Gaza brucia
di Gennaro Avallone
A Gaza, capitalismo, imperialismo, colonialismo e i gruppi umani che concretamente ne incarnano e realizzano le logiche di funzionamento si mostrano per quello che storicamente sono: modi di produzione e governo che tendono a distruggere tutto ciò che ritengono inutile o di ostacolo al proprio dominio. È questo che il Governo e l’esercito di Israele, in complicità con quello degli Stati Uniti e di tutte le imprese e gli stati che con essi collaborano, stanno facendo da decenni, con un’accelerazione radicale, giunta fino alla forma del genocidio-ecocidio, da ottobre 2023. E che in questi giorni stanno cercando di portare a compimento a Gaza city.
Dico la verità: è difficile scrivere e pensare mentre sono in corso sfollamenti forzati, devastazioni continue, esplosioni con centinaia di morti ogni giorno, cancellazione di ogni traccia di vita, in assenza di una risposta dei governi a livello internazionale all’altezza della gravità assoluta di ciò che sta accadendo. I sentimenti portano soprattutto all’azione, alla denuncia pubblica, al sostegno, anche economico, a chi è in fuga a Gaza e a chi sta cercando di portare soccorsi. Tuttavia, scrivere aiuta a concentrare l’attenzione, ma anche a non lasciarsi andare alla disperazione. Non ce lo possiamo permettere: come ci insegna l’intera storia palestinese, come ci stanno insegnando le persone a Gaza che continuano a resistere, a cercare di vivere, per sé e per chi verrà.
Gaza ci dice che siamo nel compimento della fase apocalittica del capitalismo portata al suo livello estremo, quello dell’assolutizzazione necropolitica. L’antropologa Rita Segato ci ha spiegato, nel libro La guerra contra las mujeres, che questa è la fase in cui si impone la personalità psicopatica, addestrata «a condurre una vita priva di sensibilità nei confronti della sofferenza altrui, senza empatia, senza compassione», capace di convivere strutturalmente in modo indifferente con atti di crudeltà quotidiana, «nella quale depredare, trasferire in maniera coatta, sradicare, schiavizzare e sfruttare il più possibile sono il cammino dell’accumulazione». Questo tipo di personalità è disposta a tutto perché non crede in niente altro che in sé stessa: è nel giusto perché non ha termini di confronto esterni. Negli altri non vede nulla: sono un semplice mezzo o un ostacolo.
Questa personalità prolifera riproducendo sé stessa. Utilizzando gli altri come oggetti. Il progetto di Donald Trump su Gaza come riviera svuotata dei suoi abitanti; le parole dei ministri israeliani sulla popolazione palestinese da sparare alla testa; i continui ordini di evacuazione di Tsahal e il piano reso pubblico dal ministro Smotrich di distruzione totale e concentrazione della popolazione locale in una piccola area della Striscia sono possibili solo definendo le donne e gli uomini di Gaza come cose senza valore.
L’esercito e il Governo di Israele hanno deciso di disporre di questa popolazione in base ai propri piani politici e militari, rendendola un oggetto dei propri esclusivi interessi, dipendente da altri per mangiare, curarsi, studiare e spostata a piacimento altrui. Ogni resistenza e ogni opposizione a questa riduzione sotto la linea dell’umano viene definita come terroristica, nel tentativo di privarla di ogni autonomia legittima, di qualsiasi dimensione politica: gli abitanti di Gaza o sono minacce radicali da uccidere, appunto in quanto terroristi, o sono corpi affamati, da costringere ai cosiddetti aiuti umanitari e alle riserve. La popolazione di Gaza è stata sottoposta allo stesso ordine del discorso costruito dagli anni ’90 con riferimento alla popolazione immigrata – minaccia assoluta o umanità bisognosa dell’aiuto altrui – ma in maniera totalizzante, accompagnata a un insieme di politiche e azioni militari che non le hanno lasciato alcuna via di uscita.
Guardando a cosa è accaduto a Gaza dagli inizi degli anni 2000 e, soprattutto, da ottobre 2023, si vede in atto un laboratorio in cui si sperimentano le politiche di mobilità e immobilità imposte a un’intera popolazione. Come avevano già evidenziato ricerche precedenti il 2023, a essere centrali in questa parte della Palestina sono da tempo le seguenti metafore: prigione a cielo aperto, terrore, resistenza, occupazione, assedio, trauma, crisi, eccezione, rifugiati, miseria, tunnel. Esse si collegano ai concetti di eccezione, disuguaglianza, spossessamento, biopolitica, necropotere: un insieme di parole che rilevano la centralità delle pratiche di controllo e assoggettamento della popolazione locale, espropriata della possibilità di costruire il proprio futuro in maniera autodeterminata a partire, proprio, dal controllo esercitato da Israele sulla sua mobilità.
L’enormità di quanto Israele sta facendo a Gaza apre a una serie di domande. La sua azione volta a disporre di un’intera popolazione sarà il futuro di una parte dell’umanità? Essa si estenderà oltre l’enclave palestinese ad altre popolazioni e territori? Aprirà, dunque, una nuova fase storica nel controllo della mobilità e immobilità umana? Si tratta di domande legittime se si considera la dotazione tecnologica e militare con la quale il mondo è chiamato a confrontarsi, ma anche con il fatto che Israele è all’avanguardia nelle tecnologie di controllo non solo della popolazione palestinese ma di quella migrante in generale, con strette connessioni tra le due.
La questione generale che richiama l’azione militare e politica genocidiaria in corso a Gaza da parte di Israele si riferisce allo statuto non solo della popolazione palestinese, ma dell’intera umanità definibile come indesiderabile o inutile o superflua: quell’umanità che può morire o, addirittura, deve morire affinché i rapporti di potere vigenti restino inalterati e, con essi, le modalità di funzionamento del modo di produzione capitalistico.
In sintesi, Gaza rappresenta il futuro per quella parte di umanità privata tanto del diritto a respirare quanto della terra. Affinché questa distopia non si affermi è necessario coniugare il diritto a vivere e, di conseguenza, alla terra e all’abitabilità degli ambienti di vita, con la lotta alle politiche mortifere delle frontiere. Solidarietà e pratiche antirazziste e internazionaliste, come esemplificato dall’azione in corso della Global Sumud Flotilla e dal sostegno espresso dai lavoratori portuali di Genova, sono la prospettiva alternativa da sostenere in cooperazione con quanti resistono in Palestina. Questa alternativa si sta già realizzando. Le iniziative di boicottaggio, sanzioni, interruzioni di rapporti con le istituzioni israeliane si stanno moltiplicando. Certo, con ritardo rispetto alla gravità assoluta della situazione e alle informazioni disponibili da tempo sugli obiettivi di Israele, ma sta avvenendo. Al «momento Gaza» ha iniziato a contrapporsi il «momento Sudafrica», la possibilità di sanzionare e isolare uno stato che sta perpetrando un genocidio. Questo non fermerà nell’immediato il Governo israeliano ma porrà le basi per non sprofondare definitivamente in un futuro di terrore e fascismo.