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Le persone chiuse in casa, il pensiero chiuso in testa
di Fulvio Grimaldi
Caccia alle streghe e tripudio dei cortigiani
Lo Zeitgeist dei pochissimi
Siccome la tendenza dominante, dai filosofi tedeschi chiamata Zeitgeist, spirito del tempo, è quella, dell’imbroglio, del raggiro, del complotto dei pochissimi ai danni dei tantissimi, i primi però con seguito di giullari, sicofanti, guardaspalle, chierici traditori e camerieri, noi ci affidiamo alla controtendenza della sincerità, onestà, libertà. Voci dissonanti che, pure, esistono, si vanno facendo largo tra le crepe della cospirazione. Che se dovessero prevalere, dovrebbero portarci un bellissimo giorno a un simil-processo di Norimberga. Processo in cui giudicare e condannare, certamente non all’impiccagione come l’originale, tutti coloro che hanno provato a fare al mondo un’inversione a U e così bloccare la storia dell’emancipazione umana. Ho scritto “simil-Norimberga”, dato che quell’episodio antigiuridico rappresenta un’aberrazione senza confronti: un processo di criminali di guerra vincenti a criminali perdenti. Il nostro processo sarebbe dei liberi e onesti ai ladri di verità e di onestà. Ladri a mero scopo di dominio e di profitto attraverso l’imposizione, ancora una volta, del dogma, del pensiero unico universale.
A la guerre comme à la guerre
Nei momenti di loro massima crisi, di credibilità prima ancora che di potere, i padroni ricorrono al mezzo estremo: la guerra. Ed è di guerra, di fronte, che straparlano i coloro che gestiscono l’attuale fase di attacco a quel poco che ci era rimasto di secoli di lotte di liberazione. E quando di guerra si parla, non solo appaiono sulla scena colonelli e truppe, ma i dissidenti, le voci alternative, diventano collusi col nemico Il nemico essendo non solo il Virus diventato, da normale fastidio, stragista e “nemico della vita”, ma tutti coloro, magari scienziati, che lo “sottovalutano”. Trattasi di disertori, traditori, il peggio del peggio, quelli che negli anni di Hitler in Germania praticavano la “Wehrkraftzersetzung”, la disintegrazione della Forza di Difesa.
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La faccia nascosta dell’epidemia
di Antonio Vercellone
Molti sono i giornalisti e gli intellettuali che, negli ultimi tempi, si sono cimentati nel descrivere, spesso con dovizia di particolari, lo scenario che ci si presenterà dopo l’epidemia.
Queste analisi scontano necessariamente due limiti. Primo: le dimensioni di questa crisi non permettono di mantenere il distacco necessario a immaginarne ragionevolmente gli esiti. Secondo – ed è questo ciò che più rileva – tali esiti dipendono in gran parte dalla comprensione critica che, su ciò che sta accadendo, come collettività siamo in grado di costruire.
Ed è questo che dovrebbe allora occuparci e, soprattutto, preoccuparci.
La sensazione, infatti, è che l’emergenza stia legittimando una narrativa pericolosa, che reca come implicito il fatto che il solo metterla in discussione o problematizzarla rende colui che lo fa una specie di nemico della salute pubblica, che si sottrae a una tanto stucchevole quanto fittizia “unità nazionale”, alla quale saremmo tutti chiamati.
In altre parole, o uno si compra l’intera retorica di #iorestoacasa, dell’inno nazionale dai balconi, degli arcobaleni attaccati alle finestre e del quotidiano decreto del Governo (retorica sdoganata in modo più o meno nauseabondo da cantanti, presentatori e sportivi su canali social e tv) o si viene automaticamente tacciati di non aver compreso la gravità della situazione e di volersi sottrarre alle proprie responsabilità.
Ora: che questo virus rappresenti una tragedia immane e che i principi di solidarietà, prevenzione e precauzione impongano a ognuno di noi di restare in casa, di limitare gli spostamenti e di attuare le ormai note norme di distanziamento sociale, è un dato incontestabile, sul quale non si può che essere d’accordo. Si deve, tuttavia, poter dire che la narrativa attraverso cui queste necessità sono veicolate è a tratti scivolosa, pericolosa e non scevra di profonde criticità.
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Il desiderio dell’uomo decisivo
di Militant
Che Mario Draghi trovi sostegno in un certo ambiente economico, è nelle cose. Che su Mario Draghi stia convergendo tutta la politica italiana, è un’altra cosa. Dal Pd alla Lega al vasto mondo della critica keynesiana, il quadro politico sembra chiudersi attorno alla soluzione migliore per tutti (o quasi: l’unico a rimanere col cerino in mano sarebbe Conte, e con lui il M5S). I motivi di questo interesse sono facilmente intuibili. Meno i problemi politici che verrebbero a generarsi dall’unità nazionale attorno all’uomo delle banche.
La crisi economica, già in corso e che seguirà la fine o il contenimento dell’epidemia, sarà di vaste proporzioni. Tutti i paesi, nessuno escluso, subiranno il contraccolpo dell’arresto dei flussi commerciali misurandolo in vari punti percentuali di calo del Pil. Per l’Italia, questo non potrà non aggirarsi in una forbice che va dal -5 al -15%. Percentuali da economia di guerra, come evidente e come stanno dicendo un po’ tutti, Draghi per primo. Se in tempo di pace la questione poteva essere affrontata (e aggirata) attraverso l’accelerazione export oriented dell’economia del paese, dinamica che ha portato l’Italia alla ventennale stagnazione economica, le soluzioni per questa crisi non potranno replicare quanto è stato fatto fino ad ora. Per risollevare un paese in profonda recessione è inevitabile stimolare la domanda interna, rafforzando il mercato domestico di produzione e circolazione di beni e servizi. Altrimenti quel -15% lo recuperiamo nel 2050, come infatti (non) è avvenuto con la crisi scoppiata nel 2008: il Pil dell’Italia nel 2019 non ha ancora raggiunto i livelli a cui era arrivato nel 2007. Ci stiamo rimpicciolendo drasticamente e troppo velocemente nel tempo, e questo è uno dei motivi dello scarso peso politico dei nostri governi in Europa.
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La resa dei conti
di Andrea Zhok
1) Premessa
Come ampiamente previsto, l’incontro dell’Eurogruppo di ieri si è concluso con un nulla di fatto.
Che gli incontri europei si concludano con un nulla di fatto è peraltro oramai una tradizione consolidata. Settimane fa si erano concluse con un nulla di fatto le trattative per una variazione dello zero virgola nel budget europeo. Per anni si erano concluse con un nulla di fatto le richieste di rivedere le regole sull’accoglienza dei migranti da parte dei paesi dell’Europa meridionale. Incartarsi ad arte per rinviare sine die ogni decisione è una specialità in cui le istituzioni dell’UE hanno dimostrato da tempo straordinario talento.
E naturalmente non è un caso.
Il sistema dei trattati è stato disegnato per funzionare precisamente come una tonnara: una volta entrati non esiste nessuna possibilità di uscirne sani né di cambiare niente di significativo. (L’unanimità necessaria la puoi raggiungere solo su imperdibili iniziative simboliche come l’equiparazione di comunismo e nazismo.)
2) Prima del diluvio
L’emergenza coronavirus tende a farci dimenticare che l’UE non è mai davvero uscita dalla crisi del 2007. L’economia è rimasta lenta, e anche la famosa ‘locomotiva tedesca’ aveva iniziato ad arrancare.
Ben prima che il virus comparisse all’orizzonte si discuteva animatamente di una perdurante stagnazione dell’economia europea (con Italia e Germania in fondo alla classifica della crescita).
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Cittadino-consumatore e cittadino-paziente
Julia Page intervista Ugo Mattei
L’emergenza Coronavirus ci ha sicuramente messo davanti ad uno scenario inedito. Tuttavia, la sua eccezionalità non sta tanto nella sua dimensione “emergenziale” - dispositivo, quello dello stato d’emergenza, ormai rodato da diversi anni in Occidente, tra terrorismo, terremoti ecc. - quanto piuttosto nel suo carattere sanitario. Questa peculiarità sembra aver fatto sì che l’asse del discorso si sia spostato tutto dal piano politico a quello scientifico, con la conseguente assunzione, da parte delle istituzioni dell’industria tecnoscientifica - incarnate nell’OMS o nella Protezione Civile italiana - di un ruolo immediatamente politico. E l’eliminazione del dato politico dall’equazione, con uno schiacciamento sull’approccio scientifico, fa sì che i processi di individualizzazione della popolazione vengano sempre più esacerbati in chiave di “colpa” e responsabilità: un po’ come accade con il discorso ambientalista, il nemico non è più individuato verticalmente, ma orizzontalmente. E così, nemico è il runner, il vicino che non sta in casa, e - procedendo per analogia - chi non fa la raccolta differenziata. Il dominio della Scienza, poi, sembra aver esasperato anche un altro aspetto, che è quello che interessa il binomio Libertà/Sicurezza: se nell’ordine del discorso capitalistico tanto l’una quanto l’altra assumono il carattere di merce, l’emergenza Coronavirus sembra aver generato la situazione paradossale in cui tutti finiscono per prediligere la merce-sicurezza rispetto alla merce-libertà.
Quello che è certo, è che il virus non è stato la causa, bensì l’elemento di accelerazione di processi già in atto, dal disfacimento delle istituzioni sovranazionali - una su tutte l’Europa, e più in generale un ripensamento della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta - ai processi di individualizzazione delle soggettività. Ne abbiamo parlato con Ugo Mattei, docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Torino.
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La teoria del valore nel capitalismo e nel socialismo/comunismo
di Eros Barone
Quanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo.
K. Marx, Il Capitale, libro III.
1. Plusvalore e profitto: l’autoriflessione del capitale
«Nel primo Libro si sono analizzati i fenomeni che il processo di produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze ad esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene completato dal processo di circolazione, il quale ha costituito oggetto delle indagini del secondo Libro. Vi si mostrava, specie nella terza sezione, che tratta del processo di circolazione quale mediazione del processo di riproduzione sociale, che il processo di produzione capitalistico, preso nel suo complesso, è unità dei processi di produzione e circolazione. Scopo del presente Libro... [è quello] di scoprire ed esporre le forme concrete che sorgono dal processo di movimento del capitale, considerato come un tutto... Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente volume, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione». 1
È questo l’incipit del terzo libro del Capitale, quale si presenta, alla pari del secondo libro, in base all’ordinamento che Engels ha conferito ai quaderni inediti di Marx. Il fatto centrale, su cui quest’ultimo richiama l’attenzione del lettore, è che la concorrenza capitalistica porta ad occultare la realtà del plusvalore che nella realtà fenomenica “si dilegua”, cedendo il posto al profitto.
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Risposta a Mario Draghi
di “Junior”
Mario Draghi è Mario Draghi. Il banchiere dei banchieri. Anzi: il super-banchiere dei super-banchieri. L’Italiano più ascoltato nel mondo. Super-Mario, lo chiamano i direttori dei principali quotidiani, uno più lecchino degli altri verso di Lui. Tutti nelle alte sfere aspettavano che parlasse.
Lui, infine, ha parlato. Non in italiano, ovvio. In inglese sul Financial Times, l’organo europeo dei pescecani del capitale globale. Le sue parole, la prospettiva che traccia, non riguardano solo l’Italia. L’uomo non può abbassarsi al livello di un Salvini o di un Di Maio qualsiasi. È stato capo della BCE, e tra i super-boss di Goldman Sachs. Il suo cv mette in soggezione solo a scorrerlo sui giornali. Specie a un giovane come me.
Vediamo cos’ha detto per afferrare cosa si nasconde dietro la dichiarazione di “guerra contro il Covid-19”. Quale altro tipo di guerra sociale. E contro quale altro tipo di virus.
La partenza è secca: “È inevitabile una profonda recessione”. Inevitabile, come fosse un evento naturale. Una volta assunta questa “inevitabilità”, il problema è “evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, aggravata da un enorme numero di fallimenti che lasceranno danni irreparabili”. Per evitarlo, la sola politica praticabile è “un significativo aumento del debito pubblico”.
Questa scelta è presentata al modo della Thatcher: “Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato”. È inutile discuterne: diventeranno. Non c’è alternativa. Punto. E sarà un dato permanente. Azzeramento del debito delle imprese e delle banche – il “settore privato” -, che ricomparirà trasformato in debito pubblico. Naturale anche questo. Qual è infatti il ruolo dello stato? È “proprio quello” di “usare” il suo bilancio per “proteggere i cittadini [imprenditori] e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile”.
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Il mito del conflitto generazionale e la realtà del conflitto di classe
di coniarerivolta
L’emergenza sanitaria di queste settimane, come avviene in tutti gli stati emergenziali, sta mostrando in tutta la sua crudezza alcuni tratti tipici della nostra organizzazione economica e sociale. Gli effetti devastanti dell’austerità sul sistema sanitario rivelano in modo brutale cosa significhi davvero la logica della scarsità delle risorse imposta dalle politiche economiche degli ultimi decenni. A fronte di una disponibilità limitata di posti di terapia intensiva occorre, come in un’economia di guerra, effettuare delle scelte e sacrificare il più vecchio o il già malato, colui che avrà meno possibilità di sopravvivenza a favore del più giovane e sano. La scarsità delle risorse, non certo naturale o da deficit tecnologico, ma imposta da anni di politiche di austerità, impone una logica di sapore darwinista di selezione del soggetto da salvare, contrapponendo giovani e vecchi e sani e malati.
Questa apparente contrapposizione non è limitata, però, al campo della salute. Da molti anni il dibattito pubblico è permeato di una retorica che è divenuta quasi costitutiva del nostro modo di pensare: quella di un inevitabile conflitto economico intergenerazionale tra giovani e anziani, per la spartizione di risorse economiche scarse, nel tempo della crisi demografica irreversibile dell’occidente.
Il presupposto oggettivo di questa idea è l’esistenza di un’indubbia crisi demografica che nei paesi europei, e più in generale nel mondo industrializzato, ha avuto inizio negli anni ’70-’80 del secolo scorso e si manifesta come crescente squilibrio anagrafico tra giovani e vecchi, con la crescita degli ultimi e la diminuzione dei primi.
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COVID-19, l’untore dell’economia mondiale
di Ascanio Bernardeschi
I danni economici del Coronavirus resi palesi e quelli messi sotto il tappeto del capitalismo mondializzato. I meccanismi monetari e di bilancio per far fronte alla crisi impongono di riscrivere radicalmente le regole europee. Occorre ripristinare il ruolo dello stato nella gestione dei servizi essenziali e nella pianificazione economica
Dal giornale della Confindustria, ai centri studi mainstream e alle agenzie internazionali giunge un messaggio preoccupato per l’emergenza economica che, a loro dire, sarà conseguenza di quella sanitaria: la prossima crisi economica sarà da pandemia di COVID-19! Così anche questa volta, come avvenne con i mutui subprime, abbiano trovato il colpevole della crisi profonda da cui il capitalismo mondiale non riesce a tirare fuori le gambe.
Viene tenuto in ombra che i fondamentali dell’economia erano già pessimi anche senza virus. In Italia le cose stanno andando molto peggio che nel resto dell’Europa. Per esempio i lavoratori in cassa integrazione nel 2019 erano aumentati del 79% rispetto all’anno precedente. Le previsioni dell’Istat per il 2019 indicavano una crescita del Pil di un misero 0,2% e, ottimisticamente, dello 0,6% per quest’anno, avvertendo però che le cose sarebbero potute andare peggio. E stavano andando in effetti peggio anche a causa della guerra commerciale in atto. Ma la previsione più importante dell’Istat è la “decelerazione”, più accentuata nel 2020, del ritmo degli investimenti, che poi sono il traino dell’economia e il cui andamento negativo anticipa regolarmente le crisi.
A fronte di un’economia reale in stasi dal 2011, ove si escludano le performance della Cina e di altri paesi emergenti, e che anzi aveva manifestato negli ultimi mesi del 2019 chiari segnali di una nuova recessione in arrivo, dal 2008 le quotazioni di borsa si sono gonfiate a dismisura producendo una nuova gigantesca bolla finanziaria. Le crisi si manifestano quasi sempre nella forma dello scoppio di una bolla. Lo sciocco o l’economista in malafede vede solo lo spillo che la fa scoppiare, non la bolla stessa. E questa volta lo spillo è servito su un vassoio d’argento da un minuscolo, insidioso virus.
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“Il Covid-19 è un coltello che è finito nelle mani delle Élite per raggiungere un loro vecchio scopo: arrivare ad un potere assoluto e totalitario”
Francesco Guadagni intervista Fulvio Grimaldi
Secondo il giornalista e documentarista Fulvio Grimaldi, “la Storia ci dirà che questo coltello verrà utilizzato per degli scopi che si sono sempre ripromessi le élite, cioè arrivare ad un potere assoluto, totalitario. Ristabilire un nuovo paradigma sociale, che veda una riduzione dell’autonomia, dell’autodeterminazione da parte delle masse, e una concentrazione di potere e di ricchezza al vertice”
Fulvio Grimaldi nella sua carriera giornalistica ha lavorato per la Radio, BBC di Londra, RAI, ha scritto su Lotta Continua, Vie Nuove, Liberazione. Noti i suoi documentari sui fronti di guerra, Iraq, Palestina, Siria, Eritrea, oltre che in Venezuela, Messico, Iran. In questa intervista abbiamo analizzato con Grimaldi la problematica Covid-19, sotto vari aspetti: mediatici, economici e geopolitici.
* * * *
Pandemia Covid-19, C'è stata per te una manipolazione mediatica, di dati, sulla percezione del pericolo, se sì, per quale ragione secondo te? Rispetto per esempio all’influenza "Spaziale" del 1970 che in Italia provocò 20.000 morti e 13 milioni di persone a letto di cui in pochi si ricordano. Oggi perché c’è un approccio diverso?
Neanche 2 anni fa ci fu questo panico. Nel 2018, un articolo del Corriere della Sera denunciava il caos totale della Sanità per l’arrivo dell’influenza. C’era la stessa catastrofe sanitaria, mancanza di personale, attrezzature, una categoria falcidiata dai tagli nel corso degli ultimi 30 anni che non riusciva ad affrontare l’immane numero di contagiati da influenza “normale”.
Non voglio dire che il Covid-19 sia il risultato di una pianificazione lucida e programmata, per quanto ci sarebbero elementi che lo farebbero pensare, perché c’è una storia di crimini programmati lucidamente, con provocazioni mondiali per raggiungere certi fini, a partire dall’11 settembre al Golfo del Tonchino.
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Sull’epidemia delle emergenze / fase 4: pandemia, crisi, clima e guerra
di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier
“We can do it together” (Boris Johnson)
“Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)
“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva. La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)
“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)
“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.”
(The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)
“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)
“E’ la guerra. Tutto è più immediato” (Perfidia – James Ellroy)
Per una volta iniziamo la nostra cronaca da oltre frontiera. Prendendoci, oltretutto, la libertà di modificare parzialmente i nomi dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Quello che salta subito agi occhi ovunque, dalla Francia agli Stati Uniti passando per l’Australia, è che per i governi e i media la preoccupazione più importante fino ad ora è stata quella di salvaguardare economia, produzione e profitti.
Come al solito gli americani sono i più pragmatici ed espliciti, motivo per cui il Wall Street Journal può tranquillamente ratificare, nell’editoriale redazionale del 20 marzo, che nessuna società può salvaguardare a lungo la salute pubblica al costo di minare quella economica. Chiaro abbastanza no? Ma se l’organo per eccellenza del capitalismo e della finanza americana lo afferma con chiarezza, anche qui da noi non sono mancate le spinte in tale direzione. L’abbiamo misurato con l’enorme ritardo con cui il governo degli ominicchi e degli abbracci è giunto a decretare una chiusura vaga e fumosa che lascia non pochi dubbi sulla sua reale entità, evitata a ogni costo fino all’ultimo momento e poi, una volta varata, posticipata per dare una nuova mano agli squali di Confindustria.
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Note sulla crisi economica II
di Pungolo Rosso
Tempesta finanziaria, interventi emergenziali, lacrime e sangue per il proletariato
Dalla stesura del testo Il “cigno nero” e’ qui (13 marzo), la situazione è andata peggiorando a grandi passi, fino a sfiorare scenari catastrofici. I dati economici, le dichiarazioni dei personaggi chiave e le decisioni dei più importanti centri di governo dell’economia mondiale si susseguono a ritmo incalzante.
La situazione è in costante evoluzione e si fatica a seguirne gli sviluppi. Dopo i crolli record di tutte le Borse mondiali, di cui si dà conto nelle note che seguono, Wall Street e le altre piazze finanziarie internazionali hanno fatto registrare aumenti record, che travalicano i rimbalzi tecnici legati ai riacquisti di titoli per monetizzare i capital gains guadagnati con le vendite allo scoperto, e testimoniano innanzitutto di una estrema volatilità dei mercati borsistici che, con ogni probabilità, si protrarrà a lungo.
Si fanno quindi sentire le conseguenze delle manovre monetarie assolutamente eccezionali messe in campo dalla FED, dalla BCE e dalle altre Banche Centrali e gli imponenti stanziamenti di bilancio che tutti gli Stati imperialistici stanno preparando. Non c’è dubbio che l’insieme di questi interventi sarà finalizzato al sostegno del sistema (banche e grandi imprese, in primis), costi quello che costi. Ma i capitalisti di tutti i paesi già si interrogano sul che fare e con quali strumenti affrontare la crisi, quando sarà forse sotto controllo l’epidemia di covid-19 ma infurierà quella economica, la disoccupazione di massa, i probabili rincari dei generi di prima necessità, ecc.
Non possiamo prevedere la strada specifica che ciascuno Stato percorrerà, ma è certo che la classe lavoratrice tutta dovrà fronteggiare un’offensiva di inusitata violenza, in cui la crescita del nazionalismo e gli appelli all’unità “di tutto il popolo” assumeranno sempre più minacciosamente i caratteri di un ultimatum verso le masse affinché si prostrino davanti alle rapaci esigenze capitalistiche, mentre le avanguardie di classe verranno additate come “nemici della patria” da perseguire e disperdere.
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Circa Nadia Urbinati, “Non arrendiamoci a ‘tacere e obbedire’”
di Alessandro Visalli
Un breve post su Huffpost, quindi di larga diffusione, del politologo (sì, uso il neutro) Nadia Urbinati che mi è più volte capitato di commentare, spesso con apprezzamento per le sue tesi sempre dense ed interessanti.
In questo breve post ci sono molti strati di lettura, alcuni condivisibili, ma c’è un nucleo duro questionabile e c’è una struttura retorica tanto forte quanto irresponsabile.
Parto dal condivisibile.
Le istituzioni sono colpevoli, collettivamente ed individualmente. Senza dubbio. Sono colpevoli di aver smantellato per anni le capacità di reazione e prevenzione del nostro sistema sanitario nazionale, in parte demandandole al privato e, in misura maggiore, semplicemente riducendone i finanziamenti e l’efficacia. Questo è quel che sostiene la Urbinati e io lo credo vero. Il nostro sistema è stato, come dice, “maltrattato e indebolito”. La regione Lombardia aveva ormai un ventilatore ogni quattromila abitanti, negli anni di austerità sono stati tagliati venticinquemila posti letto, l’Italia per posti in terapia intensiva è al diciannovesimo posto tra i paesi Ocse, ma per Pil è al nono, la Germania ne ha il triplo per abitante. Più di noi l’Irlanda, la Finlandia, l’Olanda, la Francia, il Portogallo, la Lettonia, l’Estonia, la Grecia, il Lussemburgo, la Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia, il Belgio, l’Austria, la Lituania e la Germania (in ordine ascendente). Meno di noi solo la Spagna, la Danimarca, il Regno Unito e la Svezia (in ordine discendente).
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Il contributo delle nuove interpretazioni di Gramsci alla delineazione della strategia politica contemporanea
di Javier Balsa (Universidad Nacional de Quilmes/CONICET, Argentina)
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 2 2019 (vol. VII)
Premessa
Nella fase di sconfitta strategica nella quale ci troviamo dopo il crollo dei cosiddetti “socialismi reali”, in un momento in cui il socialismo non è più un’aspirazione di massa, la sinistra ha bisogno di riflettere sulla propria strategia politica. Riteniamo che Gramsci, e in particolare la sua teoria dell’egemonia, possa contribuire in questo senso. Manca però una chiara sistematizzazione della teoria gramsciana, a partire dalla quale si può giungere a pensare una strategia. Nelle analisi politiche, troppo frequentemente Gramsci è invocato solo con qualche frase ad effetto, con l’intenzione di a dare un sostegno “teorico” a una politica pensata senza in realtà ricorrere a Gramsci.
Per fortuna, durante gli ultimi decenni abbiamo assistito a un rinnovamento degli studi gramsciani e, specificamente, alla realizzazione di lavori “filologici” che hanno provveduto a una teorizzazione più sistematica dell’egemonia, a partire dalla quale diventa possibile delineare una migliore strategia politica.
Paradossalmente, questi lavori filologici si sono sviluppati a partire da un confronto con il testo che più ha criticato l’impiego delle elaborazioni gramsciane per pensare una strategia politica: Ambiguità di Gramsci di Perry Anderson1. In quel contributo, Anderson intendeva attaccare l’eurocomunismo, e vide in Gramsci il principale rife rimento di quella strategia. Perciò propose una critica contro ciò che definì le “antinomie” del suo pensiero, fino a sostenere che Gramsci si era perso nel labirinto dei suoi quaderni. In realtà, così facendo Anderson intendeva affermare una determinata idea: che il nocciolo del dominio capitalistico risiede nella credenza nella legittimità della rappresentazione politica propria delle “democrazie borghesi” (oltre che nella minaccia dell’impiego della coercizione diretta).
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Da emergenza sanitaria a stato di eccezione politico?
di Geminello Preterossi
L'attitudine critica non può essere quella di negare o relativizzare il problema coronavirus, ma di denunciare abusi, irrazionalità, eccessi, logiche e rischi "di fondo". Bisognerà, poi, subito riorganizzarsi socialmente e politicamente
Gli interventi di Giorgio Agamben sulle conseguenze politiche del coronavirus impongono alcune riflessioni. In generale, condivido la critica alla normalizzazione dell'emergenza, trasformata in "calamità" (anche quando si tratta, ed è la maggior parte dei casi, di questioni politiche, economiche, sociali e non certo di "oggettività" naturali o tecniche). Ora però il problema esiste e, soprattutto in Lombardia, ha creato una situazione drammatica dal punto di vista sanitario. Quindi una reazione mirata, ma adeguata, è necessaria. Certo, il rischio che si trasformi un'emergenza sanitaria reale in uno stato di eccezione politico c'è, è davanti ai nostri occhi. Delegare in toto agli esperti (che peraltro manifestano posizioni non sempre univoche) le scelte politiche è pericoloso: i tecnici devono fornire i dati da valutare, ma la decisione deve essere politica, perché solo così si può tenere conto della complessità dello scenario. Occorre saper distinguere, rendersi conto delle soluzioni che hanno funzionato e di quelle che non hanno funzionato, essere flessibili per aggiustare le strategie. Nessun fideismo emergenzialista, dunque. Abbiamo bisogno, piuttosto, di ragion pratica. La vita pubblica è cosa diversa da un laboratorio: altrimenti si trasforma la società intera in un “laboratorio”. Ciò, sia chiaro, non per ridimensionare il quadro, che è grave e preoccupante, ma per mantenere in funzione la capacità di valutare criticamente e deliberare di conseguenza (a proposito, siamo sicuri che le istituzioni rappresentative debbano eclissarsi, in un contesto del genere?). Inoltre, quando sarà passata questa buriana, bisognerà mettere in fila tutto: non solo errori, atteggiamenti ondivaghi e opachi, mancanze, ma la logica di fondo, i rischi politici che si corrono, le finalità perseguite dai “poteri indiretti” e il conto che verrà fatto pagare ai più deboli.
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La Commissione dell’Amore e la fine del capitalismo
di Marino Badiale
I. Premessa
Lo stimolo diretto alla stesura di questo scritto viene dall’istituzione, da parte del Senato della Repubblica Italiana, della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza” [1], ma le riflessioni che lo compongono hanno radici più lontane. Da molto tempo, infatti, mi sembra di notare nelle nostre società una tendenza alla restrizione della libertà di pensiero e di espressione, e ritengo che questo tema meriti una riflessione specifica. Si tratta di tendenze notate da vari osservatori, per esempio Massimo Fini che, intervenendo a proposito dell’istituzione della Commissione, scrive che non si possono proibire i sentimenti [2]. La mia prima reazione, quando si è cominciato a parlarne, è stata quella di trasformare la dicitura “Commissione contro l’odio” in “Commissione dell’Amore”, e associare una tale Commissione al “Ministero dell’Amore” di orwelliana memoria. Queste sono battute scherzose, naturalmente, ma accennano a un problema serio, ovvero al problema se si stiano lentamente erodendo, nei paesi avanzati, alcuni dei fondamentali principi della civiltà occidentale, e, se questo è vero, quali ne siano le cause. A questi problemi sono dedicate le riflessioni che seguono.
II. Introduzione
Il punto di partenza delle mie considerazioni, lo sfondo generale nel quale devono essere inquadrate, è la convinzione che la civiltà occidentale stia vivendo gli ultimi anni della sua storia. La sua organizzazione economica e sociale, che brevemente indichiamo col termine “capitalismo”, sta ormai distruggendo le basi naturali e sociali della sua stessa riproduzione. Si tratta di una società entrata in una fase “autofagica”[3], che porterà alla sua fine traumatica, probabilmente entro la fine di questo secolo.
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La sfida politica della pandemia
di Pierre Dardot, Christian Laval
Per Pierre Dardot e Christian Laval, autori di «Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo» (DeriveApprodi, 2015), la pandemia Covid-19 mette alla prova la capacità delle strategie politico-economiche che dovrebbero fronteggiarla. «Quello che stiamo vivendo lascia intravedere quello che, con la crisi ambientale in atto, ci attende nei prossimi decenni se la struttura economico- politica globale non dovesse cambiare»
La pandemia di Covid-19 è una crisi sanitaria, economica e sociale globale ad un livello extra- ordinario. Poche situazioni storiche possono essere paragonate, perlomeno negli ultimi decenni. Questa tragedia, da subito, è un banco di prova per tutta l’umanità. Prova nel senso duplice della parola: dolore, rischio e pericolo in un senso; prova, valutazione e giudizio dall’altro. Quella che la pandemia mette alla prova è la capacità delle organizzazioni politico-economiche di far fronte a un problema globale legato alle interdipendenze individuali o in altri termini a tutto quello che riguarda la vita sociale nelle sue forme più elementari. Come una distopia che sarebbe diventata la realtà, ciò che stiamo vivendo lascia intravedere ciò che, con il cambiamento climatico, attende l’umanità tra qualche decennio se la struttura economico-politica del mondo non dovesse cambiare rapidamente e in maniera radicale.
Una risposta di Stato a una crisi globale?
Prima osservazione: da una parte e dall’altra, si predispongono volontari della sovranità dello Stato nazione come risposta all’epidemia globale secondo due modalità più o meno complementari e articolate nei vari paesi: da un lato, ci si affida allo Stato per prendere delle misure autoritarie di limitazione dei contatti con la messa in atto del noto «stato d’emergenza» (dichiarato o meno), come in Italia, Spagna e Francia; dall’altro lato, ci si attende che lo Stato protegga i cittadini dall’importazione di un virus che arriva dall’estero.
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Aids, Hendra, Nipah, Ebola, Lyme, Sars, Mers, Covid…
di Laura Scillitani
Deforestazione e cambiamenti climatici stanno trasformando profondamente gli ecosistemi e creano un'interfaccia innaturale tra essere umano e animali. Ma la salute dell'ambiente è legata a doppio filo a quella della nostra specie. Laura Scillitani ripercorre i meccanismi per i quali la pressione antropica - e i cambiamenti climatici - favoriscono l'insorgenza di alcune malattie e altera le dinamiche della trasmissione di patogeni
“Quando l’epidemia sarà finita torneremo alla vita di prima”, ci ripetiamo come un mantra in questi giorni di reclusione forzata in casa, mentre osserviamo la primavera avanzare oltre le nostre finestre. In realtà, se volessimo trarre un beneficio dalle avversità, dovremmo inquadrare ciò che è accaduto in una cornice più ampia. Covid-19 è l’ennesima dimostrazione di quanto la nostra sopravvivenza sia strettamente legata alla tutela della natura e alla integrità della biosfera.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel mondo muoiano 4,2 milioni di persone all’anno a causa dell’inquinamento atmosferico, e considera i cambiamenti climatici come una delle maggiori minacce, stimando che dal 2030 si potrebbero verificare almeno 250 mila morti all'anno. L’attuale tasso di crescita della popolazione è esponenziale (7,7 miliardi di persone secondo l’ultima stima), e di conseguenza aumenta in proporzione la domanda di beni e servizi. Gli ecosistemi sono sottoposti a una trasformazione profonda, tale che il periodo attuale è stato considerato una nuova era geologica, l’Antropocene. Un ambiente alterato non garantisce più i servizi ecosistemici (ad esempio aria respirabile, acqua potabile, suolo fertile), e può compromettere la salute umana anche facilitando la trasmissione di agenti patogeni nuovi per l’uomo, e il diffondersi di epidemie come quella che stiamo vivendo.
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"E' una crisi diversa dalle altre. Keynes non basta, serve una logica di piano"
Intervista ad Emiliano Brancaccio
Per l’economista sono già sconfessate le previsioni ottimistiche della BCE, secondo cui questa sarebbe una crisi “a forma di v”, con una breve caduta e poi subito una ripresa spontanea. E riguardo al fondo salva-stati dice: “non è la soluzione, è una trappola”. Ma non basta nemmeno invocare un rilancio della domanda. Un piano “anti-virus” è l’unica strada efficace per risolvere la “disorganizzazione” dei mercati e combattere la speculazione
“Il coronavirus rischia di condizionare le nostre vite più e peggio di quanto fece l’aids un trentennio fa. Se vogliamo difendere le nostre conquiste e i nostri diritti di libertà, dobbiamo comprendere che siamo dinanzi a una sfida colossale, che contemporaneamente investe la sanità, la scienza e la tecnica e l’economia. Per il momento siamo lontanissimi da una presa di coscienza. I policymakers sembrano ragionare con lo sguardo rivolto all’indietro, come se non avessero il coraggio di guardare avanti e indicare soluzioni all’altezza di questa tragedia epocale”. L’economista Emiliano Brancaccio denuncia all'AntiDiplomatico l’inadeguatezza dell’azione politica di fronte agli effetti dell’epidemia e lancia un appello sul Financial Times per un “piano-anti-virus”.
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Professor Brancaccio, pochi giorni fa il Financial Times ha pubblicato un appello promosso da lei e da altri colleghi economisti per l’immediata attuazione di un piano "anti-virus" che possa fronteggiare una crisi a vostro avviso gravissima. Qual è l’effettiva portata economica di questa crisi? E’ possibile quantificare l’impatto complessivo che avrà sulla produzione e sull’occupazione, in Italia e nel mondo?
Dipende da quanto dovranno durare le quarantene. Marx sosteneva che se una nazione ferma il lavoro anche solo per un paio di settimane, quella nazione è destinata a soccombere. Esagerava ma non andava troppo lontano dal vero. Un banale calcolo contabile ci dice che appena due settimane di blocco anche parziale dell’attività produttiva implicano una perdita di produzione e di reddito di un’ottantina di miliardi, ossia circa il 4 percento del Pil italiano, e questo senza considerare gli effetti moltiplicativi della recessione. Ovviamente, se il blocco perdura, il crollo si accentua.
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Sulla situazione epidemica
di Alain Badiou
Presentazione di Paolo Quintili. Nihil sub sole novum - La novità «antidiluviana» di una pandemia mondiale. Il saggio di Alain Badiou che qui offriamo al pubblico, offre una serie di importanti riflessioni filosofiche che collocano l’evento emergenziale che stiamo vivendo in una dimensione al tempo stesso storica e critica. L’esperienza in corso dell’evento, nei diversi paesi dell’Occidente, in Europa in particolare, è stata affidata a tre «corpi» sociali che ne stanno gestendo l’emergenza: il corpo politico, il corpo medico e il corpo mediatico delle nostre società.
Ora, una parola che venga dal «corpo filosofico» è di grande utilità in quanto ci permette di coglierne la dimensione reale, al di là delle pur necessarie misure prese per arginare il pericolo epidemico. Anzitutto, la sua presunta «novità»: appare tale per la sola ragione che il flagello sta colpendo il pacifico e opulento Occidente capitalista, fino ad oggi al riparo (illusorio) da questi fenomeni. Niente di nuovo sotto il sole (Qoelet, I, 9), sono decenni oramai, che a partire dal virus Ebola, passando per numerosi altri agenti patogeni, influenzali e virali, diversi organismi viventi ostili, generati dall’azione (politico-economica) umana, han fatto strage fuori dell’Europa, e non nel solo Terzo Mondo. Ora si stanno diffondendo nel pianeta intero. Agenti patogeni originati dal mondo animale non-umano, passati e trasmessi all’uomo. La ragione di fondo del fenomeno è – non si può più ignorarlo, né nasconderlo – ecologica (vedi il saggio di Sonia Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, in «Le Monde Diplomatique», n.3 anno XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21) [P.Q.].
Per la prima volta nella storia, si sta vivendo sulla propria pelle, in Europa, una realtà nuova che investe la comunità mondiale intera, dopo che il genere di agente patogeno in questione ha iniziato da gran tempo la sua avanzata per le rotte della mondializzazione.
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Lettera agli amici del deserto
di Marcello
Miei cari amici, mie care amiche,
poche cose come lo scrivere delle lettere ai propri più cari amici di una vita è più confortante in momenti come questo. Spero che questa mia vi trovi bene, e belli come io vi porto dentro di me. Alcuni di noi staranno vivendo con maggiore sofferenza questi giorni ma l’amicizia, cioè l’essere più prossimi di qualsiasi prossimo, fa sì che possiamo condividerla e perciò alleggerirla se lo vogliamo. Semplicemente perché, in virtù dell’amicizia, siamo portati senza sforzo a vivere con la vita dell’altro. In questa clausura che ci è toccata, dobbiamo restare aperti come non mai al vento dell’amicizia che è capace, come sappiamo, di soffiare al di là di ogni distanza.
Come forse avrete anche voi avuto modo di notare ci troviamo, a seconda dei nostri paesi, da qualche giorno o settimana tutti ridotti alla quarantena in un tempo che, per un caso che ha qualcosa di perturbante, è anche quello della quaresima. Tempo tradizionalmente di introspezione, di rinunce e infine, forse, di riconciliazione. E siccome, chi mi conosce lo sa, ho sempre pensato che non esiste «il caso» ma che questo è solo una maniera di rassicurarci, una superstizione attraverso la quale ci costringiamo a credere che ciò che accade, il modo in cui accade, non abbia alcun significato per noi, ho pensato che questa coincidenza faccia parte dei segni dei tempi che sono qui e che siamo chiamati a interpretare.
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Una pagina di Marx. Critica al mistero della costruzione speculativa
di Lorenzo Procopio
In occasione del bicentenario della nascita di Marx ripubblichiamo un paragrafo della Sacra Famiglia in cui viene criticato il metodo del sistema speculativo. Una lettura che ci aiuta a comprendere le contraddizioni del moderno capitalismo e che dimostra come il pensiero di Marx sia sempre più attuale ed indispensabile per l’emancipazione dell’umanità dalla schiavitù del lavoro salariato
In questo 2018, che ormai volge al termine, numerose sono state le iniziative, in Italia come nel resto del mondo, di commemorazione del bicentenario della nascita di Karl Marx. Molte di queste, anche quelle organizzate da gruppi e personalità che si richiamano direttamente al suo pensiero, hanno avuto il vizio di essere improntate ad una retorica commemorativa distante anni luce dal pensiero del grande rivoluzionario di Treviri.
La ricorrenza del bicentenario della nascita è stata anche l’occasione per la pubblicazione di numerosi saggi e libri su Marx che, se da un lato hanno sortito l’effetto positivo di ridare fiato ad un dibattito che negli ultimi anni si era affievolito ed in parte sclerotizzato, dall’altro ha ancora una volta mancato inevitabilmente l’obiettivo di rilanciare su un piano più ampio la critica radicale del sistema capitalistico che è stata di fatto l’unica ragione di vita di Karl Marx.
Così come abbiamo fatto in occasione del centenario della Rivoluzione russa, anche questa volta non vogliamo cadere nella retorica delle commemorazioni né tantomeno accademizzare, o peggio ancora fossilizzare, il suo pensiero. Riveste per noi una straordinaria importanza politica non sterilizzarlo in un mero fatto accademico o di semplice studio filologico; pur potendo talvolta apprezzare gli sforzi compiuti in tale direzione da accademici e da studiosi di filologia marxiana, ci sembra di cogliere in questi un palese limite laddove è da loro completamente ignorata l’importanza dell’analisi marxiana in relazione allo scontro sociale e alla lotta di classe.
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Disorganizzazione e riorganizzazione. Coronavirus e cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Il DPCM 22 marzo 2020 ha compiuto un ulteriore e forse decisivo passo verso il blocco di ogni attività produttiva nel paese. Ancora una volta siamo un passo avanti di ogni altro paese occidentale, un passo verso un baratro o verso la soluzione della crisi. Dopo una lunga trattativa con i sindacati, che volevano una chiusura molto più ampia, e le altre componenti del mondo industriale, che la volevano minore, si è deciso di chiudere. Quindi saranno arrestate tutta la filiera dei metalli, il noleggio automezzi, parte dell’industriale metalmeccanica, parte del tessile, l’attività estrattiva (meno quella degli idrocarburi), il settore delle costruzioni, la fabbricazione di mobili, etc. Tutti settori che andranno ad aggiungersi al commercio che era stato già fermato.
Restano aperti gli studi professionali, la stampa, i tabaccai, la filiera agroindustriale, e la fabbricazione di macchine al suo servizio, parte del tessile, la chimica e la farmaceutica, il settore elettrico e la relativa componentistica, il settore della depurazione ed igiene, i contact center, tutte le attività di trasporto connesse, le attività finanziarie, la ricerca, riparazioni e manutenzioni, aerospazio e difesa.
Il Presidente Conte ha detto, in sostanza, che resteranno chiuse le attività “non necessarie” e che lo Stato fornirà tutto l’aiuto che serve.
Un sistema produttivo ed economico altamente finanziarizzato e interconnesso, come quello che ci ha lasciato in dote la mondializzazione degli ultimi trenta anni è come un calice di cristallo. Esile, elegante, sottile, durissimo e fragile.
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Il debito ai tempi del Coronavirus: la borsa e la vita
di coniarerivolta
La rapida diffusione della Covid-19 ha creato una situazione di emergenza, non solo in Italia, che rende necessario un tempestivo intervento pubblico per sostenere il settore sanitario e l’economia nel suo complesso. La violenza di questo shock, manifestatosi nel mezzo di una situazione economica già precaria, con l’Italia in stagnazione e la locomotiva tedesca in frenata, ha indotto persino i più ferrei sostenitori dell’austerità ad ammettere la necessità che lo Stato faccia immediatamente ricorso alla spesa in deficit per arginare l’imminente crisi. Quando a rischiare non sono solo i lavoratori e i loro salari, ma anche i profitti di imprese e banche, il debito pubblico è il benvenuto: i soldi, che non ci sono mai, come per miracolo ora ci sarebbero. Alfieri del neoliberismo e maître à penser dell’austerità di matrice europea (Mario Monti, Carlo Cottarelli, Elsa Fornero, Alesina e Giavazzi, e la neo-insediata commissaria Von der Leyen) incoraggiano i governi a fare tutto il possibile, ricorrendo al malum necessarium della spesa in deficit, contro la Covid-19. Possiamo dire che la prima vittima del nuovo virus sia dunque l’austerità? Purtroppo, no. Perché l’austerità è un progetto politico teso a trasformare la nostra organizzazione economica e sociale che va ben oltre le politiche restrittive imposte negli anni recenti: questo disegno di governance può ricorrere all’uso spregiudicato della crisi quando deve scardinare le conquiste di decenni di lotte dei lavoratori, lo stato sociale, i diritti e i salari, ma può anche far ricorso a strumenti di stabilizzazione, quando ritiene che la crisi possa compromettere i profitti di imprese e banche. In sintesi, l’austerità non è solo recessione: l’austerità è controllo e disciplina, e in questo frangente proverà ad arginare la caduta della produzione senza per questo ammorbidire un modello di crescita che continuerà a fondarsi sulla precarietà, lo sfruttamento e la disoccupazione di massa.
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A che punto è l'incubo
di Sebastiano Isaia
1. Il salto non è evolutivo…
La virologa Ilaria Capua, ultimamente molto presente sui media nazionali, dà un’interpretazione storico-sociale della pandemia che sta investendo l’intero pianeta che trovo molto interessante, sebbene questa interpretazione risulti appesantita dal suo peculiare approccio scientista ai fenomeni sociali. Per molti aspetti la scienziata non fa che ripetere quanto aveva scritto qualche giorno fa Mario Tozzi sulla Stampa di Torino e da me citato nel precedente post. Dal mio punto di vista le tesi esposte dai due personaggi è molto significativa perché mostrano la natura essenzialmente sociale dell’attuale crisi sanitaria, ossia la sua profonda e ramificata radice capitalistica – parlare di una generica “globalizzazione” e tirare in ballo un altrettanto generica prassi tecnoscientifica non coglie il cuore del problema e anzi contribuisce a rendere difficile la sua individuazione. Ma questa è una “problematica” che spetta all’anticapitalista affrontare.
Veniamo alla dottoressa Capua, intervistata da Raffaele Alberto Ventura per Le grand continent:
«L’esperienza delle precedenti pandemie bastava a immaginare questo scenario. Tuttavia si tratta di fenomeni che toccano una tale quantità di sfere, da quelle naturali a quelle sociali, con innumerevoli ramificazioni, che per affrontarli un approccio interdisciplinare è fondamentale. Nel mio libro Salute Circolare mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari. In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando. […]
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