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L'Europa dei partiti socialisti senza socialismo
Paolo Favilli
Nella parte conclusiva di un ponderoso libro edito alla metà degli anni Novanta, più di mille pagine dedicate ad un secolo di storia del socialismo europeo, l’autore, Donald Sassoon, ipotizza la possibile scomparsa del «progetto socialista». Precisa, però, che «i partiti socialisti sopravvivranno»1 perché i partiti possono diventare del tutto autonomi rispetto alle ragioni che li hanno fatti nascere.
Si tratta di un’asserzione del tutto condivisibile, ma che mi pare produca difficoltà ed incertezze sui lineamenti del «mutamento» rispetto ad alcuni lineamenti argomentativi del volume. Tale asserzione rimanda con facilità a quel fenomeno di trasformazione politica che è stato chiamato «mutamento genetico», con tutte le ambiguità che vi sono connesse. Questa metafora, infatti, si presta ad interpretazioni molto diverse tanto dei processi che degli esiti del mutamento. L’espressione è da molto tempo (alcuni decenni ormai) di uso comune a vari livelli della pubblicistica. Indubbiamente suggerisce un mutamento molto radicale, ma nello stesso tempo può anche suggerire un’evoluzione secondo modelli naturalistici. Sono, appunto, anche le ambiguità del libro.
La fine del XX secolo ci consegna partiti socialisti senza socialismo.
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V€rso la schiavitù: dall'ordoliberalismo al lavoro merce
Quarantotto
1. Per parlare (ancora) dell'ordoliberismo vorrei prendere spunto dall'immagine-citazione qui accanto, tratta da un contributo su twitter.
La traduciamo così non ci sono equivoci:
"Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace - che solleva gli Stati nazionali dall'ansia mentre vengono privati del potere- con grandi balzi istituzionali ... Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...".
Rammentiamo così questa sintesi della natura strumentale dell'ordoliberismo:
"Ordoliberismo : veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull'obiettivo del lavoro-merce, prende atto dell'ostacolo delle Costituzioni sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo "ordinamentale", cioè impadronendosi delle istituzioni democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito rispetto alle previsioni costituzionali."
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Barbarie globalizzata
Tomasz Konicz
Un tentativo di comprendere il fenomeno dello “Stato Islamico”
Di nuovo. Di nuovo, il presidente degli Stati Uniti mobilita la coalizione di tutti quelli disposti ad entrare in campo contro “il male” (Spiegel Online). Questa volta è il gruppo terrorista “Stato Islamico” (Isis) che deve essere sconfitto in una campagna di tre anni, in cui nella prima fase la Forza Aerea degli Usa estenderà gli attacchi aerei alla Siria. Allo stesso tempo, la Casa Bianca ha chiesto al Congresso la somma di 500 milioni di dollari allo scopo di “addestrare e armare i ribelli siriani moderati”, come ha informato la Reuters.
Questo approccio fa ricordare una fase precedente della guerra civile siriana, cioè quando i servizi segreti occidentali, in intima comunione con i dispotismi fondamentalisti del golfo, come l’Arabia Saudita, hanno appoggiato l’opposizione siriana, appoggio dal quale è nato lo Stato Islamico, oltre a una varietà di altre milizie islamiste. E naturalmente dentro il movimento di opposizione siriana dominano inevitabilmente fazioni fondamentaliste che sono in concorrenza con lo Stato Islamico e lottano contro di esso.
Uno dei principali gruppi ribelli siriani, per esempio, è l’alleanza fondamentalista Fronte Islamico, il cui leader Hassan Abboud è morto recentemente in un attentato presumibilmente realizzato dall’Isis. Il Fronte Islamico rappresenta il maggior contingente tra i ribelli siriani – e ha contatti stretti con il gruppo jihadista al-Nusra.
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Le guerrigliere curde
Ovvero di come i media italiani neutralizzano la rivoluzione in marcia in Rojava
Militant
I media borghesi, si sa, riescono a triturare qualsiasi evento per presentarlo al grande pubblico privilegiando gli aspetti che gli tornano più utili. È il caso, nelle ultime settimane, delle immagini delle guerrigliere curde continuamente diffuse dai media (vedi): immagini che, in molti casi, mostrano donne giovani e belle, così sorridenti che non sfigurerebbero sulla copertina di “Vanity fair” (vedi). Con alcune eccezioni, la loro presenza attiva nella resistenza curda viene ridotta a pettegolezzo dai mezzi di comunicazione italiani, che parlano di combattenti dell’I.S. che sarebbero spaventati dal queste donne soldato (già si sono scordati che solo poche settimane fa gli stessi media lanciavano l’allarme per le ragazze britanniche che si arruolavano con i fondamentalisti sunniti ). Essi, facendo leva su un miscuglio di orientalismo, attrazione per l’esotico e fascinazione per le donne-soldato (basta guardare quanto ha scritto Gennaro Carotenuto in un articolo dell’agosto scorso sulle guerrigliere del Pkk, «delle quale potrei innamorarmi in blocco» , oppure un articolo di un paio di anni fa su Vice, in cui di una di esse si diceva che dava «l’idea di essere stata molto bella in passato»), presentano un’immagine “neutralizzata” e “depotenziata” di queste guerrigliere.
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La rivincita del capitale: 40 anni di RDT, 25 anni dopo
di Vladimiro Giacché
La leggenda di una economia tedesco-orientale al disastro nel 1989 – anzi: da sempre disastrosa - è ormai diventata senso comune, non solo in Germania. Ma è falsa. Non soltanto le difficoltà economiche della Repubblica Democratica Tedesca non ne facevano una “economia decotta” (“marode Wirtschaft”), ma i risultati raggiunti in 40 anni di storia vanno considerati tutt'altro che trascurabili. A dispetto di condizioni di partenza e di contesto estremamente sfavorevoli.
La storia della RDT inizia il 7 ottobre 1949 con un paese semidistrutto dalla guerra. A differenza della Germania Ovest, è privo di materie prime e per giunta deve sopportare quasi per intero il peso delle riparazioni di guerra decise dai vincitori e dovute all’Unione Sovietica. Siccome la RFT smise molto presto di onorare le sue obbligazioni, le riparazioni pagate dalla RDT finirono per ammontare a 99,1 miliardi (DM del 1953) contro i 2,1 miliardi pagati dalla RFT. Un rapporto di 98 a 2. Calcolata per abitante, la sproporzione è ancora maggiore: 130 a 1. Nel 1989 il prof. Arno Peters calcolò quanto avrebbe dovuto pagare la RFT alla RDT per pareggiare il conto, computando gli interessi: 727,1 miliardi DM del 1989.
Questo enorme peso aggravò la scarsità di capitali della RDT e ne condizionò il futuro, rallentandone il tasso di accumulazione. Un altro elemento sfavorevole per la RDT fu rappresentato, sino al 1961, dall’emigrazione all’Ovest di 2 milioni di persone (circa il 20% della forza lavoro complessiva).
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Investire se stessi*
Capitalismo e servitù volontaria
di Camilla Emmenegger, Francesco Gallino, Daniele Gorgone
Una definizione minima
La categoria di servitù volontaria nasce dallo stupore del giovanissimo Étienne de la Boétie (1530-1563) verso la situazione del popolo francese, sottoposto a una tirannia durissima e spietata. Di fronte a questo spettacolo, nel suo Discorso della servitù volontaria, egli si pone la domanda più elementare: come può un uomo solo sottometterne milioni? La risposta schiude un orizzonte problematico osceno: non certo per forza propria, ma contando piuttosto sul sostegno attivo dei sudditi (affamati, derubati, stuprati, mandati a morire in guerra). Quel che a prima vista appare un rapporto di costrizione, si rovescia nel suo contrario: sono i sottomessi a istituire e mantenere in vita il dominio da cui pure vengono terribilmente danneggiati. Con la semplice interruzione degli atti che riproducono quel potere si vedrebbe il tiranno, “come un grande colosso cui sia stata tolta la base, […] precipitare sotto il suo peso e andare in frantumi”1. La facilità con cui i servi potrebbero liberarsi (“per avere la libertà basta desiderarla”)2 conduce La Boétie a una constatazione paradossale: se gli individui non sono liberi, significa che non vogliono esserlo. Sono loro a causare, volontariamente e attivamente, la propria sofferenza.
È possibile che […] la categoria cinquecentesca di servitù volontaria abbia oggi ancora qualcosa da dire? Aiutando forse – se correttamente applicata – la critica del capitalismo a illuminare alcuni punti altrimenti oscuri dell’attuale sistema economico-sociale?
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Verifica dei poteri
di Euronomade
“Siamo pronti anche ad altri interventi non convenzionali”, dichiara solenne Draghi dalla Reggia di Capodimonte a Napoli. I banchieri applaudono all’eroe della faccia espansiva dell’austerity: da Intesa San Paolo/Banconapoli a Unicredit, è tutto un inno allo sforzo erculeo del banchiere buono per vincere l’idra a doppia testa della recessione e del debito. Intanto, i manifestanti della benemerita mobilitazione Block Bce decidono, con una schivata intelligente, di sciamare per il quartiere Sanità, dove il corteo non ha alcuna difficoltà a farsi capire. Lì hanno le idee molto chiare sulla natura della crisi: un enorme processo di estrazione e di concentrazione di ricchezza, che distrugge quel che resta del welfare, impone precarietà, traduce l’instabilità finanziaria in un tentativo continuo di rafforzamento del comando.
L’autunno si apre insomma con una sintesi piuttosto eloquente: da un lato, si dispiega un tentativo impegnativo, che sarebbe pericoloso sottovalutare, di innestare un’altra marcia nella gestione della crisi. Si intensifica lo sforzo di immettere liquidità nel sistema bancario, e, contemporaneamente, si cerca di motivare le banche a far filtrare questa liquidità nelle imprese. Ma, dall’altro lato, il tentativo di “americanizzare” la Bce, di trasformarla definitivamente in un governo politico della crisi e di farne il centro di una nuova politica espansiva, tocca sempre più il suo limite.
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Germania: il vero malato d’Europa
di Thomas Fazi
Il "modello tedesco" viene presentato (anche da Renzi) come un esempio da seguire. La verità è che esso rappresenta una seria minaccia, per l'Europa e per la Germania stessa
Matteo Renzi non perde occasione di ripeterlo: se l’Italia vuole rimanere competitiva deve seguire l’esempio della Germania e fare “le riforme” (alla tedesca). Non è ovviamente l’unico a sostenere questa posizione. L’idea che la Germania sia uno dei pochi paesi in Europa ad “avercela fatta”, e che rappresenti dunque un modello per il resto del continente, è un fatto che viene dato per assodato dalla maggior parte dei politici e commentatori, al punto che oggi quel processo di “germanizzazione dell’Europa” (e, nel caso specifico, dell’Italia) in corso viene salutato da molti come un fatto positivo se non addirittura inevitabile. Trattasi però di una pericolosa illusione: il “modello tedesco”, lungi dall’essere una best practice da esportare nel resto d’Europa, rappresenta un serio pericolo non solo per gli altri paesi ma anche per la stessa Germania.
A dirlo non è qualche “gufo” del Sud Europa, ma nientedimeno che Marcel Fratzscher, presidente di uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, il DIW, in un libro intitolato appunto Die Deutschland-Illusion (“L’illusione tedesca”; a tal proposito si veda anche questo articolo di Vincenzo Comito).
Secondo Fratzscher, il mito del modello tedesco si basa su una serie di false illusioni, prima fra tutte l’idea che l’enorme avanzo commerciale accumulato dalla Germania in seguito all’introduzione dell’euro (a fronte di un disavanzo commerciale altrettanto grande nei paesi della periferia) sia da imputare alla maggiore “produttività” ed “efficienza” dell’economia tedesca, a sua volta il risultato della famosa riforma del mercato del lavoro (detta “Hartz”) introdotta da Schröder nel 2003-5 – quella a cui si è ispirato Renzi per il suo “Jobs Act” –, a cui andrebbe il merito di aver ridotto la disoccupazione e rilanciato la crescita nel paese.
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“L’Ue è fallita, la sinistra ragioni sull’euro”
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
“Proseguendo con le politiche di austerity l’eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre”. L’economista Emiliano Brancaccio è un convinto europeista. Nel 2011 fu invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo ‘standard retributivo’, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. “Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati”. Di fronte alla dura realtà dei fatti, Brancaccio intravede la rottura del giocattolo Europa. Per questo, accantonando utopie e impossibili riformismi, si batte da tempo per una vera discussione sul destino della moneta unica: “Il tema è complesso e va analizzato attentamente, per sgombrare il campo dalle farneticazioni”.
Pochi giorni fa una Napoli blindata ha ospitato l’incontro della Bce. Si è deciso di continuare con la linea della “austerità espansiva”, ovvero con le politiche del rigore. Di questo passo sarà mai possibile una ripresa economica dei Paesi ora in maggiore difficoltà?
Sotto l’influenza del governo tedesco, il vertice Bce ha ribadito che i singoli stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice di Napoli è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’eurozona.
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Azioni e reazioni nell'epoca del caos imperiale
di Piotr
Non ho avuto nemmeno il tempo di scrivere che i terroristi addestrati nel "Califfato" avrebbero a breve operato in Cina e in Russia, che, più veloci della luce, terroristi uiguri (manovrati verosimilmente da settori dei servizi turchi) hanno compiuto un attentato nello Xinjiang e ieri in Cecenia c'è stato un attentato che ha ucciso cinque poliziotti (stessi macro-obiettivi e stessi sponsor).
Quando esposi queste tragiche previsioni in un articolo ("Il chiarimento del caos"), un buontempone commentò così: "Ah, ah, le risate. Divertentissimo articolo, che fantasia!".
Risposi che purtroppo io di fantasia ce ne ho ben poca, ma nei centri strategici dell'Impero ne hanno da vendere, ma è agghiacciante.
Visto che le cose stanno diventando sempre più preoccupanti, occorre essere un po' più seri.
Siamo infatti di fronte a un'accelerazione del conflitto mondiale. Russi e Cinesi sanno perfettamente chi sono i mandanti degli attentati. Sanno anche perfettamente che ritorsioni dirette contro i mandanti provocherebbero una guerra atomica.
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Le contraddizioni di David Harvey
Benedetto Vecchi
David Harvey, «Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo» (Feltrinelli) è l’appassionata analisi condotta dal geografo statunitense sulla crisi economica e la violenta risposta del potere per garantire l’appropriazione privata della ricchezza comune
Una scrittura chiara, essenziale per esporre esporre le contraddizioni del capitalismo, sia quelle connaturate al suo sviluppo, sia quelle che potrebbero portare all’implosione, se non al suo «crollo». Poi, improvvisamente, una deviazione improvvisa da una esposizione che ricorda più un manuale che non a un saggio teoretico. E il libro diventa improvvisamente un diario di viaggio dentro una crisi attorno alla quale sono molte le interpretazioni, ma della quel in pochi riescono a vedere la fine. Le parti più avvincenti di questo Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, pp. 336, euro 25) scritto da David Harvey sono quelle che il geografo statunitense dedica proprio all’ipotesi, per l’autore remota, di un crollo finale del capitalismo. E questo accade quando dalla cornice teorica Harvey sposta il fuoco dell’analisi sui fenomeni sociali e politici che caratterizzano ogni contraddizione, cioè quando compie l’indispensabile movimento che, partendo da una astrazione, giunge a quella contingenza che consente, come viene suggerito da qualche filosofo, di pensare la Politica. La forma espositiva scelta da Harvey rende dunque il libro godibile e, al tempo stesso, è una delle migliori espressioni di quella analisi critica sul «capitalismo estrattivo» che rappresenta uno dei tentativi più convincenti di innovare il marxismo.
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Perché l'Italia non ce la farà
di Roberto Orsi*
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard , Roger Bootle (entrambi del Telegraph) e Wolfgang Münchau (Financial Times) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell'Italia e l'instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei policy maker nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l'Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt'altro che favorevole sulle possibilità di "guarigione" del nostro Paese.
Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l'economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16?
Bootle osserva che "l'Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano 'trappola del debito', quando cioè l'indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale. Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default.
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La dittatura dello spread
Alessandro Somma
Pubblichiamo un estratto dal libro La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito in libreria in questi giorni per le edizioni DeriveApprodi
Rating, dall’inglese «valutazione», è un vocabolo divenuto di uso corrente per indicare la descrizione di determinate caratteristiche riferite a istituzioni pubbliche e private. Dal momento che fine ultimo del rating è solitamente la compilazione di un ranking, altra espressione inglese diffusa il cui significato è «classifica», la descrizione avviene in forma di misurazione espressa in termini numerici o comunque quantitativi, in quanto tali frutto di notevoli semplificazioni e arbitri. Ciò nonostante i rating e i relativi ranking sono estremamente diffusi: hanno assunto il rango di una vera e propria forma di comunicazione, quasi uno specifico genere letterario, utilizzato per veicolare, in modo efficace e immediato, i messaggi più disparati.
Prendiamo ad esempio i rating confezionati da Transparency International, che misura la corruzione percepita nei diversi paesi del mondo. Il relativo ranking restituisce dell’Italia un’immagine tutt’altro che gratificante: si piazza al sessantanovesimo posto, a pari merito con la Romania, terz’ultima tra i paesi dell’Unione europea dopo la Bulgaria e la Grecia. Il messaggio che si ricava da questa classifica, e dal rating che la precede, è immediato: per quanto le leggi non siano sufficienti a produrre qualità morali, possono contribuirvi in modo determinante e dunque è opportuno che il parlamento si attivi per prevenire e reprimere la corruzione.Ciò nonostante, sono anni che da più parti si denuncia invece l’inerzia del legislatore italiano, se non addirittura la volontà di rendere la vita facile ai corruttori e ai corrotti.
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Le flessibilità che non servono e lo scalpo dell’articolo 18
Paolo Pini
Introduzione
La rappresentazione dell’Ocse dello stato del mercato del lavoro italiano durante la crisi è drammatica. L’Employment Outlook del settembre 2014 lo attesta senza troppe ambiguità. Peraltro nell’intera eurozona la situazione non è molto diversa, se si fa una comparazione con gli Stati Uniti ma anche con i paesi europei fuori dalla moneta unica. L’Ocse giunge a rilevare che troppa flessibilità nel mercato del lavoro, troppi rapporti di lavoro non-standard, precari e mail retribuiti, abbassano la motivazione dei lavoratori ed il loro impegno, peggiorano anche le condizioni di lavoro nell’impresa, ed infine, creano addirittura problemi sulla crescita della produttività.
Anche Mario Draghi governatore della BCE nel suo intervento di fine agosto negli Stati Uniti ha espresso preoccupazione. Draghi ha posto il problema della carenza di domanda, ed ha avanzato anche alcuni importanti distinguo circa la dimensione della disoccupazione strutturale rispetto alla disoccupazione ciclica, giungendo ad affermare che le stime della Commissione Europea sono soggette a molta incertezza ed affidabilità quindi quando si prescrivono politiche economiche dal lato dell’offerta.
Ciononostante, le due istituzioni, OCSE e BCE, non sembrano trarre dalla loro analisi alcune conseguenze importanti, ovvero che insistere sul refrain delle riforme strutturali, sul mercato del lavoro in particolare, non è la politica più adatta per contrastare la crisi ed avviare un percorso di crescita.
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Il virus mutante della condivisione
Benedetto Vecchi
Maker Faire. Economia. Il capitale a caccia di commons. Aprire la "scatola nera" di un manufatto per capire come funziona e come replicarlo con la partecipazione diretta di chi lo usa
I makers hanno conquistato il centro della scena. Ne scrivono i media di mezzo mondo. Hanno appuntamenti in tre continenti – Stati Uniti, Europa e Africa — che vedono la partecipazione di decine di migliaia di espositori e altrettanti visitatori. Possono contare su decine di blog, alcuni dei quali hanno milioni di contatti, come Boing Boing, scrittori e guru della Rete come il canadese Cory Doctorow (autore di un romanzo, Makers, considerato una sorta di bibbia di questa postmoderna cultura del fare), analisti di successo delle tendenze emergenti nella comunicazione on line (Chris Anderson), opinion makers spregiudicati come Jeremy Rifkin, nonché studiosi di peso come Yoachai Benkler (il giurista statunitense che propone la provocatoria tesi di un capitalismo senza proprietà privata) e Michel Bauwens (l’agit-prop dell’economia della condivisione).
Dunque sono un fenomeno sociale e «controculturale» niente affatto effimero, anche se alcune tematiche dei makers – le stampanti 3D — sono state ridotte a chiacchiere da bar da nostrani esponenti politici, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che fanno la loro fortuna economica con l’antipolitica. E neppure una realtà che sarebbe fin troppo facile liquidare come rappresentazione dell’«individuo proprietario», la figura chiave della controrivoluzione neoliberista, anche se molti makers hanno indicato nel loro «fai da te»una possibile soluzione imprenditoriale alla disoccupazione di massa che coinvolge ormai anche ingegneri, informatici, fisici. E qui è la prima caratteristica dei makers: sono uomini, la maggioranza, e donne con una formazione universitaria di buon livello.
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Kobanê è sola?
di Sandro Mezzadra
Nei giorni scorsi, H&M ha lanciato per l’autunno una linea di capi d’abbigliamento femminili chiaramente ispirata alla tenuta delle guerrigliere curde le cui immagini sono circolate nei media di tutto il mondo. Più o meno nelle stesse ore, le forze di sicurezza turche caricavano i curdi che, sul confine con la Siria, esprimevano la propria solidarietà a Kobanê, che da settimane resiste all’assedio dello Stato islamico (IS). Quel confine che nei mesi scorsi è stato così poroso per i miliziani jihadisti oggi è ermeticamente chiuso per i combattenti del PKK, che premono per raggiungere Kobanê. E la città curda siriana è sola davanti all’avanzata dell’IS. A difenderla un pugno di guerriglieri e guerrigliere delle forze popolari di autodifesa (YPG/YPJ), armati di kalashnikov di fronte ai mezzi corazzati e all’artiglieria pesante dell’IS. Gli interventi della “coalizione anti-terrorismo” a guida americana sono stati – almeno fino a ieri – sporadici e del tutto inefficaci. Già qualche bandiera nera sventola su Kobanê.
Ma chi sono i guerriglieri e le guerrigliere delle YPG/YPJ? Qui da noi i media li chiamano spesso peshmerga, termine che evidentemente piace per il suo “esotismo”.
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Craxi, Berlusconi, Renzi. Tre autori del disastro
Eddytoriale 163
Edoardo Salzano
Inseriamo questa volta come eddytoriale il contributo del direttore di eddyburg al prezioso libro, Rottama Italia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, e gratuitamente edito e distribuito da Altreconomia. Rispetto al testo riportato nel libro abbiamo aggiunto alcune note a pie' di pagina
Tutti gli elementi nefasti della controriforma iniziata trent’anni fa sono presenti nel decreto Sblocca Italia. Ho parlato di una controriforma iniziata trent’anni fa. Infatti Matteo Renzi è il prolungatore e completatore di un processo iniziato in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Non è casuale la coincidenza temporale tra quel processo e l’affermazione del dominio di quello che chiamiamo “neoliberismo”, e che Luciano Gallino ha definito “Finanzcapitalismo”. Mentre in Gran Bretagna e negli USA trionfano Margaret Thacher e Donald Regan, mentre Milton Friedman e i Chicago Boys diventano, dopo l’esperienza cilena, i consiglieri dei governi del Primo mondo, in Italia sale al potere Bettino Craxi. E’ l’inizio dell’affermazione di un’ ideologia e una prassi che si riveleranno vincenti. “Meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” , “privato è bello” ne sono gli slogan, proclamati non solo dai “modernizzatori” craxiani ma anche nella sinistra[1].
Tra gli strumenti principali della prassi craxiana ecco apparire, e presto dominare, l’”urbanistica contrattata” (cioè l’assunzione degli interessi immobiliari come motori delle scelte sull’uso del territorio), e la deroga sempre più ampia degli interventi sul territorio dalla logica e dalle regole della pianificazione.
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Viktor Orban è bianco o nero? O è grigio?
di Riccardo Achilli
E’ di un certo interesse analizzare la situazione politica interna all’Ungheria del premier Orbán, perché rappresenta un possibile “caso di studio” di Paese che si colloca fuori dall’euro e dalle sue politiche. Un caso di studio che diverrebbe anche attuale, nell’ipotesi in cui le politiche economiche europee non cambiassero, costringendo, per motivi di sopravvivenza, i Paesi più sotto pressione ad uscirne, oppure ad iniziare una linea della disobbedienza sistematica nei confronti dell’Europa.
E’ anche utile dare una visione oggettiva di Orbán, che rifugga dalle due estremizzazioni: da un lato una sinistra radicale acefala, che è diventata sovranista, e che vede in lui l’Eroe della Lotta di Liberazione dei Liberi Popoli Contro L’Euro, d’altro lato, i media e gli analisti di sistema, che, siccome Orbán sfugge al loro ricettario tecnocratico, lo qualificano come un satrapo da Repubblica centroamericana. Orbán, come vedremo, non corrisponde a nessuna delle due estremizzazioni, collocandosi in un’area grigia, che è importante analizzare in modo il più possibile obiettivo (per quanto evidentemente chi scrive non provi nessuna simpatia nei suoi confronti).
Un caveat: va ovviamente premesso che l’Ungheria ha una serie di specificità che nessun Paese dell’area euro possiede.
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Arriva il Fiscal Compact
La prova del fuoco dell'Unione europea
di Leonardo Mazzei
Cosa è successo in questi giorni tra Parigi, Roma e Berlino? Cosa è successo ieri a Napoli da mandare in tilt il listino di Milano, e non solo? E' successa una cosa semplice, semplice. Da noi da tempo prevista e del resto facilmente immaginabile. In breve: la crisi del mostro eurista sta giungendo ad un punto di svolta, rimettendo giocoforza al centro i diversi interessi nazionali.
Partiamo innanzitutto dai fatti.
Martedì scorso il governo italiano ha varato la nota di aggiustamento del DEF (Documento di Economia e Finanza), con la quale Renzi ha annunciato di voler riprendere nel 2015 una politica dideficit spending(spesa a debito), rinviando di due anni (al 2017) il pareggio di bilancio strutturale, e sospendendo almeno per il 2015 il percorso previsto dalfiscal compact.
Il giorno dopo è toccato al governo francese, che per bocca del ministro delle Finanze Michel Sapin ha spostato di 3 anni (dal 2014 al 2017) l'obiettivo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una decisione, che insieme a quella italiana, ha suscitato l'immediata reazione della Merkel che ha ribadito la necessità di «rispettare le regole» e gli impegni presi.
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Il sicario e la Grecia
Intervista a John Perkins
Perkins è autore del libro biografico “Confessioni di un sicario dell’economia”, dove racconta la sua decennale esperienza al soldo di multinazionali e governi occidentali come procacciatore di indebitamento e asservimento dei paesi in via di sviluppo.
Il giornalista greco Michael Nevradakis lo ha intervistato su Dialogos Radio. L’intervista è disponibile in podcast qui, e trascritta su TruthOut.
A mio parere una buona parte della sua analisi è condivisibile, e in ogni caso la sua testimonianza fotografa uno dei più gravi aspetti del clima culturale che caratterizza il nostro tempo: il prevalere degli interessi delle multinazionali sopra qualunque altra considerazione di benessere delle collettività, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli. È pur vero che la prevaricazione dei potentati economici è una costante della storia moderna, ma oggi il fenomeno della globalizzazione ha conferito alle grandi corporazioni un potere decisivo, che sovrasta e condiziona qualunque altra struttura – quella politica in primo luogo; e mai come oggi questo potere appare inattaccabile e il processo del suo consolidamento irreversibile.
In questo senso, l‘accordo di libero scambio transatlantico TTIP, portato avanti senza alcun serio dibattito e zelantemente ignorato dai media, va visto come un ulteriore e forse decisivo passo verso la definitiva consacrazione del loro potere come nuovo sistema di governo globale.
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Lavoro e diritti: l'insegnamento dell'Internazionale
di Marcello Musto
Il manifesto del 2 ottobre ha recensito, in occasione del 150° anniversario di fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, il volume curato da Marcello Musto, studioso di Marx e tra i curatori della «Mega2». Il volume che ha per titolo “Prima Internazionale, Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi, Documenti”, a cura di Marcello Musto (Donzelli, pp. XVI-256, euro 25), si distingue per due obiettivi, entrambi raggiunti. Una messa a punto della ricerca attuale su questo fondamentale episodio della storia dei mondi del lavoro e una sua riproposizione come esperienza esemplare che ritrova nel presente una nuova attualità. Di Musto pubbliamo un articolo uscito su A l’encontre.
Il 28 settembre del 1864 la sala del St. Martin’s Hall, un edificio situato nel cuore di Londra, era affollatissima. A gremirla erano accorsi circa 2.000 lavoratrici e lavoratori, per ascoltare il comizio di alcuni sindacalisti inglesi e colleghi parigini. Grazie a questa iniziativa nacque il punto di riferimento di tutte le principali organizzazioni del movimento operaio: l’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
In pochi anni, l’Internazionale suscitò passioni in tutta l’Europa. Grazie a essa, il movimento operaio poté comprendere più chiaramente i meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, acquisì maggiore coscienza della propria forza e inventò nuove forme di lotta. Viceversa, nelle classi dominanti, la notizia della fondazione dell’Internazionale provocò orrore. Il pensiero che gli operai reclamassero maggiori diritti e un ruolo attivo nella storia generò ripugnanza nelle classi agiate e furono numerosi i governi che la perseguitarono con tutti i mezzi disponibili.
Le organizzazioni che fondarono l’Internazionale erano molto differenti tra loro. Il suo centro motore iniziale furono le Trade Unions inglesi, che la considerarono come lo strumento più adatto per lottare contro l’importazione della mano d’opera dall’estero, durante gli scioperi.
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Nazione e stato nazionale nell'epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale
Sebastiano Isaia
La nazione come area di sfruttamento locale (o regionale) da parte di un Capitale privo, sostanzialmente, di attributi nazionali. Lo Stato nazionale come potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, appunto. Alla base di questa concezione insiste il concetto di Capitale come rapporto sociale, e non come cosa, come tecnologia economica posta al servizio della società. Sono questi i concetti, peraltro già altre volte da me trattati, che intendo sviluppare nelle righe che seguono, sperando di introdurre nell’argomentazione nuovi spunti di riflessione intorno a vecchi temi, di offrire nuove prospettive dalle quali approcciarli. Mi scuso per la sintesi di alcuni passaggi storici e logici cui sono stato costretto nel tentativo di rendere quanto più stringato possibile il discorso posto all’attenzione del lettore.
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Creare un ambiente favorevole (friendly) agli investimenti del «capitale straniero: di qui,la necessità di «riforme a tutto campo», a «360 gradi», della sempre più decotta Azienda Italia (vedi i pessimi e depressivi dati sull’economia italiana resi noti l’atro ieri dal Ministro Padoan e dal moribondo Cnel).
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Eutanasia del reale
di Rosanna Spadini
Fine dell’empatia comunicativa e inizio della distopia sociale, indotta ad arte dalla meraviglia multimediale dei visual network. Il 1989 è un anno di svolta, è l’anno in cui la società dello spettacolo diventa schiava di se stessa, in cui lo spettacolo viene trasformato in strumento di disperazione e di morte e si rompe quel patto millenario dell’illusione scenica utilizzato fino a quel momento per la promozione culturale della società, ridotta ora a semplice scenografia teatrale. Un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide.
Il senso dell’incertezza della “società liquida” lo si riconosce anche nell’esercizio ossessivo della “navigazione in rete”, dove ci si connette immediatamente con gli altri, ma in realtà con altrettanta facilità ci si disconnette, smantellando con un canc i legami interpersonali che ci disturbano.
Navigazione rischiosa e temeraria, in cui viene consentito all’individuo di essere in un altrove extraterritoriale e slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza. Lo dice anche Giorgio Agamben, illustre filosofo italiano, che ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di Timisoara e del “falso genocidio” che la polizia di Ceausescu avrebbe provocato appunto nel 1989, anno in cui si manifesta la nascita delle notizie/spettacolo, funzionali al sostegno delle guerre moderne.
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La rivoluzione (colorata) francese
di Piero Pagliani
Gli USA accelerano la deglobalizzazione conflittuale. Cambia tutto. Hollande attacca l'austerity tedesca, ma per riportare l'Europa nell'ovile del TTIP. Ecco lo scenario
Hollande in rotta di collisione con l'austerity della Merkel?
È una notizia buona o cattiva?
Per certi versi è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all'Eliseo nel 2012. All'epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo.
Un programma quindi tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali. Ora, evidentemente, qualche cosa è cambiato. Cosa? Molte cose. Per ordine d'importanza, anche se sono tutte interlacciate in modo complicato:
1) Gli USA stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha, in questo rispetto, contribuito a isolare la UE, e in primis la Germania, dalla Russia: Fuck the EU! (Victoria Nuland, responsabile per l'Europa della Segreteria di Stato USA).
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Il Califfato non esiste...
Spigolature geopolitiche (2.0)
di rk
E tutti lo sanno. È il segreto di Pulcinella, il non detto dell’attuale situazione geopolitica in Medio Oriente che è, insieme, quella di un caos inarrestabile ma anche di una leggibilità cristallina. Partiamo dal cuore della questione, per i principianti.
Un anno fa ad Obama non era riuscito il bombardamento aereo della Siria come passaggio decisivo per un regime change a Damasco. Non era riuscito per l’opposizione russa in primis ma anche per il nullo consenso nell’opinione pubblica occidentale. E ne aveva ricevuto la riprovazione al limite dell’insulto da parte della tacita alleanza tra petrolmonarchie e Israele, già scosse dalla sollevazione araba del 2011 prima contenuta e poi rovesciata sì, ma con una certa fatica.
Oggi? Obama sta facendo esattamente quello che non gli era riuscito allora: bombarda il territorio siriano distruggendone il residuo di infrastrutture e soprattutto stringendo come un avvoltoio il cerchio intorno al vero obiettivo, il regime di Assad. E lo fa non solo con l’appoggio militare-logistico dei suddetti ma anche con il consenso o l’acquiescenza passiva del pubblico occidentale bombardato anche lui dalla caterva di news incontrollabili intorno al rinnovato refrain della guerra al terrorismo.
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