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Contro! Un manifesto per uscire dalla solitudine politica
di Gabriele Guzzi
Per parlare dell’ultimo libro di Alessandro Di Battista (Contro! Perché opporsi al governo dell’assembramento, PaperFIRST 2021), partiremo da un estratto delle sue conclusioni.
“Mi sento solo, mi ci sento da quanto è scomparsa la mia adorata mamma, da quando in una trincea che credevo affollata sono rimaste solo alcune vecchie vettovaglie, da quando ho scelto seguendo i miei ideali. Credo che l’essere umano, e in particolare chi fa politica, ceda spesso all’incoerenza, perché la solitudine spaventa. La solitudine fa schifo. Si camminerà a testa alta e ci si guarderà pure allo specchio, ma sempre soli si resta.”
Qui è racchiuso, a nostro avviso, il senso complessivo del libro, la sua forza e i suoi punti problematici, quelli che toccano le questioni di fondo, su cui tenteremo un’analisi.
La solitudine che lamenta Alessandro Di Battista in questo passaggio è un’emozione che intreccia fatti personali, su cui non possiamo che esprimere solo la nostra più sincera vicinanza, e fatti politici. Il fatto politico è che la solitudine è diventata lo stato d’animo fondamentale dei nostri tempi. E questo non solo perché a livello psicologico ed esistenziale stanno emergendo sempre più fenomeni di isolamento, depressione, sfiducia per il futuro, come ci conferma un recente studio dell’Università di Padova[1], ma perché la politica non riesce più ad esprimere una direzione aggregativa di senso.
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Mega-elezioni per il “laboratorio bolivariano”
di Geraldina Colotti
Il presidente del CNE, l’intellettuale Pedro Calzadilla, ha annunciato il calendario di massima che porterà alle elezioni del 21 novembre in Venezuela: le “mega-elezioni”, come sono state definite, giacché si voterà lo stesso giorno per eleggere i 23 governatori o governatrici, i 335 sindaci o sindache e centinaia di membri dei consigli regionali e comunali. Le loro candidature verranno presentate tra il 9 e il 29 agosto, mentre il 26 settembre si svolgerà una simulazione di voto per verificare il funzionamento di tutte le fasi del processo elettorale. La campagna elettorale, ha detto Calzadilla, comincerà il 28 ottobre e terminerà il 18 novembre, mentre si procederà a organizzare, come di consueto, molteplici audit del sistema di voto, altamente automatizzato, per assicurarne il perfetto funzionamento e la trasparenza.
Guardando ai quasi 23 anni di esistenza del processo bolivariano, ognuna delle 25 elezioni che si sono svolte appare un piccolo condensato di storia per comprendere la complessa cartografia del presente, punti di resistenza contro l’imperialismo, disegnati dal “laboratorio bolivariano”. A differenza di quanto avviene nelle democrazie borghesi, il voto in Venezuela non è infatti un feticcio da ostentare a ogni tornata elettorale, ma una leva per far crescere ulteriormente la coscienza delle masse, il potere popolare, per compattare e ampliare il blocco storico che sostiene la rivoluzione, e per decidere quando, come e con quali alleati si deve avanzare tra guerra di movimento e guerra di posizione, manovrando in equilibrio tra conflitto e consenso.
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Come e perchè il neoliberalismo ha inghiottito (e digerito) il femminismo
di Carlo Formenti
Marxismo e liberalismo non sono solo due ideologie: sono anche ideologie (1), ma sono anche e soprattutto due paradigmi reciprocamente incompatibili, nella misura in cui incorporano visioni del mondo, principi e valori etici, metodi di analisi scientifica, bisogni umani e obiettivi politici fra loro antagonisti, così come sono antagonisti gli interessi di classe rappresentati dai partiti e movimenti che ad essi si inspirano. La tesi che sosterrò in questo scritto è che il femminismo - termine con cui non intendo qui quel variegato insieme di correnti culturali che esiste da più di un secolo, bensì il movimento femminista politicamente organizzato, nato fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta -, inizialmente sviluppatosi come articolazione interna del paradigma marxista (cui ha apportato il proprio contributo, allargando il concetto di sfruttamento ed evidenziando il ruolo del lavoro riproduttivo per la conservazione degli equilibri della società capitalistica), se ne è progressivamente separato, impegnandosi – senza successo – ad autodefinirsi come paradigma autonomo – e sotto vari aspetti concorrente – rispetto al marxismo, ottenendo quale unico risultato la propria integrazione nel paradigma liberale (nella forma neoliberale che quest’ultimo ha assunto a partire dagli anni Ottanta), del quale rappresenta oggi a tutti gli effetti una corrente ideologica (e qui il termine – diversamente da quanto chiarito in nota (1) - va inteso nel senso corrente di falsa coscienza).
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L’Accordo globale sugli investimenti UE-Cina e il suicidio dell’Europa
di Giambattista Cadoppi
Che cosa è il CAI?
Il Comprehensive Agreement on Investment (CAI) è un accordo globale sugli investimenti tra Cina e Unione Europea. L’accordo UE-Cina, negoziato che è durato sette anni a partire dall’ottobre 2013, è andato a rilento ed è stato concordato in linea di principio il 30 dicembre 2020. L’accordo mira a sostituire decine di trattati bilaterali di investimento tra i 27 Stati membri dell’UE e la Cina.
Questo accordo mira a facilitare l’accesso delle due parti ai reciproci mercati e in particolare, per quanto riguarda l’Europa, un’apertura più ampia al mercato cinese.
Il CAI è diverso dall’accordo di Fase Uno USA-Cina, che non solo richiede un maggiore accesso al mercato cinese per le aziende americane, ma obbliga Pechino ad acquistare beni americani, dall’agricoltura alla manifattura. Alcuni di questi sostituiscono beni precedentemente acquistati dall’Europa (Keegan 2020). Comprensibile, dunque, che gli USA si oppongano ad un approfondimento dei rapporti commerciali tra Cina e Europa che eventualmente comporterebbe un danno per Washington. Gli americani, a differenza degli europei, non sono stupidi.
Il CAI non è un accordo di libero scambio. Si tratta di un accordo di investimento internazionale che si situa nella tradizione dei trattati bilaterali di investimento.
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Razzismo, Antisemitismo, Islamofobia
di Étienne Balibar
Un intervento di Étienne Balibar su islamofobia e antisemitismo
Il testo che segue è l’intervento di Étienne Balibar a un convegno su Razzismo e Antisemitismo, i cui atti completi sono stati pubblicati come numero speciale del The Journal of the Hannah Arendt Center for Politics and Humanities at Bard College. La pubblicazione in italiano è utile perché contribuisce a capire meglio le questioni teoriche soggiacenti ad alcuni fenomeni, come la radicalizzazione speculare degli integralismi, la controversia fra integristi universalisti e antirazzisti e il nazionalismo di classe che ostentano Stephane Beaud e Gérard Noiriel contro l’intersezionalità. Ricordiamo che in Francia l’ostilità contro antirazzisti, “intersezionalisti”, antisessisti e anti-islamofobia è diventata una vera e propria crociata che di fatto unisce l’estrema destra, la pseudo-sinistra laicista e repubblicana, e quindi nazionalista se non apertamente sciovinista, e infine il governo e il presidente Macron, che hanno varato una legge sulla sicurezza globale e una contro il “separatismo” con evidente connotazione islamofoba. Questo schieramento nazionalista che Macron vuole egemonizzare di fatto, oltre a cercare di togliere potenziali voti alla concorrente Le Pen in vista delle elezioni presidenziali del 2022, mira a cancellare ogni spazio alle rivendicazioni antirazziste che negli ultimi anni sono anti-islamofobe, femministe, antisessiste e quindi intersezionaliste. Tutte istanze condannate in quanto nemiche di una “universalità laica repubblicana” francese che, come segnalava lo stesso Balibar in un altro suo saggio, non aggrega ma divide, esclude.
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1971: l’incontro tra Foucault e Sartre
di Francesco Bellusci
Esattamente cinquant’anni fa è accaduto che, in un preciso momento del secolo scorso, i due “filosofi del secolo” stringessero un sodalizio inaspettato e durevole. È il 27 novembre 1971: una mattina cupa e fredda, tipica dell’autunno francese, ma anche tesa, alla Goutte-d’Or, banlieu situata al centro di Parigi, ai piedi della collina di Montmartre e connotata dalla presenza numerosa di famiglie e di lavoratori immigrati di origine maghrebina. Le tensioni razziali nel quartiere si sono acuite con l’affaire Djellali Ben Ali: un adolescente algerino che, dopo aver malmenato la portinaia del suo immobile, viene ucciso a colpi di fucile dal marito della stessa portinaia, col pretesto di un presunto tentativo di stupro perpetrato dal giovane nei confronti della moglie. La condanna lieve a sette mesi, in primo grado, all’omicida fa scattare una mobilitazione degli intellettuali di sinistra, che si affianca a quella dei comitati locali e dei militanti della Gauche prolétarienne (GP), con l’organizzazione di una manifestazione e di un “appello ai lavoratori del quartiere” , alla cui testa si pongono a sorpresa: Michel Foucault e Jean-Paul Sartre.
Così, quella mattina fredda è anche il giorno del primo incontro e del “disgelo” tra i due maîtres à penser francesi, divisi, già da alcuni anni, dalla scia di acredine che contrassegnò la polemica nata all’indomani della pubblicazione di Le parole e le cose di Foucault, nel 1966.
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Stato di Israele e questione palestinese: ben oltre la “questione ebraica“
di Michele Castaldo
Avvertenza: scrissi queste note e le pubblicai sul mio sito oltre 11 anni fa. Le ripropongo rispetto al nuovo massacro da parte dello Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese perché sono più attuali che mai
“La storia è radicale e percorre parecchie fasi,
quando deve seppellire una figura vecchia“
È difficile riuscire a ragionare di fronte a tanta crudeltà, alla disparità delle forze in campo tra lo stato di Israele e la resistenza palestinese che si esprime in questa fase nel gruppo islamico di Hamas. Mai la storia è uguale a sé stessa, bisogna guardare ai fatti senza sovrapporre ad essi schemi di precedenti cicli storici. L’odierno Stato di Israele non è la comunità religiosa o etica religiosa della diaspora, del martirio o dell’olocausto. La storia macina e modifica ogni cosa, i rapporti fra gli uomini, le comunità, le nazioni, gli imperi e cosi via.
Molti ebrei che emigrarono tra la seconda metà del 1800 e la prima decade del 1900 dall’Ucraina, dalla Polonia, dalla Germania, dalla Russia verso gli Stati Uniti d’America, ebbero un ruolo importante nello sviluppo delle lotte operaie e proletarie di quel florido paese, furono artefici della costituzione di società di mutuo soccorso, di sindacati, di partiti socialisti e comunisti. Molto spesso furono veri e propri passaparola fra le lotte operaie che si sviluppavano negli States e le prime organizzazioni operaie in Ucraina, in Russia, nella stessa Germania. Furono artefici di un filo conduttore che trasmetteva le tensioni da un continente all’altro, oltre ad esprimere – come ben noto – alcune figure carismatiche del movimento operaio mondiale come Marx, Rosa Luxemburg, Poul Levy, Leone Trotzky e tanti altri.
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Il Piano di Rilancio e Resilienza: soldi pochi e selezione verso l’alto
di Alessandro Giannelli
Scritto ed integralmente concordato dal premier Draghi con l’ Unione Europea, il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, rappresentato come il piano economico più imponente dal dopo guerra ad oggi, è stato inviato il 29 aprile a Bruxelles.
Totalmente bypassato il Parlamento (che comunque lo ha approvato a scatola chiusa e praticamente all’unanimità) e con tutto il quadro politico istituzionale impegnato nel frattempo ad accapigliarsi sullo spostamento dell’orario del coprifuoco dalle 22 alle 23…
Il piano si compone di sei missioni espressamente indicate da Bruxelles (digitalizzazione, transizione verde, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute), all’interno delle quali si sviluppano 16 componenti, ed è accompagnato da 4 riforme di contesto (giustizia, PA, semplificazioni e concorrenza) a cui si aggiunge la riforma fiscale (certamente non in chiave redistributiva) della quale si comincerà a discutere a giugno.
Le cifre e la logica del Piano
Senza troppo soffermarci sulle cifre, ma giusto per avere la dimensione reale e non propagandistica della “potenza di fuoco” messa in campo: si tratta di circa 200 miliardi (dei quali circa 70 in sovvenzioni e circa 122 in prestiti da restituire) stanziati per il nostro paese e da spalmare in 6 anni, a cui vanno aggiunti circa 13,5 miliardi di fondi europei nell’ambito del programma React-Eu.
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La tara fatalistica di Marx e Lenin - secondo Braudel
di Leo Essen
Nelle ultime pagine del secondo volume di Civiltà materiale. Economia e capitalismo (secoli XV-XVII). I giochi dello scambio, Braudel si chiede perché in Europa e non in Cina, perché a Firenze e non a Costantinopoli; si chiede perché il capitalismo sia attacchino in Italia e non in Nord Africa, e quali siano stati gli ingredienti che hanno reso possibile questa affermazione.
L’ingrediente fondamentale è stato lo Spirito protestante, come sostiene Weber, oppure la speciale razionalità Europea come dice Sombart?
Il modo di ragionare di Weber, dice Braudel, un modo ricco di sfumature, un modo sottile e confuso di ragionare, è un modo al quale devo confessare di essere allergico non meno di quanto lo fosse Lucien Febvre.
La dimostrazione di Weber, dice Braudel, è piuttosto sconcertante, e si perde in una meditazione molto complessa. Egli, dice, si pone alla ricerca di una minoranza protestante che sarebbe portatrice di una mentalità, tipo ideale dello «spirito capitalista». Tutto ciò, dice, implica tutta una serie di presupposti. Complicazione supplementare: la dimostrazione viene compiuta all’indietro nel tempo, procedendo dal presente verso il passato.
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Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”
di Laura Baldelli
“Di quel Gramsci, che negli anni ’40 era stato figura centrale nella sua formazione e punto di riferimento, specie riguardo al ruolo dell’intellettuale nella creazione e valorizzazione di una cultura popolare e nazionale; e del quale, appunto, non rimangono che ceneri”
Pasolini si conferma sempre più tra i più grandi intellettuali del’900, di respiro europeo, un artista fuori del tempo per le sue intuizioni artistiche e sociali; un autore prolifico dalla produzione poliedrica, originale nei vari generi e linguaggi: saggistica, letteratura, cinema, pittura, teatro. Lavori che hanno origini e spinte autobiografiche, ma anche sostenute da un’ideologia forte e da un’intenzione pedagogica.
Tutta l’opera di Pasolini nelle sue varie forme artistiche, ordinata cronologicamente, racconta la storia d’Italia, soprattutto dagli anni ’50 ai ’70, i decenni della rivoluzione antropologica: il passaggio da popolo a massa.
Pasolini riconobbe però nell’espressione lirica il suo canale privilegiato e la sua produzione poetica addirittura fu concepita come “letteratura espressione di appassionata testimonianza di vita” e veicolo d’idee; proprio in un momento storico-letterario in cui invece il successo era tutto per la lirica ermetica, post-ermetica e nuove avanguardie emergevano.
Infatti, con “Le ceneri di Gramsci” scelse contro corrente “la poesia civile” e la tradizione nella forma metrica, recuperando le terzine di enjambement, di endecasillabi con la ricerca della rima incatenata come Dante e Pascoli, considerandola il metro narrativo per eccellenza (non a caso la Divina Commedia fu scritta così) e soprattutto la forma migliore per esprimere la passione.
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Il Komintern e il fascismo
di Salvatore Tinè
Parte I
In questa prima parte dell’analisi sull’atteggiamento dell’Internazionale Comunista riguardo al fenomeno fascista, si mette in evidenza come il Komintern abbia rilevato fin dalla marcia su Roma la pericolosità del fascismo e il suo carattere internazionale in quanto espressione della crisi mondiale del capitale, e abbia individuato nella tattica del fronte unico la modalità per combatterlo
Il tema del fascismo, delle sue cause e della sua natura, è al centro della discussione politica e dell’elaborazione strategica del Komintern già a partire dal suo IV Congresso apertosi a Pietroburgo il 5 novembre del 1922, pochi giorni dopo la marcia su Roma. Non sfugge al gruppo dirigente del “partito mondiale della rivoluzione” la dimensione internazionale degli avvenimenti italiani, il loro riflettere un contesto di generale controffensiva capitalistica che sembra rallentare i ritmi e i tempi del processo rivoluzionario innescato in Europa centrale e occidentale dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Di fronte alla sfida lanciata dalla prima rivoluzione operaia vittoriosa della storia, e nonostante l’estrema gravità della crisi economica e sociale seguita allo sfacelo della guerra imperialista, le classi dominanti del mondo capitalistico dimostrano di possedere ancora una forte capacità di resistenza e di tenuta politica e organizzativa. Il fascismo è una delle forme politiche che assume la controffensiva e la reazione borghesi. Di fronte a esse i comunisti sono chiamati proprio mentre si costituiscono come tali su basi totalmente rinnovate rispetto alle vecchie tradizioni del socialismo della II Internazionale, a muoversi e agire anche sul terreno della politica unitaria, sia per accumulare e unificare le forze rivoluzionarie che per conquistare la maggioranza del proletariato e una parte delle stesse masse popolari.
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Gli obiettivi occupazionali dell’Unione europea: una farsa senza fine
di coniarerivolta
Il vertice di Porto si è chiuso con l’ennesimo proclama entusiasta della Commissione europea che promette di raggiungere obiettivi fantasmagorici entro il 2030. Per fortuna, questa volta persino la stampa filoeuropeista si è accorta che si tratta di impegni ‘morali’ perché, come siamo abituati a vedere, di concreto non c’è un bel nulla. Anzi.
Nel consesso portoghese si è data grande enfasi al cosiddetto ‘Pilastro dei diritti sociali’, una delle patine zuccherine che l’Unione europea ha inserito nella sua agenda fatta di austerità e liberismo. Tre gli obiettivi da raggiungere entro il 2030, fissati dalla Commissione europea e ribaditi al summit di Porto, per dare attuazione al suddetto pilastro: un tasso di occupazione nell’insieme dei paesi UE di almeno il 78%; una partecipazione di almeno il 60% degli adulti a corsi di formazione ogni anno; la riduzione del numero di persone a rischio di esclusione sociale o povertà di almeno 15 milioni (di cui 5 milioni di bambini). Risuona così l’eco della famosa Agenda Europa 2020 che fissava come obiettivi l’anno appena trascorso super giù i medesimi traguardi: almeno il 75% della popolazione europea occupata nella stessa fascia d’età; ridurre di 20 milioni il numero delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale; ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% e portare almeno al 40% il tasso dei giovani laureati.
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Big Pharma, un mostro da conoscere
di Fulvio Bellini
Premessa: Big Pharma, riscriviamone la storia
Il mantra del 2020 è stato certamente la pandemia da Covid-19, ancora oggi gravido di terribili conseguenze in termine di contagiati nel mondo: quasi 157 milioni d’individui, oltre 3.272.000 morti, dati ufficiali e desunti dal sito della John Hopkins University, quindi da considerare per difetto anche se non è facile determinarne la percentuale. Nel 2021 perdura la pandemia di un virus che, come un abile stratega, adotta delle varianti che assumono forme diverse a seconda della longitudine e della latitudine dove si sviluppa (variante inglese, brasiliana, sudafricana, indiana) per sfuggire ai nuovi avversari di quest’anno: i vaccini. In quest’articolo tenteremo d’indagare il tema dei vaccini appunto e dei loro produttori: le multinazionali del farmaco denominate appropriatamente “Big Pharma”, cercando di osservare tali fenomeni sotto molteplici aspetti, tranne quello puramente sanitario ed epidemiologico che non ci compete, ma che per assurdo non è nemmeno quello principale. Cercheremo invece di svolgere un percorso simile ad una salita, da una pianura nebbiosa fino alla cima di una collina baciata da un cielo terso dal quale getteremo uno sguardo su possibili scenari futuri che, purtroppo, non è detto siano migliori dell’attuale.
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Non ce ne andremo. Parlano le donne
di Aseel Jundi
Probabilmente tra qualche giorno del quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, dove migliaia di palestinesi vivono in case su cui pendono come macigni gli ordini di demolizione, non si parlerà più. Il ministero degli esteri israeliano ha detto che i “terroristi stanno presentando una controversia immobiliare tra privati per incitare alla violenza a Gerusalemme”. L’articolo che trovate qui sotto, racconta chi sono quei terroristi, anzi quelle terroriste, visto che le donne stavano assumendo ruoli preminenti in questo nuovo episodio di una resistenza che uno degli eserciti più potenti del mondo non riesce a cancellare da oltre settant’anni. Abbiamo scritto “stavano”, perché non saranno le donne, arabe o israeliane, a decidere quel che avverrà nei prossimi giorni. Non sarebbe possibile, perché la guerra, i missili, i razzi, i fiumi di sangue versato si prenderanno ancora una volta l’intera scena. Una scena patriarcale. Il volume di fuoco mediatico sull’opinione che “conta”, quello con il quale Israele vince le sue guerre da decenni, riuscirà a cancellare perfino le granate lanciate dalle forze di occupazione negli “scontri” all’interno della moschea di Al Aqsa, il terzo luogo più santo dell’Islam. Lo Statuto di Roma del 1998, che istituì la Corte Penale Internazionale all’Aia, dichiara che chiunque “diriga intenzionalmente attacchi contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte, alla scienza o a scopi umanitari [oppure] a monumenti storici” commette un crimine di guerra. Non è necessario che si riscontrino danni significativi – lo statuto considera un crimine l’attacco in sé, non le conseguenze. Crimini di guerra. A questa notte, la notte di venerdì 14 maggio, sono 103 palestinesi uccisi, tra i quali 27 bambini e adolescenti e 11 donne.
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Letteratura e impegno
A partire da "Contro l'impegno"
di Gilda Policastro
Che cos’è la letteratura? Anzi: che cos’è la letteratura oggi? E, più precisamente, che cosa fa la letteratura oggi? Intanto, chiariamo in che senso “oggi”. Oggi, 2021, ad anno pandemico extended version, un anno in cui abbiamo vissuto sempre più schermati, sulle piattaforme dove abbiamo tenuto lezioni, conferenze, dibattiti, presentato libri, finanche tentato una parvenza di socialità (“non incontro persone da mesi”; “si prenda un tè con un’amica”; “c’è il covid”; “lo faccia su Skype” – da un dialogo con l’analista, che vedo, dalla zona rossa in poi, sempre su Skype). All’inizio dell’anno pandemico gli scrittori denunciavano lo choc di non riuscire più a leggere, e dunque nemmeno a scrivere. La settimana era scandita dai programmi di informazione, con epidemiologi, immunologi e virologi assurti a nuove star televisive: Massimo Galli il martedì da Berlinguer e in contemporanea Ilaria Capua e Barbara Gallavotti da Floris, Antonella Viola il giovedì da Formigli, Roberto Burioni la domenica da Fazio. Alcuni scrittori (ad esempio Aldo Nove) si sono nettamente schierati contro la cosiddetta dittatura sanitaria, trovando inconcepibile l’isolamento cui ci costringeva (e in parte ci costringe tutt’ora) la saturazione degli ospedali e l’assenza di un vaccino per il nuovo virus (ora il vaccino c’è, con tutte le criticità del caso). Giorgio Agamben si è scagliato contro la “nuda vita”, quasi fosse una pretesa antiumana ed egoistica, quella di non volersi ammalare (il problema del virus è il contagio, e la tua libertà di ammalarti finisce dove comincia la mia di non volerlo fare, specie se appartengo alle categorie cosiddette fragili – sì, d’accordo, con Leopardi è fragile tutto il genere umano, ma ci sono momenti in cui il comune destino di fragilità è incombente più del solito, e per alcuni più che per altri).
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Ripartire dall’alto
di Mario Tronti
Venerdì 22 aprile 2016, alla mediateca Gateway di Bologna, si è svolta un’intensa e articolata giornata seminariale con Mario Tronti. Per la prima volta pubblichiamo la trascrizione della sua relazione, rimasta finora inedita. Era da poco uscito Dello spirito libero (il Saggiatore, 2015), libro di straordinaria ricchezza e radicalità, che offre molteplici spunti di discussione, decisive tesi e ipotesi di ricerca teorico-politica. Il seminario ha focalizzato in particolare tre grandi questioni: la critica del moderno, della democrazia e della tecnica. Qui Tronti affonda la lama politica del suo pensiero, ancora una volta senza lacrime per le rose. Perché, come scrive nel libro, «il pensiero è nemico mortale dell’opinione. L’opinione, infatti, lo odia. Arriva, ma lo devi meritare per averlo, uno stato d’eccezione del discorso, dove sovrano è chi pensa. Poi, dopo il lampo abbagliante, devi di nuovo abituarti alla normalità grigia o oscura».
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Per la critica del moderno
Il libro è di frammenti, è molto scomposto nella sua articolazione, quindi ognuno ci trova qual è il suo problema. Credo sia giusto così, perché un libro deve suscitare problemi, non deve tanto risolverli. Deve richiamare i problemi che hanno in corpo e nella testa le persone che leggono, soprattutto le persone impegnate in questa forma anomala di amicizia. Amicizia è un termine ambiguo, è molto esposto alla pappa del cuore.
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L'Italia ai tempi del Recovery Plan (II)
Dialogo con gli economisti
Risponde Vladimiro Giacché
Con questa approfondita intervista prosegue la riflessione, inaugurata dal colloquio con Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-italia-ai-tempi-del-recovery-plan), sulla politica economica di risposta alla crisi drammatizzata dalla pandemia Covid. Ritorno delle istituzioni regolative, Recovery Plan, strategia europea di rilancio dell’accumulazione, contraddizioni del green new deal, sono alcuni degli argomenti proposti a Vladimiro Giacché, filosofo di formazione, autore di saggi filosofici e di economia politica, ma anche di ricerche più strettamente di carattere finanziario, in qualità di professionista del settore bancario e del ruolo di presidente del centro di studi economici Centro Europa Ricerche (Cer, 2013-2020). Tra i suoi libri si citano: Titanic Europa (2012), Costituzione italiana contro trattati europei (2015), La fabbrica del falso (terza ed. 2016), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (nuova ed. 2019), Hegel. La dialettica (2020). Ha curato inoltre edizioni degli scritti economici di K. Marx (Il capitalismo e la crisi, 2009) e Lenin (Economia della rivoluzione, 2017).
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Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato un prepotente ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Se nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia e, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli States), in che modalità esso si ripresenta oggi?
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I fondamenti filosofici della società virale
Nietzsche e Hayek dal neoliberalismo al Covid-19
di Paolo Ercolani (Università di Urbino)
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
L’emergenza sanitaria, seguita alla comparsa del virus denominato Covid- 19, ha prodotto due effetti sostanziali: il primo concerne l’esperienza traumatica, fondamentalmente a livello psicologico, di un fenomeno che ha scardinato le sicurezze dell’uomo odierno rispetto alla sua capacità di padroneggiare (o perlomeno controllare) quell’ecosistema biologico di cui è ospite e non padrone; il secondo riguarda la vera e propria crisi sociale che, in più contesti, ha rivelato fino in fondo le storture del modello neoliberista, ormai dominante nello scenario internazionale almeno a partire dalla data simbolica del 1989.
Nel primo caso, per esprimersi in termini freudiani, possiamo parlare dell’ennesima «ferita narcisistica» subìta da un soggetto, l’uomo, soventemente invaso da un irrealistico delirio di onnipotenza, che in questa situazione di emergenza sanitaria si è tradotto nell’individuazione di «verità» alternative e nella negazione dell’emergenza stessa, a fronte dell’individuazione «paranoica» di complotti e trame segrete1. Nel secondo caso, che poi è quello che qui ci interessa specificamente, possiamo cogliere l’occasione per ricostruire e al tempo stesso mettere in discussione i fondamenti filosofici su cui si fonda il liberismo. Ossia quella teoria che ha plasmato il sistema sociale e valoriale del nostro tempo, imponendo un «ordine» in cui l’umano e il fisiologico sono ridotti a strumento al servizio di scopi che non possono deragliare dal profitto economico e dal progresso tecnologico.
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“Il blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”
di Alessandro Visalli
Per la collana “Visioni Eretiche”, diretta da Carlo Formenti, è uscito da qualche mese il libro “Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro”[1]. Gli autori sono: lo stesso Formenti, che firma l’introduzione ed un saggio dal titolo “Dal socialismo reale al socialismo possibile. Appunto sul socialismo del XXI secolo”; Carlo Galli, “Un mondo di sovrani”; Pierluigi Fagan, “La difficile transizione adattiva al XXI secolo”; Manolo Monereo, “Plutocrazia contro democrazia”; Piero Pagliani, “La logica della crisi”; Onofrio Romano, “Decrescita verticale. Sul futuro del valore”; Raffaele Sciortino, “Tracce di futuro”; Alessandro Somma, “Per un costituzionalismo resistente alla normalità capitalistica”; Andrea Zhok, “Naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura? Prolegomeni ad una nuova alleanza”. Infine, il testo che qui si riproduce nella versione quasi finale, “Il blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”, che è firmato da me, Alessandro Visalli.
Si è trattato di un progetto avviato prima della pandemia, al finire del 19, ma che, fatalmente, è stato profondamente coinvolto nella lettura di questa.
I temi che si intrecciano tra gli autori, che si sono scambiati per tempo i propri contributi nel tentativo di fertilizzarli reciprocamente, sono ricondotti da Formenti alla crisi della globalizzazione neoliberale, ben visibile prima della pandemia, e per ora nettamente accelerata dagli effetti di questa e certamente ampliata nei suoi effetti dagli scontri di potenza in costante e davvero preoccupante accelerazione. Gli scopi della mondializzazione sono illuminati dai diversi autori sia da un punto di vista di classe (favorire l’accentramento di potere e ricchezza nelle mani di quella frazione della classe capitalista che detiene il controllo dei fattori mobili), sia dal punto di vista della concentrazione del controllo in aree del mondo e luoghi ‘densi’.
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Teorie nella crisi: pandemia e produzione culturale
di Pietro Saitta
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
1. Introduzione: osservazioni di contesto
Per quanto la storia dei disastri – ossia degli eventi indesiderati di larga scala di matrice tecnologica o naturale, ovvero frutto dell’ibridazione delle due dimensioni, in grado di stravolgere il regolare fluire della vita quotidiana delle società colpite – sia, quantomeno a partire dal diciassettesimo secolo, parte integrante di regimi, ambiti e protocolli scientifici altamente specializzati di interpretazione, previsione, misurazione dell’impatto e calcolo probabilistico relativo all’evoluzione dei fenomeni1, la caratteristica di questi eventi è quella di tracimare dai margini delle specializzazioni per farsi discorso. Ossia di divenire oggetto di interessi – accademici o semplicemente colti; ma anche «popolari» – estranei al dominio disciplinare che i sistemi classificatori e le forme pubblico-politiche di cognizione indicano come immediatamente pertinenti (la sismologia, la biologia, la fisica etc.). E di farsi, nel corso di questo processo, «teoria»: ossia un sistema organizzato di idee, relative agli elementi che si ritiene compongano un problema, connesse tra loro in modo da individuare, correttamente o meno, i nessi causali e spiegare il fenomeno sotto scrutinio. O anche – in una forma, per così dire, «ridotta» – farsi congettura, relativa alle principali cause di un fenomeno o ad alcuni suoi aspetti, oppure tesa all’individuazione degli scenari ipotetici generati da un fenomeno principale, la cui utilità consiste essenzialmente nel preparare il soggetto (tanto colui che produce il pensiero quanto chi lo percepisce) al possibile dispiegarsi di un futuro dai caratteri più incerti del solito e nel ridurne l’angoscia.
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Colombia, Uribe e la “rivoluzione molecolare”
di Geraldina Colotti
Trema il narco-governo di Ivan Duque per la pressione del popolo colombiano, che da più di dieci giorni sfida le pallottole della polizia. L’hashtag “S.O.S. Basta Duque! No más represión” sta inondando le reti sociali. La repressione subito battezzata dall’ex presidente Alvaro Uribe con un twitter di incitamento al massacro, ha già causato una trentina di morti, un centinaio di scomparsi e circa un migliaio di feriti, alcuni dei quali gravi: colpiti dalla micidiale tecnica di accecamento, nuova forma di repressione che abbiamo visto in azione in Francia, in Cile e in altre parti dell’America Latina.
Numerose anche le violenze sessuali contro manifestanti prevalentemente giovanissimi, che denunciano il furto di futuro nel paese più diseguale dell’America Latina, che già è il continente con più disuguaglianze al mondo. “Nos están matando”, ci stanno uccidendo, denunciano quei giovani in un altro hashtag che sta arrivando ai media e a tutte le grandi istituzioni internazionali.
E le risposte cominciano a farsi sentire, così come emergono i silenzi complici di quanti, come il segretario generale dell’Osa, Luis Almagro, risulta sempre impegnato a tramare contro il Venezuela e Cuba e a impedire la vittoria dei governi non graditi a Washington nella regione. Sono però arrivate le “preoccupazioni” dell’Onu, della Ue e anche di Amnesty International, che ha sostenuto le denunce dei manifestanti.
In Italia, si è fatta sentire anche Laura Boldrini, parlamentare del PD e presidente del Comitato per i diritti umani nel mondo.
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La retata di Parigi
Andrea Brazzoduro intervista Enzo Traverso
Viste le reazioni scomposte che hanno accompagnato l’indegna retata parigina del 28 aprile 2021 abbiamo chiesto a Enzo Traverso – tra i massimi storici del mondo contemporanea – di ragionare insieme sulla «stagione della conflittualità» tra storia, memoria, politica e giustizia. Tra questi termini il grande convitato di pietra è infatti la storia, cioè il lavoro di comprensione degli eventi del passato. In che senso l’arresto di un pugno di uomini e donne dai capelli bianchi aiuterebbe l’Italia a «fare i conti con la Storia» – se non proprio col Novecento – come hanno scritto alcuni? Da una parte questi ex militanti politici sono trattati come criminali comuni secondo i dettami di un’ideologia presentista tra le più becere e ignoranti. Dall’altra è convocata (impropriamente) tutta la panoplia dei memory studies per imporre una narrazione del trauma, fondata sul paradigma vittimario. In base a che cosa si dice che nella società italiana ci sarebbe una ferita aperta rispetto agli anni Settanta? Come in Francia per l’occupazione dell’Algeria, sembra piuttosto che si tratti di esplicito uso politico della storia, che niente ha a che fare con i processi sociali reali di elaborazione della memoria.
Intorno a questi temi, a partire dalla ‘retata parigina’, abbiamo intervistato Enzo Traverso per tentare di andare oltre il monologo collettivo che imperversa nel dibattito pubblico.
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Donne e uomini coi capelli grigi, tra i 60 e i 78 anni, tradotti in manette, all’alba, nelle camere di sicurezza dell’antiterrorismo. «Ombre rosse» è il nome scelto per la retata con cui, il 28 aprile 2021, sono stati arrestati 7 ex militanti della sinistra rivoluzionaria rifugiati in Francia da anni e accusati dalla giustizia italiana di una serie di delitti che vanno dall’associazione sovversiva all’omicidio commessi, secondo l’accusa, tra il 1972 e il 1982. Si tratta di «chiudere con il Novecento», come scrive «la Repubblica»?
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Ricardo, Marx, Sraffa e i comunisti
di Ascanio Bernardeschi
Nella Sezione "Scuola Quadri" di "Cumpanis" è stato pubblicato, lo scorso 29 aprile, un intervento del professore di Economia e Diritto, e collaboratore del nostro giornale, Federico Fioranelli. Un articolo relativo al pensiero del grande economista comunista Piero Sraffa. In relazione a questo articolo ci ha inviato una propria riflessione il compagno Ascanio Bernardeschi, del giornale comunista on-line "La Città Futura". Bernardeschi è un compagno ed un intellettuale marxista che molto stimiamo e che ringraziamo per la sua attenzione al nostro giornale. Pubblichiamo l'interlocuzione di Bernardeschi, alla quale seguirà una replica del compagno Fioranelli
Il 29 aprile, su Cumpanis, Federico Fioranelli propone un buon sunto del contributo di Piero Sraffa all’economia politica volto a rivalutare la teoria degli economisti classici e in particolare quella di David Ricardo, di cui l’illustre economista era un profondo conoscitore, e a porre le basi per una critica della teoria economica marginalista.
La parte dell’articolo che riferisce i contributi precedenti a Produzione di merci a mezzo di merci espone succintamente alcune critiche assai penetranti di quella teoria la quale, per puri motivi ideologici, rappresentava all’epoca di quelli scritti, che dista quasi un secolo dall’oggi, l’ortodossia sciorinata in tutte le salse ai malcapitati studenti dei corsi di economia politica, o economics, come si ama dire oggi dopo aver sbianchettato la parola “politica”. Purtroppo, nonostante quelle critiche, questa ortodossia sopravvive tuttora. Credo che comunque, averne lucidamente evidenziato le falle, sia stato un grande merito di Sraffa, forse il suo maggiore, nonostante sia poco conosciuto. È cosa assai apprezzabile quindi che sia stato messo a conoscenza del lettore di Cumpanis.
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Note su due libri della Mazzucato
di Bollettino Culturale
Il libro della Mazzucato “Il valore di tutto: chi lo produce e chi lo sottrae nell'economia globale” tratta del valore nell'economia digitale e globale di oggi. In tutto il libro, l'autrice incarna rigorosamente il sospetto più o meno generale che qualcosa non vada bene nel modo in cui il valore è considerato nelle nostre economie. Gli esempi della strana considerazione del valore sono molteplici, ma ne citiamo alcuni per iniziare: quando la spesa per riparare un disastro ecologico è considerata come produzione di valore (cioè aumenta il PIL) o quando gli attori economici che ottengono i maggiori benefici sono, tra gli altri, quelli finanziari, il cui contributo alla creazione di valore - nella crisi, nella bolla immobiliare, o quando scommettono con i loro prodotti finanziari contro il recupero di un paese in crisi, come accadde con la Grecia o la Spagna alcuni anni fa - è abbastanza inspiegabile per la maggior parte delle persone.
Il libro è stato positivamente sorprendente per me. E non tanto per il contenuto ma piuttosto per il tono, la struttura e, credo soprattutto, per la posizione da cui l'autrice enuncia il suo discorso. Mazzucato sembra farlo, in una certa misura, dal centro del sistema: è una star quasi mediatica, i suoi libri sono promossi come best seller e dirige un istituto di politica pubblica e innovazione presso una prestigiosa università londinese, di cui si può citare come dettaglio illustrativo 26 premi Nobel tra ex studenti e professori.
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Una prevenzione infinita
di Alessandro Colombo
Dall’11 settembre 2001, Europa e Stati Uniti sembrano vivere in una condizione di emergenza permanente: dal 2001 al 2010 almeno (con l’inizio del ritiro dall’Iraq) la fase principale della “guerra globale al terrore”, dal 2008 al 2012 la crisi economico-finanziaria e la successiva crisi del debito, dal 2014 a oggi la nuova mobilitazione militare e di polizia contro l’Isis e la galassia jihadista e infine, nell’ultimo anno e mezzo, lo choc della pandemia del Covid-19, con il suo prevedibile seguito di future emergenze politiche, economiche e sociali. Il tutto, per di più, nel contesto di quello che è sempre più comunemente (ed enfaticamente) rappresentato come un indebolimento dell’Occidente liberale nei confronti dei suoi nemici interni ed esterni: la diffusione dei “populismi”, dei “sovranismi” e dei governi “illiberali” in Europa e, con Donald Trump, negli Stati Uniti; la rinnovata assertività della Russia e, soprattutto, la spettacolare crescita della Cina nei rapporti internazionali.
Questa retorica dell’assedio ha già prodotto molteplici conseguenze di carattere politico, istituzionale e persino culturale. Tutte insieme, poi, queste conseguenze hanno finito per alimentare una spirale della mobilitazione difensiva, declinata anche retoricamente nei termini di una “lotta a” sempre nuove minacce, attuata attraverso il continuo rafforzamento dei dispositivi di sorveglianza e giocata secondo un registro quasi ossessivo della prevenzione.
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