Sulla situazione in Medio Oriente
di Enrico Tomaselli
A ennesima conferma di come si tratti di una delle situazioni più complesse da dirimere, perché porta in nuce tutti i danni provocati dal colonialismo europeo ottocentesco, a cui si aggiunge l’esistenza di Israele, stiamo assistendo ancora una volta a una serie di sommovimenti che, sommandosi, tessono una trama intricatissima.
Messa in pausa la guerra con l’Iran, adesso l’obiettivo USA è porre fine a quella di Gaza. Il disegno strategico statunitense è sempre lo stesso, gli Accordi di Abramo, ma con alcune significative variazioni nel quadro generale. Come riferisce Axios – pubblicazione USA assai vicina ai servizi segreti – nel corso del lungo viaggio di Netanyahu a Washington (stavolta, come si è visto, senza grandi onori pubblici), si starebbero stabilendo le condizioni per arrivare al cessate il fuoco. In particolare, si riferisce di incontri serrati tra Ron Dermer, stretto consigliere di Netanyahu, Steve Witkoff e un funzionario del Qatar, paese che sta mediando tra le parti e che ha riferito le richieste della Resistenza palestinese. Il punto cruciale rimasto da risolvere sembra essere l’entità del ritiro israeliano; Tel Aviv insiste per mantenere il controllo del corridoio Morag, che serve a enucleare una vasta zona nel sud della Striscia, destinata – nel disegno israeliano, delineato nel piano Smotrich – a diventare un gigantesco campo di concentramento. Mentre sia la Resistenza che l’amministrazione USA sono, per ragioni ovviamente diverse, contrarie. Naturalmente, trattandosi di Israele (e in questo gli USA non sono granché differente), l’affidabilità di eventuali accordi sottoscritti è estremamente labile, e potrebbero essere stracciati non appena lo ritenessero utile o possibile.
La strategia statunitense punta a piegare Israele, forte dell’intervento che l’ha salvata in corner da una bruciante sconfitta da parte dell’Iran, poiché questo passaggio (la fine del conflitto cinetico a Gaza) è la conditio sine qua non per portare avanti gli Accordi di Abramo, che restano il cardine su cui ruota tutta la politica mediorientale USA. Come contropartita, Trump probabilmente offrirà il riconoscimento di una ulteriore annessione di territori occupati in Cisgiordania.
Molto semplicemente, infatti, l’Arabia Saudita (e gli altri paesi arabi del Golfo) vogliono che la regione venga pacificata, per poter perseguire i propri progetti di sviluppo; e, al tempo stesso, gli USA hanno un bisogno vitale di questi paesi, sia come investitori che come garanti della sopravvivenza del petrodollaro (cioè uno dei principali ganci a cui si regge la valuta statunitense), mentre Israele è soltanto un pozzo senza fondo che ingoia risorse preziose (economiche e militari). Peraltro, Ryad ha ben presente che Teheran è una realtà (politica, economica e militare) imprescindibile nella regione, e ormai saldamente legata sia alla Russia che alla Cina, a cui l’Arabia è a sua volta interessata in termini di interscambio commerciale. E se già gli accordi, mediati proprio da Pechino, che avevano portato alla riapertura delle relazioni tra i due paesi, hanno rappresentato un passaggio significativo, ancor più importante è stata proprio la guerra dei dodici giorni (che ha chiarito i reali rapporti di forza militare Iran/Israele-USA), e in particolare l’attacco alla base statunitense di Al-Udeid in Qatar. Anche se i paesi del Golfo guardano con fastidio all’influenza esercitata dall’Iran su molti paesi arabi, sono comunque ben consapevoli che è meglio trovare un modus vivendi pacifico col paese vicino.
Ma, se la politica USA in Medio Oriente necessita di una pacificazione regionale, ciò non significa soltanto tenere a bada il cane pazzo israeliano, ma anche smantellare (o comunque rendere il più inoffensivo possibile) l’Asse della Resistenza. È questa la ragione per cui c’è tutto questo appoggio per il nuovo governo siriano, benché consapevoli per un verso della sua scarsa solidità, e per un altro della sua estrema vicinanza alla Turchia (cosa questa sgradita sia a Washington che a Tel Aviv). Così come è la ragione per le crescenti pressioni sul Libano affinché disarmi Hezbollah, e quelle esercitate sul governo iracheno per smantellare le milizie popolari sciite.
Nell’ambito di questo grande gioco, si inserisce ovviamente l’accordo che si va delineando tra Siria e Israele, con quest’ultima che si ritirerebbe dai territori occupati nel sud siriano, in cambio di una cessione delle alture del Golan a Tel Aviv. Voci insistenti parlano anche di una clausola segreta di questi accordi, in base alla quale la Siria si impegnerebbe ad attaccare il Libano qualora lo facesse Israele.
Ma, al tempo stesso, è evidente che questi sforzi, quantomeno sul breve termine, alimentano tensioni piuttosto che smorzarle. Anche se per il momento Hezbollah è costretta a fronteggiare l’offensiva portata avanti dall’inviato statunitense Tom Barrak, cercando di evitare di innescare uno scontro interno al paese, e dovendo sopportare il permanere dell’occupazione israeliana di pezzi di territorio (che avrebbe dovuto liberare in seguito all’accordo di cessate il fuoco…), così come i continui bombardamenti dell’aviazione di Tel Aviv, è evidente che non potrà mai accettare di farsi disarmare, anche a costo di una nuova guerra civile. Che, non ci vuol molto a capirlo, aprirebbe una finestra di opportunità per Israele, che partirebbe sicuramente con la quarta invasione del paese dei cedri. Simile, ma meno tesa, la situazione in Iraq, dove le Forze di Mobilitazione Popolare sono in gran parte già integrate nelle forze armate, e quindi sarebbe assai più complicato pretenderne la smobilitazione.
Last but not least, la questione curda continua a pesare sullo scenario regionale. Dopo l’annuncio in tv dello scioglimento del PKK, fatto da Öcalan e altri dirigenti curdi, nel Kurdistan siriano c’è stata una cerimonia simbolica di riconsegna delle armi da parte di alcuni guerriglieri. Ma, appunto, si è trattato di un atto simbolico. Le forze curde siriane non sono molto disposte al disarmo, e infatti i colloqui a Damasco tra governo e SDF si sono arenati proprio sulla questione dell’autonomia regionale, e su quella di mantenere – dopo l’integrazione nell’esercito – le unità curde sul territorio del Rojava. Tra l’altro, c’è un dissidio anche più profondo tra Öcalan e i leader curdi siriani, i quali si sono da tempo accucciati sotto l’ala protettiva statunitense (senza disdegnare anche contatti con Israele), mentre il leader del PKK mantiene la sua posizione fortemente antimperialista e anti-USA.
Non da ultimo, e come effetto della medesima situazione, nel Kurdistan iracheno (regione autonoma creatasi dopo la caduta di Saddam, e anche questa sotto controllo USA-Israele) si sono registrati scontri tra i peshmerga governativi ed alcuni capi tribali. Il mondo curdo, insomma, è a sua volta in una fase di riassesto degli equilibri interni, e questo si va a collocare nel più ampio mutamento degli equilibri geopolitici dell’intero Medio Oriente. Una partita ancora tutta aperta, e che non vede necessariamente in vantaggio l’asse israelo-statunitense; il quale, anzi, è costretto a cercare mediazioni diplomatiche proprio perché ha messo in evidenza la sua incapacità di sostenere un confronto militare di logoramento. L’onda lunga del 7 ottobre continua a manifestarsi, ed hanno ben poco di cui rallegrarsi, sia a Washington che a Tel Aviv.