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Il Piano Marshall si fa a guerra finita

di Gianandrea Gaiani

La Conferenza per la Ricostruzione dell’Ucraina (Ukraine Recovery Conference – URC 2025) ha visto riunirsi a Roma 100 delegazioni ufficiali, 15 Capi di Stato e di Governo, 40 organizzazioni internazionali, una quarantina di ministri inclusi tutti gli italiani e 8.351 persone accreditate inclusi 2.000 esponenti di aziende (per un quarto 500 italiani), con 120 stand espositivi.

I lavori, seguiti da 647 giornalisti, hanno visto la firma di 200 accordi di cooperazione, di cui 40 firmati da imprese italiane (tra cui Webuild, Ansaldo Energia, Leonardo, Eni, Ferrovie dello Stato, Enel, Prysmian e numerose PMI) per oltre 10 miliardi di euro (per il 25% stanziati dalla Ue) che verranno messi a disposizione per sostenere l’Ucraina e la sua ricostruzione.

Fondi peraltro del tutto insufficienti considerando che, secondo le stime della Banca Mondiale, i danni materiali inflitti all’Ucraina dall’inizio della guerra ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari: valutazione probabilmente stimata per difetto se si tiene conto che un simile ammontare era già stato stimato nel 2024.

Inoltre questa cifra non include le spese per la ricostruzione complessiva del Paese mentre l’agenzia di stampa Euractiv ha valutato le necessità infrastrutturali più urgenti in Ucraina nei settori dell’edilizia abitativa (danni stimati per 57 miliardi di dollari), dei trasporti (36 miliardi) ed energia e settore minerario (20 miliardi).

Ci sarebbero molte buone ragioni per guardare con prudenza a massicci investimenti in Ucraina (anche alla luce del fatto che Kiev vuole continuare la guerra) da parte di un’Europa già in ginocchio sul piano finanziario, economico ed energetico.

Come ha sottolineato Maurizio Boni in una recente intervista il fatto che i grandi fondi d’investimento, a partire da Black Rock, si siano sfilati dalla ricostruzione significa che i margini di rischio e di ambiguità sono molto alti.

Specie in una nazione come l’Ucraina di fatto in bancarotta, dove la spesa militare assorbe il 60 per cento di quella pubblica e tra le più corrotte al mondo, in cui ministri, viceministri e alti funzionari pubblici che vengono rimossi in seguito a scandali legati alla corruzione non vengono arrestati ma espatriano presso dimore e proprietà di lusso in Europa o negli Stati Uniti.

Nella due giorni di URC 2025 è stato in più occasioni utilizzato il termine “Piano Marshall”, equiparando gli sforzi messi in campo per la ricostruzione dell’Ucraina con il piano statunitense che con quasi 13 miliardi di dollari dell’epoca contribuì alla ricostruzione postbellica dell’Europa in seguito alla seconda guerra mondiale.

Se mettiamo da parte iperbole e discorsi ambiziosi a cui i leader dell’Europa ci hanno abituato in questi tre anni e mezzo di guerra, appare evidente come un “piccolo dettaglio” distingua in modo palese la conferenza di Roma per la ricostruzione dell’Ucraina dal piano messo a punto da George Marshall, alla testa dell’US Army durante la seconda guerra mondiale e poi segretario di Stato e segretario alla Difesa del presidente Harry Truman.

Il Piano Marshall venne annunciato nel giugno 1947 (cioè due anni dopo la fine della guerra in Europa) e si sviluppò tra il 1948 e il 1952 (cioè fra tre e sette anni dopo la resa del Terzo Reich) con investimenti che videro tra i maggiori beneficiari Gran Bretagna, Francia, Germania Ovest, Italia e Olanda.

A ben guardare tutti i piani di ricostruzione post bellica, nazionali o multinazionali, si sono sviluppati dopo il termine delle ostilità, come dimostra lil termine “post bellica”.   

Difficile quindi comprendere quale senso possa avere continuare a discutere di ricostruzione dell’Ucraina, tema affrontato per la prima volta al summit URC 2022 a Lugano, esattamente tre anni or sono (appena cinque mesi dopo l’inizio del conflitto), quando la guerra è ancora in corso e non sembrano esserci margini negoziali per concluderla in tempi brevi, come ormai sostengono apertamente anche a Washington e ammettono a Mosca.

“Non è possibile in questa fase raggiungere gli obiettivi in Ucraina attraverso i canali diplomatici e quindi prosegue la sua offensiva su larga scala”, ha detto il 6 luglio il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov.

Pianificare la ricostruzione dell’Ucraina è un esercizio puramente teorico e dal significato forse politico in una fase in cui vi sono solo incertezze, a cominciare dal fatto che nessuno oggi può dirsi certo che l’Ucraina sopravviverà come entità statale al conflitto.

Inoltre è impossibile avere certezze su quali e quanti territori, nei quali si pianificano oggi interventi di ricostruzione, saranno a fine guerra sotto il controllo di Kiev.

A questo proposito è interessante notare che secondo il quotidiano tedesco Junge Welt, ripreso in Italia dall’agenza AGENPARL, l’Unione Europea “non sarebbe interessata alla riconquista dei territori persi dall’Ucraina, ritenendo che un eventuale recupero delle aree occupate dai russi aumenterebbe in modo significativo i già elevatissimi costi di ricostruzione”.

“Ciò che colpisce nelle previsioni per Kiev è il tacito riconoscimento che l’Ucraina non riacquisterà mai i territori perduti,” scrive il quotidiano. Secondo la testata, l’est e il sud dell’Ucraina – attualmente sotto controllo russo – non rientrerebbero più nei piani politici e finanziari di Bruxelles.

Valutazione che non tiene conto del fatto che molte aree dell’Ucraina sotto controllo russo sono già state ricostruite (vedi la città di Mariupol) da Mosca. Certo, fa un po’ sorridere (amaramente) che l’Europa valuti l’interesse o meno a riconquistare i territori ucraini perduti, territori in cui verrebbero sacrificate vite ucraine non certo europee a parte i “volontari” e consiglieri militari già inviati da molte nazioni aderenti alla NATO a combattere in Ucraina ma di cui restano ignoti numeri e perdite.

Pur avendo rifiutato un accordo con Mosca che avrebbe sancito la perdita di 4 regioni più la Crimea e quindi non accettando di riconoscere nessuna perdita territoriale, il governo ucraino e l’Unione Europea considererebbero già perdute e “non riconquistabili” importanti aree dell’est e del sud del paese sotto il controllo russo.

In questo contesto, che sottintende l’incapacità militare dell’Ucraina di reggere il fronte (a causa di perdite crescenti, calo degli aiuti occidentali, fuga dall’arruolamento e almeno 230 mila disertori) e dell’Europa di aiutare con efficacia Kiev a farlo, occorre chiedersi che senso abbia sacrificare ancora tante vite inutilmente in un conflitto che non sarà possibile vincere.

E’ necessario anche domandarsi che senso abbia varare piani di ricostruzione per un’Ucraina continuamente martellata da 500/700 missili e droni russi (597 droni e 26 missili balistici e da crociera lanciati solo la notte scorsa) diretti ogni notte a demolire infrastrutture militari, strategiche e industriali ucraine.

Meglio ricordarlo, il Piano Marshall non finanziò la ricostruzione della Gran Bretagna quando si trovava ancora sotto il tiro delle V1 e V2 tedesche. Né la ricostruzione dell’Italia quando le truppe del feldmaresciallo Kesserling presidiavano ancora la Linea Gotica.

Il giornale tedesco sottolinea inoltre che una delle questioni centrali rimane l’utilizzo dei beni russi congelati. Kiev e Washington spingono affinché l’UE assuma una posizione più decisa nel procedere all’espropriazione di questi fondi, detenuti in gran parte da istituzioni finanziarie europee.

Tuttavia, Junge Welt sottolinea che un eventuale sequestro definitivo rischierebbe di danneggiare la fiducia nei mercati finanziari dell’UE. “Semplicemente confiscarli manderebbe un segnale pericoloso ai mercati globali, perché gli investitori temerebbero per la sicurezza dei propri capitali in caso di crisi politiche”.

Del resto la fine della guerra toglierebbe ogni giustificazione legale al congelamento dei beni russi, costringendo le istituzioni europee a restituirli. In tale scenario, Bruxelles si troverebbe di fronte al rischio di tensioni diplomatiche e instabilità economica, proprio mentre tenta di sostenere la ripresa Ucraina, sottolinea il giornale.

Un ulteriore evidente indizio del suicidio dell’Europa quando basterebbe guardare ai fatti con concretezza e pragmatismo per comprendere come ogni ipotesi di ricostruzione sia prematura anche perché le forze di Kiev continuano a perdere terreno su tutti i fronti o quasi.

A titolo di esempio, che significato ha discutere oggi della ricostruzione del porto di Odessa mentre la guerra continua, docks e moli vengono regolarmente colpiti dai russi e domani l’intera costa del Mar Nero potrebbe cadere in mano alle forze di Mosca?

Per dare un senso ai programmi di ricostruzione l’Europa avrebbe dovuto premere su Kiev affinché accettasse le condizioni poste dalla Russia, avrebbe perso Kherson, Zaporizhia, Lugansk e Donetsk (oltre alla Crimea) ma avrebbe la certezza di conservare Odessa, Sumy, Kharkiv, Dnipropertrovsk, regioni dove oggi i russi avanzano e che potrebbero domani volersi annettere per completare il controllo sulla “Nova Rossiya”.

Come ha dichiarato a fine aprile Oleksji Arestovich, ex consigliere di Zelensky, «l’Ucraina può scegliere di negoziare oggi perdendo 4 regioni più la Crimea oppure accettare tra sei mesi di perdere 7 o 8 regioni».

Invece l’approccio dell’Europa, anche nella narrazione propagandistica, resta bellicoso e improntato a sostenere l’Ucraina fino alla vittoria, con grande soddisfazione di Donald Trump che, con un’altra delle capriole a cui ci ha ormai abituato, ha annunciato che riprenderà le forniture di armi all’Ucraina “attraverso” la NATO.

Dopo avere imposto agli alleati di spendere il 5 per cento del PIL per la Difesa, percentuale foriera di mega contratti per forniture “made in USA”, Trump viene incontro alla bellicosa Europa preannunciando che potrebbe fare presto una dura dichiarazione contro Mosca (nuove sanzioni?) che lo ha “deluso” e soprattutto ripristinando le forniture militari all’Ucraina che verranno però pagate interamente dagli alleati europei.

Intervistato da NBC News, Trump ha detto che “stiamo inviando armi alla NATO e la NATO sta pagando per quelle armi, al 100%. Quindi quello che stiamo facendo è che le armi che vengono inviate vanno alla NATO che poi le darà all’Ucraina e la NATO sta pagando per quelle armi”, ha concluso.

Tenuto conto che gli Stati Uniti sono parte della NATO (anzi, ne sono “l’azionista di maggioranza”) l’affermazione di Trump lascia intendere che saranno gli altri 31 membri della NATO (gli europei più Turchia e Canada) a pagare il conto delle prossime forniture a Kiev.

Un’operazione che completa l’iniziativa di Trump di trasformare la guerra in Ucraina da errore geopolitico in occasione di business. Con l’accordo minerario imposto in primavera all’Ucraina gli USA si sono assicurati il rientro con interessi del denaro e delle armi forniti a Kiev anche da prima del 2022 assumendo il controllo delle risorse del sottosuolo.

Con l’intesa “paga la NATO” lascia fardelli letali sulle spalle dell’Europa, l’onere delle forniture di armi americane all’Ucraina e i costi spaventosi per la ricostruzione e l’inglobamento di Kiev nella Ue, in aggiunta ovviamente al macigno energetico dovuto alla rinuncia all’energia russa.

Un “capolavoro” statunitense forse non pienamente colto dall’ebete Europa ma subito perfettamente inquadrato al Cremlino. “Si tratta di affari e la sostanza non cambia dal momento che l’Ucraina continua a essere rifornita di armi”, ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov,

Se qualcuno in Europa temeva che Trump potesse allontanare gli Stati Uniti dall’Alleanza Atlantica può dormire sonni tranquilli. Ora che da alleati ci siamo declassati a clienti/vassalli potremo continuare a “godere” dello stretto rapporto con gli USA, almeno finché continueremo a comprare da loro armi e GNL anche nella speranza (vana?)  di scongiurare i dazi.

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Comments

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Marco da Zurigo
Friday, 18 July 2025 11:38
Uno sguardo alla Siria ci puo aiutare a capire il futuro dell' Ukraina ... La Russia probabilmente "vincera`" la battaglia del Donbass ma perdera` la guerra d'Ucraina ...
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