di questo ideale, colloca invece il conflitto, perché «fondato sull’opposizione degli umori, che divide la società in due gruppi antagonistici – i grandi e il popolo – che non possono essere soddisfatti entrambi contemporaneamente»27.

L’analisi del conflitto è complessa. In generale, nel pensare politicamente, ‘dentro’ la politica, il conflitto e per restituirne l’intrinseca complessità e ineffabilità entro la nebulosa aggregazione di differenziazioni rappresentata dalla processualità sociale, che già di per sé, appunto, è conflittuale e che dà forma alle logiche e alle interdipendenze dell’agire e ai differenziali di potere che di-segnano la direzione e la finalità del flusso figurazionale dello stesso, ci si trova criticamente posti di fronte al rapporto che si stabilisce tra politica e filosofia politica, un legame strettissimo e sempre complicato, nel quale alla politica, a titolo d’esempio, si può attribuire quella possibile dislocazione che la vede e la pensa come un’esperienza molto differenziata, come supplemento ‘costruito’, ‘artificiale’ alle reti di vita sociale: «un supplemento di identità comune, di senso, di rappresentazione», che coincide «con le modalità con cui una popolazione si rappresenta in quanto ‘popolo’, in quanto gruppo unitario, contrassegnato da una comunità di destino» e che pertanto non è solo «una questione di procedure e di regole, ma soprattutto il risultato di come viene pensato il popolo»28. Mentre alla filosofia politica non soltanto è attribuito il compito di problematizzare il senso comune, ma anche quello di essere non solo un sapere, ma soprattutto «un pensiero che dubita ed erode l’immagine dominante, un pensiero che solleva problemi», un pensiero che non può che «urtare contro la realtà» e che provoca dall’esterno tutto ciò che disturba, per provocare la «problematizzazione»: una filosofia, dunque, «che non è antagonista della politica, ma è, di per sé, politica»29. Una politica, quindi, che consustanzialmente implica il conflitto e una filosofia che diventa ‘politica’ quando accoglie le difficoltà, le aporie o il disagio della stessa politica nella scena comune dell’esistenza dell’umano e della convivenza sociale, allo scopo di produrre il necessario smascheramento delle situazioni che, nel perpetuare il conflitto, appartengono comunque all’agire umano e dunque al potere, ovvero al soggetto e alla sovranità. Quella tra filosofia e politica è una relazione che della contraddizione ‘ossimorica’ che pervade la realtà umana assume tutta la valenza dialettica capace di configurarne criticamente le possibili cartografie e posizioni teoriche e pratiche, che sappiano tradurre il ‘fatto’, la ‘materia’ e la ‘forma’ del conflitto come espressione della contingenza dell’umano nella continua ricerca di un possibile ordine.

Tutto ciò ci consente oggi di ri-presentare anche Machiavelli, senza demonizzarlo e senza banalizzarlo, oltre il semplice ‘ritorno ai testi’, ma sempre e comunque entro le relazioni tra le categorie della politica e della filosofia politica. Il pensiero di Machiavelli, come ha osservato Beatrice Magni, è solcato in ogni momento «da un senso fortissimo di contraddizione, da una continua spinta alla difesa e all’attacco, che non si pone come dato esteriore o marginale dell’opera, ma ne costituisce la struttura profonda»30. Tra necessità e contingenza, l’enigma-Machiavelli spinge gli interpreti contemporanei a considerarlo «un pensatore di parte», nel senso che egli «prende partito e rivendica un punto di vista di partito», ovvero egli «conosce e riconosce lo spazio politico come diviso in campi antagonistici, che possono essere contenuti per più o meno tempo entro certi limiti, le cui forze posso essere equilibrate, ma mai ridotte all’unità di una pace civile, perpetua, razionale o naturale»: l’ordine politico, per Machiavelli, «non può essere che imposto da una parte sull’altra, e sempre per un tempo circoscritto»31. Nella ‘particolarità’ di Machiavelli, secondo Magni, è possibile individuare due dimensioni rilevanti che contraddistinguono la sua riflessione.

(1) - Una dimensione descrittiva che, appunto, descrive, con il ricorso all’uso evidente di metafore mediche classiche, gli ‘umori’ della città come corpo politico32. Una descrizione che gli consente di «dare forma a categorie suscettibili di permettere la concettualizzazione della dinamica politica di una città che ha confini mobili, instabili, in costante evoluzione». Una descrizione che, «nel passaggio da una città all’altra, o nel passaggio da un’epoca all’altra della storia della medesima città», sappia cogliere tutta la complessità della dialettica tra i ‘grandi’ e il ‘popolo’ (i più)33.

(2) - Una dimensione normativa, connessa con la prima e implicante un’analisi delle «condizioni della libertà della città (o libertà politica)», che, analizzando il rapporto sussistente «tra i più e i grandi», si concentra prevalentemente sull’esame delle molteplici e differenziate «lotte per il potere» che si determinano nel cuore della città. In queste due dimensioni vengono così a rimarcarsi sia la diversa e comunque mutevole intensità della ‘tensione’ tra le due parti (i grandi e i più), sia il ‘dissidio’ grandi/più che denota la presenza dell’ineludibile e irriducibile conflitto esistente, in varie forme, nella città34. Questo in-componibile ‘dissidio’, per Machiavelli, si traduce nell’impossibilità di soddisfare e di conciliare insieme tanto l’umore dei grandi quanto quello dei più, perché «i primi vogliono dominare, i secondi non vogliono essere dominati»35. La complessa e conflittuale relazionalità delle due ‘parti’, comprendente la loro specifica identità, comporta di fatto un’«esclusione reciproca» che riflette specularmente la loro intrinseca differenza. La pluralità morfologica assunta dal conflitto, inoltre, dipende dalle modalità particolari attraverso cui, all’interno dei rapporti di potere, possono essere continuamente modulati i «desideri» delle parti di dominare e di non essere dominate e che sono cointeressate nella dinamica fondativa della città attraverso l’espressione dell’antagonismo politico. Il ‘nodo delle parti’ e il ‘ruolo’ che esse possono svolgere entro la dinamica cittadina costituiscono un punto centrale della riflessione di Machiavelli36, il quale, come è noto, durante la sua personale attività politica, ebbe modo di porsi concretamente «il problema della pacificazione delle fazioni» (come nel caso di Pistoia, che nel 1500 si divise tra Panciatichi, filo medicei, e Cancellieri, popolari)37. Nel Principe, Machiavelli «sottolinea i rischi di un utilizzo strumentale della lotta tra fazioni e chiarisce, inoltre, come queste modalità d’azione non possano che palesare la ‘debolezza del principe’»38. Nelle altre opere, però, l’ottica valutativa cambia, «non tanto perché le parti di Firenze vengano assolte dalla responsabilità della decadenza della repubblica», quanto perché Machiavelli «tende a rileggere il conflitto tra le fazioni contemporanee dalla prospettiva offerta dal modello della repubblica romana, un modello nel quale viene riconosciuto uno spazio potenzialmente positivo anche per le discordie intestine»39. La rilevanza assunta dall’esperienza romana contribuisce a chiarire perché la concezione del conflitto machiavelliana si dislochi in un orizzonte differente da quello che poi caratterizzerà, come è noto, il pensiero politico moderno40.

Analizzando la peculiare dinamica assunta dal conflitto, Machiavelli cerca di porre il problema della «giustificazione del conflitto (politico)» che non si riduca unicamente ai «parametri strettamente socio-economici», ma che includa l’analisi fondamentale del ruolo e del significato ‘politico’ di alcuni «umori» (l’odio, la paura, l’ambizione, l’invidia e la collera)41. Secondo l’interpretazione datane da Magni, l’analisi machiavelliana del conflitto si pone dunque al «centro» di un’indagine sulle «condizioni della libertà». Per Machiavelli, la politica è essenzialmente «una relazione di conflitto»42 e questa relazione «non si iscrive né vincola ogni membro della città in una perpetua guerra civile»:

Innanzitutto perché il conflitto degli umori non si traduce sistematicamente in una forma generalizzata della lotta in armi, ma si manifesta talvolta – anzi, auspicabilmente, sempre - semplicemente in disputa, ma soprattutto perché in questa particolare relazione si giocano le sorti della libertà politica – il suo avvento, il suo mantenimento, il suo declino e la sua scomparsa»43.

Conflitto e libertà, libertà nel conflitto: questi sembrano essere i corni del dilemma che consentono di analizzare il politico e che permettono di pensare nel contempo le relazioni che sussistono tra «la differenza e la condivisione, il conflitto e l’ordine»44. Il ‘cortocircuito’ che si stabilisce tra le due dimensioni sopra richiamate può così essere assunto come paradigma indiziario di una riflessione sulla politica che s’incentra sulla prospettiva problematica del conflitto, il quale, per Machiavelli, come scrive Magni, «non è una scoria pericolosa da eliminare, ma il nucleo irriducibile della politica»45. Dunque, il conflitto «non è un residuo, o un rischio estremo, che la politica debba, o possa, rimuovere, ma esattamente il suo ‘fatto’, la sua ‘materia’, alla quale nessuna ‘forma’, nessun ordine, potrà mai rinunciare, pena l’esaurirsi del politico stesso»46. Se muoviamo da questa ermeneutica machiavelliana, la domanda che si pone in modo ineludibile è la seguente: la filosofia politica in che modo è attrezzata a pensare il conflitto? La posizione strategica di questa domanda rinvia specularmente altresì alle modalità con cui la stessa filosofia politica ri-pensa nelle condizioni della modernità il problema dell’ordine (e delle sue rappresentazioni), della persistenza della teologia politica, dei rapporti tra il potere, il soggetto e la libertà.

Una riflessione filosofico-politica, che ponga il conflitto come uno dei suoi elementi costitutivi che ‘tramano’ i principi e le pratiche della forma politica, non può che attraversare criticamente il pensiero di Machiavelli e il modo con cui questi, nel suo originalissimo ‘gesto’, affronta il tema del conflitto quale «istanza costitutiva e standard normativo del politico»47 peculiare della condizione umana e della sua esperienza, pur sempre ineffabile, instabile e contraddittoria, in ‘urto’ con la realtà quotidiana, in cui la ‘città’ nasce, guarisce, muore, una realtà che riapre o consuma i rapporti con la tradizione, tra passato e presente, che si installa «non nel passaggio dal vecchio al nuovo, ma nella breccia che li separa»48 e che cerca di rispondere alle sfide del tempo e di affrontare il dilemma della libertà, del potere, dell’«umore» del corpo politico, della sua crisi, della sua corruzione, del suo destino e dell’imprevedibilità del suo agire tumultuoso e disputante come corpo politico vivente attanagliato nella dialettica del desiderio di dominio e/o di libertà: una dialettica che pervade tutte le forme che di- segnano il legame conflittuale, senza tregua, rischioso, tra i grandi e i più nel mondo umano della città.

L’esperienza del conflitto individuale e sociale permea di sé il mondo della politica. Attraverso Machiavelli si comprende perché la politica non possa non misurarsi e rapportarsi con la molteplice e differenziata valenza dei conflitti che si dislocano all’interno e all’esterno della morfologia della città come corpo politico animato e vitale, organismo vivente e mortale, un misto composto di diversi umori, soggetto a patologie e crisi, attraversato dalla corruzione e segnato dalla finitudine temporale, dal conflitto49. In particolare, come osserva Marco Geuna, «con conflitti interni alla città, alla res publica, allo stato: conflitti fra parti diverse della città o, con altro linguaggio, fra gruppi politici e sociali differenti; e con conflitti esterni alla città, alla res publica: conflitti tra comunità politiche differenti, conflitti tra stati»50. Nell’esperienza del conflitto la politica impatta con la realtà della guerra, come Machiavelli mostra nel dialogo L’arte della guerra51, l’ultima sua grande opera politica, in cui esplicita è l’asserzione del legame intrinseco fra arte militare e politica. Sia per il teorico politico che per lo storiografo Machiavelli la «questione del conflitto» acquista, dunque, una sua «indiscutibile centralità» che si dispiega lungo le sue opere: dal Principe ai Discorsi52 e alle Istorie fiorentine53. Nella sua peculiare e plurivoca semantica, in particolare, il termine conflitto in Machiavelli, sia nei Discorsi che nelle Istorie fiorentine, assume alcune particolari connotazioni di significato. Geuna estrapola e sintetizza due tipologie principali che ricorrono nella pagina del Segretario fiorentino:

Egli si serve, innanzitutto, dei termini ‘disunioni’ e ‘tumulti’ per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni ‘controversie’, ‘dissensioni’, ‘differenzie’, ‘romori’. Ricorre, invece, alle espressioni ‘civili discordie’, ‘intrinseche inimicizie’, ‘guerre civili’ per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di ‘fazioni’ e di ‘sette’, e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica54.

Nell’uso specifico emirato di questa differenziata terminologia che cerca di dare corpo e immagine all’esperienza dei conflitti, senz’altro Machiavelli non solo «riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare, che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medievale del pensiero politico occidentale», ma altresì si colloca in una posizione altra rispetto al «progetto politico moderno» (da Bodin a Hobbes in poi) tutto incentrato «sul ruolo del potere sovrano e sulla neutralizzazione del conflitto da esso attuata»55.

Le figurazioni individuate e ricostruite dall’interpretazione machiavelliana del conflitto intorno alle ‘divisioni’ e ‘inimicizie’ che delineano «la storia costituzionale delle città e dei corpi politici», come è noto, nell’ambito del racconto storico-politico (in particolare nelle pagine dei Discorsi e nei capitoli delle Istorie fiorentine) emergono in tutta la loro esemplarità nella comparazione topica tra la vicenda di Roma e quella di Firenze. Nel terzo libro delle Istorie fiorentine possiamo leggere infatti che:

Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini, causate da il volere questi comandare e quegli non ubbidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città; perché da questa diversità di umori tutte l’altre cose che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro. Questo tenne disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose piccole alle grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze: avvenga che nell’una e nell’altra città diversi effetti partorissero; perché le inimicizie che furono nel principio di Roma intra il popolo e i nobili, disputando, quelle di Firenze combattendo si difinivano; quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavono; quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al tutto la spensono; quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disagguaglianza grandissima quelle città condussono; quelle di Firenze da una disagguaglianza a una mirabile ugualità l’hanno ridutta. La quale diversità di effetti conviene sia dai diversi fini che hanno questi duoi popoli causata; perché il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava, quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili ne partecipassero, combatteva56.

Per Machiavelli, come osserva Magni, «ogni repubblica conosce una divisione interna che struttura la sua vita politica»; di fatto «il potere nasce e si sviluppa come ‘terzo protagonista’ del conflitto e della lotta che contrappongono i grandi ai più». Il potere è chiamato a regolare il conflitto, ma regolare un conflitto di per sé «non significa apportarvi una soluzione»57. Se il potere si installa «nel movimento del conflitto tra i grandi e i più», ciò non comporta che la città sia ri-conciliata in sé: essa «potrà mantenersi unita solo se saprà mantenere la divisione che la costituisce: in tal senso, la divisione (conflitto) è costitutiva dello spazio politico»58. La dislocazione che viene ad assumere l’articolazione del potere e del conflitto diventa, dunque, decisiva per la città e per il suo «saper assumere la divisione fondamentale che la fonda».

Se la divisione risulta irriducibile, nemmeno i grandi avranno il potere e la forza per sopprimerla: il dilemma politico fondamentale non sarà dunque tanto la realizzazione di una città riconciliata – impossibile per principio –, quanto piuttosto il rapporto con il conflitto, fondamento stesso della città59.

L’irriducibilità del conflitto è il fatto che impedisce ogni assoluta appropriazione del potere. L’ordine muove a partire dalla divisione e lo spazio politico comincia ad essere pensato nella forma della sua disunione: questi sono i dilemmi che di-segnano la morfologia politica della città. La ‘divisione’ machiavelliana è originata dal «desiderio di libertà»: «desiderio dei grandi di comandare e di opprimere, desiderio dei più di non essere né comandati né oppressi»60. Questi due desideri antagonistici pervadono la condizione individuale e collettiva dell’umano vincolo, per il quale nella ‘divisione’ si appalesa il dispositivo del politico e che istruisce la sua ‘arte’. La divisione indica la politica come spazio distintivo del conflitto, perimetra e rappresenta il desiderio-di-libertà, essa dice che «nessuna società è Una, ma sempre travagliata da almeno due desideri conflittuali e asimmetrici: dominare e non essere dominati»61. L’azione politica si traduce, quindi, in «intervento nel presente», cioè nella contingenza. Questa contingenza è «la contingenza del conflitto diviso», laddove la politica diventa «una presa di posizione nei confronti di questa divisione», cioè «un ‘ordine’ che costantemente […] si confronta con ciò che lo eccede»62. Posto il carattere di ‘visibilità’ del potere, il dilemma che si pone, e che risulta difficile da risolvere, è: «come fare affinché il desiderio di non essere dominati non conduca a istituzioni di un nuovo ordine, ma identiche al vecchio»63.

Le ‘divisioni’, le ‘civili discordie’ e le ‘intrinseche inimicizie’, ovvero i tumulti e i conflitti, nelle esperienze politiche (tra di loro differenti e opposte) di Roma e Firenze, rappresentano, per così dire, come scrive Geuna, due «tipi ideali»: nella loro differente specularità, il conflitto assume diverse modalità e ingenera radicali e differenti effetti64. In particolare, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, come rileva Palano, «la celebrazione del modello della repubblica è motivata proprio dalla sua capacità di tramutare i ‘tumulti’ che ciclicamente investono Roma nel suo principale elemento di forza»65. In questo senso, nonostante Machiavelli «tenga ben distinte le lotte della Roma repubblicana da quelle che hanno come teatro Firenze, si dirige contro la convinzione di quanti ritengono che le discordie intestine siano necessariamente destinate a indebolire la comunità politica»66. Diversamente, egli ritiene che i tumulti «intra i nobili e la plebe», ovvero i conflitti tra gli umori della città, tra i grandi e il popolo, non solo non siano da condannare, ma debbano altresì essere «interpretati positivamente, perché la presenza in ogni repubblica di ‘due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi’, si traduce in Roma in un elemento di forza e in una garanzia di libertà»67.

La tesi che, secondo Geuna, il Segretario fiorentino avanza è sia radicale che articolata: «i tumulti hanno sì portato alla creazione di un nuovo ordine, all’istituzione del tribunato della plebe; ma, più in generale, hanno prodotto anche numerose leggi in favore della libertà»68. Dunque, nella storia di Roma, «i tumulti si mantennero produttivi ed ebbero ‘buoni effetti’» perché, appunto, «furono all’origine di leggi ‘in favore della libertà’»69. Vista in controluce, la tesi di Machiavelli «suggerisce indirettamente che i tumulti non possono essere risolti una volta per tutte nemmeno dalla forma perfetta della costituzione mista. I tumulti riemergono sempre di nuovo e sempre di nuovo devono essere gestiti da chi si occupa attivamente di politica nella res publica. Anche la forma costituzionale perfetta non può mettere loro fine»70. Ciò detto, occorre aggiungere però che Machiavelli, «mentre ritrova nel contrasto fra ‘Plebe’ e ‘Nobili’ il fattore in grado di spiegare la grandezza di Roma, non considera però le divisioni interne in termini positivi», perciò egli «non manca di esaminare una pluralità di casi in cui l’insorgere delle parti diventa causa di disordine politico»71. Per interpretare l’equilibrio proprio della repubblica romana, infatti, Machiavelli ritiene che l’elemento fondamentale sia rappresentato dal «quadro costituzionale, che consente che le richieste dei gruppi, e in particolare le proposte della Plebe, si incanalino in un alveo istituzionale»72. Di fatto, il conflitto Plebe/Nobili si può tradurre «in un fattore di forza e stabilità per la repubblica, principalmente perché risulta collocato all’interno di una solida dinamica costituzionale e in un contesto contrassegnato da una marcata coesione attorno alla salvaguardia della patria»73. Diversamente, come nel caso di Firenze, «lo spirito partigiano» emerge quando questi elementi risultano deboli, in questo caso vengono a mancare «gli strumenti istituzionali in grado di consentire che le richieste dei diversi ‘umori’ possano ottenere una soddisfazione»74.

In mancanza di ciò, non possono che scatenarsi le inevitabili vendette tra i gruppi di cittadini, oltre che la stessa «contrapposizione fra le ‘parti’»75. Machiavelli, come è noto, non distingue soltanto il conflitto virtuoso della repubblica romana dalle discordie perniciose fra le parti delle città italiane, ma sottolinea altresì i rischi negativi che provengono dalla lotta tra fazioni: «mentre a Roma i ‘tumulti’ sono inseriti in un quadro legislativo che li rende funzionali al bene pubblico, a Firenze le lotte tra fazioni rimangono soltanto espressione di interessi parziali, e risultano irrimediabilmente nocive per l’intera città»76. Le lacerazioni fra le parti sono così destinate a procrastinarsi nel tempo.

Machiavelli sottolinea la dimensione del conflitto nella vita politica di «ogni città» o di «ogni res publica» perché la ritiene una loro caratteristica costitutiva e intrascendibile: il conflitto incarna, nell’esistenza di ogni corpo politico, i due gruppi (il popolo e i grandi) che perseguono «fini radicalmente diversi»77. Nel corpo politico, dunque, c’è inmodo originario e consustanziale, scissione e differenziazione: queste non sopravvengono dall’esterno. Il conflitto è «intrascendibile» perché, come scrive Geuna, Machiavelli muove dalla «pluralità costitutiva del corpo sociale e politico»: i soggetti della vita politica non sono esclusivamente soggetti individuali, ma soprattutto soggetti collettivi. Una costellazione vivente è agita antropologicamente dagli umori, da cui scaturiscono, in diverse condizioni economico-sociali, le possibilità che i corpi politici siano dei corpi misti delineanti le parti della città.

Fisiologia, patologia e dialettica dei conflitti. La riflessione sulla vicenda romana spinge Machiavelli –nel libro I dei Discorsi – a interrogarsi sulla possibile produttività dei conflitti e a ricercarne una loro fisiologia in modo da valutarne gli effetti che, nel beneficio della pubblica libertà, possano ingenerare leggi, ordini (magistrature e organi di tipo costituzionale). I tumulti «non generano leggi e ordini qualsiasi, ma leggi e ordini in grado di mantenere la libertà» 78. La relazione tumulti/libertà disvela il fatto che, secondo Machiavelli, «la libertà è il risultato delle leggi e degli ordini scaturiti dai tumulti»79. I ‘tumulti’, le ‘inimicizie’, le ‘disunioni’, nel caso della repubblicaromana, contribuirono a creare ea garantire ilmantenimento della libertà, consentendo la creazione di una «forma di ordine»80. Tra i «buoni effetti» sortiti dai tumulti si collocano quei conflitti che, nella ‘disunione’, hanno prodotto una «potente» repubblica politico-militare libera, che sa ampliarsi perché non esclude il popolo dal governo (ma ne riconosce il ruolo politico), accetta i tumulti che derivano dal «confronto fra gli umori della città» e sa governare e trasformare positivamente le disunioni, creando appunto l’ordine romano81. Machiavelli si proietta oltre l’idea ciceroniana di concordia ordinum perché valorizza positivamente, sulla base del modello romano, i «buoni effetti» sortiti dai tumulti, dalle disunioni e dai conflitti, una valutazione che, secondo gli interpreti, lascia intravedere «una presa di posizione filo-popolare e anti-aristocratica»82. A Roma nessun soggetto (individuale o collettivo) è escluso dal conflitto politico «intra i nobili e la plebe»; a Roma non c’è «alcun esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà»83 come a Firenze. Nell’esperienza politica romana, nel «corpo misto della repubblica», «disputando o combattendo» dinamicamente e in continua tensione tra grandi e popolo vi sono «modalità diverse di praticare il conflitto»: «esiste un crinale per il quale il conflitto rimane nella fisiologia della vita politica, si organizza quasi fosse una disputa, e non degenera nell’esperienza della stasis, della guerra civile»84. Ciononostante, Machiavelli è consapevole che le ‘disunioni’ possono degenerare, creando le condizioni tragiche della guerra civile. Di fatto, «la vicenda della degenerazione e della fine della repubblica romana e la travagliata storia della repubblica fiorentina stanno continuamente a ricordarglielo»85. Sono soltanto due, secondo il Segretario fiorentino, le condizioni che non trasformano i conflitti da produttivi in patologici. La prima è tale «se la lotta politica non assume una dimensione personalistica»; la seconda implica di fatto il caso in cui i conflitti non hanno un peculiare carattere privatistico ed economicistico (latore di violenze e di illibertà). Soltanto a queste condizioni sia le ‘disunioni’ che i ‘tumulti’ non si traducono in tragiche «discordie civili», portato inevitabile delle divisioni tra partigiani e fazioni 86.

Muovendosi attraverso le pagine dei Discorsi e delle Istorie sorge la domanda: «è possibile evitare che i conflitti da fisiologici diventino patologici?»87. Secondo Geuna questo interrogativo sottintende la radice antropologica che connota la metamorfosi implicita alla natura e alla dinamica dei conflitti che coinvolgono, erga omnes, nella forma politica e nella storia, sia i grandi che il popolo. Secondo Machiavelli (nei Discorsi), tutte le possibili soluzioni individuate di intervento politico per evitare che i conflitti da produttivi si trasformino in distruttivi indicano, come nel caso di Roma, che l’austerità, la virtù dei singoli, la ricchezza dell’erario pubblico, contro gli scandoli, la religione (romana), possono contribuire a frenare le tendenze personalistiche e dissociative e la creazione di sette e di partigiani, al fine di bloccare «la possibile degenerazione dei tumulti», anche se la possibile trasformazione della natura dei conflitti non sembra possedere un’efficacia di «lungo periodo»88. Virtù civile e virtù militare, conflitti interni e conflitti esterni, politica e guerra, stanno a dimostrare, a partire dal caso romano, un’antinomia che ineludibilmente si crea nel cuore del politico che per espandersi rischia di fatto un destino di autodistruzione. Come scrive Sasso: «La libertà rende possibile la conquista: ma la conquista distrugge la libertà»89.

Come è noto, nel pensiero politico di Machiavelli il tema della libertà è strettamente correlato a quello dei tumulti e della sicurezza90. Nella sua riflessione teorica (dal Principe ai Discorsi e oltre) come nel suo impegno pratico, Machiavelli è stato sempre assillato dal problema politico della libertà. Quest’ultima, per lui, «non è una caratteristica naturale dell’umano, ma è una pratica, un agire specifico che può darsi o meno»91.

Nel lessico politico machiavelliano, non ‘vivere libero’ o ‘vivere civile’ denotano un modo di vivere secondo le leggi nella possibilità di emanarle e modificarle, ma la stessa libertà (nel Principe) indica la «forma politica repubblicana» ed è dichiarata incompatibile con la corruzione, mentre è accostata con la sicurezza92. Le cause prime della libertà sono invece individuate nei tumulti, come si legge nei Discorsi, «intra i nobili e la plebe». Perché i tumulti svolgono una funzione anticorruttiva e costituiscono la fonte della sicurezza? Anche se non in senso assoluto, come rileva Raimondi, i tumulti rappresentano «l’unica garanzia possibile contro la corruzione», perché sono il frutto della relazione tra i differenti umori presenti in ogni repubblica: quello del popolo e quello dei grandi. Il primo desidera non essere né comandato né oppresso, i secondi agognano il contrario, cioè comandare e opprimere il popolo. La genesi della libertà dai tumulti disvela la semantica del dominare (dominus/servus) quale «sintesi di ‘comandare e opprimere’» da parte dei ‘grandi’; mentre il ‘popolo’ - che non volendo essere dominato, agisce politicamente come «guardia della libertà» - vuole ricevere riconoscimento da parte dei ‘grandi’ perché svolge il ruolo fondamentale per la condizione stessa di libertà della repubblica o della città. Come nel caso di Roma, «i tumulti del popolo contro i grandi, hanno la funzione specifica di impedire il dominio dei grandi sul popolo, il suo asservimento, perché solo i tumulti possono costringere i grandi a fare ‘buone leggi’, dalle quali nascono poi la ‘buona educazione’ e i ‘buoni esempi’»93. Nel lessico machiavelliano, i tumulti del popolo si distinguono dalle ‘discordie’ o dalle ‘divisioni’ perché traducono «la volontà di non essere dominati ossia di essere liberi», parimenti queste sono peculiari dei nobili in quanto «sono indice di lotta per il dominio e, dunque, per l’asservimento del popolo»94. In generale, come nel caso della forma repubblicana di Firenze, per Machiavelli, come sintetizza Raimondi, la libertà si identifica con lo ‘stato popolare’ «non perché in essa governi solo il popolo, ma perché solo in una repubblica è possibile per il popolo regolare da sé il rapporto coi grandi provando a rendere impossibile la trasformazione del rapporto gerarchico in rapporto padrone/servo»95. Non solo la corruzione è il contrario di ogni vita libera, ma essere liberi, per Machiavelli, «non coincide col comandare né la libertà è assicurata dal dominio»: il vivere libero è sempre il risultato dinamico di un paradossale «equilibre conflictuel» (E. Terray) che si instaura appunto tra libertà, sicurezza e tumulti. Dunque, essere liberi vuol dire principalmente «lottare per la libertà», dal momento che «l’incapacità di lottare coincide con l’assenza di virtù e questa con la presenza della corruzione»: nella città corrotta comandano non quelli che hanno virtù, ma quelli che hanno ‘più potenza’. Inoltre, «se comandano quelli che hanno ‘più potenza’ (i grandi) c’è la lotta, ma non per questo c’è la virtù: non tutti i conflitti sono uguali, perché alcuni non sono virtuosi affatto»96. Tutto ciò sta a indicare che c’è «un’asimmetria profonda» tra i tumulti (lotte virtuose) del popolo, che traducono la volontà di non essere dominati e di mantenere aperto lo spazio della libertà, spazio in cui si dà «la lotta politica per il ‘bene comune’», e le discordie (lotte viziose) dei grandi, che invece riflettono la loro volontà di dominio e di restringere lo spazio della libertà, «cioè della politica»97. In una «città corrotta», dove le disunioni sociali sono inquinate dalla brama delle ricchezze come esclusivo valore politico, non si vive «politicamente»98. Per Machiavelli, dunque, la condizione del ‘vivere libero e sicuro’ non è data soltanto dal ‘non voler essere dominati’, ma anche «dall’edificare ordini capaci di arginare e contrastare la ‘corruzione’ ovunque essa si annidi: nei grandi come nel popolo»99. La preoccupazione di Machiavelli per la corruzione politica e morale che distrugge la città e la vita pubblica è tutta evidente a fronte della dissolutezza dei costumi, degli abitanti, dei cittadini e della loro «riluttanza a porre il bene comune davanti agli interessi privati o di fazione»100. La corruzione, in quanto tale, «è anche assenza di virtù, un genere di pigrizia, di inettitudine nell’attività politica, o di mancanza di forza fisica o morale nel resistere alla tirannia e fermare gli uomini ambiziosi che tentano di dominare. Mentre in una repubblica libera le leggi governano gli uomini, in una corrotta esse vengono disobbedite»101. In una città «corrottissima», dove le leggi «bene ordinate» non giovano, la corruzione si palesa come una malattia che «penetra nei tessuti più profondi della vita collettiva e deprava i modi e il giudizio del cittadino». Di fatto, in tale situazione, «non vi è fiducia reciproca, poiché i giuramenti e le promesse sono rispettati solo finché sono vantaggiosi o utilizzati per ingannare. Linguaggio e giudizio dei cittadini sulle persone e sulle azioni sono corrotti: gli uomini dannosi sono elogiati mentre gli industriosi e i giusti sono tacciati di follia»102. Secondo Machiavelli, come si evince dalla sua attenta diagnosi della corruzione svolta in larghe sezioni dei Discorsi, la corruzione causata dal governo dei principi «erode la forza fisica e morale dei cittadini: invece di imparare a servire il bene comune, essi imparano a servire gli uomini potenti e si abituano a dipendere dal volere di altri». Dipendenza personale e corruzione sono la causa esplicita di un’autorità assoluta e di ricchezze esagerate.

Il potere assoluto in poco tempo riesce a corrompere anche le città più virtuose, perché l’uomo che ne dispone può avere amici e alleati, cioè cittadini leali alla sua persona e non alla costituzione. La ricchezza eccessiva è fonte di corruzione per una ragione simile. I cittadini facoltosi possono facilmente raggiungere un potere incompatibile con l’uguaglianza civile, dispensando favori privati come prestiti di denaro, pagamento delle doti e protezione dei criminali dai magistrati; in questo modo vanno formando potenti gruppi di sostenitori e amici che si sentono ancor più incoraggiati a ‘corrompere il pubblico e sforzare le leggi’103.

Ora, se volessimo sintetizzare, infine, la complessa morfologia che assume il problema del conflitto come messa in scena della forma del politico in Machiavelli potremmo dire, con Barbuto, che «il pólemos, il ‘conflitto’, era secondo Machiavelli, ciò che denotava qualsiasi realtà umana: dalle relazioni fra gli Stati alla vita civile all’interno degli stessi Stati fino alla costituzione antropologica»104. Per Machiavelli, infatti, la vita civile era profondamente caratterizzata dal contrasto fra gli ‘umori’, cioè tra i ‘grandi’ e il popolo. In particolare, l’esemplarità romana «riguardava appunto il conflitto virtuoso, che aveva contrassegnato i primi secoli della sua repubblica, quando i tumulti fra patrizi e plebei non erano stati soffocati nel sangue e con il prevalere di una fazione (proprio quello che, al contrario, sarebbe accaduto nella Firenze medievale e rinascimentale), ma si erano risolti con formulazioni di leggi per il ‘bene comune’. Un bene comune non più assicurato da egide trascendenti o metafisiche o naturali, ma che doveva appunto nascere dai conflitti ineludibili della storia e della politica»105. Il conflitto civile, dunque, aveva reso «virtuosa» la politica di Roma antica: una politica «‘inclusiva’ anche verso gli stranieri», diversamente dalle politiche ad excludendum che invece avevano praticato Venezia e Sparta (considerate spesso come «repubbliche esemplari»)106. Per Barbuto, quindi, non solo il pensiero politico di Machiavelli non può essere considerato retto «dalla logica escludente di Carl Schmitt, amico-nemico», ma lo stesso Machiavelli non può a sua volta essere considerato un «apologeta del conflitto fine a se stesso», ovvero il «precursore teorico di un movimentismo inconcludente», perché per l’autore del Principe «il conflitto, da non sopprimere ma da tesaurizzare e valorizzare, andava governato e inserito in ‘ordini’, vale a dire in istituzioni, che ne garantissero l’esprimersi in forme corrette a beneficio della res publica»107. Nella prospettiva di Machiavelli, dunque, occorreva «conferire durata istituzionale alla virtus civile», e le tre forze unitarie capaci di evitare che i conflitti esondassero e alluvionassero il vivere civile erano «la legge, interpretata quale esito storico delle contese politiche, che non si traduceva in una norma a favore di una parte contro le altre; la religione, intesa come timor Dei ed etica civile (Machiavelli, politicamente, non era interessato alla religione come fede, come vita interiore, ma in quanto espressione sociale); e le armi. Armi proprie, e qui era la profonda ragione della sua polemica verso quelle mercenarie e ausiliarie, perché le milizie civiche erano la manifestazione delle virtù civili di un popolo e della sua partecipazione ai destini nazionali»108. Nella scena della politica come «azione tragica, ai limiti dell’impossibile», il «conflitto», per Machiavelli, incarna «la stessa natura umana», compresa quella connotata da forze contrastanti del «politico»109. Tutto il repubblicanesimo machiavelliano è «imperniato sulla categoria politica del conflitto»110.

L’analisi del conflitto e la sua funzione in una repubblica, sappiamo, è nota agli interpreti. Di fatto, come osserva Ames, per Machiavelli «in una repubblica il conflitto promuove l’impegno civico e salvaguarda la libertà, nella misura in cui la tensione che contrappone i gruppi in lotta tra loro li colloca anche in una relazione di equilibrio, tale per cui l’uno non riesce a prevalere sull’altro»111. Quindi, il conflitto, «non potendo essere risolto in maniera definitiva, può soltanto essere regolato dalle strutture istituzionali che gli offrono una valvola di sfogo»112. Ancora. In una repubblica «l’esercizio delle cariche e delle funzioni è per principio aperto ai cittadini, cosicché la tensione che si stabilisce tra i grandi e il popolo si indirizza nella direzione di impedire la supremazia di una parte sulla totalità della collettività»113. Di fronte alla distinzione fondamentale «tra gli appetiti» che Machiavelli compie nel Principe (i grandi portatori del desiderio di comandare e il popolo di non essere comandato), e nei Discorsi, dove egli ribadisce che il ruolo del popolo è quello di «guardiano della libertà», per Ames, c’è comunque da chiedersi: «come può il popolo essere un guardiano attivo della libertà repubblicana, se esso non manifesta attivamente un desiderio di dominare, che invece è presumibilmente una disposizione esclusiva dei grandi?»114. Secondo l’interprete, l’analisi sviluppata da Machiavelli mira a dimostrare che «la nobiltà, abbandonata esclusivamente ai propri stratagemmi, risulta incapace di amministrare anche se stessa, e di conseguenza è un pericolo per sé e per il regime»115. L’intenzione del Segretario è così quella di evidenziare il fatto che «il popolo è più consapevole dei suoi limiti di quanto lo siano i nobili, ed è più orientato verso il bene comune della città di quanto lo siano i primi». Dunque, la rivendicazione popolare alla partecipazione al governo non sortirebbe «da un desiderio insaziabile di potere», bensì sarebbe «una forma di vigilanza e di controllo nei confronti dei grandi»116. In estrema sintesi: in una repubblica il conflitto «è la matrice della vitalità della repubblica, poiché coinvolge entrambe le parti nella conservazione della res publica»117.

Cosa accade, però, nel caso di un principato: qui, può valere l’idea secondo la quale «il conflitto non può essere neutralizzato, ma soltanto ‘canalizzato’ dal principe?»118. L’interrogativo solleva un dubbio. Tale dubbio, osserva Ames, «è rafforzato dal fatto che in una simile forma politica, almeno a un primo sguardo, la sicurezza e la stabilità dipendono esclusivamente dalla virtù del principe: il principe controlla i conflitti attraverso l’uso della forza e/o la distribuzione dei favori»119, ovvero, come dice Machiavelli – nel capitolo XV del Principe – mediante «e’ modi e governi di uno principe». Tutto lascia pensare, per Ames, che «non sia possibile effettuare una regolazione del conflitto attraverso la medesima via percorsa da una repubblica, ovvero attraverso il travaso istituzionale (cioè per mezzo dei modi et ordini) dei desideri dei grandi e del popolo»120. Nella sua ermeneutica machiavelliana Ames intende provare non solo se questa ipotesi possa trovare conferma, ma anche se, al contrario, «un principato necessiti di prevedere delle strutture istituzionali di regolazione del conflitto»121. Qui di seguito, in particolare, ricostruisco, glossandola, questa interpretazione perché è congeniale ad una più generale disamina ulteriore del tema del conflitto nel pensiero di Machiavelli.

Muovendosi tra i noti riferimenti testuali del Principe (capp. IX e XIX), dei Discorsi e delle Istorie fiorentine e considerando soprattutto i conflitti interni (variabili nella diversità dei regimi politici e delle circostanze storiche concrete) che contrappongono tra di loro quelle che Machiavelli designa col termine di università nelle loro diverse tipologie – «i nobili tra loro e il popolo tra le sue parti, il popolo e l’esercito (Principe, cap. XIX) e i grandi e il popolo (Principe, cap. IX)» – Ames concentra le sue ricostruzioni ermeneutiche in particolare sulle ultime due tipologie: i conflitti tra i grandi e il popolo e quelli tra l’esercito e il popolo, il tutto allo scopo di spiegare cosa accade nel caso del conflitto sotto un principato civile122. Come è noto, Machiavelli, dopo aver analizzato nel Principe le tre modalità attraverso cui si perviene alla conquista del potere – la virtù (cap. VI), la fortuna (cap. VII) e il crimine (cap. VIII) – nel cap. IX descrive così la genesi del principato civile:

Quando uno privato cittadino, non per sceleratezza o altra intollerabile violenzia, ma con il favore delli altrui sua cittadini diventa principe della sua patria, – il quale si può chiamare principato civile: né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta fortuna, ma più tosto una astuzia fortunata, – dico che si ascende a questo principato o con il favore del populo o con quello de’ grandi. Perché in ogni città si truovono questi dua umori diversi: e nasce, da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi ed e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza (Principe, cap. IX).

Se si considerano le «relazioni di posizione» tra le forze sociali degli umori (storicamente variabili), che come tali appartengono alla «relazione politica» tout-court che si stabilisce tra gli attori, secondo Ames, da questa visuale emerge in tutta evidenza l’asimmetria che regna tra le relazioni di posizione tra i grandi e il popolo: i primi desiderosi di comandare e opprimere, il secondo di non essere comandato e oppresso123. Il problema che si pone all’interprete è allora: come dobbiamo intendere tale asimmetria? Per rispondere a tale quesito si possono predisporre due strategie e alternative teoriche possibili, che Ames sintetizza.

La prima è che il popolo non desideri essere comandato perché i grandi cercano di trarre vantaggio dal loro comando e dalla loro oppressione; la seconda è che il comando dei grandi sia considerato in se stesso come una forma di oppressione da parte del popolo, il quale pertanto non desidera essere comandato in alcun modo124.

Queste due possibili alternative teoriche possono a loro volta essere ulteriormente spiegate e precisate. Se consideriamo la prima alternativa intesa come «l’espressione della volontà popolare implicita nella resistenza al dominio dei grandi, ne consegue che un ordinamento politico è senza dubbio possibile»; tuttavia, se la verità dovesse risiedere nella seconda opzione, «allora il desiderio del popolo semplicemente non è conciliabile con nessuna forma politica»125. Per Ames questa seconda alternativa appare poco ‘congruente’ con lo spirito del capitolo IX del Principe, dal momento che il popolo, pur cercando di resistere al dominio dei grandi, comunque «si sottomette volontariamente a quello del principe». Occorre dunque spiegare da due prospettive differenti perché e come si costituisce il principato civile quale risultante della conseguente dialettica conflittuale tra i desideri antagonistici dei grandi e quelli del popolo.

La prima prospettiva, che Ames richiama, si evince da quanto scrive lo stesso Machiavelli: «vedendo e’ grandi non potere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro e fannolo principe per potere sotto la sua ombra sfogare il loro appetito» (Principe, cap. IX). Il commento è conseguente: «La motivazione per la quale i grandi istituiscono un principe è, in fondo, un sottile stratagemma per legittimare il loro desiderio di potere e di accumulazione, attraverso il quale essi dislocano la resistenza dei loro oppositori di classe nei confronti di un terzo»126. Ciononostante, occorre ribadire che il principe non solo è, ma continua ad essere, «uno di loro», vale a dire «risulta uguale a loro e non è invece un arbitro tra le due parti in conflitto»: tutto ciò comporta, di fatto, la non rinuncia effettiva dei grandi al potere, né tantomeno «una loro sottomissione a un’autorità superiore»127. La seconda prospettiva s’incentra sul fatto che il popolo «vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno e lo fa principe per essere con la sua autorità difeso» (Principe, cap. IX). Anche qui interviene di conseguenza il commento di Ames, per il quale la motivazione del popolo in relazione all’esercizio del potere in questo caso è «negativa», perché «è dettata unicamente dalla volontà di non essere oppresso»: «il fatto di collocarsi sotto la protezione del principe implica una nuova sottomissione, ma questo dettaglio sfugge al popolo»128. Come si può notare, la ragione per cui sia i grandi che il popolo decidono di avere un principe è divergente: i grandi nominano un principe «perché riconoscono di non riuscire a opprimere il popolo soltanto con le proprie forze», mentre il popolo nomina un principe «perché si rende conto di essere incapace, con le sue sole forze, di resistere all’oppressione dei grandi»129. Detto altrimenti, nel primo caso «il principe viene incaricato di nascondere l’oppressione, e in tal modo di garantirla»; nel secondo, egli ha da «difendere e assicurare la resistenza all’oppressione stessa»130. Da queste distinzioni emerge non solo la disuguale funzione esercitata dal principato civile, ma anche il suo variare «in funzione dell’investitura ricevuta dal principe», quest’ultimo, infatti, «non è eletto per neutralizzare il conflitto che lacera lo spazio civile, quanto piuttosto perché la sua azione prolunghi la lotta preesistente, piegandola in un senso o nell’altro, cioè a favore del popolo o dei grandi»131. Dunque, non solo il principato civile può rappresentare due cose distinte, ma può condurre addirittura a «due risultati politici opposti», che così Ames sintetizza: «Il principe civile ottimatizio apre la strada alla possibilità di una distruzione definitiva dell’equilibrio tra gli umori, e conseguentemente all’annichilimento della vita politica, che Machiavelli al capitolo IX del Principe definisce come ‘licenza’; il principe civile popolare (di estrazione popolare o meno) è invece uno strumento per equilibrare gli umori, e quindi apre la strada a quella che nello stesso capitolo Machiavelli definisce ‘libertà’, ovvero a una composizione degli appetiti in conflitto, tale per cui lo spazio comune sul quale poggia lo Stato risulta ampliato»132.

Sappiamo che l’interpretazione del capitolo IX del Principe non solo «non è pacifica», ma, addirittura, come ha osservato Bausi, «c’è disaccordo fra gli studiosi intorno al significato dell’espressione ‘principato civile’», una formula, peraltro, «eloquentemente ossimorica»133. Le pagine di questo capitolo, come a sua volta rileva Barbuto, «sono pagine non del tutto chiare e di facile scioglimento esegetico, soprattutto in relazione al passaggio dal principato civile a quello assoluto». Nella visione duale della società esemplata dall’opposizione ‘popolo/grandi’, il ragionamento politico di Machiavelli potrebbe averlo indotto «a promuovere un principato civile- popolare». In effetti, «corroborato dalla sua lunga esperienza, [egli] osservava giustamente che i grandi, anche se avessero aiutato qualcuno ad ascendere al potere, l’avrebbero sempre considerato un ‘primus inter pares’. Inoltre, il neo-principe non avrebbe avuto vita tranquilla, perché sarebbe stato sempre insidiato dalle manovre di qualche ambizioso ottimate per prendere il suo posto, essendo l’ambizione peculiare a quel ceto civile. Invece, il popolo aveva una sola ambizione, di non essere oppresso, di non subire soprusi. L’onestà politica, dunque, era dalla parte del popolo e non dei grandi»134. Ciononostante, le situazioni ‘asimmetriche’ che spingono le scelte dei grandi e del popolo nel decidere a «eleggere» un «principato civile», che, va ricordato, è per Machiavelli, soltanto «uno» degli esiti possibili del conflitto tra gli ‘appetiti’ specifici dei due umori nei quali ogni città è sempre divisa (grandi e popolo), comportano, come si è detto, singolari aporie, situazioni paradossali e non poche questioni interpretative (ancora aperte) circa la natura «strutturalmente instabile» del principato civile-popolare, soprattutto per il fatto che esso possa e/o debba (non) essere inteso e definito un «principato col consenso del popolo», bensì un «principato elettivo»135.

Il problema che si pone allorquando i grandi o il popolo hanno fatto assurgere al potere il principe è non solo se questi sia in grado di esercitarlo, ma anche con che forze amiche e fedeli egli debba stabilire le necessarie alleanze e il relativo consenso, dal momento che, come osserva Ames, «nessuno conserva il potere senza stabilire delle alleanze», anche se, è bene ribadirlo, «ogni alleanza è uno scambio», in quanto, «in cambio del sostegno che gli prestano i suoi alleati, il principe si trova ‘legato’ ad essi», non da una «semplice obbligazione morale», ma per corrispondere al loro beneficio136. Il carattere ‘drammatico’ dell’agire politico risiede proprio qui: «per il fatto di dipendere dall’appoggio degli alleati, sia per la conquista, sia per la conservazione del potere, nulla potrebbe essere peggio che venire abbandonati da essi»137. Potere e alleanze. Un rapporto ambiguo e ambivalente. Infatti, «da un lato, senza l’appoggio degli alleati il principe non riesce a ottenere il potere, né a conservarlo; dall’altro, però, le esigenze degli alleati rischiano di rendere inefficiente l’esercizio del potere»138. Opportunamente, Ames ‘attualizza’ ai giorni nostri il problema dell’esercizio del potere mediato dalle alleanze:

La conquista e la conservazione del potere esige che si stabiliscano delle alleanze non necessariamente coordinate tra loro sulla base di principi ideologici o programmatici comuni, ma più in generale per il puro desiderio di compartecipazione al potere e ai benefici a esso inerenti. Se chi governa non condivide il proprio potere con queste forze, indebolisce la sua azione di governo; d’altra parte, se si identifica totalmente con esse (con la loro totalità o con una parte soltanto, non fa differenza) finisce per essere ostaggio delle loro richieste139.

Ma, che differenza c’è se, nell’esercizio del potere, il principe contrae alleanze con i grandi, con l’esercito o con il popolo? Inoltre, in che modo il principe può realmente soddisfare in parte quelle forze con le quali, alleandosi, rimane debitore del suo potere? Rispondere a tali interrogativi significa, per Machiavelli, individuare due alternative per il principe che riguardano il rapporto potere/alleanze: «una che segue dal modo di governare in termini di reputazione agli occhi dei suoi sudditi e dei suoi alleati; e un’altra che deriva dalle scelte strategiche in vista delle forze che si confrontano»140. Come è noto, la disamina di queste alternative è affidata da Machiavelli ai capitoli XV e XIX del Principe. In essi si pone il problema di come sia possibile risolvere il conflitto mediante il «modo di governare» che, di fatto, traduce le «qualità» a priori [associate all’«immagine» (buona o cattiva)] e a posteriori (relative ai risultati che producono) che il principe possiede e/o che sembra possedere141. Questo plesso problematico disvela implicitamente la concezione machiavelliana della politica. Scrive Ames:

Machiavelli ci avverte che la politica è il luogo della trasformazione costante dei mezzi in fini e dei fini in mezzi. Mezzo e fine non si distinguono, a rigore, come si distingue uno strumento dello scultore dalla statua; se la politica è un mezzo, il fine al quale essa conduce non è radicalmente diverso dal mezzo stesso, dal momento che anche il fine è politico142.

Tutto ciò sta a significare che, per Machiavelli, non si dà «alcun equivalente di un ideale etico autonomo e distinto dalla politica, che quest’ultima (intesa come mezzo) mira a realizzare»143. Dunque, non è il suo valore morale che definisce una forma politica, ma la sua «capacità di resistere alle avversità della fortuna, di resistere al tempo»144: tale forma può identificarsi con lo Stato perché esso si fa garante del benessere e della sicurezza dei suoi sudditi.

Pur nel gioco complesso di virtù e vizi, in cui si consuma anche l’«essere» del principe, il suo apparire, la sua immagine, i suoi effetti e la sua azione nel tempo, tutti sottoposti al giudizio della storia, comunque, secondo Ames, nella visione machiavelliana, il principe è saggio e potente soltanto se «è in grado di compiere azioni buone e cattive», cioè se è capace di «fare un uso politico utile (ovvero produrre i risultati desiderati) tanto di quelle azioni considerate buone dalla morale corrente, quanto da quelle considerate malvagie»145. Virtù e vizio, crudeltà e clemenza, buona e cattiva immagine di sé, pervadono l’azione politica del principe sempre sottomessa ai capricci della fortuna e alle esigenze mutevoli del tempo: esse, però, «non devono costituire delle limitazioni alla sua libertà di azione», al suo «potere di azione», che invece richiede «flessibilità» in modo da potersi districare indistintamente tra atti di pietà e crudeltà, di fedeltà e infedeltà, di umanità e disumanità, di onestà e falsità, di religiosità ed empietà146.

Se dal modo di governare si passa alle scelte strategiche possibili per la soluzione del conflitto, allora si possono considerare, nella politica delle alleanze (con i grandi, con l’esercito o con il popolo), le due opzioni strategiche tra le posizioni antagonistiche di fronte alle quali si viene a trovare il principe nella propria scelta tra distanza, indipendenza e autorità del proprio agire: «1) o si allea alla forza potente che ha la pretesa di esercitare il domino; 2) o si allea alla forza potente che non ha tale pretesa»147. In tale situazione «paradossale» di alleanza con i grandi e/o con il popolo, certamente una condizione di diseguaglianza, ma anche di garanzia per l’instaurazione e la sopravvivenza di un principato148, la strategia del principe suggerisce che egli, non potendo prescindere dall’aiuto dei grandi, «deve contrapporsi al loro desiderio di potere», e per far ciò egli non può non far ricorso alla forza maggiore che proprio il popolo rappresenta: alleandosi con quest’ultimo, «il principe riesce a controllare i grandi, mentre da solo diventa ostaggio delle loro esigenze»149. Secondo Ames, interprete di Machiavelli, è solo attraverso l’alleanza strategica con il popolo che il principe è capace di mantenere la distanza e l’indipendenza. Mentre, attraverso il modo di governare, «egli ottiene nel contempo di attrarre a sé e/o di neutralizzare i grandi, e di conservare l’appoggio popolare tanto nella buona, quanto nella cattiva sorte»150.

Nelle condizioni di un principato, dunque, secondo Machiavelli, non solo il potenziale distruttivo del conflitto non può essere ignorato dal principe nella conduzione dello Stato, ma anche il gioco delle alleanze e le modalità e gli atti di governo dimostrano di essere la forma politica e la condizione necessaria per produrre consenso, ovvero «un’obbedienza consensuale nei confronti del potere sovrano», dove l’impiego della forza diviene una condizione di «ultima istanza»151. Stando alla lettura del Principe, nei conflitti fra differenti università, comunque il principe, nell’abile gioco di alleanze, deve scegliere una delle parti in lotta, anche se «il legame con una delle forze in gioco non implica l’esclusione assoluta dell’altra, ma al contrario richiede di impiegare modi e governi per neutralizzare l’opposizione della forza contraria»152. Per non fallire, il principe, «se si allea con il popolo, deve attrarre i grandi nel cuore del potere, in modo da evitare che la loro maggiore astuzia comprometta il suo governo»; mentre, «se invece decide di allearsi con i grandi, deve conquistare l’affetto del popolo per non guadagnarsi invece il disprezzo o l’odio di una forza così potente»153. Conflitto e potere, ordine e disordine; tutto implica rischio e contingenza: l’ordine, sempre provvisorio, non elimina il disordine. Il carattere intrinseco della forma politica è il suo autofondamento154.

 

Vita e potere: bestiari politici e figure della sovranità

Quella di Machiavelli – inteso come pensatore universale che muovendo dalla drammaticità della crisi dell’umanesimo del suo tempo (epoca di passaggio epocale) si protende alla nostra contemporaneità – è, come sostiene Massimo Cacciari, una filosofia politica vera anche se dolorosa (come diceva Leopardi), soprattutto perché intende cogliere la verità effettuale, reale, dell’umano155. La sua filosofia «non si basa su assiomi universali e astratti, ma parte dall’osservazione diretta della realtà, dai dati empirici offerti dall’esperienza»156. Per cogliere la natura umana e comprenderla nei suoi più intimi e complessi recessi, secondo Machiavelli, «il principio di adesione alla realtà effettuale dev’essere innanzitutto applicato nei confronti dell’uomo in generale: ènecessarioinfatti che la filosofia politica abbia una visione realistica e disincantata della natura umana»157. Nella sua antropologia politica, Machiavelli disvela (ne Il Principe) come gli uomini sono «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno». Gli uomini sono tali perché cercano la sicurezza e l’ordine. Qui c’è la «contraddizione antropologica», l’uomo-animale che ricerca securitas e nel contempo, invidioso, cupido e volubile ricerca ordine. Nel conflitto e attraverso il conflitto e i tumulti c’è l’intenzione di pro-gredire, pro-cedere, andare oltre, ricercare nuovi ordini. Siamo qui, secondo Cacciari, nel ‘cuore’ della tragicità della visione antropologica, filosofica e politica di Machiavelli. L’uomo è produttore di inquietudine, perché è vicissitudine del mutamento. L’uomo come vicissitudo è protagonista dell’inquieto conflitto. Cattivo, invidioso, simulatore e dissimulatore, cupido di guadagni, l’uomo è capace di «approfittare del male»: fa il male e vi si adatta. Tuttavia, l’uomo ha anche delle virtù, ha idee e fa progetti. L’uomo che governa la cupidigia guidandola ai fini è il politico: colui che realizza idee e progetti. Il politico non immagina il mondo come dovrebbe essere, ma come è per il progetto. Tra gli uomini c’è anche il politico come virtuoso che governa con ogni mezzo. Il fine, concretamente possibile, dovrà per lui creare un nuovo ordine. Il politico, in quanto necessitato, è proprio colui che ordina «di nuovo» e non colui che fa ordine rispetto a ciò che è già stato. Il politico è in re, è sempre reus, commercia con il demoniaco poiché «non c’è politica innocente». A fronte del «male necessitato», nella sua azione il politico non è solo ‘bestia’, ma è anche bestia, animale (centauro, leone e volpe): egli, tra forza, astuzia e virtù, dovrà servirsi della bestia per raggiungere un «fine razionale», attraverso «l’arte politica» e «l’arte della guerra». Leone o volpe, il politico è sempre centauro (mezzo uomo e mezzo bestia) perché possiede il monopolio della violenza.

Come è noto, tra i filosofi del politico, o meglio, tra tutti coloro che si sono appassionatamenteinteressatialla conduzione di un discorso sul potere, e sul potere politico e sulla sovranità politica in particolare, l’abbondanza di figure animali e di visioni zoomorfiche non manca. Esemplare, per l’eco che ancora oggi produce nel campo della filosofia politica contemporanea, è l’ineludibile richiamo al pensiero politico di Machiavelli che compie Jacques Derrida nei suoi ultimi seminari parigini tenuti tra il 2001 e il 2003 all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, i cui protocolli delle lezioni sono confluiti nei due volumi pubblicati postumi tra il 2008 e il 2010 con il titolo La Bestia e il Sovrano, su cui si è sviluppato un considerevole dibattito critico di livello internazionale, che ancora continua a offrire i suoi più interessanti risultati nell’ambito della teoresi e della storiografia filosofico- politica critica158.

Con Machiavelli, Derrida muove dalle pagine famose del Principe dedicate al centauro nel capitolo XVIII (Quomodo fides a principibus sit servanda), incardinate nella figura di Chirone, precettore di Achille159. In questo capitolo, «uno dei più machiavellici e non solo machiavelliani di Machiavelli»160, che affronta il tema della parola che i principi devono mantenere e su come essi debbano essere fedeli ai loro impegni, Derrida sottolinea come la «questione della fedeltà del principe alla parola data o alla fede giurata» sia inseparabile dalla questione del «proprio dell’uomo», questione che rinvia esplicitamente alla relazione tra la forza e la legge. Secondo Machiavelli, «la fedeltà del principe alla parola data è un fatto che tutti giudicano lodevole ma di fatto, pochi principi sono fedeli, pochi principi rispettano gli impegni e la maggior parte usa l’astuzia; agiscono con astuzia praticamente sempre con i loro impegni. Perché, di fatto, sono costretti a farlo» 161. Il non rispetto del giuramento, lo spergiuro che de facto vince e il prevalere dell’astuzia sulla fedeltà evidenziano, nella retorica e nella logica constativa e realista di Machiavelli, che la ragione-del-politico non può che «tenere conto e rendere conto di questo fatto»162. Sul piano fattuale la ragione politica calcola e sa ciò che bisogna sapere di fatto, ovvero che per il principe ci sono «due modi di combattere» (con le leggi o con la forza): «con il diritto, la giustizia, la fedeltà, il rispetto delle leggi, dei contratti degli impegni, degli accordi, delle istituzioni, con la fede giurata, <altre volte> con il tradimento degli impegni, il mancato mantenimento delle promesse, l’uso brutale e semplice della forza (‘la ragione del più forte’)»163.

Si può combattere con le leggi o con la forza. La situazione di guerra e non di gestione pacifica della città di-segnano la scena politica da cui muove Machiavelli. Egli, come osserva Derrida, «non parla dell’esercizio ordinario del potere da parte del principe ma di una situazione di guerra, che gli pareva più rivelatrice, esemplare, più paradigmatica dell’essenza e della vocazione del principe, ossia la risposta o la replica nei confronti del nemico»164. Il fatto che si possa combattere in due modi (con le leggi o con la forza) per Machiavelli comporta in primo luogo – quasi procedendo con «argomento kantiano» nel suo principio – che è «proprio dell’uomo» combattere con le leggi, cioè secondo la fedeltà agli impegni, con sincerità e rispetto delle leggi, senza mentire o dover mentire, ovvero secondo «il proprio dell’uomo»165. Al contrario, quando si mente, si tradisce, di fatto, «non ci si rivolge all’altro come uomo, come altro uomo». Si badi. Qui, secondo Derrida, Machiavelli non parla da un punto di vista etico, bensì politico proprio perché intende misurare «la possibilità del politico, la legge del politico messa alla prova della guerra»166. Diversamente, nel secondo modo di combattere (con la forza) ci si attesta al livello delle bestie. Dunque, non più l’uomo, ma la bestia: «la forza e non la legge, la ragione del più forte, è propria della bestia»167. A fronte di questi due modi di combattere, Machiavelli prende atto che il primo (combattere con la legge) non è sufficiente: occorre dunque ricorrere all’altro, cioè il principe deve combattere «con le due armi, la legge e la forza»: occorre che egli si comporti, a seconda delle circostanze, «sia da uomo sia da bestia»168. Detto altrimenti, quando non basta la legge, allora il principe deve comportarsi «come se fosse una bestia»169. Fermo restando, come precisa Derrida, che Machiavelli «non dice che il principe sia uomo e bestia allo stesso tempo, che abbia una doppia natura sotto l’autorità di un ‘bisogna’»170. Il fatto che il principe non sia nel contempo uomo e bestia, ciononostante egli deve potersi comportare «come se» così fosse. Ciò implica due «portate» del discorso di Machiavelli: la portata pedagogica e la portata retorica. Dalla prima, in particolare, secondo cui «il principe deve comportarsi come se fosse al tempo stesso uomo e bestia», emerge con tutta evidenza, e in forma allegorica, la fabulazione «animalesca» rappresentata dalla figura del centauro Chirone, della figura ibrida del Kentauros. La composizione allegorica di questa figura ci dice che in quanto creature mitologiche i centauri sono spesso rappresentati, nella loro doppia natura (umana e animale), come composti da una doppia articolazione che risulta da «un davanti umano (busto e volto umani) e un posteriore equino, in un ordine orizzontale e non verticale, davanti e dietro e non alto e basso»171. Questa doppiezza (per metà umani e per metà animali), però, non è l’unica ambiguità dei centauri. Essi sono altresì, e al tempo stesso, «da un lato, selvaggi, bestie selvatiche, barbari, terribilmente naturali, e dall’altro lato, eroi civilizzatori, maestri, pedagoghi, iniziatori nei campi più svariati, con mani abili (il nome Chirone deriverebbe da cheir: mano, da cui chirurgia, e i centauri hanno busto e volto umani ma anche braccia e mani da uomo), iniziatori, dunque, nell’arte della caccia e quindi della cinegetica, della musica, della medicina»172. Se i centauri rappresentano «la selvatichezza più asociale», tuttavia essi insegnano. Cosa? Essi insegnano, al pari dell’insegnamento sull’insegnamento degli antichi, che «bisogna essere doppi, bisogna saper essere doppi, saper dividersi o moltiplicarsi: animale e uomo, metà uomo e metà bestia»173. Il centauro machiavelliano rappresenta quindi, come scrive Barbuto, una «mutazione antropologica»: «non può non essere animale e, insieme, ‘escellentissimo uomo’, se vuole ‘effettualmente’ fare azione politica»174. La duplicità etica che evoca l’ibrido che specularmente riflette l’immagine del centauro, spinge Machiavelli, come osserva ancora Derrida, ad allestire allegoricamente un altro «teatro zooantropolitico». Affinché il principe-centauro risulti vincente nel campo dell’azione politica, la sua parte bestiale necessita di un’ulteriore ibridazione con altri due animali: il leone e la volpe. Dunque, «non solo una bestia, ma due in una: il principe come bestia, la bestia che è anche principe – o la metà del principe – la bestia principesca deve essere essa stessa doppia, leone e volpe»175. Nello stesso tempo, il principe come uomo, volpe e leone è un principe «diviso o moltiplicato per tre». L’astuzia della volpe serve per convincere il nemico; ma l’astuzia non basta, occorre la forza, ovvero «un sovrappiù di animalità», che è data dalla forza del leone: il che significa che il leone, più forte, «è anche più bestia della volpe, che è più intelligente, più astuta, ma più debole, e quindi più umana del leone»176. Per Machiavelli c’è dunque una gerarchia uomo-volpe-leone. Essa «va dal più umano, dal più razionale e intelligente al più animale, ossia al più bestiale, se non al più stupido (bête177. La figurazione allegorica ci dice: «proprio perché sa giocare d’astuzia, mentire, spergiurare, perché ha il senso e la cultura della trappola, la volpe è più vicina alla verità dell’uomo e alla sua lealtà che sa che è abile a rovesciare»178. Dunque, la volpe «può essere astuta e infedele, sa tradire, mentre il leone ignora addirittura l’opposizione tra fedeltà e infedeltà, tra veridicità e menzogna: la volpe è più umana del leone»179. La forza della volpe, la potenza sovrana del principe astuto come una volpe. Il principe-volpe. In un gioco prismatico di immagini speculari la volpe significa «l’astuzia dell’astuzia», l’astuzia che sa dissimulare, simulare, mentire, spergiurare, cioè «fingere di essere ciò che non è». L’astuzia della volpe «permette di fare ciò che il leone non può fare, ossia dissimulare il proprio essere volpe e fingere di non essere ciò che è»180. Mentire. La volpe è l’animale che mente. È proprio questa attitudine metamorfica a fingere, questo «potere del simulacro» che il principe deve acquisire per simulare le qualità della volpe e del leone. La sua metamorfosi traduce l’astuzia umana, un’astuzia che finge di non essere un’astuzia, perché deve sapersi presentare come la verità, la veridicità, capace di giurare fedeltà (come condizione di in-fedeltà): potenza della menzogna! Come scrive Derrida:

Il principe deve essere una volpe non solo per essere astuto come la volpe ma per fingere di essere ciò che non è e di non essere ciò che è. Quindi per fingere di non essere volpe, mentre in realtà è una volpe. È a condizione di essere una volpe o diventare una volpe o come una volpe che il principe potrà essere al tempo stesso uomo e bestia, leone e volpe. Solo una volpe può trasformarsi così, può assomigliare a un leone. Un leone non può farlo181.

Adoperando arti volpine, nel gioco di specchi fra essere e parere, simulando e dissimulando con astuzia e frode – come osserva Barbuto – il principe, con abilità politica, deve dunque essere, come dice Machiavelli, «gran simulatore e dissimulatore», perché la politica «non è il regno del bene, in nessun senso, ma è un campo di tensioni fra le quali è ineludibile la compresenza di bene e male»182. Nella prospettiva machiavelliana, la politica è conflitto, un conflitto che però non prescinde da un ordine, dall’unità, «pena la ineffettualità di ogni proposta politica»: la politica è «tensione fra unità, quindi ordine, e conflitto»183. La storia e la politica sono segnate dal conflitto. Anche il principe ne mutua tutte le lacerazioni e contraddizioni: egli stesso, come principe-centauro, nella sua azione politica effettuale «è ferito dalle stesse antinomie della realtà»184. Lucio Villari, scrivendo del Principe di Machiavelli, ha potuto osservare che «la politica non è immobile, ma variabile e mutevole; lo è stata nella storia, lo sarà sempre». Tuttavia, «gli uomini che fanno politica obbediscono nei loro comportamenti alla naturalità del loro essere e quindi alla immutabilità delle passioni, costruttive e distruttive, alle ambizioni al dominio e all’uso della forza per ottenerlo e conservarlo». Dunque, «sono queste le leggi della politica e del potere e sono queste leggi a informare l’azione del principe; tanto più efficace quanto funzionale ai fini da raggiungere»: la naturalità della politica (ovvero, la violenza, l’astuzia animalesca, gli agguati) sono alcuni «tra gli ingredienti utili al raggiungimento dei fini e al mantenimento del potere, qualunque sia stato il modo usato per acquisirlo»; al suo mantenimento, con esito virtuoso, ci deve pensare l’intelligenza politica e la cultura del principe, perché solo la virtù come forza positiva può «sottomettere la negatività e naturalità della violenza»185.

Dopo e oltre Derrida, tra gli interpreti contemporanei, è stato Roberto Esposito, in Pensiero vivente, a considerare il pensiero di Machiavelli come «un pensiero radicale dell’esistenza nella sua inevitabile dimensione contrastiva»186. Il che significa dire che «non esiste zona della vita umana sottratta allanecessità della politica». Senza la politica (senza i suoi strumenti, le sue logiche e i suoi ordinamenti), «né gli individui né gli aggregati collettivi resisterebbero al turbine di accidenti che ininterrottamente li percuotono»187. Tuttavia, secondo Esposito interprete di Machiavelli, la relazione tra vita e politica (e, dunque una possibilità di lettura di Machiavelli in senso biopolitico) non può limitarsi «alla protezione che la seconda fornisce alla prima». Il motivo risiede nella loro complementarità: «la politica è la forma necessaria della vita, la vita è a sua volta la materia esclusiva della politica»188. Tutto ciò pervade sia la costituzione del sapere che la fenomenologia del potere, poiché entrambi non possono non entrare «in un rapporto biunivoco» con il «mondo della vita». C’è dunque un intreccio vitale che spiega il perché nella politica machiavelliana ci sia un plus rispetto alla mera tecnica di conservazione del potere. Come dice Esposito, tra potere e vita «non si dà mai distanza assoluta, scarto radicale»189. Al riguardo, è proprio l’immagine del Centauro e la definizione del principe a metà tra la volpe e il leone che ci restituiscono «in maniera plastica l’insolubilità di questo viluppo»190:

La bestia non è né il grado più basso cui l’essere umano regredisce quando si allontana dalla propria condizione divina, come nell’antropologia umanistica, né il suo stato provvisorio e primitivo, destinato a essere definitivamente superato dall’ordine politico, come in quella moderna191.

Tra umanità e animalità non c’è l’abisso visto da Hobbes, che separa lo stato di natura (i ‘lupi’) da quello civile: «il lupo fa parte dell’uomo, come la natura della civiltà»192. Pertanto, osserva Esposito, per comprendere la «punta acuminata» del pensiero di Machiavelli occorre cogliere «il nesso ontologico tra origine, vita e mutamento». Muovendo da ciò è possibile allora – questa è la tesi di Esposito – intendere nel suo strato più profondo, il tratto «biopolitico» di Machiavelli che ci consente di arrivare a dire che in lui «la vita non può essere ancora oggetto di governo da parte della politica perché la politica è essa stessa già pensata nei termini della vita»193. Ci si può chiedere: perché questa caratterizzazione immediatamente biologica dell’ordine politico? Attraverso l’uso della metafora organicistica declinata sulla metamorfosi del funzionamento degli organi corporei, Esposito risponde che «diversamente dalla letteratura umanistica sul principe, ma anche da quella moderna sullo Stato sovrano, il corpo politico machiavelliano non presenta rilevanti distinzioni gerarchiche tra il capo – o l’anima, come preferisce Hobbes – e le altre membra»194. In Hobbes il corpo «non soltanto è nettamente separato dall’anima che lo bonifica e governa», in Machiavelli «esso è un insieme unitario la cui salute deriva dalla relazione tra le sue differenti parti, cosicché quel corpo ha ‘più vita’ che ha ‘più parti’»195. Ma la vera differenza tra Hobbes e Machiavelli si gioca tutta su come è pensato il conflitto. Scrive Esposito:

Mentre la metafora organicistica dello Stato-corpo, già dalla sua formula iniziale e lungo tutta la sua storia, è adoperata per esaltare la concordia tra le parti, legittimando il regime che meglio la garantisce, Machiavelli ne capovolge il significato: come nella teoria galenica degli umori, anche nella città la salute del corpo politico non scaturisce dalla prevalenza di un umore sull’altro, ma dal loro contrasto bilanciato196.

Secondo Machiavelli, letto e interpretato da Esposito, il ruolo della politica consiste proprio nel governare il conflitto che naturalmente deriva dai diversi interessi in gioco: non solo senza conflitto non c’è politica, ma «il numero della politica – quando è in gioco la vita – non è l’Uno, ma il Due»197. In questa inedita teoria del conflitto come «forma dell’ordine», Machiavelli discopre un nuovo orizzonte al pensiero politico. Nel rapporto problematico e antinomico tra «antagonismo e immanenza», il conflitto qui non viene concepito né come precedente né come succedente l’ordine, e neppure come un punto ad esso trascendente: al contrario «gli è inerente come il suo medesimo modo di essere»198. Da ciò deriva «l’immanenza dell’uno rispetto all’altro». Per Machiavelli – secondo Esposito – l’ordine è «di per sé conflittuale», così come (quando non è degenerato), il conflitto «è ordinato da meccanismi istituzionali a ciò predisposti»199. Pur con tutte le differenze del caso, Machiavelli può essere assimilato soltanto a Spinoza, per il quale «il contrasto tra le parti sociali è ineliminabile perché immanente all’ordine costituito»200. Sia per Machiavelli che per Spinoza c’è sempre un punto oltre il quale «la logica dell’antagonismo» entra in potenziale attrito «con il piano di immanenza in cui pure è iscritta»201. Questo è il momento in cui il conflitto scivola nella guerra civile, che si situa al margine esterno del sistema, e in cui la politica tracima in guerra permanente202. Per Machiavelli l’organismo politico, sin dalla sua origine mostra «uno scontro inesausto tra potenze contrapposte», proprio perché «la società, nella sua configurazione normale, ha la forma di un dissidio – non tra singoli individui, come nello stato di natura hobbesiano, ma tra aggregati di uomini mossi da desideri diversi e contrastanti»: nello scontro politico, come lotta ineluttabile, non bisogna «immaginare alcuna rifondazione artificiale perché non c’è modo di sfuggire alla ricorrenza dell’origine, vale a dire della nostra stessa natura conflittuale»203. Nella relazione antinomica tra antagonismo e immanenza, tra ordine e conflitto si consuma l’attitudine reciprocamente oppositiva delle parti tra volontà di dominare dell’una e volontà di non lasciarsi dominare dell’altra. Dunque, in termini machiavelliani, «è solo il contrasto a consentire quel ricambio senza il quale l’organismo politico si cristallizza nel dominio di una parte sull’altra provocandone prima la corruzione e poi la deflagrazione»204. Per Machiavelli, la politica occupa «l’intero orizzonte del reale» proprio perché «non esiste, rispetto ad essa, né un prima né un dopo, né un inizio preordinato né un fine prevedibile»: ciò vuol dire che «non esiste zona della vita umana sottratta alla necessità della politica». Origine, vita e politica: «se è vero che la politica è la forma necessaria della vita, la vita è a sua volta la materia esclusiva della politica»205. Se si vuole cogliere la «punta più acuminata» del pensiero di Machiavelli, «un pensiero radicale dell’esistenza nella sua inevitabile dimensione contrastiva»206, allora non bisogna mai perdere di vista il nesso ontologico tra origine, vita e mutamento, tra conflitto, politica e potere.

 

Considerazioni conclusive

Secondo Machiavelli, l’ordine nasce dal tumulto, dal conflitto: i tumulti tengono vivo l’ordine e la virtù (come nel caso di Roma). Il conflitto svolge un ruolo ‘positivo’: esso non è separazione ma anche condizione del convergere per raggiungere la libertà attraverso un ordine nuovo, superiore. Ne consegue che le forme (e i mezzi) degli ordini variano nel tempo, nelle epoche. In tutto ciò, secondo Cacciari, non c’è contraddizione, perché a Machiavelli interessa l’auctoritas, il potere che costituisce l’ordine da custodire e trasformare per crescere. Però, per il principe, avere auctoritas significa essere leone e volpe, ragione e forza: custodire e trasformare. Qui risiede appunto un «paradosso vitale». Se la scena politica è questa, allora come si fa filosofia politica? Come si creano nuovi ordini con mezzi e fini vari, diversi. L’ordine non è mai stato (come participio passato). Lo Stato si trasforma. Dunque, come si fa scienza della variabilità politica? Per Machiavelli, la politica è téchne, arte della politica e della guerra, e non epistème. Per il principe non si dà una metafisica della politica, ma solo la regolarità della sua prassi, per questo non ci sono leggi universali della politica. Dal conflitto deve poter emergere l’auctoritas, anche attraverso una nuova forza (la milizia propria e non mercenaria), come servizio dell’ordine e dell’idea politica da realizzare per conseguire l’utile della comunità. Per il grande centauro, ragione e forza, in politica, commerciano con il male, volgendolo al proprio fine per la realizzazione della libertà nello e dello Stato, che in quanto tale deve essere capace di dare ordine al conflitto. L’uomo è avido, bramoso, cupido di denaro ma anche di sapere. L’ordine che il principe deve saper governare non fagocita la libertà poiché cupiditas e ordine sono elementi dello Stato, danno mobilità viva all’ordine statale tale che garantisca la sicurezza dei cittadini. Solo un principe virtuoso, il politico-centauro, saprà governare le metamorfosi mutevoli della ‘fortuna’, arbitra ineffabile delle azioni umane, piegandola, nel mutare degli eventi, ai fini della sua azione politica207.

In generale, a partire da Machiavelli, anche sulla politica come pratica che deve pur sempre misurarsi con la contingenza, nessuno in assoluto può stabilire in linea di principio cosa sia la realtà e quali siano le narrazioni che la possono elaborare, indagare e rivelare. Ogni approccio di lettura pretende di disporre del suo principio di realtà, ha i suoi linguaggi e il suo metodo. La realtà è rappresentata. Molto più difficile è rappresentarla quando la vita sociale, la vita mentale e l’esperienza umana e sociale conoscono periodi di disgregazione e di crisi economica, politica e culturale. Il conflitto delle interpretazioni c’è come pure c’è la continua tentazione di scivolare nella rete della precettistica decadente o di essere catturati dai dogmi, dalla mediazione e dai compromessi. Nella contemporaneità tutto è in un perenne confliggere, in un tempo come il nostro in cui pare dominare l’insecuritas delle condizioni materiali e spirituali di vita: un tempo difficile, strano, ma molto interessante in cui è in crisi una volontà nomotetica, cioè l’aver coscienza di dover opporre un nomos all’anomia. Nello spasmo di questo tempo, in cui pare non ci sia vera novitas ancora da scoprire208, a fronte della confusione tra potestas e auctoritas, della crisi morfologica della sovranità politica, in cui il potere mondano non può pretendere autentica auctoritas, in cui cambia la relazione rappresentante-rappresentato, tra chi difende o impone la legge, i fronti del conflitto sociale si differenziano per potersi ri-definire nei confronti delle forme ‘imperiali’ di potere che presumono di avanzare la pretesa di costituire il destino di un’epoca e per assumere il sigillo dell’essere. C’è crisi della rappresentanza, dilagare del populismo ed implosione della servitù volontaria in una società sempre più ‘depressa’209. Il rapporto tra politica e verità sembra cristallizzarsi. La giustizia, l’eguaglianza e la stessa logica del singolare sono da più parti mortificate nelle loro espressioni storiche. Nell’esperienza del tempo, nella storia, per chi pretende di rappresentare l’epoca e per chi lotta per il riconoscimento non c’è fine del conflitto. Come sempre nella storia il conflitto, in diverse forme, non declina, non si distrae, non dilegua, ritorna sempre e comunque.


Note
1 Questo saggio nasce anche dalla risultante ricostruttiva di una serie di studi e di ricerche che ho svolto nel tempo (e che ancora proseguono) sul rapporto tra storia della filosofia e filosofia politica nel passaggio dal premoderno al moderno e che hanno avuto come focus principale l’analisi del nesso conflitto, ordine e potere nella riflessione di Machiavelli, Hob- bes e Vico riletti come ‘classici’ da alcuni dei principali protagonisti del dibattito filosofico- politico contemporaneo. Per la ‘genealogia’ di queste pagine e per gli sviluppi problematici ricostruiti in esse mi permetto di rinviare, tra l’altro, ad alcuni dei miei lavori precedenti: Conflitto e socialità (2011) e Il soggetto e la sovranità (2012). Gli esercizi di pensiero qui svolti e anticipati solo parzialmente confluiranno organicamente compiuti in un volume di prossima pubblicazione. Cfr. R. Esposito, I rivoluzionari Machiavelli e Leopardi per scon- figgere la crisi di oggi, in «la Repubblica», 18.08.2013, p. 43.
2 Ibid.
3 Ibid.
4 Cfr. A. De Simone, Conflitto e socialità. La contingenza dell’antagonismo, Napoli 2011, pp. 24-25.
5 Cfr. G. Cambiano, Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura, Bologna 2011.
6 Cfr. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano 1991.
7 M. Ciliberto, Prologo, in Id., La democrazia dispotica, Roma-Bari 2011, p. XIII.
8 Cfr. F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, pp. 13-26.
9 Cfr. G.M. Barbuto, Antinomie della politica. Saggio su Machiavelli, Napoli 2007.
10 Cfr. R. Esposito, Origine e vita nel pensiero di Machiavelli, in R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, Milano 2013, p. 73.
11 R. Caporali, L’uguale dismisura, in R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Ma- chiavelli: tempo e conflitto, cit., pp. 56-59.
12 Cfr. L. Villari, Machiavelli. Un italiano del Rinascimento, Milano 2013, p. 27.
13 Cfr. M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Roma-Bari 2013.
14 Cfr. AA.VV., Machiavelli, il pensiero che ci ha fatto moderni, in «Reset», n. 143, 2013.
15 Eric Weil nel 1951 (in una riflessione su Machiavel aujourd’hui, in Id., Essais et confé- rences. II: Politique, Paris 1991, pp. 189-217), come ricorda Miguel Abensour, «invitava a distinguere due presenze possibili di Machiavelli nella nostra civiltà: fasi di erudizione, in cui gli studiosi e gli interpreti discutono la genesi dell’opera, il suo significato, etc.; e fasi pubbliche, in cui Machiavelli risorge improvvisamente sulla scena politica, e il suo nome è invocato come risposta possibile ai problemi dell’ora. In questa seconda ipotesi, avver- rebbe un mutamento radicale nel modo di considerare Machiavelli, egli diverrebbe quasi un contemporaneo di coloro che si richiamano al suo nome, nonostante la differenza dei tempi e la diversa modalità di pensiero; perché non si tratterebbe più su Machiavelli, ma di pensare Machiavelli stesso o per meglio dire di pensare insieme a Machiavelli le questioni politiche del presente» (M. Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, a cura di M. Pezzella, Napoli 2008, p. 43).
16 Cfr. G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013, p. 11.
17 Tra le diverse edizioni del Principe, cfr. N. Machiavelli, Il Principe, in Id., Opere, a cura di C. Vivanti, Torino 1997, vol. I; Id., Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Roma 2006; Id., Il Principe, testo originale e versione in italiano con- temporaneo di P. Melograni, Milano 2013; Id., Il Principe, a cura di M. Di Febo, Milano 2013; Id., Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino 2013 (d’ora in poi Principe, da cui cito indicando il numero del cap.).
18 Cfr. G. Tomasello, Il Principe di Machiavelli e i cinque secoli della sua storia, Venezia 2013.
19 Cfr. M. Naím, La fine del potere, tr. it. di L. Santi e L. Tasso, Milano 2013.
20 P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari 1999, p. 23.
21 L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, Roma 2013, p. 169.
22 Ibid.
23 U.M. Olivieri, La servitù svelata, in F. Ciaramelli-U.M. Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa, Milano 2013, p. 11. Di Olivieri cfr. inoltre Il dono del- la servitù. Étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne, Milano 2012.
24 S. Torres, La memoria del conflitto: Machiavelli e il ritorno ai principi, in R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, cit., p. 200.
25 J.L. Ames, Potere politico e gioco di alleanze in Machiavelli. La funzione del conflitto sotto un governo principesco, in «Filosofia politica», n. 2, 2013, pp. 227-228. Dello stesso autore, cfr. inoltre Libertade e conflito: o confronto dos desejos como fundamento da ideia de libertade em Maquiavel, in «Kriterion», n. 119, 2009, pp. 179-196 e A lógica do hetero- gêneo e a libertade repubblicana em Maquiavel, in Republicanismo e Democracia, a cura di J.A. Martins, Maringá 2010, pp. 35-57.
26 J.L. Ames, Potere politico e gioco di alleanze in Machiavelli. La funzione del conflitto sotto un governo principesco, cit., p. 228.
27 Ibid.
28 L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, cit., p. 12.
29 Ivi, p. 18.
30 Cfr. B. Magni, Conflitto e libertà. Saggio su Machiavelli, Pisa 2012, p. 14.
31 Ibid.
32 Nell’assumere la divisione ‘umorale’ della città e la politica come spazio del conflitto che trova nella libertà la sua ragion d’essere, Machiavelli, come precisa Magni, usa il termine ‘umori’, sulla scia dei paralleli con la medicina e dell’interpretazione ‘medica’ del ruolo del principe, in molteplici sensi: «gli umori politici si riferiscono ai desideri e agli appetiti naturali di un gruppo sociale; tali desideri sono prerazionali, nel senso che la loro soddis- fazione è materia di necessità più che di scelta, ma costitutivi, in quanto principi universali caratteristici di una comunità politica, sempre e ovunque» (ivi, p. 90). Inoltre, un secondo significato degli umori «designa i gruppi sociali di un dato corpo politico (i grandi e i più), ma gli umori sono usati anche per descrivere le attività prodotte dall’interazione tra gruppi politici (anche i conflitti a Firenze sono gli umori di Firenze)» (ibid.). Dunque, il termine ‘umore’ è usato da Machiavelli per classificare i regimi politici: «i regimi sono gli effetti dei conflitti tra umori politici, e gli umori saranno soddisfatti differentemente in regimi diversi» (ibid.). Ovviamente c’è differenza tra gli umori dei grandi e quelli dei più: i primi desiderano dominare, i secondi cercano la libertà e resistono a ogni indebito dominio.
33 Ivi, p. 15.
34 Cfr. ivi, p. 16.
35 Ibid.
36 Cfr. D. Palano, La repubblica lacerata, in Id., Partito, Bologna 2013, pp. 86-90.
37 Cfr. ivi, p. 86; N. Machiavelli, Ragguaglio delle cose fatte dalla repubblica fiorentina per quietare le parti di Pistoia (1502), in Id., Istorie fiorentine e altre opere storiche e politi- che, a cura di A. Montevecchi, Torino 2007, pp. 61-69.
38 D. Palano, La repubblica lacerata, cit., p. 87.
39 Ibid.
40 Cfr. ibid.; Sulla questione del conflitto nella riflessione di Machiavelli teorico politico e storiografo, tra gli altri, cfr. G. Cadoni, Machiavelli teorico dei conflitti sociali, in «Storia e Politica», XVII, n. 2, 1978, pp. 197-220; R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli 1984 e L’ordine del conflitto, in Id., Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino 2010, pp. 47-60; G. Sasso, Il conflitto sociale. Un intermezzo storico-teorico, in Id., Niccolò Machiavelli, II. La storiografia, Bologna 1993, pp. 167-216; G. Cadoni, Crisi della mediazione politica e conflitti sociali, Roma 1994; T. Ménisser, Ordini e tumulti selon Machiavel: la république dans l’histoire, in «Archives de philosophie», LXII, n. 2, 1999, pp. 221-239; F. Del Luc- chese, «Disputare» e «combattere». Modi del conflitto nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli, in «Filosofia politica», XV, n. 1, 2001, pp. 71-95; Id., Tumulti e «Indignatio». Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, Milano 2004; Id., La città divisa. Esperienza del conflitto e novità politica in Machiavelli, in F. Del Lucchese, L. Sartorello, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: immaginazione e contingenza, Pisa 2006, pp. 17-29; Id., Crisis and Power: Economics, Politics and Conflict in Machiavelli’s Political Thought, in «History of Political Thought», XXX, n. 1, 2009, pp. 75-96; M. Gaille-Nikodimov, Conflit civile et liberté. La politique machiavéllienne entre histoire et médecine, Paris 2004; G. Borrelli, Il lato oscuro del Leviathan. Hobbes contro Machiavelli, Napoli 2009, pp. 27-64; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», Roma 2011; R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, cit.
41 Cfr. B. Magni, Conflitto e libertà. Saggio su Machiavelli, cit., p. 16.
42 Ibid.
43 Ivi, p. 17.
44 Ibid.
45 Ibid.
46 Ibid.
47 Ivi, p. 19.
48 Ivi, p. 35.
49 Ivi, p. 71.
50 M. Geuna, Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica, in AA.VV., Conflitti, a cura di A. Arienzo e D. Caruso, Napoli 2005, p. 19. Dello stesso autore, cfr. inoltre Ruolo dei conflitti e ruolo della religione nella riflessione di Machiavelli sulla storia di Roma, in R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, cit., pp. 107-139.
51 Cfr. N. Machiavelli, L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard e G. Masi, Roma 2001.
52 Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma 2001, 2 t..
53 Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano 1962.
54 M. Geuna, Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica, cit., p. 20.
55 (Mrc, p.20); Una riflessione critica approfondita meriterebbe anche la ricostruzione sto- riografica relativa alle analogie e differenze, continuità e discontinuità tra il pensiero politi- co di Machiavelli e quello di Rousseau. Tra gli studi recenti su tale rapporto, cfr. M. Geuna, Rousseau interprete di Machiavelli, in AA.VV., Jean-Jacques Rousseau. Fra conflitto e ordine, a cura di G. Silvestrini, in «Storia del pensiero politico», n. 1, 2013, pp. 61-87. Su Rousseau rinvio il lettore a A. De Simone, Rousseau. Le metamorfosi del soggetto moder- no, Milano 2013.
56 N. Machiavelli, Istorie fiorentine, III.1, cit., p. 212.
57 B. Magni, Conflitto e libertà. Saggio su Machiavelli, cit., p. 75.
58 Ibid.
59 Ibid.
60 Ivi, p. 78.
61 Ivi, p. 98.
62 Ivi, p. 100.
63 Ibid.
64 Cfr. M. Geuna, Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica, cit., p. 21.
65 D. Palano, La repubblica lacerata, cit., p. 87.
66 Ibid.
67 Ivi, pp. 87-88.
68 M. Geuna, Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica, cit., p. 22.
69 Ibid.
70 Ibid.
71 D. Palano, La repubblica lacerata, cit., p. 88.
72 Ibid.
73 Ibid.
74 Ibid.
75 Ibid.
76 Ivi, p. 89.
77 M. Geuna, Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica, cit., p. 23.
78 Ivi, p. 25.
79 Ibid.
80 Ibid.
81 Cfr. ivi, p. 26.
82 Ivi, p. 28.
83 N. Machiavelli, Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, cit., I 4, pp. 33-35.
84 M. Geuna, Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica, cit., p. 29.
85 Ivi, p. 30.
86 Cfr. ivi, pp. 30-31.
87 Ivi, p. 32.
88 Cfr. ivi, p. 33.
89 G. Sasso, Niccolò Machiavelli, I. Il pensiero politico, Bologna 1993, p. 528. Dello stesso autore cfr. inoltre A. Gnoli, G. Sasso, Machiavelli e il male italiano, Milano 2013.
90 Cfr. M. Viroli, Machiavelli. Filosofo della libertà, tr. it. di S. Righini, Roma 2013. Cfr. F. Raimondi, Libertà, sicurezza e tumulti: Machiavelli e la ‘corruzionedi Firenze, in R. Ca- porali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, cit., pp. 185-197.
91 F. Raimondi, Libertà, sicurezza e tumulti: Machiavelli e la ‘corruzionedi Firenze, cit., p.186.
92 Cfr. ibid.
93 Ivi, p. 187.
94 Ivi, p. 188.
95 Ibid.
96 Ivi, p. 191.
97 Ibid.
98 Ibid.
99 Ivi, p. 197.
100 M. Viroli, Machiavelli. Filosofo della libertà, cit., p. 105.
101 Ibid.
102 Ibid.
103 Cfr. ivi, p. 107.
104 G.M. Barbuto, Machiavelli, cit., p. 14.
105 Ibid.
106 Cfr. ibid.
107 Ibid.
108 Ivi, p. 15.
109 Ibid.
110 Ivi, p. 164.
111 J.L. Ames, Potere politico e gioco di alleanze in Machiavelli. La funzione del conflitto sotto un governo principesco, cit., p. 228.
112 Ibid.
113 Ivi, p. 246.
114 Ibid.
115 Ibid.
116 Ivi, pp. 246-247.
117 Ivi, p. 247.
118 Cfr. ivi, p. 229. In generale, vi sono alcune differenze significative che contraddistin- guono il ruolo svolto dal conflitto in una repubblica rispetto a quello svolto in un prin- cipato. Come osserva Ames: «Per Machiavelli, repubblica e principato sono ordinamenti che assicurano il vivere civile, ovvero una convivenza fondata sulla legge, tuttavia solo in una repubblica è possibile un vivere libero, generato dalla partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche. L’esercizio delle funzioni pubbliche in un principato non dà luogo a un vivere libero, poiché queste non derivano dalla struttura della forma di governo in quanto tale, bensì dalla necessità nella quale si trova il principe di conservare il potere. Coloro i quali assumono degli incarichi pubblici permangono nella condizione di sudditi, quindi di subordinati all’autorità del principe; invece la situazione in una repubblica è differente, in quanto il cittadino è un uguale tra gli uguali e non si subordina a nessuno, ma solo alla legge» (ivi, p. 246).
119 Ivi, p. 229.
120 Ibid.
121 Ibid.
122 Cfr. ivi, p. 230.
123 Cfr. ibidem.
124 Ivi, p. 231.
125 Ibid.
126 Ibid.
127 Ibid.
128 Ivi, p. 232
129 Ibid.
130 Ibid.
131 Ibid.
132 Ivi, pp. 232-233.
133 Cfr. F. Bausi, Machiavelli, cit., pp. 203-205.
134 G.M. Barbuto, Machiavelli, cit., pp. 139-140.
135 Al riguardo, cfr. F. Frosini, L’aporia del «principato civile». Il problema politico del «forzare» in Principe, IX, in «Filosofia politica», XIX, n. 2, 2005, pp. 199-218. Dello stesso autore su Machiavelli, cfr. inoltre Contingenza e verità nella politica. Due studi su Machiavelli, Roma 2001.
136 Cfr. J.L. Ames, Potere politico e gioco di alleanze in Machiavelli. La funzione del conflit- to sotto un governo principesco, cit., pp. 234-235.
137 Ivi, p. 235.
138 Ibid.
139 Ibid.
140 Ivi, pp. 235-236.
141 Cfr. ivi, p. 236.
142 Ivi, p. 237.
143 Ibid.
144 Ibid.
145 Ivi, p. 238.
146 Cfr. ivi, pp. 238-239.
147 Ivi, p. 240.
148 Cfr. ivi, p. 245.
149 Ivi, p. 246.
150 Ibid.
151 Ivi, p. 247.
152 Ivi, p. 249.
153 Ibid.
154 Cfr. R. Esposito, Ordine e conflitto, cit., p. 198.
155 Cfr. M. Cacciari, Machiavelli e la filosofia politica, in «Il caffè filosofico», n. 1, Roma 2013 (DVD e Opuscolo, pp. 6-11). Tutti i riferimenti a Cacciari ‘interprete’ di Machiavelli, compresi quelli virgolettati (relativi all’opuscolo cartaceo), sono qui di seguito da me li- beramente chiosati.
156 Ivi, p. 8.
157 Ivi, p. 9.
158 Cfr. J. Derrida, La bestia e il sovrano, vol. I (2001-2002) e vol. 2 (2002-2003), tr. it. di G. Carbonelli, Milano 2009 e 2010. Sull’argomento, cfr. A. De Simone, Il soggetto e la sovranità. La contingenza del vivente tra Vico e Agamben, Napoli 2012, pp. 189-241.
159 Cfr. J. Derrida, La bestia e il sovrano, I, cit., p. 115. Sulla figura e natura del centauro machiavelliano, tra gli altri, cfr. R. Esposito, La figura del ‘doppio’ nell’immagine machiavelliana del centauro, in Id., Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, cit., pp. 13-39; G. Sasso, Centauri, leoni, volpi. Su alcune ‘fonti’ del diciottesimo capitolo del Principe, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano- Napoli 1997, vol. IV, pp. 153-188; E. Raimondi, Il politico e il centauro, in Id., La politica e la commedia, Bologna 1998, pp. 125-143; G.M. Barbuto, Il principe centauro, in Id., Anti- nomie della politica. Saggio su Machiavelli, cit., pp. 69-93.
160 J. Derrida, La bestia e il sovrano, I, cit., p. 116.
161 Ibid.
162 Ivi, p. 117.
163 Ibid.
164 Ibid.
165 Cfr. ivi, p. 118.
166 Ibid.
167 Ibid.
168 Ibid.
169 Ibid.
170 Ibid.
171 Ivi, p. 119.
172 Ibid.
173 Ivi, p. 121.
174 G.M. Barbuto, Machiavelli, cit., p. 146.
175 J. Derrida, La bestia e il sovrano, I, cit., p. 122.
176 Ivi, p. 124.
177 Ibid.
178 Ibid.
179 Ibid.
180 Ivi, p. 125.
181 Ivi, p. 126.
182 G.M. Barbuto, Machiavelli, cit., p. 148.
183 Ivi, p. 307.
184 G.M. Barbuto, Il principe centauro, cit., p. 70.
185 Cfr. L. Villari, Machiavelli, cit., pp. 135-136.
186 Cfr. R. Esposito, Potenza dell’origine, in Id., Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., pp. 47-60, p. 50. Tutte le altre frasi di Esposito tra virgolette sono tratte da quest’opera. Dello stesso Esposito, sulla fortuna di Machiavelli, cfr. Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento, cit.
187 R. Esposito, Potenza dell’origine, cit., p. 51.
188 Ibid.
189 Ibid.
190 Ibid.
191 Ivi, p. 52.
192 Ibid.
193 Ivi, p. 53.
194 Ivi, p. 54.
195 Ibid.
196 Ibid.
197 Ivi, p. 55.
198 Ibid.
199 Ibid.
200 Ibid.
201 Ivi, p. 56.
202 Al riguardo, cfr. C. Galli, Il volto demoniaco del potere? Momenti e problemi della for- tuna continentale di Machiavelli, in Id., Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari 2009, p. V. Qui l’autore ci ha invitato a non trascurare il fatto che una riflessione su Machiavelli oggi non può «non estendersi a un discorso sull’origine della politica, sul Moderno, sullo Stato, sul ‘politico’», ed è forse per questo motivo che Machia- velli continua ancora a spingerci a pensare la contingenza, il disordine storico e il conflitto come «il cuore della questione politica»: una contingenza che in Machiavelli ha in sé «la necessità, e che è occasione della potenza, dell’azione virtuosa». Per il Fiorentino, la con- tingenza necessaria «è la molla della trasformazione politica». Ciò che conta – questa è la tesi di Galli – è che leggendo Machiavelli iuxta propria principia si scoprirà che il cuore del suo pensiero politico si traduce nel tema della contingenza, ovvero dell’«immediatezza precedente ogni mediazione», che in quanto tale esclude «qualsiasi compimento, qualunque formatività» (ivi, p. 16). Alla base del pensiero di Machiavelli c’è «la concretezza e non l’astrazione», per cui non c’è «la politica come sicurezza e forma ma come potenza e gloria, e quindi come polimorfismo»: non solo l’attore della politica «non è il Leviatano ma il Centauro», ma il suo fine «non è la neutralizzazione ma il conflitto dei differenti ‘umori’ della città» (ivi, p. 17). L’enigma dell’inquietante solitudine di Machiavelli non può allora che proiettarsi ancora come un’ombra attuale in una fase storica in cui anche la tarda mo- dernità pare non sapersi sottrarre alle nuove forme di ‘oscurità. Sul confronto classico tra Machiavelli e Hobbes, cfr. G. Borrelli, Il lato oscuro del Leviathan. Hobbes contro Machiavelli, cit.
203 R. Esposito, Origine e vita nel pensiero di Machiavelli, cit., p. 83.
204 Ibid.
205 Ivi, p. 76.
206 Ibid.
207 Cfr. M. Cacciari, Machiavelli e la filosofia politica, cit., p. 11.
208 Cfr. M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano 2013, pp. 12 sgg.
209 Cfr. F. Ciaramelli-U.M. Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa, cit.

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