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I limiti interni del capitale
R. Hutter intervista Ernst Lohoff e Norbert Trenkle
Nel loro ultimo libro, La Grande Devalorizzazione. Perchè la speculazione ed il debito statale non sono la causa della crisi, Ernst Lohoff eNorbert Trenkle rivolgono una particolare attenzione all'evoluzione dell'economia reale nella loro analisi della crisi, distinguendosi in cio' dal novero delle altre pubblicazioni che trattano lo stesso tema. Ralf Hutter, giornalista del quotidiano Neues Deutschland, ha incontrato Ernst Lohoff (intervista apparsa sul citato quotidiano il 13.12.2012)
Ralf HUTTER: Voi affermate che il vostro libro La Grande Devalorizzazione va piu' in profondità di tutti gli altri lavori che trattano la crisi economica. Perchè questo?
Ernst LOHOFF: Innanzitutto perché noi abbiamo studiato la correlazione che vi é tra questa crisi e la progressiva scomparsa del lavoro. La maggior parte delle analisi si limitano a dire che vi sono state delle derive a livello dei mercati finanziari ma che l'economia “reale” (le virgolette sono del traduttore, ndr), quanto ad essa, è rimasta fondamentalmente sana. Noi invece consideriamo anche nel dettaglio l'evoluzione dell'economia “reale”. Ragioniamo essenzialmente sul piano delle categorie, avendo quale sistema di riferimento teorico la critica marxiana all'economia politica.
RH: E' esatto affermare che l'attuale crisi s'era in fondo già manifestata nel 1857, come voi lasciavate intendere nel corso di una conferenza tenuta non molto tempo fa?
EL: No. Fino a oggi non s'era mai visto, nemmeno lontanamente, l'accumulazione del capitale scatenarsi sino a questo punto di effettivo sfruttamento del lavoro. Quello che non e' cambiato, di contro, è il fatto che gli episodi di crisi aperta partono, oggi come ieri, dai mercati finanziari. E oggi come ieri gli osservatori ne hanno dedotto che la causa del male risiedesse nella finanza.
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Capitalismo 2014. A fondo nella Grande Depressione1
di Antonio Carlo
1) L’economia mondiale e la ripresa che non c’è (dopo sette anni);
2) Gli USA: un’economia “forte” che affonda tra debiti, disoccupati, sottoccupati, inattivi e scoraggiati;
3) Europa: sempre più in un vicolo cieco tra impotenza e ricette fallimentari;
4) Italia. Arriva il nuovo Salvatore della Patria e siamo alla catastrofe;
5) Cina e Giappone nulla di nuovo rispetto al passato;
6) Postilla. A proposito di un’inconsistente ideologia: la decrescita serena.
1) L’economia mondiale e la ripresa che non c’è (dopo sette anni)
A) L’andamento del PIL mondiale. Nel giugno del 2014 la Banca Mondiale prevede una crescita (in ribasso) del 2,8% per l’anno in corso, meglio il FMI che prevede per il mondo una crescita del 3,7% a marzo, del 3,4% a luglio e del 3,3% ad ottobre. Le tabelle che seguono illustrano le più recenti previsioni sull’andamento dell’economia mondiale.
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Una rivoluzione culturale per uscire dalla crisi
di Claudio Gnesutta
Il ruolo dello Stato nel combattere la povertà. La ripubblicazione di una raccolta di saggi di Minsky, edizioni Ediesse, con un saggio di Bellofiore e Pennacchi
In questi tempi di crisi, la ripresa di “vecchie” letture è molto utile per riscoprire l’importanza di analisi che, al loro tempo, nell’assillo del quotidiano e di un pensiero pigro, sono state sottovalutate per la loro capacità anticipatrice. È l’impressione che ho avuto leggendo la raccolta dei saggi - inediti prima di essere raccolti dal Levy Institute (2013) e ora tradotti per la Ediesse - nei quali Minsky affronta, negli anni sessanta e settanta, il problema delle politiche di contrasto della povertà adottate dalle amministrazioni statunitensi (H.P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Roma: Ediesse, 2014, p.259, € 15). Il libro si avvale di un saggio di Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi - che ne hanno promosso e curato l’edizione italiana – nel quale, più che attualizzarne le riflessioni, propongono, come indica il titolo del loro contributo (Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento), una riflessione sull’attuale situazione di crisi e sul modo di uscirne che non sia quello regressivo prospettato dalle politiche di austerità.
Il pensiero di Minsky, ampiamente ignorato dall’accademia ai tempi dei mercati finanziari efficienti, ha ritrovato dopo lo scoppio della crisi il rilievo che gli era dovuto.
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Giorgio Agamben, quando l’inoperosità è sovrana
Toni Negri
«L’uso dei corpi» del filosofo italiano affronta il problema di una vita felice da conquistare politicamente. Ma dopo aver preso congedo dalle teorie marxiste e anarchiche sul potere, l’esito è uno spaesante sporgersi sul nulla
È un gran libro metafisico, questo di Giorgio Agamben che esplicitamente conclude la vicenda dell’Homo sacer (L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, pp. 366, euro 18). Proprio perché metafisico è anche un libro politico, che in molte sue pagine ci restituisce l’unico Agamben politico che conosciamo (quando «politica» significa «fare» e non semplicemente strologare sul dominio, alla maniera dei giuristi e degli ideologi), quello de La comunità che viene. Ma in senso inverso, rovesciato. Il problema è sempre quello di una vita felice da conquistare politicamente ma, dopo vent’anni, questa ricerca non conclude né alla costruzione di una comunità possibile né alla definizione di una potenza – a meno di non considerare tale la «potenza destituente», auspicata in conclusione della ricerca. In quella prospettiva, la felicità consisterebbe nella singolare contemplazione di una «forma di vita» che ricomponga zoé e bíos e d’altra parte nella disattivazione della loro separazione, imposta dal dominio.
Nella «forma di vita» così definita, la potenza si presenta come uso inoperoso; la «nuda vita» non sarebbe allora più isolabile da parte del potere; qui invece starebbe il principio del comune: «comunità e potenza si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario in ogni potenza è funzione del carattere necessariamente potenziale di ogni comunità».
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Terza repubblica?
di Aldo Giannuli
Nelle ultime settimane si sono accavallati una serie di avvenimenti, in parte contraddittori, che segnalano sordi brontolii nella pancia del sistema politico, tali da far presagire qualche botto in arrivo.
A destra si è consumato definitivamente il distacco fra Lega e FdI da una parte e FI dall’altra. Il solco fra Pd e Cgil è diventato un abisso e la rissa interna si va accendendo sempre più, nonostante la minoranza brilli per inconcludenza; il Ncd dà forti segni di nervosismo e fa brillare l’ipotesi di un ritiro dalla maggioranza. I sondaggi, per la prima volta, segnalano una flessione del Pd da maggio (36% circa contro il quasi 41 delle europee, ed anche il gradimento personale di Renzi cala vistosamente), mentre il M5s è dato stazionario intorno al 20%, Fi e centro hanno segni di ripresa e crescono solo Sel (di poco) e soprattutto la Lega che balza all’11%.
I sondaggi, si sa, vanno presi con le molle sia per come sono fatti, sia perché per definizione sono fluttuanti e ci vuol poco ad invertire le tendenze. Ora, poi, l’inflazione di essi (ce n’è uno a settimana), sta provocando una crisi di rigetto negli intervistati e nei lettori, per cui, più che mai, vanno presi con beneficio d’inventario.
Però ci sono molti segnali che dicono del forte nervosismo che serpeggia fra gli elettori ed anche l’egemonia del Pd accenna a sgonfiarsi, nonostante l’offerta circostante non sia brillantissima.
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Le avventure della democrazia
Noi, ‘loro’ e il muro di… Atene
di Giuseppe Panissidi
E’ trascorso più di mezzo secolo da quando, nel 1955, Maurice Merleau-Ponty, uno dei più agguerriti interlocutori di J. P. Sartre, dava alle stampe una delle sue opere più mature e pensate: “Le avventure della dialettica”. Curiosamente definita “maledetta”, essa rappresenta un grandioso tentativo di superamento ‘in progress’ della impasse cui Max Weber aveva condotto la questione cruciale del rapporto tra ‘fatti’ e ‘valori’, pensiero e mondo, ragione e storia, con ricadute traumatiche sulle dinamiche e la possibilità stessa della ‘prassi’. Una dicotomia implausibile e pericolosa, quasi un invito all’auto-ripiegamento dell’intellettuale nella sua familiare e solitaria ‘turris eburnea’, remota memoria del “phrontisterion” socratico, il “pensatoio” in scena nell’esilarante raffigurazione delle “Nuvole” di Aristofane. La “politica dell’intelletto”, per sua natura ‘occlusiva’, lascia, ha sempre lasciato, il tempo (e il mondo) che trova, indifferente com’è, nel suo ‘splendido isolamento’, alla realtà contingente e all’effettuale possibilità di un “altro mondo”. Dove ‘altro’, tuttavia, non significa ‘estraneo’ al presente, prodotto sofisticato dell’immaginario individuale e collettivo, bensì possibilità immanente nella contingenza di ‘questo’ nostro mondo, e “pretendente all’esistenza”. Questo pensiero della tensione verso la realtà – come si potrebbe ben definire l’impegno di Ponty, memori dell’”utopia” blochiana – oltre l’aspra fattualità, marxianamente “levatrice” di storia, di umane possibilità, esalta una coerente affermazione di umanismo, felicemente disancorata da pulsioni ideologiche e proiezioni meta-empiriche.
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Immigrati: costi e numeri (quelli veri)
di Girolamo De Michele
Ignora pure i numeri, ma non sperare che loro si scordino di te
(Eric-Emmanuel Schmitt, Il visitatore)
Gli immigrati sono un lusso?
Lo so, sembra squallido misurare col bilancino del pizzicagnolo cose come la vita, la dignità, la fratellanza: ma questo è il mondo in cui viviamo, tanto vale farsene una ragione. Partiamo dai costi, dunque.
Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2014, la più autorevole fonte di dati sul fenomeno delle migrazioni, il costo complessivo della presenza dei migranti in Italia è, al 2012, di 12,6mld € (+0.7 rispetto all’anno precedente), così ripartiti:
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La sinistra e l’uscita dall’euro
di Guido Iodice*
A partire da un recente libro di Marco Bertorello, una riflessione sulla moneta unica dove non vi è alcuna simpatia per i fautori dogmatici dell’euro ma, nello stesso momento, non si tessono le lodi dei “no euro”. La soluzione potrebbe essere una nuova “Bretton Woods”, anche senza la Germania.
“Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne” è il titolo di un interessante libro di Marco Bertorello edito da Alegre, nel quale l’autore si cimenta in una serrata critica “da sinistra” alle tesi dei più noti economisti e divulgatori favorevoli all’uscita dalla moneta unica. Il libro ha molti pregi, tra cui quello di svelare la paradossale coincidenza di vedute tra alcuni di costoro e i pasdaran dell’euro. La coincidenza “politica” tra le due visioni, a volte palesata, altre volte occultata (inconsapevolmente o meno poco importa), è riassumibile nel dogma della competitività.
Quella che segue, più che una tradizionale recensione del lavoro di Bertorello, è il tentativo di collegare le tesi del libro con alcuni fatti, spesso sottaciuti, che tendono a confermarle. Purtroppo per ragioni di spazio non è possibile approfondire tutti gli argomenti. Chi volesse farlo trova alcuni link in fondo all’articolo. In premessa però è bene chiarire che chi scrive non ha alcuna simpatia per le tesi pro-euro. Ma i torti dell’euro non fanno le ragioni dei no euro. E uscire dall’euro non è la stessa cosa di non esserci mai entrati.
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TTIP: la storia si ripete
di Alberto Bagnai
La crisi è democratica: colpisce la maggioranza. Le persone colpite, che appartengono agli ambiti più disparati, ogni tanto reagiscono, e lo fanno in base al proprio bagaglio culturale e alla propria esperienza di vita, com'è normale che sia, e ciascuno ponendo se stesso, quello che sa e quello che ha fatto come chiave di lettura privilegiata. È umano. Abbiamo così letture botaniche della crisi, letture filateliche della crisi, letture giuridiche della crisi, letture naturalistiche della crisi, e chi più ne ha più ne metta.
Da ognuno c'è qualcosa da imparare, ma rimane il fatto ineludibile che questa è una crisi economica, cioè quella cosa che si verifica quando per motivi che abbiamo illustrato tante volte la gente si trova senza soldi in tasca. Va anche ricordato che, come i marZiani dovrebbero sapere e come una lettura anche superficiale dei fatti dimostra (soprattutto in Italia), le dinamiche economiche reggono quelle politiche, che a valle reggono quelle giuridiche, ed è questo simpatico trenino, guidato dalla locomotiva "Economia", che ci porta a spasso per le interminate praterie della SStoria.
Deriva da questo semplice (ma ineludibile) fatto il vantaggio comparato di questo blog. So che dispiace a molti, ma per fortuna piace a voi, e tanto mi basta.
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«La sinistra assente» e la Cina
di Domenico di Iasio
Luciano Canfora, nella sua recensione a La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra (Carocci 2014) di Domenico Losurdo, fa bene a rilevare che «sarebbe molto più utile proporsi di comprendere quale inedita formazione economico-sociale e politica sia nata sotto i nostri occhi in quello che oggi è il punto nevralgico del pianeta» (“Corriere della Sera”, 3-11-2014), cioè la Cina. E, a mio avviso, La sinistra assente dà un contributo notevole alla comprensione di tale “inedita formazione economico-sociale e politica”, quando interpreta l’attuale fase di sviluppo cinese come la seconda fase della lotta anticoloniale, estesa a tutti i paesi dell’ex-Terzo Mondo. Alla “guerra di popolo” contro le potenze coloniali occidentali si sostituisce oggi una radicale politica di sviluppo economico e tecnologico per sfuggire alla morsa del sottosviluppo costruita da tali potenze. La parola d’ordine di Deng Xiaoping “Arricchirsi è glorioso”, ripresa da Nikolai Bucharin, risponde all’esigenza primaria di fuoriuscire dalle secche del sottosviluppo. Jiang Zemin, nel Rapporto del Partito comunista Cinese del 1997, precisa:«Istituiremo e perfezioneremo un’economia socialista di mercato, un sistema politico di democrazia socialista», perché «il compito essenziale del socialismo è lo sviluppo delle forze produttive», desumendo questo concetto, a mio avviso, dalla Critica del Programma di Gotha (1875) di Marx, dove la transizione alla fase più elevata della società comunista è ravvisata nello «sviluppo degli individui e delle forze produttive (Produktivkräfte)». Insomma, il PCC è orientato a costruire, leggiamo sempre nel Rapporto del 1997, «una società in cui tutta la popolazione vive in modo agiato».
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Il crollo del Muro di Berlino e le retoriche dell’Occidente
di Angelo d’Orsi
Il settimanale tedesco Die Welt in occasione dei 25 anni del Mauerfall (il cosiddetto “crollo del Muro”), ha realizzato un dossier sulla ricorrenza, dando la parola ad alcuni trentenni (compresi fra i 26 e i 35 anni), ossia individui che il 9 novembre del 1989 erano bambini, da uno a dieci anni. Il quadro che dipingono è di grande interesse, e nell’insieme si può definire problematico. Il pensiero critico, insomma, sopravvive, e non si lascia imbavagliare dallo spirito della celebrazione, quella beota di chi non ha perso l’occasione, in questi giorni, per inneggiare al liberalismus triumphans, magari tirando in ballo la situazione geopolitica attuale, con cenni al ritorno alla guerra fredda per colpa dell’aggressività dell’“Orso russo”.
Dibattiti tv, servizi sui giornali, interviste, hanno riproposto luoghi comuni, stucchevoli e spesso fuorvianti, anche se stavolta va rilevato un minimo di pudore in più rispetto al passato: forse effetto della crisi che si sta impietosamente prolungando, lasciando una scia sempre più scura di dolore, tra rassegnazione inerte e rivolta incipiente. Ma l’apologetica dell’Occidente domina, e prevale, di gran lunga, incurante di quel che le vicende internazionali ci hanno regalato come prodotto della fine del bipolarismo, e ingresso nell’era unipolare, con lo strapotere, militare, economico, finanziario, culturale, degli Stati Uniti d’America, il vero Big Brother della famiglia umana.
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La segreta assuefazione della Germania per il credito
Quanto ancora possiamo basare l’economia sul credito a basso costo?
Adair Turner pubblica un interessante articolo su Project Syndicate in data 10 Novembre, parlando della supposta assuefazione della Germania alla crescita finanziata dal credito (proprio) e quindi - come ci ripete incessantemente il buon Goofy – dal debito (altrui).
L’articolo è attualissimo per le tematiche economiche trattate, dalle politiche mercantiliste all’uso dei tassi di cambio flessibili, dalla so-called guerra valutaria alla necessita di ridurre i livelli di indebitamento complessivi del pianeta Terra (leggasi deleveraging).
Il discorso si sviluppa da una critica dell’austerità come misura efficace per ridurre il debito, al salvataggio dei privati mediante la socializzazioni dei loro debiti, per giungere alla proposta che Turner ritiene l’unica sensata per iniziare il processo di riduzione dell’indebitamento senza distruggere lo stato sociale o creare ulteriori bolle speculative: la monetizzazione del debito da parte delle banche centrali.
Che il dogma della banca centrale indipendente dai governi, e dalla volontà popolare, sia pronto ad essere messo in discussione?
LONDRA – Con i dati recenti che dimostrano che le esportazioni tedesche sono diminuite del 5,8% da luglio ad agosto, e che la produzione industriale si è ridotta del 4%, è diventato chiaro che l’insostenibile espansione del paese alimentata dal credito sta finendo. Ma i frugali tedeschi usualmente non la vedono in questo modo.
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«La guerra è persa, la rabbia è rimasta»
M. Esposito e F. Cancellato intervistano Nadia Urbinati
Per chi non la conoscesse, basterebbe dire che Nadia Urbinati, riminese, è titolare della prestigiosa cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. O che nel 2008 è stata insignita del titolo di Commendatore al merito della Repubblica Italiana, per aver «dato un significativo contributo all’approfondimento del pensiero democratico e alla promozione di scritti di tradizione liberale e democratica italiana all’estero». Pochi, meglio di lei, insomma, possono offrirci gli strumenti per leggere in filigrana quel che sta accadendo in questi difficile fase della storia dell’Italia che, sperando sia passeggera, continuiamo a definire crisi. E che più passa il tempo, più genera frustrazione, disillusione, rabbia.
Professoressa Urbinati, le botte agli operai della Thyssen, gli scontri di Tor Sapienza, l’aggressione a Salvini, l’assalto alla sede del Partito Democratico a Milano, così come le molte altre contestazioni di piazza di queste settimane. Che lettura dà dei tanti episodi di rabbia e violenza di queste ultime settimane?
Apparentemente non c’è un nulla che li lega: sono tutti fatti autonomi l’uno dall’altro, portati avanti da soggetti che rappresentano specifici problemi. Tuttavia, ognuno di loro, oltre a denunciare un problema, punta il dito verso una politica che non è in grado di risolverlo.
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La guerra fra poveri
Fabrizio Marchi
Ho letto questo interessante articolo del nostro amico e collaboratore, Riccardo Achilli.
Dico subito che mentre sono in totale sintonia con l’analisi da lui sviluppata, che costituisce il cuore della sua riflessione, sono invece decisamente in disaccordo con le sue conclusioni che mi sembrano una virata un po’ troppo politicamente corretta e in contraddizione rispetto ai contenuti espressi nell’articolo.
Intanto Marino non è una “brava persona”, lo è molto probabilmente dal punto di vista umano e personale, sia chiaro, ma non lo è sotto l’aspetto politico, che è quello che conta e che ci interessa nella fattispecie.
Marino rappresenta la continuazione di quelle giunte dell’”arredo urbano”, cioè del “nulla”, come uso definirle, di “centrosinistra” (niente a che vedere, ovviamente, con le giunte di sinistra guidate da Petroselli, Vetere e Argan) che hanno continuato e consolidato quelle politiche di occupazione del suolo e del verde pubblico che ha portato alla cementificazione selvaggia (che a Roma è un fenomeno che dura ininterrottamente dal dopoguerra e che ha conosciuto uno stop solo durante le amministrazioni di sinistra negli anni ‘70) e alla proliferazione dei mega centri commerciali, a scapito, come lo stesso Riccardo ricordava, del welfare, dei servizi sociali, , dei trasporti, delle infrastrutture, dell’edilizia pubblica e popolare, della riqualificazione delle periferie.
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Tor Sapienza è l'intera Italia
di Riccardo Achilli
Da sempre sostengo che i quartieri popolari della cintura periferica di Roma sono una fotografia emblematica, che racchiude tutte le sconfitte e le truffe che il popolo italiano ha subito nella sua storia. Tor Sapienza è un quartiere periferico della zona est di Roma, fra la Collatina e la Prenestina. Il primo insediamento risale agli anni Venti, quando un ferroviere antifascista creò una cooperativa edilizia per ospitare degli indesiderabili che, come usava in quegli anni, il regime confinava in borgate sostanzialmente rurali, lontanissime del nucleo urbano della Capitale, tagliati fuori fisicamente dalla città, anche per assenza di collegamenti trasportistici.
Nel dopoguerra, il sacco edilizio della città, favorito da consociativismi fra politica e business, i cui protagonisti sono Giunte comunali democristiane e costruttori venuti su dal nulla, rampanti e spregiudicati, stravolge completamente l'assetto pre-bellico del quartiere. Le villette ad uno o due piani, circondate da giardinetti, lasciano il posto ad un incubo di cemento armato, proiettato verso il cielo verticalmente, alveari deprimenti dove centinaia di famiglie vivono appiccicate l'una all'altra, separate da ambienti di scarsa qualità edilizia, con impianti idraulici e sanitari non di rado insalubri. Niente verde urbano, niente servizi, niente spazi di socializzazione, niente aree di parcheggio, la motorizzazione di massa del boom economico produce un groviglio di automobili parcheggiate ovunque, anche sopra i marciapiedi.
L'assenza di qualsiasi razionalità urbanistica provoca una gravitazione di enormi fasce di popolazione su strade di collegamento troppo anguste, generando un traffico infernale per almeno 10-11 ore al giorno, e livelli di inquinamento da smog ed acustico da terzo mondo.
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Disastro colposo
di Sandro Moiso
Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00
E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto.
Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi.
Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.
Un percorso segnato da una serie di rapine e truffe ai danni dei lavoratori che sono sempre state segnate dalla scusa della necessità e che hanno abituato, nell’arco di trent’anni, le vecchie e le nuove generazioni a ragionare in termini di debito, spread, necessità. In termini di colpa e di spreco.
Favorendo l’abbandono di qualsiasi capacità critica generale al modo di produzione capitalistico, di qualsiasi visione olistica della società moderna. Dove il particulare di Guicciardini trionfa ancora sul generale di Machiavelli. O, se preferite, di Marx.
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A sinistra l’euro diventa un dilemma
Carlo Clericetti
Il dibattito sulla possibilità di abbandonare la moneta unica comuncia ad accendersi anche nell’area della sinistra Pd: una sua nuova rivista ospita vari interventi. Ma un problema ancora più decisivo sarebbe un vero cambio di rotta della politica economica
La tesi che l’Italia debba uscire dall’euro per non subire danni irreparabili non ha avuto fino ad oggi molti sostenitori nel nostro paese. A livello politico due partiti di opposizione, 5Stelle (ma con una posizione altalenante e non del tutto chiara) e la Lega, alla ricerca di uno spazio politico dopo essere arrivata a un passo dalla scomparsa e sull’esempio del Front National di Marine Le Pen, con il quale è alleata in Europa. Tra gli economisti, pochi e per lo più eterodossi, con la ragguardevole eccezione di Paolo Savona che è stato forse il primo a porre con decisione il problema. La maggior parte degli economisti si è piuttosto dedicata a proporre soluzioni di politica economica che fossero in grado di far superare all’Europa questa crisi che sembra infinita.
Da qualche tempo, però, l’ipotesi di abbandono della moneta unica comincia ad essere discussa dall’area che fa capo alla sinistra Pd o ad essa contigua. Il primo politico di questa collocazione ad uscire allo scoperto è stato Stefano Fassina, che di fronte all’assenza di qualsiasi segno di un cambiamento di rotta delle politiche ha cominciato ad affermare che è necessario considerare l’alternativa di lavorare per un’uscita dall’euro concordata tra i paesi membri, in modo da ridurre al minimo i rischi che un passo del genere comporta e che sarebbero invece aggravati se si arrivasse a quel passaggio in maniera forzata, sotto i colpi di una nuova e incontrollabile crisi. Ora la discussione si allarga, proposta dal sito Idee controluce. Si tratta di una rivista on line nata da poco e diretta da due giornalisti che avevano incarichi di primo piano nel Pd pre-renziano, Claudio Sardo (direttore de L’Unità) e Chiara Geloni (direttrice di Youdem, la web-tv del partito).
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A quali condizioni può sopravvivere l'Euro?
Un’ipotesi da non esorcizzare
di Vladimiro Giacchè
Per cominciare, una precisazione. Interpreto il titolo che è stato assegnato a questa relazione intendendo per “sopravvivenza dell’euro” una sopravvivenza cui si accompagni il ritorno della nostra economia su un percorso di crescita. Dico questo perché si sono dati casi in cui un’unione monetaria ha continuato a sussistere a dispetto della crescente divergenza delle condizioni economiche tra i territori che ne facevano parte (un buon esempio al riguardo è rappresentato dal nostro Mezzogiorno, che nei primi 90 anni dopo l’Unità d’Italia ha visto crescere – e in misura significativa – la distanza del reddito pro capite dei suoi abitanti rispetto a quelli del Centro e Nord della penisola). Detto questo, è ovvio che i fattori che possono mettere a rischio la sopravvivenza di un’area monetaria hanno sempre in qualche modo a che fare con lo stato di salute dei paesi aderenti. I due fattori principali: la divergenza tra le economie che ne fanno parte (che fa sì che i tassi d’interesse unici che identificano la moneta unica risultino sempre più inappropriati per gran parte dei paesi membri, se non per tutti); l’insostenibilità del vincolo rappresentato dall’appartenenza a un’area monetaria per una o più delle economie aderenti ad essa.
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La Legge di stabilità e l’ingannevole evergetismo renziano
Andrea Riaca
Al Tg Rai delle 13.00 del 18 ottobre a proposito della legge di stabilità hanno parlato di “manovra espansiva ottenuta attraverso un taglio delle tasse coperto con la riduzione della spesa pubblica”.
Gli fa eco Linda Lanzillota Vice Presidente del Senato intervistata a Skytg24 Pomeriggio: “Legge di stabilità: Manovra espansiva come non si vedeva da vent’anni”.
E ancora da un ANSA del 16 ottobre: “Una manovra da 36 miliardi di euro, espansiva e studiata con l’obiettivo preciso di abbassare le tasse, arrivate ad un livello che, secondo la definizione di Matteo Renzi, è ormai pazzesco”.
Debora Serracchiani, vicepresidente nazionale del Partito democratico, a T-Mag: “Una manovra finalmente espansiva”.
Insomma il mainstream sta cercando di far passare il messaggio che la Legge di Stabilità 2015 sia una manovra espansiva.
Ma è veramente così?
Da un qualunque testo di politica economica apprendiamo che la politica di bilancio può essere espansiva, restrittiva oppure in pareggio.
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Il rompicapo ucraino nella competizione globale
Marco Santopadre
Nei giorni scorsi, mentre riprendevano in grande stile i bombardamenti dell’artiglieria di Kiev contro le città ribelli del Donbass, le agenzie di stampa diffondevano senza approfondire due dichiarazioni invece molto interessanti
La prima proviene da Mosca, dove il consigliere del presidente Putin, Yury Ushakov, ha affermato che “"Rispettare" le elezioni in Donbass non significa "riconoscerle". Ushakov ha detto che "riconoscere e rispettare sono due parole diverse" e che Mosca, che ha già riconosciuto il risultato delle elezioni di Kiev, sollecita a rispettare i protocolli di pace firmati a Minsk e richiede una nuova riunione del gruppo di contatto.
La seconda invece proviene, all’opposto, da un esponente della giunta golpista. In particolare dal governatore pro-Kiev della regione di Donetsk, Oleksandr Kikhtenko, che in tv ha ammesso che nel sud-est ci sono alcune unità delle forze ucraine - nei cui ranghi sono state incorporate milizie ultranazionaliste e neonaziste - "finite fuori controllo" e che "stanno creando problemi nella regione".
Due dichiarazioni, queste ultime, che riassumono l’enorme guazzabuglio politico, militare e geopolitico che sta andando in scena in quello stato cuscinetto tra Unione Europea che era l’Ucraina, diventato invece un campo di battaglia aperta dopo il golpe filoccidentale di febbraio.
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Il diagramma di flusso della libertà
Andrea Fumagalli
Il volume collettivo «Gli algoritmi del capitale» affronta il nodo del rapporto degli esseri umani con le macchine all’interno della produzione di ricchezza e della comunicazione on-line. Una discussione a più voci a partire dal «manifesto per una politica accelerazionista»
Il rapporto tra macchine e capitalismo è strettamente connesso e imprescindibile. Il capitalismo come sistema di produzione (accumulazione) e di organizzazione del lavoro (comando) nasce con la nascita della macchina moderna. L’evoluzione del capitalismo si può descrivere come processo di evoluzione della struttura macchinica. Gilles Deleuze nel 1990, in un’intervista con Toni Negri, affermava: «Ad ogni tipo di società (…) si può far corrispondere un tipo di macchina: le macchine semplici o dinamiche per le società di sovranità, le macchine energetiche per quelle disciplinari, le cibernetiche e i computer per le società di controllo. Ma le macchine non spiegano nulla, si devono invece analizzare i concatenamenti collettivi di cui le macchine non sono che un aspetto». «Le macchine non spiegano nulla», diceva Deleuze. A ragione, dal momento che l’evoluzione del capitalismo è dettato dalla dialettica del rapporto sociale tra macchina (capitale) e lavoro, un rapporto, come ci ricordava il Tronti di Operai e capitale in cui il capitale (a differenza del lavoro) non può prescindere dal lavoro vivo umano. Ma forse, anche a torto, se analizziamo la recente evoluzione del «macchinico», neologismo che, sviluppato dal Gilbert Simondon e dallo stesso Deleuze, ci è utile per discutere criticamente la possibile (auspicabile?) metamorfosi del divenire umano delle macchine.
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Logistica e porto di Trieste
Anika Perrini-Ritschl intervista Sergio Bologna
Prof. Bologna, tra qualche giorno Lei sarà a Vienna per partecipare come relatore al Rail Summit (Schienengipfel) e parlerà di collegamenti ferroviari tra porti e hinterland. Vorrei farLe qualche domanda a questo proposito, prima però vorrei chiederLe di dirmi qualcosa in generale sulla logistica, perché Lei è reduce dal congresso di Berlino della BVL. Secondo Lei dove sta andando la logistica, vede degli sviluppi interessanti?
Se consideriamo la logistica come un settore a se stante, direi che ha raggiunto lo stadio della maturità, sistemi organizzativi e processi hanno ormai un elevato grado di standardizzazione, per cui non vedo da anni innovazioni di grande portata.
Quello che è cambiato è il contesto in cui la logistica e le supply chain globali si muovono e per far fronte a questi mutamenti anche la logistica deve inventarsi qualcosa di nuovo. Per esempio nel risk management, segmento originariamente ancillare ma che sta diventando pian piano strategico. Oppure nell’integrazione tra attori diversi della catena, le stesse piattaforme informatiche sono sempre più “collaborative”.
Oppure nella comunicazione interculturale. Anche dal punto di vista tecnologico non vedo gran che dopo l’introduzione del RFID. Si tratta in genere di innovazioni incrementali, stimolate soprattutto dal fatto che le cause della cosiddetta supply chain disruption continuano a moltiplicarsi. Con un paragone calcistico potrei dire che dopo gli anni in cui la logistica ha giocato in attacco, oggi gioca in difesa.
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Perchè è importante e necessario andare a Livorno il 15?
Clash City Workers
Questo autunno ha ripreso vigore, sulla spinta delle lotte dei lavoratori, il dibattito sulla necessità di una rappresentanza politica del mondo del lavoro. Non che la conflittualità operaia, come quella di tante altre figure del lavoro dipendente, fosse mancata in questi anni.
Ogni anno innumerevoli vertenze sono state combattute nelle città italiane. Ma l’attacco arrogante ed esasperato portato dal Governo Renzi ha esteso la consapevolezza dell’esistenza di un fronte che divide capitale e lavoro e della necessità di resistenza della classe lavoratrice alle condizioni di vita e di lavoro che le vengono imposte.
Le questioni che allora si pongono sono: come trasformare questa conflittualità diffusa e questa consapevolezza crescente in un percorso di riconoscimento e di protagonismo politico della classe? Quali sono le strade per evitare che queste lotte non si riducano a una nuova opportunità di rilancio per le mediazioni a ribasso di un ceto politico e sindacale opportunista? Come, invece, cogliere l’occasione che offrono per stringere i legami tra le diverse categorie, tra i diversi settori, le diverse mansioni, i diversi inquadramenti contrattuali, le differenti origini e le differenti aspettative dei lavoratori, tutte sotto il fuoco di una medesima offensiva?
Quello che sta accadendo a Livorno ci mostra una strada che crediamo sia quella da percorrere senza indugi e a cui desideriamo dare tutto il sostegno possibile.
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Sblocca-Italia: Firenze e l’anticipazione zelante*
di Ilaria Agostini
Una succosa analisi del laboratorio nel quale il Gran mago dei disastri del territorio ha preparato e sperimentato i suoi succhi velenosi. PerUnaltracittà, 7 novembre 2014
Per l’attuale governo, Firenze ha costituito un fruttuoso banco di prova. Dal punto di vista politico: autocrazia, deliberazioni d’urgenza (quella per la pedonalizzazione di piazza del Duomo è ora all’attenzione della Procura), annichilimento del consiglio comunale, rottamazioni senza ricostruzione, svuotamento di senso della città pubblica, finta partecipazione e vere privatizzazioni; in una continua, colpevole frammistione tra pubblico e privato. Dal punto di vista urbanistico, il ruolo di anticipatore zelante delle scelte politiche governative permane, come dimostra, solo per fare un esempio, il riciclo dell’attuale sindaco come intermediatore immobiliare alle fiere internazionali del real estate (Monaco di Baviera, ma a breve Cina e Mipim di Cannes): Nardella, infatti, si dedica non solo alla promozione (di per sé vergognosa e penosa) dei migliori immobili pubblici in disuso o in dismissione presenti sul territorio comunale, ma soprattutto di quelli privati. Sui 59 edifici promossi sul mercato della speculazione fondiaria sotto l’egida del comune di Firenze, ben 47 sono infatti privati. Nel disastro della desertificazione della città storica attuatasi anche grazie al decentramento di università, tribunale e uffici, non pareva sufficientemente destrutturante svendere il patrimonio pubblico, ora il pubblico si incarica di vendere quello privato agognando un investimento immobiliare estero dal potere taumaturgico.
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"La Consulta troppo debole di fronte alla distruzione, decisa a Bruxelles, della Costituzione"
Cesare Sacchetti intervista Luciano Barra Caracciolo
E Renzi prosegue nell'accettare la decrescita infelice imposta da Bruxelles
Luciano Barra Caracciolo, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, che ha denunciato nel suo libro “Euro e (o?) democrazia costituzionale - La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei “ l’incostituzionalità dei Trattati europei, descrive l’inefficacia delle politiche di riduzione del deficit pubblico, basate sul modello economico neoliberista caro alla Commissione Europea. Politiche che di fatto continuano a precipitare il Paese in una recessione ancora maggiore, con il Governo che puntualmente elabora previsioni di ripresa che fino ad ora non si sono mai realizzate.
- Dottor Barra Caracciolo, partiamo dalle previsioni d’autunno della Commissione Europea, secondo le quali l’Italia non raggiungerà il pareggio di bilancio nel 2017. Secondo la Commissione il disavanzo strutturale aumenterà dallo 0,9 % all’ 1%. Kaitanen, vicepresidente con delega alla crescita, agli investimenti, e all’occupazione sottolinea l’importanza di rispettare il Patto di Stabilità. All’Italia saranno chieste misure correttive? Se sì, di che tipo?
Parlare di decimali su indicatori come “disavanzo strutturale” e crescita, in relazione ai modelli economici utilizzati dalla Commissione è praticamente privo di senso. Le previsioni effettuate in base al loro modello economico si rivelano costantemente sbagliate. Questo perché muovono dal presupposto neo-liberista della “neutralità” del deficit pubblico, la cui riduzione sarebbe “espansiva” in base ad uno spiazzamento dal bilancio pubblico agli investimenti privati.
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