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Draghi dall’agenda alle lamentazioni

di Francesco Piccioni

E’ bastato un anno per verificare che “l’agenda Draghi” era una tigre di carta. O, più precisamente, che si trattava di mega-piano costruito sul wishful thinking, una sfilza di desideri messi nero su bianco, ma sostanzialmente privo di programmazione, direzione politica e operativa, connessione stretta tra mezzi e obiettivi. Irrealistico, insomma.

Parlando di nuovo a Bruxelles, nella conferenza della Commissione Ue sul primo anno del suo report sulla competitività, ieri “superMario” ha recitato come sempre la parte del guru che saprebbe come mettere a posto le cose, ma non può. Un super-consigliere che vede le sue parole perdersi nei corridoi, citate da tutti, messe in pratica da pochi, con risultati inevitabilmente nulli.

La lettura del suo discorso, però, mette in evidenza anche i difetti strutturali che rendono quel mega-piano una costruzione che comunque non potrebbe produrre risultati.

Tutte le indicazioni concrete, non a caso, risultano anche ai suoi occhi difficili da realizzare, tardive, ostacolate non solo da “egoismi nazionali” ma da una struttura dell’economia globale che ha dimostrato l’inconsistenza strategica del mercantilismo europeo a trazione tedesca. Ovvero di quel “modello” fatto di bassi salari, austerità nei bilanci pubblici, rifiuto dell’intervento dello Stato nell’economia, privatizzazioni a raffica e produzione per l’esportazione extra-UE che è stato l’alfa e l’omega della costruzione europea “a trazione tedesca”.

Si tratta del modello che ha avuto lo stesso Draghi tra gli architetti principali – fin dai tempi del “discorso del Britannia”, 2 giugno 1992 – e che ha prodotto, almeno per quanto riguarda il nostro paese, una desertificazione industriale che appare ormai irreversibile (a parte pochissimi settori dove non per caso lo Stato è rimasto protagonista centrale, come gli armamenti).

Andiamo però con un po’ di ordine, ché la materia è sicuramente complessa.

Per chiarire come l’errore costitutivo della costruzione neoliberista sia – in senso lato – addirittura “filosofico”, ossia di impostazione, conviene partire da un settore industriale che è stato fin qui fondamentale nello sviluppo del Vecchio Continente, anche se sempre più ristretto alla locomotiva tedesca e alle sue filiere: l’automotive.

Dice Draghi: “In alcuni settori, come quello automobilistico, gli obiettivi posti dall’Ue si basano su presupposti che non sono più validi. La scadenza del 2035 per le emissioni zero allo scarico era stata concepita per innescare un circolo virtuoso: obiettivi chiari avrebbero spinto gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica, fatto crescere il mercato interno, stimolato l’innovazione e reso i modelli elettrici più economici. Si prevedeva che batterie, microchip si sviluppassero parallelamente.

Ma ciò non è avvenuto“.

E non poteva avvenire. Alla base c’è infatti il ruolo ancillare affidato al “pubblico”, ossia al potere politico e agli strumenti che questo può utilizzare. In pratica, il solo “fissare obiettivi chiari” e poi attendere che “gli spiriti animali del mercato”, o almeno gli investimenti delle imprese private, adattassero le loro strategie industriali a quelle indicazioni, sfruttando le opportunità teoricamente create dalle normative.

Come strumenti di “convincimento”, se non proprio di coercizione, avrebbero poi dovuto funzionare i divieti di immatricolazione e circolazione dei veicoli più vecchi e inquinanti, secondo una tempistica scadenzata sulla quantità di emissioni (“euro 1”, “euro 2”, ecc). Agli Stati nazionali non restava che emettere una serie di dispositivi legislativi premianti (incentivi, quando c’erano i fondi disponibili) o punitivi per far rispettare almeno passabilmente le normative europee.

Sappiamo bene com’è andata. I bassi sempre più salari della gran massa dei lavoratori dipendenti (per non parlare dei pensionati e dei sempre più numerosi precari) hanno ridotto ai  minimi termini il rinnovo del parco automobilistico circolante.

Di conseguenza i governi sono stati pressati – dal basso, dai cittadini, e dall’alto, ossia dai costruttori – per rinviare il più possibile le scadenze. Gli interessi elettorali dei partiti più reazionari hanno spinto per adottare un “senso comune” anti-ambientalista, decisamente negazionista del cambiamento climatico, supportando di fatto il rifiuto degli obiettivi europei.

Nessuno o quasi, tra i costruttori, ha investito davvero per rendere di massa la disponibilità di auto elettriche ad un prezzo competitivo e con prestazioni equivalenti (percorrenza e velocità di ricarica, prima di tutto), perché si vedeva bene che “la domanda” non si creava “spontaneamente” (mancando il reddito adeguato).

Siamo finiti così ad assorbire parte della “sovracapacità cinese”, più avanzata tecnologicamente e a prezzi di poco inferiori, mentre l’industria continentale restava al palo tecnologicamente e vedeva restringersi il proprio mercato.

Restava in ogni caso il problema delle infrastrutture (reti di ricarica, ecc), che è per definizione a carico degli Stati ma che – proprio per la bassa domanda – sconta ritardi, eccessi di prudenza, ostilità da politicanti, ecc, aggravando così lo stato asfittico della domanda di auto elettriche in un circolo vizioso senza sbocchi.

Ma l’automotive è solo il pivot del sistema industriale europeo. Tutto il resto è andato in una direzione sostanzialmente simile, al punto che oggi – sottolinea sconsolatamente Draghi – “Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno. Ci è stato dolorosamente ricordato che l’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità“.

La Storia ha un’ironia crudele. I teorici dell’”antisovranismo”, quella narrazione tossica che esaltava la cessione di sovranità” dai popoli ai mercati (e alla loro espressione politica continentale, la UE), sono ora costretti a piangere sulle “minacce alla nostra sovranità”. Ossia alla capacità di decidere autonomamente il proprio destino… 

L’”inazione” chiama oltretutto in causa le strutture di direzione politica della UE, incapaci – o impossibilitate? – a passare dalle “indicazioni” ai fatti. Dopo quasi 40 anni di “lasciate fare ai mercati” si scopre che forse (forse?) sarebbe meglio che “il pubblico” agisca. Ma non c’è più, almeno come “progettista”…

Basterebbe questo, in un consesso intellettualmente onesto, per considerare le eterne “ricette Draghi” come improvvisazioni escogitate seguendo lo “spirito del tempo”. Ultrà liberista quando c’era da privatizzare, keynesiano di ritorno (con moderazione, per carità, e più sul militare che sull’industria civile) quando ormai non funziona più nulla.

La soluzione di super-Mario è quella nota: stringere politicamente i bulloni, concentrare le decisioni anche in “gruppi di volenterosi” che creano nuove situazioni di fatto e nuove istituzioni “a maggioranza”, superando l’unanimismo e lo stesso “stato di diritto” (“Troppo spesso si trovano scuse per giustificare questa lentezza. Si dice che è semplicemente così che è strutturata l’UE. Che bisogna rispettare un processo complesso che coinvolge molti attori. A volte l’inerzia viene persino presentata come rispetto dello Stato di diritto”). Ah, le “autocrazie”, che vantaggio hanno…

Ma d’altro canto bisogna fare seriamente i conti con le “dipendenze” strategiche che vincolano la baracca europea.

La dipendenza dagli Stati Uniti per la difesa è stata citata come uno dei motivi per cui abbiamo dovuto accettare un accordo commerciale in gran parte alle condizioni americane”, subendo i dazi come un “successo” anche se danno un colpo di piccone ad un edificio già pericolante.

Gli Stati Uniti hanno imposto le tariffe più elevate dall’era Smoot-Hawley. La Cina è diventata un concorrente ancora più forte. Abbiamo anche visto come la capacità di risposta dell’Europa sia limitata dalle sue dipendenze, anche se il nostro peso economico è considerevole”.

Per l’energia siamo nelle mani – egualmente – degli Stati Uniti, che hanno sostituito la Russia come fornitore a causa delle sanzioni più suicide della storia mondiale. Ma da un prezzo quattro volte maggiore, il che manda la produzione europea fuori mercato anche se si insiste nel tenere bassi i salari (questo Draghi non lo dice, ovviamente). Ma le due cose insieme rendo la domanda interna europea incapace di compensare le minori esportazioni. E quindi la crisi continua…

Dovremmo insomma “competere” con Usa e Cina, ma dipendiamo da entrambi i competitor per ragioni diverse (nessuna produzione è più “pura”, ossia fatta integralmente “in casa”; ogni merce contiene componenti che provengono da qualsiasi continente, obbedendo alla legge del prezzo e della qualità costruttiva).

Soprattutto l’”Europa” presenta due svantaggi strutturali irrimediabili nel breve termine. Gli Stati Uniti gestiscono la moneta che ancora oggi copre diverse funzioni fondamentali (unità di misura internazionale, mezzo di pagamento interno e mondiale, mezzo di tesaurizzazione), il che consente loro di scaricare ciclicamente su (una parte del) resto del mondo i propri squilibri, oltre ad avere un comando centralizzato sicuramente più efficiente.

La Cina unisce per di più a quest’ultimo vantaggio quello decisivo: la pianificazione e la programmazione in ambito economico. Non solo può decidere più rapidamente dell’Unione Europea, insomma, ma può anche fare quel che ha deciso.

Detto altrimenti. Quando l’America decide, si mette in azione via dollaro, mercati finanziari, minacce militari, relazioni commerciali “prepotenti”, tipicamente imperiali.

La Cina agisce invece indirizzando tutte le proprie energie secondo un piano, utilizzando “il mercato” senza farsene dominare e stabilendo – in quel quadro – relazioni commerciali win-win, che attraggono sempre più entità statuali bisognose di gestire la propria crescita mettendo un freno a secoli di rapina coloniale.

“L’Europa” è rimasta in mezzo al guado. Non è un soggetto statuale pieno, non ha un esercito integrato e sperimentato, non pianifica nulla e subisce le oscillazioni brutali dei mercati cercando inutilmente di porre “regole e obiettivi” aggirate in un attimo da soggetti più potenti (le grandi piattaforma dell’e-commerce o dell’informatica, per esempio). Ha santificato il neoliberismo e la concorrenza interna, al punto da suscitare reazioni nazionalista potenti e potenzialmente disgreganti.

E Draghi serve ancora una volta a fare la diagnosi e stilare la lista dei possibili rimedi. Possibili sul piano solo teorico, però. Quasi inaffrontabili per una classe dirigente continentale mai così in contrasto con i propri popoli – tutti o quasi i governi sono sull’orlo della crisi, al pari delle industrie principali – e così priva di visione storico-strategica.

Del resto, se per 30 anni e più “lasci fare al mercato”, non è che una mattina ti svegli e sei bello pronto a dargli una regolata…

 

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Comments

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marku
Monday, 22 September 2025 07:32
forse il più grande problema
dell'€urokrazia è
che gli stessi "scienziati"
che hanno creato la
medicina
il Merkantil
che ha portato in
punto di morte
il paziente
ora
imbolsiti, invecchiati e travolti dagli eventi
vengono ancora evocati
come
demiurghi
di una rinascita
di quello che
oramai
è solo un
vegetale morente
e quale unica cura
propongono
disperatamente
quale salvifica medicina
l'Occidentalin forte

CHE VIVA ROBESPIERRE
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