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Arriva Monti. E la democrazia?
Alberto Burgio
Il referendum greco bloccato, l'Italia commissariata. Tutti aspettano l'uomo che risanerà i conti dello Stato, ma nel frattempo il gioco democratico va in pezzi. E avanza una nuova forma di dispotismo illuminato
Le cronache della crisi offrono materia per qualche riflessione sulle sorti della democrazia. Quando Papandreou ha osato immaginare un referendum sulle misure imposte dalla Bce in cambio del prestito, è stato preso per pazzo da potenti e sapienti e additato al pubblico ludibrio. Eppure si era limitato a citare la Costituzione e un elementare principio democratico. Qualcuno - tolti noi, pensatori liberi e marginali - ha sentito il bisogno di dire, se non altro, che quella levata di scudi tradiva un problema? Che qualcosa non va in questa Europa, se anche solo ipotizzare di dar voce al «popolo sovrano» scatena una crisi di nervi?
Poi è venuto il turno nostro. Nel giro di una settimana ci siamo ritrovati il commissariamento del Paese, il governo in crisi, un senatore a vita già unto del Signore e la prospettiva di un nuovo esecutivo, decisa da un presidente della Repubblica che sta rivoluzionando il ruolo costituzionale del Capo dello Stato. Non bastasse, stiamo assistendo a un esemplare esercizio di obbedienza all'ordine dettato dai cosiddetti mercati. Lo stesso Napolitano si è mosso entro margini strettissimi, di tempo e di merito. Ed è stato, per dir così, costretto a imporre ai partiti una figura designata dal mondo della finanza internazionale. Difficilmente avrebbe potuto fare scelte molto diverse.
Come la condanna di Papandreou, così il giubilo per Monti è stato pressoché unanime. Certo, il fatto che l'arrivo di Monti coincida con l'uscita di Berlusconi aiuta a comprendere il generale sollievo, e lo stesso può dirsi del discredito che pesa sulla classe politica. Ma i modi e i tempi del suo irrompere - e questa stessa entusiastica accoglienza - destano preoccupazione: la Costituzione repubblicana non contempla governi presidenziali, né la figura del Salvatore della Patria.
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Il moderno non è mai finito
Carlo Formenti
All’amico Alberto Abruzzese «alfabeta2» proprio non va giù. In un lungo articolo (Pensare e fare politica nel tempo delle reti) pubblicato a puntate sulla rivista «gli Altri», si è dichiarato profondamente irritato per i «vertici di politichese marxista, leninista, idealista» che, a suo parere, si toccherebbero su queste pagine, infestate dai «fantasmi» del comunismo e della rivoluzione non meno di quelle della vecchia alfabeta. Del resto – questo lo dice Marx, non Alberto, ma è chiaro che anche lui lo pensa – si sa che nella storia le tragedie, se e quando si ripetono, assumono veste farsesca. Replicare alle invettive con le invettive serve a poco, se non a sfogare il cattivo umore. Quindi mi guarderò bene dal farlo, anche perché le invettive di Alberto arrivano solo alla fine di una serie di argomentazioni «serie» che meritano di essere trattate come tali, e sulle quali mi è impossibile tacere, visto che vengo in più occasioni tirato in ballo in quanto membro di una confraternita di autori accusati di aver contribuito a definire e analizzare il tempo presente in quanto «società delle reti». Una definizione, commenta amaramente Abruzzese, che ha sortito l’effetto «di trascinare la soggettività delle reti dentro l’economia politica invece di spingere la società stessa a sciogliersi dentro le reti».
Ovviamente prendo l’accusa come un complimento, dato che la mia ambizione dichiarata è quella di contribuire a una critica dell’economia politica del capitalismo delle reti. Al tempo stesso devo subito sottolineare due elementi di dissidio radicale relativi al linguaggio stesso con cui l’accusa viene formulata:
– Si dice che a trascinare la soggettività delle reti dentro l’economia politica sarebbe la definizione in quanto tale di società delle reti, attribuendo alle parole uno smisurato potere evocativo, degno dei versetti della Genesi: basta nominare le cose in un certo modo perché la loro realtà si adatti al nome;
– Si pone come obiettivo la necessità-possibilità di «sciogliere» la società nelle reti.
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Melancholia
di Augusto Illuminati
Cos’è questo rumore sordo di sottofondo, che impercettibilmente cresce soffocando le strida viola di giubilo su via del Plebiscito e davanti al Quirinale? Perché le fattezze oneste e non mascarate di Monti si sbozzano sul disco bluastro di un pianeta in avvicinamento? L’impatto ormai imminente è non con la crisi, ma peggio: con la cura della crisi. La cura presunta, s’intende, quella che ci vorrebbero propinare i responsabili della crisi secondo il discusso metodo omeopatico di Hahnemann, secondo il quale (wiki-citazione) il rimedio appropriato per una determinata malattia sarebbe dato da quella sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nella persona malata. Con l’unica differenza che il rimedio è somministrato in dose non diluita bensì concentrata. I precari rischiano di non avere pensioni? Tagliamo quelle dei nonni e dei padri che al momento li mantengono. I giovani sono disoccupati? Rendiamo più facili i licenziamenti degli occupati. Gli speculatori ci strozzano con il debito? Inseriamo in Costituzione l’obbligo di restituire i debiti. Il territorio si sfascia? Rendiamo costituzionalmente lecito fare di tutto e costruire per ogni dove. La crisi è pilotata dalla Goldmann Sachs? Piazziamo ai vertici europei e italiani i suoi esponenti.
I bocconiani che non hanno minimamente previsto la crisi dovrebbero fungere da medici. Come se non ci avessimo già provato con la finanza creativa di Tremonti. Più liberismo guarirà i mali del liberismo. In questo folle vortice –qui sta la differenza– ci precipitiamo con il consenso bipartisan di destra e sinistra (compreso chi, come Vendola, non deve manco votare Monti in Parlamento). O meglio: la sinistra ci si butta con entusiasmo, seguendo i consigli presidenziali e timorosa di vincere in elezioni anticipate, la destra fa il doppio gioco, strillando al tradimento, allo stato di necessità (per evitare il crollo delle azioni Mediaset e Mediolanum), riservandosi di scatenare una campagna contro i tagli, contro l’euro, contro i cattivi di Europa, Bce e Fmi, confidando magari in una rimonta elettorale a giugno 2012.
C’è dell’altro (e ovviamente anche qui la destra bavosa e sconfitta ci intinge il pane). L’esproprio di democrazia e di quel tanto che restava di (non rimpianta) sovranità nazionale è più che evidente e d’altronde il caso greco l’aveva anticipato.
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“Il governo Monti non è la soluzione. Serve una vera svolta politica ed economica”
a cura di Salvatore Romeo
Vladimiro Giacchè, economista e vice-presidente dell’associazione “Marx XXI”, è autore di numerosi saggi di carattere economico e filosofico e recentemente ha curato l’edizione italiana di una raccolta di scritti di Karl Marx sulla crisi (K. Marx, Il capitalismo e la crisi, DeriveApprodi, 2009). All’inizio del prossimo anno pubblicherà un volume proprio sul particolare momento economico che stiamo attraversando. Ed è appunto di questo che abbiamo parlato, con uno sguardo particolare rivolto all’attualità politica
Dottor Giacchè, ci aiuti a capire quello che è successo in questi giorni sui mercati finanziari. Perché i titoli di Stato italiani sono soggetti ad attacchi speculativi?
E’ una cosa abbastanza logica. Io non lo intenderei come un attacco dotato di una regia. In realtà la cosa è più semplice e peggiore di questa. A un certo punto, per una serie di motivi, chi opera sui mercati si è convinto che il debito pubblico italiano non sia più “sostenibile”. I motivi sono diversi: essenzialmente la bassa crescita del nostro paese, che fa sì che il rapporto debito/PIL vada aumentando per effetto dell’andamento del denominatore; l’altro punto è l’assoluta insipienza del governo Berlusconi, che ha fatto più o meno il contrario di quello che doveva fare. Non soltanto perché le manovre hanno colpito gli interessi della parte più povera della popolazione – il che comporterà un calo della domanda e quindi effetti recessivi –, ma ha anche dato all’Europa l’impressione di voler fare il furbo – cioè di voler continuare a tirare a campare, che è una cosa che oggi assolutamente nessuno si può permettere.
Diversi osservatori (da ultimo il capo investimenti di UBS) e persino qualche politico (come il Presidente portoghese Silva) sostengono che per fermare la speculazione sarebbe necessario che la BCE agisse da “prestatore di ultima istanza”. Può spiegarci cosi si intende con questa espressione? E lei ritiene opportuno questo tipo di intervento?
Io ritengo che sia necessario e che prima o poi sarà fatto. Speriamo che non lo facciano troppo tardi, quando ormai la situazione sarà irrecuperabile – non mi riferisco solo al debito italiano, ma alle molte situazioni di crisi. In sostanza, il prestatore di ultima istanza è colui che mette i soldi quando nessuno ce li può più mettere. La BCE dovrebbe fare quello che la Banca centrale del Giappone fa da oltre dieci anni, quello che la FED fa da quando è scoppiata la crisi: ossia comprare i titoli di Stato dei paesi in difficoltà, se necessario stampando moneta. In realtà non si può sostenere che attualmente la BCE non compri i titoli dei debiti sovrani – la BCE ha sostenuto anche lo Stato italiano: ad agosto gli acquisti ammontavano 70 mld. e probabilmente ora sono di più. Il problema è che però ha fatto degli acquisti “sterilizzati”. Cioè, per mantenere inalterata la quantità di moneta e in equilibrio il proprio bilancio, per tot. titoli che ha comprato ne ha venduti degli altri di valore equivalente, in modo da restare in pareggio. Per battere la speculazione sarebbe invece necessario che la BCE dichiarasse la propria disponibilità a sostenere i titoli di Stato dei paesi in crisi in misura illimitata.
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Populismo, antipolitica e governo tecnico sono facce della stessa medaglia
di Claudio Bazzocchi
L'Italia del dopo-Berlusconi sarà retta da un governo tecnico. Non si sa per quanto tempo.
Commentatori e politici di destra e sinistra parlano di attacco alla politica. Altri di inadeguatezza nella nostra classe dirigente, che non poteva che avere come risultato un governo tecnico.
Vorremmo fare alcune considerazioni su questi due assunti, per dire agli uni che chi ha cavalcato il populismo antipartiti – da destra come da sinistra – non può certo meravigliarsi del fatto che l'Italia sarà governata da un professore liberista della Bocconi, e agli altri che non esistono classi dirigenti inadeguate, ma ideologie che ne postulano l'inadeguatezza proprio in quanto classe politica.
Sarà bene allora ricordare che in tutto l'Occidente capitalistico la politica e i politici soffrono di una grave crisi di legittimazione a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. La politica diventa sinonimo di doppiezza, corruzione, perseguimento di interessi particolari, spreco e inefficienza. I politici sarebbero degni attori di tale scena, perseguitori degli spregevoli fini assegnati appunto alla politica da un'opinione pubblica sempre più risentita, disincantata e disaffezionata.
L'Italia rappresenta in questa storia un caso particolare, ma non perché le sue classi dirigenti siano molto più corrotte di quelle degli altri paesi, bensì per il fatto che la presenza del partito comunista più forte d'Europa e di un sindacato molto politicizzato richiedevano un attacco al sistema partitico e sindacale ancora più aggressivo da parte della destra padronale e del suo apparato accademico.
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Mario Monti nuovo premier. Verso l'economia del "suicidio deliberato"?
di Paolo Ermani
La nomina a nuovo premier del neosenatore a vita ed ex commissario europeo Mario Monti chiude il ventennio berlusconiano ma rappresenta un ulteriore passo verso il rafforzamento di una politica economica votata alla crescita senza freni "che significa solo dare ancora più soldi e risorse a chi vuole continuare a devastare il Paese e il pianeta per comprarsi il cinquantesimo panfilo. E sono praticamente tutti d'accordo".
Dal cilindro è uscito Mario Monti.
Se mentre fino ad ora c'era comunque un Berlusconi a cui non dava retta quasi più nessuno, inviso addirittura ai mercati e ai mercanti, se non altro perché troppo spudoratamente rivolto ai suoi interessi e soprattutto piaceri, ecco che si profila all'orizzonte il grande timoniere che mette più o meno d'accordo tutti.
Nominato dai mercati e mercanti europei, Monti è visto come l'Arcangelo Gabriele, colui che farà piazza pulita e rimetterà le cose a posto cioè farà qualsiasi cosa per il rilancio dell'economia intesa come crescita, senza farsi distrarre da donnine allegre e addormentarsi durante gli impegni istituzionali. Si profila quindi lo scenario peggiore, cioè dove tutti o quasi sono d'accordo.
Recentemente infatti uno degli aspetti più negativi di questo periodo infausto, non sono stati solo gli infiniti scandali emersi dall'ombra ma anche uno scandalo al sole dove imprenditori e sindacati nel settembre scorso hanno sancito un accordo per agevolare la crescita. Un brivido di terrore è corso lungo la schiena di chiunque ha a cuore le sorti delle persone e dell'ambiente. Imprenditori e sindacati assieme per dire a gran voce che bisogna assolutamente ripartire a tutta velocità. Ma ripartire per fare cosa?
Prendiamo in esame due settori tradizionalmente trainanti dell'economia ai quali l'intero paese si è genuflesso per anni e anni e che ne hanno tragicamente cambiato il volto: l'industria automobilistica e l'edilizia.
Secondo questa Santa Alleanza imprenditori/sindacati per la crescita ripartire significherebbe ad esempio produrre ancora più automobili e farne acquistare sempre di più.
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L’Italia commissariata da Goldman Sachs
di Guglielmo Forges Davanzati*
C’è da dubitare che lo tsunami finanziario che ha investito (e sta investendo) l’Italia sia interamente imputabile alla scarsa credibilità del Governo Berlusconi, sebbene sia indiscutibile che questa esperienza di governo sia stata caratterizzata da un immobilismo irresponsabile. Per dimostrarlo, occorre ripercorrere sinteticamente ciò che è accaduto negli ultimi mesi, e chiarire preliminarmente i termini del problema. Dalla scorsa estate, l’Italia è stata oggetto di ‘attacchi speculativi’ di inaudita intensità, ovvero di vendita in massa di titoli del debito pubblico, con successiva difficoltà nel collocarli sui mercati anche a tassi di interesse elevati. La riduzione del prezzo dei titoli di Stato implica, infatti, che il tasso di interesse ottenibile dai risparmiatori aumenta, ponendo lo Stato italiano nella condizione di dover offrire un tasso più elevato per i nuovi titoli emessi.
E’ così aumentato il differenziale dei rendimenti fra i titoli italiani – in particolare i buoni del Tesoro con scadenza decennale – e i titoli del debito pubblico tedeschi, prefigurando una condizione nella quale lo Stato italiano potrebbe trovarsi impossibilitato a ripagare il debito contratto con i sottoscrittori dei buoni del Tesoro e dichiarare fallimento.
L’opinione dominante fa propria la convinzione secondo la quale questo fenomeno sia stato, in ultima analisi, determinato dal basso tasso di crescita dell’economia italiana (il che è condivisibile) e, soprattutto, dalla scarsa credibilità del Governo in carica (il che dà adito a qualche dubbio). Innanzitutto, va chiarito – ove ve ne fosse bisogno – che non è possibile dare una misurazione della ‘credibilità’ di un’Istituzione. Stando all’opinione dominante, la credibilità di un Governo la si concepisce – in questa fase, e nel nostro caso – sulla base del rispetto delle ‘raccomandazioni’ della Banca Centrale Europea. Le quali – è opportuno ricordarlo – suggeriscono misure di austerità ancora più drastiche rispetto a quelle fin qui messe in atto: riduzione della spesa pubblica, maggiore precarizzazione del lavoro e facilità dei licenziamenti, privatizzazioni, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, riduzione dei costi della pubblica amministrazione e suo snellimento, con possibile riduzione degli stipendi – e maggiore mobilità - dei lavoratori del settore pubblico.
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La miseria dell'economia
di Riccardo Achilli
Introduzione: della qualità umana e professionale degli economisti mainstream
Finalmente ad un convegno cui ho partecipato oggi a Roma i colleghi economisti hanno abbandonato il mantra che ripetevano da mesi, ovvero che la ripresa è alle porte, il peggio è passato, ecc. (sarebbe utile ricordare che fino al 2010 si stimava, per il nostro Paese, una crescita al 2011 dell'1,3%, che dovrebbe essere in realtà, secondo le ultime stime di preconsuntivo, pari allo 0,7%, ovvero la metà di quanto preventivato! La ripresa, prevista per il 2012 ad un tasso dell'1,8%, oggi viene negata, poiché le ultime previsioni stimano per il 2012 una crescita pressoché nulla (0,2%). Nessun economista, nessun centro studi, ha chiesto scusa per tali enormi errori di stima! Finalmente ho sentito ammettere (ovviamente senza chiedere scusa per gli errori pregressi) che vivremo ancora per molti anni all'interno di questa situazione di assenza di crescita e di progressivo impoverimento di ampie fasce della popolazione. Si cita Prescott (premio Nobel dell'economia) secondo cui questa fase non è congiunturale, ma è strutturale, e corrisponde ad uno storico spostamento della ricchezza dall'Occidente in declino all'Oriente in fase di sviluppo (peraltro con una citazione ingenua, che non tiene conto dei crescenti squilibri socio-economici della crescita cinese, che potrebbero portare il gigante asiatico ad una sua specifica forma di recessione, cfr. a tal proposito “rischi di Crollo Economico in Cina”, di J. Cahn, su http://stefano-santarelli.blogspot.com/. Ancora un volta, l'omissione di documentazione rilevante sulla situazione reale, che smentirebbe dichiarazioni perentorie come quella della “vittoria economica cinese”, denuncia ciarlataneria, superficialità e scarsa scientificità). Di fatto, gli economisti mancano delle più elementari forme di umanità, come la modestia, l'onestà intellettuale, la prudenza prima di formulare previsioni azzardate. In breve, mancano di quelle qualità fondamentali per potersi approcciare ad un metodo anche lontanamente "scientifico". Noi economisti siamo solo apprendisti stregoni, ciarlatani e cacciatori di consulenze ed incarichi.
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Che cos'è il debito?
Denaro, crisi e progresso sociale secondo un antropologo
Philip Pilkington intervista David Graeber
Su cosa si fonda il valore del denaro? Come si origina il debito? Di fronte alla crisi globale che scuote oggi le più potenti economie capitalistiche del pianeta, sono probabilmente molti i profani di economia che, come il sottoscritto, si sono posti magari per la prima volta nella loro vita domande del genere.
Ho quindi deciso di realizzare e pubblicare su questo blog la traduzione di un'interessante intervista all'antropologo (nonché militante anarchico) David Graeber, già professore associato di Antropologia a Yale e oggi assistente di Antropologia Sociale presso la Goldsmiths University di Londra. La brillante carrellata storico-antropologica proposta da Graeber nel suo ultimo lavoro "Debt: the First 5.000 Years"(MelvilleHouse Publ.), ci riporta alle origini del credito nell'Antica Mesopotamia e all'invenzione delle prime forme di moneta coniata da parte dei grandi imperi del passato, offrendo spunti particolarmente interessanti per interpretare la "crisi del debito" che sta sconvolgendo gli equilibri del mondo capitalistico.
L'intervista, disponibile in inglese sul blog naked capitalism, è stata realizzata dal giornalista e scrittore irlandese Philip Pilkington. Traduzione di Don Cave. Un grazie a DueCents (aka Paul D-Boy Kondratiev) per la segnalazione.
David Graeber: Sì, c'è una storiella convenzionale che è stata raccontata a tutti noi, un "c'era una volta" – nient'altro che una fiaba, in effetti. Non merita davvero di essere introdotta diversamente da così: secondo questa teoria, in origine tutti gli scambi erano fondati sul baratto. "Sai cosa ti dico? Ti darò venti galline per quella vacca. O tre punte di freccia per quella pelliccia di castoro o per qualcos'altro tu possa offrirmi." Questo creava degli inconvenienti, magari perché il tuo vicino non aveva bisogno di galline in quel momento, ragion per cui si dovette inventare il denaro.
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La democrazia dei senza parte
Mario Pezzella
Pochi concetti sono stati banalizzati come quello di “democrazia”. Rancière cerca di restituire al termine tutto il suo significato originariamente radicale e di verificarne il significato attuale. Secondo la critica marxista più ortodossa, la democrazia – come ogni credenza in un diritto uguale per tutti – non è che “ideologia”: essa è una maschera illusoria, oppio dei popoli, che occulta la vera questione dell’emancipazione sociale. Non varrebbe dunque la pena di preoccuparsene: rovesciati i rapporti di produzione capitalistici, una nuova formazione sociale avrebbe gradualmente realizzato l’eguaglianza concreta tra gli uomini, e superato quella puramente formale e giuridica del capitalismo.
Rancière accetta in parte i fondamenti di questa critica, ma prova a rovesciarne i termini negativi in una contraddizione positiva. E’ vero, quando la democrazia si autopresenta come uguaglianza realizzata, questa è menzogna ed illusione; perché alla sua base sussiste un torto e una disuguaglianza sostanziale, tra coloro che detengono il potere e la grande schiera dei sottomessi, che Rancière chiama i senza parte: essi non sono riconosciuti parte dello Stato a pieno titolo, come i membri della classe dominante. Tuttavia, l’esistenza di questo torto non rende inutile il parlare di democrazia, ma ne costituisce l’essenza politica profonda: la democrazia non è uno Stato realizzato, ma il processo grazie al quale i senza parte acquistano consapevolezza di sé e pretendono di rovesciare il rapporto di servitù in cui si trovano: “Il torto è semplicemente il modo di soggettivazione entro cui prende forma politica la verifica dell’uguaglianza…Il torto istituisce un universale singolare, un universale polemico, associando al conflitto delle parti sociali la manifestazione dell’uguaglianza, come parte dei senza parte”(57)[1].
Se l’uguaglianza è riconosciuta come principio, ma in effetti lo Stato esclude una parte dei senza parte dalla cittadinanza, allora chiederne un’applicazione più completa ed estesa significa riattivare il conflitto tra chi è privo di diritti e chi li possiede.
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L’Europa e noi, tra passato e futuro
di Rossana Rossanda
Dalle radici dell'idea europea al vizio originario dell'euro, che presenta il conto con la crisi attuale. Cosa può fare la politica? Le conclusioni di Rossanda al forum "La rotta d'Europa", che ha sviluppato alcune prime proposte possibili, contro le tendenze criminali della finanza, l'ineguaglianza crescente, il rigore che si accanisce su chi ha meno
A luglio, quando è precipitata la crisi greca, ho chiesto ad alcuni padri dell’Unione europea se e quale era stato l’errore nell’impianto ormai scricchiolante della Ue. Con Sbilanciamoci e Opendemocracy è iniziata una discussione che si è presto spostata dal “perché” si è arrivati a questo punto al “che cosa fare perché la situazione non si aggravi”. Ad essa hanno portato contributi preziosi molti economisti e sociologi, e sarà pubblicata interamente come ebook. In essa si sono confrontate alcune voci, peraltro interessanti, che hanno proposto l’uscita dall’euro dei paesi in maggiore difficoltà, primo la Grecia, mentre la maggioranza ha ragionato su come mantenere l’euro e la Ue dandole un nuovo indirizzo. Condivido queste ipotesi correttive, esposte da Mario Pianta su sbilanciamoci e sul manifesto del 6 novembre. Ma quali forze politiche le porteranno avanti?
Il nodo sociale dell'Europa
L’Europa è nata male. Una federazione europea, che era stata un ideale antifascista di pochi, sarebbe diventata più forte con la vittoria sul nazismo e sul fascismo: l’orrore del secondo conflitto mondiale avrebbe finalmente indotto il bellicoso continente ad andare a una pace perpetua dotandosi d’una qualche struttura federale. E pareva ovvio che un’avanzata democrazia sociale ne sarebbe stata la natura e il fine.
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Le lezioni del capitale
Che cosa ci rivelano l’assassinio di Gheddafi e l’osceno tripudio della Clinton
di Franco Soldani
Solo chi nuota controcorrente può sperare di risalire alla fonte.
Lao Tze
Premessa
A partire dall’11 settembre 2001, la data chiave con cui si apre veramente, e non solo sul piano cronologico, il nuovo secolo, le diverse amministrazioni statunitensi, coadiuvate in questo da tutto l’Occidente di cui sono la superpotenza dominante, ci hanno fatto precipitare in un mondo alla rovescia in cui viviamo ancora oggi. In particolare oggi direi, dopo dieci lunghi anni di rodaggio della nuova macchina della propaganda. E un decennio di stress collettivo a seguito della “war on terror” seguita a quell’avvenimento cruciale. Non a caso. Come ci spiega infatti Edward Hunter, <<la gente è molto più impressionabile dalla propaganda quando è già in un intenso stato di tensione>>. È per questo che tendono a tenerci permanentemente sulla corda. Con tutti i mezzi. Soprattutto, è appena il caso di dirlo, tanto è manifesta la cosa, con le varie forme di terrorismo che sanno orchestrare così bene.
Indipendentemente dalla nostra volontà e persino contro di essa, siamo ormai entrati in un lungo viaggio come quello di Alice, senza alcuno specchio però da attraversare. La sua superficie, anzi, ci rimanda nuovamente le immagini più consuete e ordinarie della realtà, e ci ripete di non aver nient’altro da mostrarci. Questo è tutto quello che c’è. E tu uomo più non dimandare.
Da questo punto di vista, la megamacchina in questione funziona ormai perfettamente e l’attuale presidente degli Stati Uniti, che ne ha preso formalmente il volante o, se si vuole, si è impadronito del suo joy stick, può con confidenza affidarsi al regno metaorwelliano che gli odierni Megamedia, con tutto il tenebroso fascino di una creazione dal nulla, hanno disegnato appositamente per noi. In questo reame delle loro brame finalmente realizzato si assiste ormai ad una inedita pièce postnovecentesca:
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Perseverare è diabolico
Dialettica del postmodernismo
Maurizio Ferraris
Se guardiamo al cuore filosofico del postmoderno ci troviamo di fronte a un paradosso istitutivo. L’idea di fondo era quella di una grandissima istanza emancipativa, che affondava le sue radici in Nietzsche (che a giusto titolo Habermas, nel Discorso filosofico della modernità, ha definito la «piattaforma girevole» che traghetta la filosofia verso il postmoderno) e ovviamente nella Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. La richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge a un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro sé stessa. Dopo avere adoperato il logos per criticare il mito, e il sapere per smascherare la fede, le forze decostruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela nel sapere l’azione della volontà di potenza. Il risultato è che ogni forma di sapere deve essere guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere. Di qui una impasse: se il sapere è potere, l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale (quello espresso lucidamente da Vattimo nel Soggetto e la maschera, che esce nel 1974 e che reca il sottotitolo emblematico Nietzsche e il problema della liberazione) l’emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favola, e in ultima istanza in ciò che Vattimo, molti anni dopo, definirà apertamente come un «addio alla verità». L’emancipazione girava a vuoto. Per amore della verità e della realtà, si rinuncia alla verità e alla realtà, ecco il senso della «crisi dei grandi racconti» di legittimazione del sapere con cui, nel 1979, Lyotard ha caratterizzato il postmodernismo filosofico. Il problema di questa dialettica è però, semplicemente, che lascia tutta l’iniziativa ad altre istanze, e l’emancipazione si trasforma nel suo contrario, come risulta evidente da quanto è accaduto dopo.
Questa dialettica infatti non ha semplicemente un versante storico-ideale, ma comporta delle precise attuazioni pratiche. Si incomincia appunto con le affermazioni decostruttive, tipicamente con tesi che mettono in dubbio la possibilità di un accesso al reale che non sia mediato culturalmente, e che, insieme, relativizzano il valore conoscitivo della scienza, seguendo un filo conduttore che da Nietzsche e Heidegger porta a Feyerabend e Foucault. Tolto il caso di Heidegger, dove l’elemento conservatore e tradizionalista è largamente prevalente, la decostruzione della scienza e l’affermazione del relativismo degli schemi concettuali fanno parte precisamente del bagaglio emancipativo che sta alla base dell’impulso originario del postmoderno, ma il loro risultato è diametralmente opposto. In particolare, le critiche alla scienza come apparato di potere e come libero gioco di schemi concettuali hanno dato vita a quello che potremmo chiamare un «postmodernismo conservatore».
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L'invasione
di Dante Barontini
Grandi cambiamenti in corso. QUalcuno trasloca, qualcuno si insedia...
Berlusconi oggi lascia la presidenza del consiglio. Domani sera Napolitano darà l'incarico a Mario Monti, dopo rapide “consultazioni” mattutine.
Come si inquadra la nuova situazione politica per i prossimi mesi o anni? Possiamo continuare a ragionare politicamente come qualche giorno fa?
Ci tocca usare un'immagine forte, per farci capire, altrimenti si continua a girare intorno al problema, a non vedere la “lettera scomparsa” che sta davanti ai nostri occhi.
La diciamo così: siamo stati invasi dalle forze di una coalizione molto potente.
Non è un'invasione fatta con i carri armati, ma con le squadre di ispettori della troika (Ue, Fmi, Bce). Sono venuti per cambiare la struttura di questo paese e resteranno tutto il tempo necessario (Van Rompuy è stato chiaro). Forse per sempre. L'immagine dei “commissari” che bloccano la presentazione in aula del maxi-emendamento, per controllare fino all'ultimo istante che contenga soltanto quello che loro avevano deciso, dà la misura del “dominio pieno” che gli invasori hanno subito preso a esercitare. Non servono nuove elezioni; il "programma politico" c'è, il personale per realizzarlo pure. La democrazia può attendere. Anzi, deve. Per quanto tempo? Non si sa, ma va bene così, state tranquilli, "siamo venuti in pace" (ricordate Mars Attack?).
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Il denaro è diventato obsoleto?
Anselm Jappe
I media e le istanze ufficiali ci stanno preparando: molto presto si scatenerà una nuova crisi finanziaria mondiale e sarà peggiore che nel 2008. Si parla apertamente di «catastrofi» e «disastri». Ma che cosa accadrà dopo? Come saranno le nostre vite dopo un crollo su vasta scala delle banche e delle finanze pubbliche? L’Argentina ci è già passata nel 2001. A prezzo di un impoverimento di massa, l’economia di questo paese ha potuto successivamente risalire un po’ la china: ma in quel caso, non si trattava che di un solo paese. Attualmente, tutte le finanze europee e nord-americane rischiano di sprofondare insieme, senza alcun salvatore possibile.
In quale momento il crack delle borse non sarà più una notizia appresa dai media, ma un evento di cui ci si accorgerà uscendo per strada? Risposta: quando il denaro perderà la sua funzione abituale. Sia rarefacendosi (deflazione), sia circolando in quantità enormi ma svalutate (inflazione). In entrambi i casi, la circolazione delle merci e dei servizi rallenterà fino a potersi arrestare totalmente: i loro possessori non troveranno più chi potrà pagarli in denaro, in denaro «valido» che gli permetta, a sua volta, di acquistare altre merci e servizi. Essi terranno quindi per sé quei servizi e quelle merci. Ci saranno magazzini pieni, ma senza clienti; fabbriche in grado di funzionare perfettamente, ma senza nessuno che ci lavori; scuole in cui i professori non si presenteranno più, perché privi di salario da mesi. Allora ci si renderà conto di una verità che era talmente evidente da non essere più vista: non esiste alcuna crisi nella stessa produzione. La produttività aumenta continuamente in tutti i settori. Le superfici coltivabili della terra potrebbero nutrire tutta la popolazione del globo e allo stesso modo le officine e le fabbriche producono molto più di quanto sia necessario, desiderabile e sostenibile. Le miserie del mondo non sono dovute, come durante il Medio Evo, a catastrofi naturali, ma ad una specie di incantesimo che separa gli uomini dai loro prodotti.
Quello che non funziona più è l’«interfaccia» che si pone tra gli uomini e ciò che producono: il denaro. Nella modernità, il denaro è diventato il «mediatore universale» (Marx). La crisi ci mette di fronte al paradosso fondativo della società capitalista: in quest’ultima la produzione di beni e servizi non è un fine, ma soltanto un mezzo. Il solo fine è la moltiplicazione del denaro, è investire un euro per riscuoterne due.
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Eric Hobsbawn, How to Change the World*
di Laura Cantelmo
Una storia delle sue applicazioni e di come nel socialismo reale si elaborò quella teoria dello stato che Marx e il suo sodale Engels non portarono mai a compimento. L'enorme influsso sulla cultura e sulla teoria politica desecolo ne rendono imprescindibili la conoscenza, l'approfondimento e il suo riconoscimento come formidabile metodo di analisi della società capitalistica e delle sue crisi.
Il “racconto” dell'evoluzione della teoria marxiana e l'individuazione dell'umanesimo insito in essa. La sua attualità è dimostrata dall'attenzione ad essa rivolta dagli economisti di scuola liberista. Una storia delle sue applicazioni e di come nel socialismo reale si elaborò quella teoria dello stato che Marx e il suo sodale Engels non portarono mai a compimento. L'enorme influsso sulla cultura e sulla teoria politica del XX secolo ne rendono imprescindibili la conoscenza, l'approfondimento e il suo riconoscimento come formidabile metodo di analisi della società capitalistica e delle sue crisi.
Marx: un fantasma che si aggira per il mondo e di cui il mondo non riesce a liberarsi. In tempi di anti-comunismo, di demonizzazione indiscriminata di quanto il comunismo reale ha prodotto, potrà forse sorprendere che le opere marxiane non siano mai veramente finite “in soffitta”, come polemicamente affermava Bordiga.
Il lavoro di Hobsbawn vuole essere un racconto più che una trattazione accademica o un manuale operativo per militanti.
Un racconto inevitabilmente serio, ma dal tono discorsivo, che ripercorre lo sviluppo della teoria marxiana e poi del marxismo documentando a partire dagli scritti giovanili la pervasività del pensatore Marx in tutta la cultura, la letteratura, le scienze umane.
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Italia, un 'regime change' senza armi
Enrico Piovesana
La soluzione ai nostri guai sarebbe quindi Mario Monti, tecnocrate che gode della piena fiducia dei mercati. Non stupisce, visto che l'ex commissario europeo è anche consulente di Goldman Sachs (la superbanca che ha causato il collasso greco che l'affossamento dei Btp italiani) e della Coca Cola, presidente europeo della Commissione Trilaterale di David Rockefeller e membro direttivo del potente club Bilderberg.
Ma come si è arrivati a questo?
Lo scorso luglio i mercati internazionali, soprattutto statunitensi (grandi banche d'affari, fondi d'investimento, agenzie di rating, multinazionali e compagnie assicurative) hanno scatenato il loro attacco speculativo contro l'Italia: non perché le condizioni economiche del nostro Paese fossero improvvisamente peggiorate, ma per la definitiva perdita di credibilità e di fiducia del governo Berlusconi.
Inizialmente sostenuto dai mercati internazionali per le sue promesse di 'rivoluzione liberale', ultimamente il Cavaliere, sempre più invischiato nei suoi scandali sessuali e concentrato a difendere i suoi interessi personali, veniva giudicato dai mercati irrimediabilmente inadeguato a portare avanti le riforme e le politiche economiche da essi richieste.
La crescente apprensione dei mercati si è tramutata in paura a giugno, con la vittoria del referendum contro la privatizzazione dell'acqua: un campanello d'allarme sulla pericolosa piega democratica che rischiava di prendere l'Italia nel vuoto di potere creato da Berlusconi.
In un Paese inaffidabile e indisciplinato come l'Italia, i mercati non potevano certo affidare il cambio di regime al popolo bue, rischiando di vedersi rieletto Berlusconi o di vederlo sostituito da un governo troppo sbilanciato a sinistra. Hanno giudicato più sicuro prendere direttamente il controllo dell'Italia con il pretesto dell'emergenza.
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Il default è un disastro ma è il male minore
di Guido Viale
Di quale crescita parliamo? Di rilanciare la produzione di suv, lavatrici e navi da guerra, o di tav, mose e ponti? Le ricette che hanno ucciso la Grecia ci preciterebbero nel baratro. Una polemica con Felice Roberto Pizzuti
«Un default azzererebbe il risparmio che i singoli cittadini/lavoratori, direttamente o indirettamente, hanno affidato allo stato, anche a fini pensionistici (...). Riguarderebbe anche le istituzioni del welfare, cioè il sistema pensionistico obbligatorio, gli ammortizzatori sociali e l'assistenza, il sistema sanitario nazionale, l'istruzione (...). Si estenderebbe alle banche e sarebbero colpiti anche i singoli correntisti (...). Priverebbe il sistema produttivo non solo del risparmio nazionale, ma anche del suo sistema bancario, con l'effetto di estendere la crisi all'economia reale (occupazione, consumi, prestazioni sociali, ecc) (...). Genererebbe seri rischi di altri fallimenti a catena nell'economia europea e mondiale. L'euro e la stessa Unione europea avrebbero molte difficoltà a sopravvivere (...). Bisognerebbe mettere in conto inevitabili reazioni, rivalse e un grave deterioramento delle relazioni internazionali (...). Sarebbe poi pressoché impossibile praticare politiche autonome che privilegiassero obiettivi sociali e ambientali».
Queste frasi, estratte da un articolo di Felice Roberto Pizzuti sul manifesto del 4 novembre, vorrebbero scongiurare il rischio di un default; e persino diffidare dal parlarne troppo, per paura che l'idea si diffonda per contagio. L'autore non sembra rendersi conto che quello che prospetta come conseguenza di una scelta politica per lui da evitare (blocco del welfare, paralisi di scuola e sanità, contrazione del circuito economico, disoccupazione, isolamento internazionale, azzeramento delle politiche ambientali, ecc.) non è molto diverso da quello che succede in Grecia con le misure imposte dalla cosiddetta troika. O dalla strada che l'Italia è destinata a percorrere se darà attuazione alle prescrizioni di Draghi e Trichet. Tutti sanno che la Grecia non si risolleverà per anni dallo stato di prostrazione economica e civile a cui la condannano quelle misure: la aspetta come minimo un «ventennio perso», come quello che il Fmi aveva imposto ai paesi dell'America latina alla fine del secolo scorso - e dal quale si sono risollevati solo quando ne hanno rigettato le prescrizioni.
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Comunismo fra Idea e Storia
Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa
di Costanzo Preve
1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l'identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l'idea e la pratica del comunismo.
In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L' idea di comunismo, Derive e Approdi, d'ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l'orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d'ora in poi GLG) concerne invece solo l'ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent'anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.
2. E' bene partire dai “fondamentali” per non perderci in due tipi di chiacchericcio, il solo che trova spazio nei giornaletti di “estrema sinistra” (Manifesto, Liberazione, eccetera), sedimentati dall'onda lunga della risacca del Sessantotto (da non confondere con l'anno solare 1968). Il Sessantotto vede in Europa Occidentale l'affermarsi incontrastato dell'incorporazione post-moderna del ceto intellettuale nelle strutture flessibili di un nuovo capitalismo “speculativo”, post-borghese, post-proletario e nello stesso tempo ultra-capitalistico, ed il pensare che l'idea di comunismo possa essere rilanciata all'interno di questa cultura di “sinistra” è forse l'impedimento più grande allo sviluppo di questo progetto.
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Colpo di Stato! Pino Cabras e Stefano G. Azzara' sulla situazione italiana

Monti, siamo pronti
di Pino Cabras
Il vero potere ha gettato la maschera e le ultime vestigia della semi-sovranità italiana sono state demolite, nell’annus horribilis della nostra Repubblica, dopo che anche la guerra di Libia aveva svelato la disfatta di ogni autonomia nazionale. Nessuna urgenza economica al mondo può giustificare un peggioramento così repentino degli interessi del debito - oltre la soglia del non ritorno, oltre le convenzioni del default tecnico - come quello del 9 novembre 2011.
Solo un concorso di volontà decise a imprimere una svolta rivoluzionaria poteva scatenare un attacco di questa portata, micidiale quanto un colpo di stato.
A suggello di un giorno trionfale per la sovversione dall’alto decisa a livello di classi dominanti globali, il Presidente della Repubblica ha nominato senatore a vita Mario Monti, il tecnocrate italiano più organico all’élite planetaria, un vero cardinale del pensiero unico economico, uno dei padri nobili del feroce disastro sociale di questi anni, il babbo insensibile di tutti i precari, il fratello coltello di tutti i pensionati. L’uomo di Rockefeller e della Goldman Sachs, della Commissione Trilaterale e del Gruppo Bilderberg.
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Tutto tranne democrazia
Claudio Messora
Sta succedendo qualcosa. Qualcosa che va oltre la crisi economica: sembra più che altro una crisi di sovranità. E non è la questione di lana caprina che tanto sembra preoccupare i nostri editorialisti di punta, ovvero se sia giusto o meno farsi commissariare dalla UE e dall'FMI rinunciando così - formalmente e pro-tempore - al possesso delle nostre stesse chiavi di casa. E' qualcosa di più profondo, una trama nella trama che si può provare a spiegare in molti modi diversi, ma che non è prudente lasciare che si dipani mentre l'attenzione generale si concentra su alcuni personaggi e non su altri.
L'interesse che i mercati finanziari e le istituzioni globali dimostrano da qualche tempo nei nostri confronti è sotto gli occhi di tutti, certo, ma non è che la parte superiore dell'iceberg, quella sberluccicante sotto ai raggi del sole. I giornali e le televisioni (chi più, chi meno) ci spiegano che siamo commissariati da una terna di ferro, composta dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Unione Europea e dalla Banca Centrale Europea (BCE). Un accerchiamento totale al quale il gioco della speculazione internazionale ci consegna senza possibilità di fuga. Per il nostro stesso interesse - si dice - e per quello dei sottoscrittori del nostro debito dobbiamo realizzare una serie di riforme. E poiché non siamo più credibili, forti pressioni costringono il Governo in carica a rassegnare le sue dimissioni, nonché tutto un popolo a rinunciare alla propria autodeterminazione. Mutatis mutandis è più o meno quanto è accaduto in Grecia.
Il principio più incredibile che viene sostenuto senza il benché minimo stupore sarebbe quello secondo cui la politica da sola non può realizzare misure impopolari, perché avrebbe il timore di giocarsi il consenso elettorale, per cui sarebbe imperativo affidare le riforme necessarie a un governo di larghe intese, oppure al cosiddetto governo tecnico, magari sotto la direzione di un podestà forestiero. Cosa significa?
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Sovranità e ritorno alla centralità della "politica"
Massimiliano Piccolo
La realtà ci offre, come sempre, infiniti spunti. La globalizzazione priva di aggettivazioni è stata smascherata dai fatti, si è rivelata per quello che è: il tentativo di governo economico, politico e ideologico del capitale nei modi possibili della sua attuazione.
Si tratta di un tentativo fallito per le contraddizioni insanabili che questo processo genera da sé. Fallimento riconosciuto da tutti. Parallelamente anche la tesi storiografica e politologica sulla presunta estinzione degli stati-nazionali mostra tutta la sua debolezza scientifica. L’inferenza logica cercata e, da taluni, auspicata era, conseguentemente, l’impossibilità e quindi l’inutilità della presa del potere. Mancando il luogo, lo spazio, della direzione politica, l’inversione di rotta è impossibile era affermato come Verbo, per cui meglio guardare a soluzioni possibili (cioè compatibili col modo di produzione capitalista). Qualcuno ringrazia per tanta grazia; certamente non i lavoratori né tutti quelli che hanno a cuore margini più ampi di partecipazione democratica e collettiva alle scelte politiche. Crisi della sovranità si dice. E sia. Crisi, però, non significa estinzione o annichilimento ma trasformazione possibile: nulla è già scritto.
La costruzione economica dell’Europa, sotto la spinta della globalizzazione capitalistica, ha determinato un vuoto politico sempre più marcato ma gli Stati europei, com’è sotto gli occhi di tutti, non si sono disintegrati, hanno parzialmente alienato un surplus o un residuo di sovranità: quelli che si candidano alla guida del nuovo polo imperialistico europeo, infatti, alienano il surplus funzionale alla creazione della nuova entità statale, mentre gli altri, che ne costituiscono il serbatoio iniziale, alienano invece il loro residuo di sovranità.
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Il destino dell’intellettuale
di Rino Genovese
Che cosa voglia dire essere un intellettuale è diventato oggi così problematico in confronto a ciò che poteva significare ieri, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, quando il significato del termine era ancora del tutto evidente a chi fosse inserito nel gruppo sociale detto intellighenzia (con un termine russo ricalcato sul francese e ritornato attraverso uno strano détour in Occidente), come pure al pubblico dei lettori di giornali e di libri identificabile in una ristretta élite, che una ripresa della vexata quaestio rischia di vedere scomparire il suo oggetto sotto gli occhi nel momento stesso in cui si accinge a parlarne. Uno scrittore, un artista, uno studioso facevano parte di un piccolo mondo obiettivamente attrezzato all’elaborazione e alla diffusione della cosiddetta alta cultura; e soggettivamente potevano sentirsi degli intellettuali in quanto erano riconosciuti come tali da un pubblico, e tra loro stessi in modo reciproco, in rapporto a un’impresa comunicativa di portata più ampia, che era poi quella della società in generale. Ciò poteva avvenire sia nel segno di una spinta in senso illuministico sia in quello di un richiamo alla tradizione in chiave antilluministica. Appare infatti come suo fatale marchio d’origine che il termine intellectuel sia divenuto di uso corrente in Francia durante l’affare Dreyfus, e che quindi si sia situato da subito nel vivo della polemica tra i valori dell’universalismo democratico e liberale e quelli del nascente nazionalismo antidemocratico e, nel caso specifico, anche antisemita. I contendenti dei due schieramenti si scontravano in nome di uno stesso insieme di valori, declinandoli però in modo opposto. Gli uni puntavano su quelle che agli altri sembravano semplici astrazioni – la verità, lo Stato di diritto, la democrazia –, e i secondi erano denunciati dai primi in quanto cultori delle radici tradizionali a scapito della verità e della giustizia. Sia per i dreyfusardi sia per gli antidreyfusardi, tuttavia, era assodato che la letteratura, il lavoro culturale, fossero altra cosa dalla pura costruzione di effetti estetici o, peggio ancora, un mezzo per cercare di far soldi e basta; che fossero, cioè, modi di assunzione di una responsabilità sociale.
Questo almeno è ciò che essi pensavano di se stessi, la maniera in cui concepivano enfaticamente la propria missione.
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11 novembre cosa faremo?
di Franco Berardi "Bifo"
L’interminabile imbarazzante agonia del governo Berlusconi annuncia e proroga lo scontro vero. Il mammasantissima è stato così occupato a far gli affari suoi che non ha avuto tempo di portare ad esecuzione i diktat della banca centrale europea. Per questo cercano ora di farlo fuori coloro stessi che lo avevano invece sostenuto o tollerato quando le sue colpe erano soltanto quelle di favorire la mafia e l’evasione fiscale, distruggere la scuola pubblica, comprare deputati e senatori, corrompere i giudici e seminare ignoranza e servilismo per mezzo del monopolio mediatico che gli è stato consentito accumulare.
Ora che si rivela incapace di stringere il cappio al collo della società italiana, perché non ha la forza e la credibilità per strangolarci ecco efficienti aguzzini apprestarsi a prendere il suo posto, perché a loro il polso non trema. Incitati da un Presidente inflessibile solo quando si tratta di salvaguardare gli interessi della classe finanziaria globale, i cani latrano tirando sul laccio che li trattiene. Vogliono azzannare gli efficienti adoratori dell’impietosa divinità che si chiama Mercato. Ma non c’è più nessun mercato, in verità, solo un campo di battaglia.
Di là l’esercito aggressivo dei predoni accumula bottino – privatizza i servizi, licenzia, aumenta le ore di lavoro straordinario non pagate, nega la pensione a chi l’attende con buon diritto, elimina spese inutili come la scuola e la sanità. Di qua l’esercito disordinato dei lavoratori trasformato in esercito di precari poveri senza speranza, arretra lanciando urla che promettono una vendetta che non verrà, perdendo metro dopo metro i suoi pochi averi, il prodotto dei suoi risparmi e del suo lavoro, la speranza di mandare i figli a scuola.
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Viva l’Italia, ma quella del 99%
di Augusto Illuminati
Non siamo eguali! Non siamo assolutamente eguali! Gliel’ha gridato così bene Vanessa in faccia a Diego Della Valle durante Servizio pubblico di Santoro che non è il caso di aggiungerci niente. Una scarpa in faccia allo scarparo mastelliano. Sì, il 99% non è eguale al residuo 1% e poco importa se quell’1% sia composto da politici corrotti o da politici falliti, da imprenditori di successo o da magliari assatanati. Ci dividono il reddito e i progetti, il bilancio del passato e le volontà di futuro. La divisione non passa fra generazioni o fra politica e società civile, non passa neppure fra garantiti e non garantiti –come vorrebbero compassionevoli riformisti e allucinati insurrezionalisti– ma fra chi pratica la democrazia e rifiuta di pagare la crisi e chi usa la crisi per accrescere i profitti e strangolare la democrazia. Di volta in volta (e fa poco differenza, se non tattica) in nome del partito della gnocca o delle larghe intese, dell’Europa o della sovranità nazionale, della Bce o di Bankitalia, rinserrati nel bunker di Bab al-Graziolya o indaffarati a comporre un governo da Fini a Di Pietro. Il partito dell’amore contro il partito della sfiga. E finiamola pure con il moralismo, perché è spassoso ridere di Scilipoti e Brunetta, ma –siamo oggettivi– che dire di Rutelli o di Bocchino, delle bischerate di Renzi o di Fini passato dalla sala operativa di Genova 2001 alle risse di Ballarò? Eguali un cazzo! E le intercettazioni di Lavitola dovrebbero distrarci dai guai che ci arrivano dalla corrispondenza di Draghi o dagli impegni libici di Napolitano e dai suoi appelli sacrificali? Tutti i “regalini” del cavalier Pompetta alle olgettine sono molto meno dei soldi che dobbiamo cacciare di tasca nostra per salvare le banche, sanare le difficoltà delle multinazionali e bombardare, in conto Usa, ieri la Libia domani l’Iran.
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