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La Guerra contro il mondo multipolare
di Hauke Ritz*
Politici di spicco suggeriscono che si potrebbe rischiare una continua escalation della guerra in Ucraina perché una vittoria russa sarebbe peggiore di una terza guerra mondiale. A cosa è dovuta questa enorme volontà di escalation? Perché sembra non esistere un piano B? Per quale motivo l’élite politica degli Stati Uniti e quella della Germania hanno legato il proprio destino all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale?
Non si può ignorare che il mondo occidentale sia in preda a una sorta di frenesia bellica nei confronti della Russia. Ogni escalation sembra portare quasi automaticamente alla successiva. Non appena è stata decisa la consegna di carri armati all’Ucraina, si è parlato della consegna di jet da combattimento. Un drone spia americano era appena stato abbattuto vicino al confine russo dal passaggio ravvicinato di un caccia russo, quando la Corte penale internazionale dell’Aia ha pubblicato un mandato di arresto per Vladimir Putin. Criminalizzando il presidente russo, l’Occidente ha deliberatamente distrutto il percorso verso una soluzione negoziale e ha portato l’escalation a un nuovo livello. Ma come se il livello così raggiunto non fosse abbastanza alto, la Gran Bretagna ha annunciato la consegna di munizioni all’uranio, considerate armi “convenzionali” che lasciano una contaminazione radioattiva sul luogo dell’esplosione. La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è consistita nella decisione di posizionare armi nucleari tattiche in Bielorussia a stretto giro.
La rinuncia al controllo dell‘escalation
Da dove deriva questa disposizione quasi automatica all’escalation da parte dei politici al potere oggi? È un fenomeno di decadenza? Qualcosa di analogo si verifica quando l’adattamento allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) è diventato più importante dell’adattamento alla realtà. Oppure la disponibilità all’escalation può essere spiegata razionalmente? È forse l’espressione di un certo obiettivo politico che è stato minacciato ma che non può essere abbandonato dalla classe politica al potere e che quindi sembra raggiungibile solo attraverso un azzardo?
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L’ambivalenza di tre sentimenti del disincanto
di Paolo Virno
Nell'ambito del lavoro sui «decenni smarriti» che stiamo portando avanti, pubblichiamo questo significativo articolo di Paolo Virno, originariamente pubblicato il 3 marzo 1988 su «il Manifesto» e che oggi è possibile leggere in Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione (DeriveApprodi, 2023), che poi sarà sviluppato nel testo «Ambivalenza del disincanto» contenuto in Sentimenti dell'aldiqua. Opportunismo paura cinismo nell'età del disincanto, di cui uscirà a breve una nuova edizione per DeriveApprodi. Intorno a questo libro si articolerà il Festival di DeriveApprodi, che si terrà a Bologna il 9-10-11 giugno.
Lo pubblichiamo su «Transuenze» perché è un testo capace di riassumere bene le trasformazioni nella produzione, nel lavoro e nelle soggettività che si sono determinate negli anni Ottanta.
Per Virno la formazione di soggettività si compie ormai per l'essenziale fuori dal lavoro. Dunque, nell'analizzare la situazione emotiva e il suo rapporto sempre più stretto con le nuove forme di vita, del lavoro e della produzione individua tre sentimenti prevalenti in quegli anni (l'opportunismo, la paura e il cinismo) che combaciano con la versatilità e la flessibilità delle moderne tecnologie elettroniche e che dunque, entrano in produzione.
Inoltre, se è vero che in questa costellazione sentimentale non c'è nulla di buono, essa rappresenta il dato di fatto irreversibile da cui pensare le nuove istanze di trasformazione.
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Una disamina della situazione emotiva degli anni Ottanta non è svagata peripezia letteraria, né pausa ricreativa posta a mezzo di ricerche ben altrimenti rigorose. Tutt’al contrario, questo approccio ha di mira questioni preminenti e concretissime: rapporti di produzione e forme di vita, acquiescenza e conflitto. È un «prologo in terra» sordo a ogni stormire angelico, inteso a regolare i conti con il decennio in corso, con il senso comune e l’ethos che ne sono scaturiti, con le categorie prevalse nella sua autocomprensione.
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Alcune osservazioni sulla "Cancel Culture" e sulla sua critica
di Thomas Meyer
«La "Cancel Culture" [in italiano, "cultura della cancellazione" o "cultura del boicottaggio"] è una "buzzword" [termine di moda, termine gettonato, termine in voga] politica, che descrive gli sforzi sistematici finalizzati alla parziale esclusione sociale di quelle organizzazioni, o di quegli individui che vengono accusati di aver rilasciato dichiarazioni, o di aver compiuto azioni offensive, discriminatorie, razziste, antisemite, cospiratorie, misogine, maschiliste o omofobiche» (Wikipedia En). Oggi sono molti, quelli che vedono la libertà e la diversità di opinione minacciate dalla Cancel Culture. A tal proposito, vengono spesso citati classici liberali come Voltaire o John Stuart Mill. I critici della Cancel Culture sottolineano l'importanza di poter ascoltare e tener conto delle voci dissenzienti (ciò perché, ovviamente, senza pluralità di opinioni, non ci sarebbe alcun progresso nella conoscenza), mettendo in guardia rispetto al pericolo di censura e di esclusione dalla società civile (boicottaggio, deplorazione). Come viene sottolineato nell'antologia "Cancel Culture und Meinungsfreiheit - Über Zensur und Selbstzensur" [Cancel Culture e libertà di espressione - Sulla censura e sull'autocensura], i critici accusano la Cancel Culture di pregiudicare il libero discorso scientifico [*1]. La Cancel Culture agisce in modo emotivo, e opera secondo la modalità dell'«argumentum ad hominem». Si oppone al «comportamento cattivo» degli individui. Il suo fine non è la verità, bensì la distruzione morale o professionale di figure pubbliche che hanno espresso un'«opinione sbagliata». L'avversario non viene confutato, bensì "cancellato", vale a dire, la persona viene allontanata, è costretta a dimettersi, diventa una non-persona. Il discorso viene interrotto.
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Chi è AI?
di Rocco Ronchi
Dark Star è un film di fantascienza del 1974 diretto da John Carpenter, suo esordio alla regia di un lungometraggio. Il film, racconta Wikipedia, riprenderebbe molti elementi di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, “in senso surreale e parodistico”. La scena clou del film, scritto da Carpenter insieme a Dan O’Bannon (che sceneggerà anche il primo Alien) è infatti il dialogo tra il tenente Doolittle e la bomba intelligente che minaccia di esplodere per una disattenzione di un membro dell’equipaggio (del film di Kubrick tutti ricordano il celebre dialogo degli astronauti di Discovery Uno con Hal 9000). Come arrestare quel processo automatico? Come interagire con la sua pura potenza di calcolo indifferente ai contesti vitali? Doolittle si rende conto che nella situazione di crisi estrema in cui si trova, non ha altra soluzione a disposizione che la più antica e, apparentemente, la più astratta tra le “tecniche” elaborate dall’uomo: la metafisica. È solo sul quel piano che si può sondare la possibilità di trovare un luogo comune tra la macchina e l’uomo.
Tutta la discussione sull’intelligenza artificiale è di natura metafisica e non semplicemente tecnica. Essa verte non tanto sul “come” e nemmeno sul “che cosa” dell’AI: a queste domande rispondono benissimo i tecnici dell’AI. La questione metafisica ultima concerne piuttosto il “chi” dell’AI. “Chi” è AI? Ha senso porre questa domanda oppure se ne deve concludere, come fa Stanislaw Lem, nel suo racconto del 1981 Golem XIV – straordinaria confessione autobiografica del più potente supercomputer mai realizzato – che non c’è nessun “chi” per quella intelligenza sovrumana, e che proprio in quell’impersonalità, in quel nessuno che(mi) parla, consiste il culmine dell’evoluzione intellettuale? Sono due opzioni metafisiche che si possono ricondurre ad alcuni momenti del dibattito filosofico.
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“Controffensiva ucro-NATO: bestiale e sanguinaria scommessa che l'imperialismo perderà
di Nucleo Comunista Internazionalista
In tutta evidenza siamo alla soglia di un passaggio cruciale nel braccio di ferro armato in Ucraina fra le forze Nato/Occidente collettivo e imperialista contro quelle dello Stato russo. Vogliamo fissare qualche “concetto” di ordine generale sull’imminente cosiddetta “controffensiva” Ucro-Nato, sul senso del suo previsto e preventivato esito cioè il massacro di quanti più uomini possibile. Già iniziata secondo i puntuali report del compagno Paolo Selmi (1) che segnalano in 1725 i soldati ucraini morti (mandati al massacro) nel primo giorno (16 maggio) della kontrastup, “dal febbraio 2014 ad oggi la giornata peggiore”!
Mykhailo Podolyak, consigliere politico di Zelensky che ha accompagnato il quisling nel suo gran tour europeo afferma al Corriere della Sera (13 maggio) che ”da questa fase dipenderà anche la sicurezza globale e il processo politico in Europa”. Il consigliere del quisling di Kiev così tratteggia i contorni della stra-annunciata e strombazzata “controffensiva” che dovrebbe ricacciare indietro i russi verso i confini violati il 24 febbraio 2022: “Bisogna capire che non si tratta di una singola battaglia ma che si svolge nell’arco di una settimana. No, certo che no. Una controffensiva è composta di un gran numero di azioni diverse in numerose direzioni che si svolgeranno in un periodo di tempo prolungato”.
Qualcuno, forse, si fa leggermente prendere troppo la mano. Forse e leggermente: da una delle gazzette mainstream più filo-atlantiche (“diretta-news” dal sito de la Repubblica 13 maggio) leggiamo addirittura:
ora 01.04 - Ucraina, l'arsenale di Kiev è pronto a sfondare: “Putin non ha tempo”.
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La riproduzione perenne delle guerre
di Salvatore Palidda*
Premessa
Come suggeriscono alcuni autori, tutta la storia dell’umanità è innanzitutto storia di guerre; i periodi di pace sono sempre stati più brevi di quelli delle guerre. La pace nei paesi dominanti è sempre stata pagata con le guerre esternalizzate nei paesi dominati, spesso camuffate come “guerre etniche”, “guerre tribali”, “guerre di religioni”.
Si è sempre avuta una costante riproduzione delle guerre e questo corrisponde alla costante riproduzione del dominio di pochi sulla maggioranza degli umani dominati e vi è sempre stata la disperata sopravvivenza di questi ultimi spesso attraverso resistenze inevitabilmente reiterate e brutalmente represse.
La contro-rivoluzione del capitalismo liberista mondializzato ha accentuato questo fatto politico totale, perché pervasivo innanzitutto per opera dell’intreccio delle lobby dominanti (quella della produzione e commercio degli armamenti anche per le polizie, quella delle nuove tecnologie, quelle delle energie basate sull’estrattivismo -carbone, petrolio, gas ecc.).
Guerre, in quanto “consumo” o smaltimento di armi, sono una delle prima cause del degrado ambientale: uccidono due volte sia sui campi di battaglia sia con l’inquinamento tossico che producono e lasciano nei territori delle operazioni militari.
Le guerre di oggi sono palesemente la scelta di governi che si configurano come una sorta di “fascismo democratico” poiché sono a sprezzo della volontà di pace delle popolazioni, si impongono con la minoranza del voto degli elettori aventi diritto (vedi infra).
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Caffè, l’economia come impegno civile
di Roberto Schiattarella
Sbaglierebbe chi considerasse marginale il suo contributo sul piano della produzione scientifica. Molti non hanno ben compreso il modo in cui Caffè ha affrontato la questione della complessità della cultura in un contesto in cui possono coesistere molti percorsi scientifici
Il fatto che a 35 anni dalla sua scomparsa si continui a parlare di Federico Caffè testimonia in maniera evidente la capacità di suggestione che la sua visione dell’economia ha ancora soprattutto presso un pubblico di non addetti ai lavori. Oggi come in passato, ciò che colpisce chi legge i suoi lavori è, oltre alla chiarezza dell’esposizione, la sua lettura dell’economia come disciplina morale. Meno attenzione è stata data invece al modo in cui lo studioso è arrivato a definire questa visione. Un vuoto di analisi che ha finito col lasciare lo spazio all’idea che ci si trovi di fronte ad un economista certamente motivato sul piano dei valori, ad un profondo conoscitore della materia, che ha tuttavia avuto una importanza relativamente marginale sul piano della produzione scientifica e che, in ogni caso, non ha dato alcun contributo significativo al dibattito economico italiano e internazionale.
Due conclusioni largamente discutibili non solo perché il suo impegno etico sociale è il punto di arrivo di un percorso scientifico profondamente radicato nella letteratura economica del suo tempo, ma anche perché Caffè ha arricchito questa stessa letteratura con contributi tanto originali quanto poco compresi. Una difficoltà di comprensione che può essere superata solo collocando la sua opera nel contesto in cui questo studioso si è formato. Un passo che va fatto evidentemente per qualunque economista, ma che spesso ci si dimentica di fare quando una visione dell’economia diventa egemone al punto da apparire l’unica possibile. Un passo indispensabile in particolare per uno studioso come Caffè che si è formato in una stagione del tutto particolare sia della politica che della cultura in generale e, in particolare, di quella economica. Molte tra le sue prese di posizione, che al lettore di oggi possono apparire stravaganti, erano del tutto simili a quelle prese da molti tra gli economisti del suo tempo.
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Diario della crisi | Il panico finanziario da contagio digitale
di Christian Marazzi
In questa nona puntata del «Diario della crisi» – progetto nato dalla collaborazione tra Effimera, Machina DeriveApprodi ed El Salto – Christian Marazzi propone un’ipotesi importante: ci troviamo di fronte a una crisi da sovrapproduzione digitale che, se da una parte si spiega a partire dagli effetti del rovesciamento delle politiche monetarie, cioè dall’aumento dei tassi d’interesse per combattere l’inflazione da profitti, dall’altra rimanda alla saturazione della domanda, non solo perché i redditi reali sono fermi o addirittura decrescono, ma anche e forse soprattutto perché la digitalizzazione ha raggiunto la soglia di assimilazione sociale e umana. Nel passaggio da una politica monetaria espansiva a una restrittiva, sostiene l’autore, la lotta politica attorno al tetto del debito pubblico americano, potrebbe essere la classica goccia che fa traboccare il vaso.
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Marzo, la serpe esce dal balzo
Gillian Tett, giornalista del «Financial Times», ha vissuto in presa diretta alcune delle crisi finanziarie e bancarie più importanti degli ultimi trent’anni, come quella scoppiata in Giappone nel 1997 e 1998, a seguito della bolla immobiliare degli anni Ottanta, o quella del 2007 e 2008, la crisi finanziaria globale dei subprime e della Lehman Brothers[1]. Facendo tesoro di quelle esperienze, ha analizzato l’ondata di panico che ha incalzato le banche nel corso del mese di marzo, dalla Silicon Valley Bank a Credit Suisse, passando dalla First Republic, mettendo in evidenza una serie di caratteristiche ricorrenti, ma anche di discontinuità significative.
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Esistono guerre “giuste”?
di Norberto Fragiacomo
Ispirato da recenti e buone letture torno su un tema che in un articolo di qualche mese fa (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24326-norberto-fragiacomo-la-difesa-e-sempre-legittima.html) avevo appena sfiorato senza debitamente approfondirlo: quello della guerra “giusta”. All’epoca mi soffermai, da un punto di vista sostanzialmente penalistico, sulla questione della difesa (contro un altro Stato) per chiedermi quando potesse dirsi legittima: oggi vorrei abbozzare un’indagine di carattere più generale per cercare di capire a quali condizioni la scelta estrema di usare le armi per risolvere una disputa (non solo) internazionale sia moralmente e giuridicamente accettabile.
Secondo il pacifismo più radicale la decisione di combattere sarebbe sempre condannabile: un paese aggredito da un altro dovrebbe subito arrendersi onde evitare inutili sofferenze al proprio popolo. Si tratta di una posizione meritevole di rispetto, perché applica l’insegnamento cristiano “porgi l’altra guancia”, ma che risulta inapplicabile in un mondo, quello reale plasmato dalla Storia, in cui le aggressioni sono eventi tutt’altro che eccezionali e manca un “supergoverno” in grado di rendere giustizia agli oppressi. Un popolo che rinunciasse a priori all’autodifesa farebbe meglio a non costituire un’entità statale e a sottomettersi liberamente al più minaccioso fra i propri vicini.
C’è poi la “provocazione” lanciata da Lenin alla vigilia della conferenza di Zimmerwald (che, come appureremo insieme, è tutt’altro che una boutade): l’unica guerra giusta è quella scatenata dagli oppressi contro i loro oppressori. Sappiamo che il grande rivoluzionario propose ai socialisti europei di adoperarsi in patria per trasformare il conflitto fra le nazioni capitaliste in un conflitto di classe “senza confini”: si tratta di un ottimo spunto per il prosieguo della nostra riflessione.
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War games
di Enrico Tomaselli
I giochi di guerra tra Russia ed USA si fanno sempre più pericolosi, ma è proprio dietro la volontà di evitare lo scontro diretto e, contemporaneamente, giocando al tiro alla fune, che si nascondono i pericoli maggiori. Ancora una volta, nessuno dei due avversari sembra comprendere del tutto l’altro, e questo può avere conseguenze terribili. Rischiamo di trovarci sul serio in guerra, senza che nessuno lo volesse davvero.
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I moderati del Kremlino
Si è molto discusso, anche su queste pagine, sugli obiettivi che Mosca si prefiggeva di raggiungere, avviando l’Operazione Speciale Militare, e su come questi si siano assai velocemente dimostrati irraggiungibili. Cosa che ha costretto ad un radicale cambio anche della strategia militare.
Ma un elemento è sicuro: nonostante la propaganda occidentale lo abbia dipinto come un pazzo sanguinario, il nuovo Hitler – Putin (ed il gruppo dirigente che lo affianca, a partire da Lavrov) è, al contrario, un uomo prudente, per certi versi si potrebbe dire un moderato. Di sicuro, la strategia politico-militare sviluppata via via dal 24 febbraio 2022 è stata ed è caratterizzata da un elevato autocontrollo, che cerca costantemente di evitare l’escalation del conflitto.
Questa scelta, precipuamente politica, e di cui gli europei dovrebbero essergli eternamente grati, non è il frutto di un possibile timore verso la NATO (la sua potenza militare), ma di un preciso calcolo.
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Mutamento e continuità
di Massimo Ilardi
È di recente uscito il volume Anni Ottanta. La grande mutazione, curato da Emiliano Laurenzi e Fabrizio Violante (manifestolibri). Fin dal titolo e nei saggi raccolti, presenta varie analogie con il nostro progetto di cartografia dei decenni smarriti, a conferma dell’importanza di un ripensamento genealogico di questo periodo per impostare l’analisi del presente. Nel suo contributo al volume Massimo Ilardi afferma che, alla domanda se gli anni Ottanta rappresentino una continuità o una grande trasformazione, risponde che sono stati entrambe le cose. Da un lato, è avvenuta una forte mutazione antropologica, con il formarsi di nuovi attori sociali e nuove soggettività; dall’altro lato, sostiene l’autore, questa mutazione è stata possibile proprio perché figlia della «famigerata» e «vituperata» stagione di conflitti, di innovazioni culturali e dell’emergere di inconsuete soggettività degli anni Settanta del Novecento. L’incontro/scontro tra libertà e politica resta il nodo irrisolto che ci è consegnato in eredità dal decennio Ottanta.
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Apriamo il romanzo di Arthur Koestler Buio a mezzogiorno, pubblicato nel 1940 (trad.it. Mondadori 1946), alle pagine, forse le più drammatiche del romanzo, del dialogo tra Rubasciov, esponente della vecchia guardia rivoluzionaria sovietica che stava per essere liquidata dalle epurazioni staliniane del 1937, e il suo accusatore Ivanov, funzionario del partito: «In quel tempo, proseguì Rubasciov, eravamo chiamati il Partito della Plebe. Che sapevano gli altri della storia? Lievi increspature, vibrazioni fuggevoli, ondine rompentisi. Si soffermavano a guardare le forme mutevoli della superficie e non sapevano spiegarle.
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Un mondo nuovo è in costruzione
Una seconda occasione che il mondo non deve mancare
di Francesco Cappello
I BRICS crescono mattone su mattone
La gran parte del mondo si sta riorganizzando. L’obiettivo è la collaborazione, su molti diversi piani, tra Paesi/Civiltà sovrane che intendono emanciparsi dalla tossica dipendenza imposta al mondo, sin dall’ultimo dopoguerra, dal dominio egemonico statunitense.
Cinque Stati arabi, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Algeria, l’Egitto, il Bahrein e i persiani dell’Iran, sono tra le 19 nazioni in procinto di unirsi ai BRICS i quali stanno, tra l’altro, lavorando allo sviluppo di una nuova valuta internazionale secondo il modello proposto a Bretton Woods da J.L.M. Keynes. Una valuta internazionale non emessa da un paese che permetterà l’abbandono del paradigma economico della “liquidità” fondato sul dollaro a favore di quello fondato sul “Clearing” o compensazione. Una vera e propria rivoluzione.
Non solo BRICS
Nel corso dello scorso anno Pechino ha dato vita a nuove iniziative politiche, in particolare la Global Development Initiative (GDI) e la Global Security Initiative (GSI). L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) condivide con i BRICS tre membri fondatori – Russia, Cina e India – tutti ispiratori di iniziative multilaterali. Sono esempi inediti, di respiro planetario, di diplomazia multipolare, volti a promuovere approcci collettivi sviluppati congiuntamente agli affari economici su scala mondiale. La SCO rappresenta uno degli elementi chiave dell’emergente sistema multipolare, insieme ai BRICS+ e all’EAEU (Unione economica eurasiatica).
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L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli
Ministero A. E. cinese
Questo breve saggio, pubblicato dal Ministero degli Affari Esteri cinese il 20 febbraio 2023 è uno dei primi segnali del cambio di strategia da parte del governo cinese che, archiviata la storica e proverbiale paziente diplomazia, ha iniziato con più determinazione a smascherare il doppio standard che in ogni contesto gli Stati Uniti pretendono di imporre nelle relazioni internazionali. Sono testi importanti che, nonostante non aggiungano elementi di particolare novità, consentono di chiarire il punto di vista cinese in merito alle vicende internazionali passate e presenti e al ruolo degli Stati Uniti. La comprensione della politica estera di un paese socialista come la Cina, ormai non più trascurabile geopoliticamente nella composizione di un equilibrio globale stabile, ci può aiutare ad intravvedere quel mondo multipolare che pare avvicinarsi velocemente. Un punto di vista completamente tralasciato o distorto nel quadro mediatico occidentale che alimenta l’opinione pubblica con informazioni faziose ed ideologiche impedendo di fatto un confronto approfondito con quella via cinese al socialismo che, dopo il secolo dell’umiliazione, ha portato la Cina ad essere una delle principali potenze mondiali e, tra queste, una potenza di pace (Traduzione a cura di Michele Berti).
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Contenuti
Introduzione
I. Egemonia politica: gettare il suo peso in giro
II. Egemonia militare: uso sfrenato della forza
III. Egemonia economica: saccheggio e sfruttamento
IV. Egemonia tecnologica: monopolio e soppressione
V. Egemonia culturale: diffusione di false narrazioni
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Una civiltà in crisi
di Pierluigi Fagan
Riporto il testo di un intervento in due differenti post pubblicati sulla mia pagina fb dove ormai continuo il mio diario di ricerca che animò i primi anni di vita di questo blog, ultimamente, trascurato
Rispetto al titolo dell’articolo, partiamo chiarendo prima il punto di vista del nostro discorso. Il nostro punto di vista è storico, osserviamo l’oggetto civiltà, quella occidentale nello specifico, dal punto di vista del corso storico. L’argomento è vasto e complesso e soffrirà della riduzione ad un paio di post.
Questa civiltà che si fa nascere coi Greci duemilasettecento anni fa, è stata per più dell’ottanta-per-cento del suo tempo, un sistema locale ed interno. Per il resto, dal XVI secolo in poi, a gli inizi del periodo che chiamiamo moderno, il sistema ha avuto un big bang inflattivo che si è esteso a livello planetario, non già assorbendo al suo interno spazio, popoli e natura, ma sottomettendoli e sfruttandoli. Va precisato che a noi qui non interessa proferire alcun giudizio morale, ci interessa solo l’analisi funzionale. In questi cinque secoli, la civiltà occidentale si è sovralimentata potendo alimentare il suo piccolo interno con un relativo dominio su un molto più grande esterno, ha potuto contare cioè su vaste e ricche condizioni di possibilità.
All’interno di questo frame temporale di cinque secoli, detto moderno, la civiltà occidentale è cambiata nel profondo. A livello di composizione, ha visto una migrazione interna del suo punto centrale che dal Mediterraneo greco e poi romano, è passato prima alla costa europea nordoccidentale, poi ha saltato la Manica ambientandosi in Inghilterra (poi Gran Bretagna, poi Regno Unito), poi ha saltato l’Atlantico ambientandosi nel Nord America. Si potrebbe anche dire che provenendo da una zona che per sua natura geografica è iperconnessa (Europa, Asia, Medio Oriente, Nord Africa), si sia progressivamente isolata prima continentalmente, poi insularmente, poi finendo addirittura in una terra al riparo di due vasti oceani.
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Turchia: l’Europa si schiera contro Erdogan ma Putin lo sta aiutando a vincere
di Giuseppe Casamassima
Russia e Turchia hanno formalizzato, pochi giorni fa, un accordo economico per la fornitura di combustibile nucleare, da parte della Rosatom, alla centrale turca di Akkuyu. Non curandosi dell’inevitabile stizza di Washington, il governo di Ankara ha così assicurato alla Turchia, che ne è carente, una nuova e importante fonte di produzione energetica, che coprirà il 10% del fabbisogno nazionale. Non approfondirò adesso l’importanza di quest’accordo, che ha inserito di fatto la Turchia nel club degli Stati nucleari e che, forse, è la premessa di una futura, storica ed inaudita partnership strategica tra Mosca ed Ankara. Qui voglio, invece, solo parlare della posizione di Recyp Erdogan che, in vista delle prossime elezioni presidenziali del 14 maggio, viene osteggiato attivamente dall’Occidente. I media europei, che ormi da marzo 2022 formano un unico coro, hanno già iniziato la campagna denigratoria contro Erdogan. La rivista francese Le Point, nel numero del 4 maggio, lo ha definito un “secondo Putin”. Ciò significa che l’Occidente vuole sbarazzarsi di Erdogan per cambiare, a proprio vantaggio, la politica estera della Turchia.
Finora, quella di Erdogan ha avuto per filo conduttore il doppiogiochismo. Giocarsi le carte che ha in mano su tavoli diversi è, per Erdogan, la tattica più utile per perseguire meglio non solo gli interessi nazionali della Turchia, ma anche il sogno geopolitico di una rinascente potenza neo-ottomana.
Nel quadro di questa voluta ambiguità[i], rispetto alla NATO, il governo Erdogan resta strettamente legato all’Alleanza Nord-Atlantica[ii], ma senza partecipare all’accerchiamento geostrategico della Russia, giacché la Turchia – nonostante le pressanti richieste di Zelensky – non solo non si è unita alle sanzioni occidentali, ma ha anche negato l’accesso al Mar Nero alle flotte militari della NATO e, di fatto, ha così appoggiato il blocco navale del porto di Odessa da parte della Marina da guerra russa, riconoscendo a quest’ultima un diritto previsto dal vecchio trattato di Montreaux[iii].
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Marxismo e classe, parte 3
Analisi di classe o politica identitaria?
di Chris Nineham
Qui parte 1 e parte 2
Nel terzo articolo della serie dedicata alla classe, Chris Nineham spiega perché è necessaria un'analisi di classe per comprendere e combattere l'oppressione
Il marxismo concepisce la società come una totalità. Tenta di comprendere tutti gli aspetti del nostro mondo come interconnessi e plasmati dal sistema capitalista al cui interno tutti noi siamo nati. Dal momento che il capitalismo è guidato dall'incessante ricerca del profitto da parte di coloro che ci dominano, il marxismo pone la classe al centro della sua analisi. Per questa ragione, i marxisti vengono talvolta accusati di riduzionismo. Queste critiche, tuttavia, si fondano su un equivoco. Lungi dal sottovalutare le molteplici modalità in cui le persone sono oppresse nella società moderna, l'analisi di classe implica la comprensione delle specificità dell'oppressione e il tentativo di combattere ogni forma di discriminazione. Implica inoltre la capacità di integrare tutte queste specificità nel contesto complessivo della violenza e dello sfruttamento.
Per i marxisti la classe non è un'identità tra le tante. Anzi, nel contesto dell'enorme espansione dei beni di consumo, il fatto che la classe venisse considerata alla stregua di un'identità ha contribuito a oscurare le reali distinzioni di classe. I commentatori amano ripetere che la progressiva scomparsa di una caricaturale «vecchia classe operaia» in berretto di panno e cappotto ci avrebbe resi tutti quanti membri della classe media - oppure di nessuna classe. Il fatto che persone di ceto diverso indossino talvolta scarpe da ginnastica della stessa marca o utilizzino lo stesso tipo di cellulare ci viene additato come prova concreta del fatto che viviamo ormai in una società post-classista, in cui i modelli di consumo degli individui contano più della loro posizione nel mondo del lavoro.
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Neoliberismo, Pil e gli stereotipi dell’informazione
di Giovanni Dursi
«L’economia britannica è ora come l’Italia e la Grecia in termini di rischio per gli investitori, e i politici non sono stati onesti rispetto ai problemi che la nazione deve affrontare», denunciava il conservatore Daily Mail, giudizio immediatamente rilanciato, 18 Ottobre 2022, e commentato da Ugo Tramballi su Il Sole 24ore [1].
Nell’incipit, l’analista tra l’altro riferiva: «Narendra Modi aveva annunciato che l’India era diventata la quinta potenza economica mondiale. Come dato statistico assoluto, non per Pil pro capite. Ma, aveva annunciato il premier, la cosa più importante era che l’India avesse superato la Gran Bretagna.[…]».
Come è facile constatare, in Europa ed altrove nel mondo, l’ansia per le convulsioni economico-finanziarie, presunte o reali, è generata quotidianamente dai media preposti, old and new, al presidio informativo quotidiano con ricorrenti riferimenti che immaginano d’essere chiari e persuasivi, ma che di fatto sono utili stereotipi [2].
Perché questo accade è presto detto: il “mondo” è caratterizzato da una sempre più imprescindibile interdipendenza economica dagli Stati nazionali la cui governance risiede in una sostanziale “regia” delle grandi imprese multinazionali, in grado di “radicarsi nei territori”, grazie anche alle “delocalizzazioni”, con minori costi generali e con possibilità tecniche e finanziarie di presidiare tutto l’andamento produttivo e distributivo prevalentemente “da remoto”.
L’inerente informazione è strategicamente indispensabile a quel “presidio” rendendolo accettabile, è essenziale all’affermazione delle forme di “globalizzazione economica” in corso, come ha efficacemente impostato, pioneristicamente, la disamina in merito al funzionamento ed alle finalità della corrente “produzione politica delle menzogne” e dettagliatamente esplorato Vladimiro Giacché [3].
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È il turno di Taiwan dopo Kosovo e Donbass?
di Enrico Vigna
Dopo la Jugoslavia, il Kosovo, il Donbass tocca ora all’isola cinese essere usata come pedina sacrificale ai giochi geopolitici egemonici statunitensi?
Gli anni Novanta sono stati l’inizio del processo di distruzione dell'ordine mondiale che esisteva dal 1945 nella forma della Carta delle Nazioni Unite, da parte degli Stati Uniti. Nella distruzione della Jugoslavia gli USA, la NATO e l’UE hanno supportato, finanziato e armato le forze secessioniste slovene, croate, bosniache, in Kosovo hanno usato in modo ufficiale la forza militare contro uno Stato sovrano, senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, per portare al potere una organizzazione terrorista.
Nella conferenza internazionale di Bratislava nel 2000, gli USA dichiararono che qualsiasi altro stato poteva invocare questa condotta statunitense come un precedente. Ed è proprio questa dichiarazione che ha aperto una nuova fase geopolitica destabilizzante nel mondo. Non nella lettura giuridica di Bratislava, ma nella possibilità, di fatto, di poter imporre il modello balcanico e del Kosovo in particolare, targato USA/NATO, come possibilità concreta di rovesciamenti di governi sovrani o indipendenti.
Gli USA ritengono di essere l'unica potenza al mondo, che non solo è al di sopra della Carta delle Nazioni Unite, ma può anche farla valere su tutte le altre. Tutti gli altri stati devono essere subordinati ad essa, a parte quelli a cui viene dato il consenso degli Stati Uniti. Il separatismo è diventato l'arma determinante per rimodellare il mondo, come aveva chiarito la Conferenza di Bratislava con gli esempi dell’URSS, della DDR e della Jugoslavia con la loro disintegrazione pianificata.
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Victoria Chick (1936-2023)
di Maria Cristina Marcuzzo*
Abstract: Questo articolo ripercorre il tentativo di Chick, durato tutta la vita, di smascherare ciò che è stato ed è tuttora distorto nell’interpretazione e nell’applicazione della Teoria Generale. Per semplicità, ho elencato alcune delle distorsioni su cui Chick, insieme ad altri, ha richiamato l’attenzione nel corso degli anni. L’elenco non vuole essere esaustivo e alcune distorsioni sono correlate tra loro, ma spero che il mio catalogo catturi la maggior parte delle questioni che sono state al centro del dibattito e del confronto con la Teoria Generale che ha impegnato Chick per tutta la sua vita.
La scomparsa di Victoria (Vicky per tutti noi) Chick a Londra il 15 gennaio 2023, è un grave lutto per la comunità dei post-Keynesiani e degli economisti eterodossi di diverse scuole. Perdiamo una delle più intelligenti interpreti di Keynes che con tenacia lo ha difeso da tante riletture spurie e a volte fuorvianti, e una economista autrice di penetranti analisi della teoria e politica monetaria contemporanee.
Chick era nata a Berkeley, in California, nel 1936. Dopo la laurea e il master a all’Università di California, Berkeley, dove ha avuto come insegnante Hyman Minsky, si laurea di nuovo alla London School of Economics (LSE), nel 1960, a cui segue, tre anni dopo, il primo incarico accademico presso l’University College di Londra (UCL), dove rimarrà in vari ruoli, fino all’ultimo, quello di Professore Emerito.
I suoi corsi di macroeconomia, teoria monetaria e bancaria hanno ispirato innumerevoli studenti, di varie nazionalità, molti dei quali hanno ottenuto il Ph.D con la sua supervisione. Alcuni di noi, studenti italiani alla LSE, a metà degli anni Settanta andavamo a UCL a sentire le sue lezioni, come antidoto alla versione IS-LM del pensiero keynesiano che ci veniva somministrata nel corso di Macroeconomia.
Quest’opera è distribuita con licenza internazionale Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0. Copia della licenza è disponibile alla URL http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/
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Manifesto utopico per Una Scuola-Università del Conoscere/Riconoscere
di Roberto Finelli
1. Innalzamento dell’obbligo scolastico al 18° anno di età. Unificazione delle varie tipologie della scuola secondaria superiore in un unico Liceo che contempli conoscenze generalizzate per tutti di materie storico-letterarie (tra cui Greco e Latino), materie scientifiche, logico informatiche, linguistiche (due lingue straniere), con la forte presenza di attività teatrali, grafiche, musicali e sportive.
L’aumento e la diversificazione del numero delle materie e delle molteplici attività scolastiche sarà consentito da una scuola a tempo pieno, aperta mattino, pomeriggio, sera, tale da divenire il luogo permanente di una attività non solo di istruzione ma di socializzazione e di incontro (senza ovviamente trascurare tempi e spazi dello studio individuale quale momento indispensabile del processo formativo).
Con l’innalzamento dell’obbligo scolastico all’età di 18 anni si provvederà alla riorganizzazione/eliminazione della scuola media inferiore, vero buco nero dell’attuale scuola italiana, da cui gli studenti escono ormai senza la padronanza delle strutture logico- grammaticali-sintattiche più elementari e senza una sufficientemente modesta capacità di scrittura, presupposti indispensabili per un proseguimento non impedito e fecondo della formazione scolastica successiva.
2. Istituzione di un anno sabbatico generalizzato, e pagato con stipendio pieno, per tutti i docenti di scuola materna, primaria, secondaria inferiore e secondaria superiore da trascorrere ogni 7 anni di insegnamento presso Università e Istituti di ricerca italiani e stranieri.
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Autonomia differenziata. La revisione dell’ordinamento statale
di Giovanni Dursi
Il 2 Febbraio 2023 il Consiglio dei Ministri, su iniziativa del Ministro per gli Affari regionali e Autonomie Roberto Calderoli, atta a provocare l’inizio di un inerente procedimento attuativo, ha approvato il Disegno di Legge che codifica l’assetto della cosiddetta “autonomia differenziata”. Il DdL citato si situa nel solco interpretativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione della Repubblica italiana [1], che consente alle Regioni a statuto ordinario interessate di stipulare, sulle ‘materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 [2] e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), intese con lo Stato per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni di autonomia’.
Questo è il primo di tre interventi che Mentinfuga proporrà, il primo dei quali rappresenta una ricognizione storico-politica a) sulle sollecitazioni che l’ordinamento statale repubblicano ha recepito e subito nel recente passato (fine Novecento) e che oggi (terza decade del XXI secolo) sta registrando e b) sugli esiti, ancora del tutto controversi, che s’intravedono con riguardo alla cosiddetta “autonomia differenziata”.
Seguiranno un articolo di disamina tecnico-giuridica e politica dell’orientamento che l’attuale compagine governativa intende dare all’attuazione della cosiddetta “autonomia differenziata” ed un testo di valutazione finale con particolare riguardo al profilo che risulterebbe significativamente modificato – qualsiasi sia la mediazione raggiungibile tra le subculture politiche che hanno partecipato, tutt’ora confrontandosi, alla revisione del dettato costituzionale in merito – di “cittadinanza”, il cui rango odierno pare soggiacere più ad una logica gerarchica d’assoggettamento dei diversi territori (rif. tipico alla questione del “residuo fiscale” [3] che corrispondere al godimento di diritti in modalità universalistica esprimendo un correlato e consolidato vincolo d’appartenenza allo Stato italiano.
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Il conflitto in Ucraina, il ruolo degli USA e le categorie marxiste dell'imperialismo
di Hervé Baron*
Palermo, Giulio (2022): Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo USA alla conquista dell’Europa, L.A.D. EDIZIONI, Roma, pp. 120, € 13, ISBN: 9791280401151
È una verità universalmente riconosciuta, soprattutto dopo il triennio 1989-91, che la Storia sia finita e che le categorie del marxismo siano state, una volta e per sempre, screditate.
Ebbene, si tratta di una falsa verità, come ben dimostra il libro di Giulio Palermo (d’ora innanzi: l’autore) intitolato: Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo USA alla conquista dell’Europa, e completamente costruito sulla “classica” categoria marxista[1] di imperialismo.
Voglio subito aggiungere che, nella maturazione del mio punto di vista, ho potuto beneficiare, oltre che della lettura del testo, anche di un confronto con l’autore in persona.
Tuttavia, prima di entrare nel merito del testo, vi sono alcune questioni che vanno sviscerate. Innanzitutto, dato che, come ripeteva Althusser, non esistono letture innocenti, voglio dichiarare subito di quale lettura lo scrivente è colpevole: di una lettura anarco-socialista[2].
In secondo luogo, mi preme fare una premessa metodologica. In effetti, come forse anche i lettori si saranno resi conto, stiamo vivendo strani tempi, tempi in cui il dibattito tende ad essere appiattito su prese di posizione che presentano, sempre più, due caratteristiche:
- In primo luogo si tratta di prese di posizione moralistiche, del tipo: noi (che facciamo parte della maggioranza o del mainstream) siamo i “buoni”, gli altri (che fanno parte della minoranza) sono i “cattivi”;
- In secondo luogo si tende, sempre più, all’unilateralità, tra l’altro usando modalità che anche l’autore rileva all’interno del suo libro. Tanto che nel terzo capitolo, per esempio, apprendiamo che:
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Il Manifesto invisibile di Marx
di Alastair Hemmens
Pubblichiamo la prefazione di Alastair Hemmens all’ultima edizione francese del Manifesto contro il lavoro, nella traduzione di Afshin Kaveh. Il Manifesto contro il lavoro è un testo partorito dal Gruppo Krisis ed uscito in Germania la prima volta nel 1999. In seguito è stato ripubblicato in quel paese altre tre volte, l’ultima nel 2019 in occasione del ventennale della prima pubblicazione (è possibile leggere la postfazione di Norbert Trenkle a questa edizione qui).
Tradotto in molte lingue (fra cui appunto quella francese), questo testo uscì in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Anche nel nostro paese è in gestazione la sua ripubblicazione, arricchita con altri testi. La nuova edizione apparirà con ogni probabilità entro l’anno, quindi anche in questo caso in occasione del ventennale, però dell’edizione italiana.
Il Manifesto contro il lavoro è da sempre un testo con fortune alterne: amato, odiato, vilipeso o venerato, sembra sfugga le mezze misure. La sua importanza, tuttavia, sia dal punto di vista concettuale che come “provocazione” a fronte delle miserie della sinistra mondiale attuale, non può essere misconosciuta. Lo prova, sia pure indirettamente, l’impatto che ha avuto e sta avendo in Francia, per esempio in occasione degli scioperi in corso in risposta al progetto di aumento dell'età’ pensionabile da parte del governo Macron, scioperi che spesso si sono trasformati in vere e proprie manifestazioni contro il lavoro. Persino un ex-ministro come Luc Ferry si è scomodato, in un paio di articoli apparsi su Le Figaro, ad esprimere un parere un po’ preoccupato sui contenuti del Manifesto e sulla loro diffusione, indicando peraltro alcuni dei “responsabili” di questo “misfatto” (tra cui proprio Alastair Hemmens, l’autore dello scritto che qui presentiamo).
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La guerra è imminente. Fate sentire la vostra voce. Ora!
di John Pilger
Nel 1935, si tenne a New York il Congresso degli scrittori americani, seguito da un altro due anni dopo. Questi congressi chiamarono a raccolta "centinaia di poeti, romanzieri, drammaturghi, critici, scrittori di racconti e giornalisti" per discutere del "rapido sgretolarsi del capitalismo" e dell'incombere di un'altra guerra. Furono eventi elettrici ai quali, secondo un resoconto, parteciparono 3.500 persone e più di mille furono respinte.
Arthur Miller, Myra Page, Lillian Hellman, Dashiell Hammett mettevano in guardia sulla crescita del fascismo, spesso mascherato, e che la responsabilità di parlare spettava a scrittori e giornalisti. Vennero letti i telegrammi di sostegno di Thomas Mann, John Steinbeck, Ernest Hemingway, C Day Lewis, Upton Sinclair e Albert Einstein.
La giornalista e romanziera Martha Gellhorn si schierò a favore dei senzatetto e dei disoccupati, e di "tutti noi sotto l'ombra di una grande potenza violenta".
Martha, che divenne una cara amica, mi disse più tardi, davanti al suo consueto bicchiere di Famous Grouse e soda: "La responsabilità che sentivo come giornalista era immensa. Ero stata testimone delle ingiustizie e delle sofferenze della Depressione e sapevo, come tutti noi, cosa sarebbe successo se non si fosse rotto il silenzio".
Le sue parole riecheggiano nei silenzi di oggi: sono silenzi riempiti da un consenso di propaganda che contamina quasi tutto ciò che leggiamo, vediamo e sentiamo. Vi faccio un esempio.
Il 7 marzo, i due più antichi quotidiani australiani, il Sydney Morning Herald e The Age, hanno pubblicato diverse pagine sulla "minaccia incombente" della Cina.
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Regressione narcisistica
di Salvatore Bravo
La decadenza culturale, politica ed etica dell’Occidente non è scritta negli astri e non è un destino, è storicamente determinabile, ha un nome: il capitalismo nella sua espressione assoluta, ovvero è in atto un processo di abbattimento di ogni vincolo etico e di ogni katecon. La libertà delle merci e del valore di scambio è proporzionale alla libertà dei sudditi che servono il mercato e consentono al capitale di trasformarsi nel substrato che deforma la natura etica e solidale dell’essere umano. La verità della condizione del cliente-consumatore si svela nei gesti quotidiani. Non pochi sono stati i commenti e le polemiche sul selfie al funerale di Maurizio Costanzo della moglie con un fan. La morte sembra sia stata cancellata dal gesto del selfie che ha posto al centro lo spettacolo dei “narcisi” alla ricerca di un attimo di notorietà, mentre il mistero e la tragedia della morte sono state occultate dall’ego che ha invaso lo spazio pubblico cancellando ogni presenza altra. Il narcisismo è il sintomo della patologia del capitalismo, l’essere umano nella trappola del valore di scambio sviluppa una forma parossistica di narcisismo.
Cristopher Lasch ci è di ausilio per comprendere la genealogia del male di vivere. Smitizza il narcisismo al quale si associa l’ipertrofia dell’io sicuro di sé e dotato di un’armatura impenetrabile. Il sociologo americano dimostra che l’ipertrofia cela l’io minimo ridotto ad esoscheletro del logos. Il narcisismo non è affermazione dell’individuo, ma negazione della soggettività. Nel mondo delle ombre del capitale ciò che appare non è la verità, ma il traviamento della stessa.
La natura umana è etica e solidale, il soggetto si forma e si esprime nel riconoscimento dell’altro, nel disporsi verso l’alterità per ritornare su se stesso e conoscersi nella differenza vissuta e sperimentata. Il narcisista occupa lo spazio pubblico con i suoi bisogni immediati, non li media con il logos, pertanto è nella trappola dell’immaturità egoica.
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