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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Richard Walker
Il ciclo di interviste a teorici eterodossi a cura degli attivisti della Campagna Noi Restiamo continua. Siamo ormai arrivati all’ottava intervista e la parola va a Richard Walker. Walker è professore emerito presso il Dipartimento di Geografia della University of Berkely (California).
La sua ricerca si concentra sulla geografia economica, lo sviluppo regionale, il capitalismo e la politica, le città e l’urbanizzazione, le risorse e l’ambiente, la California e infine su tematiche legate a classe e etnia. Il suo lavoro più conosciuto per quanto riguarda la geografia economica è il libro The Capitalist Imperative: Territory, Technology and Industrial Growth (Blackwell, 1989), scritto con Micheal Storper. Fa parte del Board of Directors del progetto “Living New Deal”, che punta a raccogliere e mostrare i risultati raggiunti dal piano di riforme economiche e sociali promosso da Franklin Roosevelt.
Noi Restiamo: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono.
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Monete locali come ipotesi di uscita dalla moneta capitalistica?
di Paolo Rabissi
Ci sono attualmente in circolazione circa 5000 monete locali nel mondo, anche in regioni europee, Germania e Italia comprese. Per qualche esperto si tratta di esperimenti di possibile successo anche in senso antagonista grazie a certi loro aspetti alternativi al mercato e alla crescita a tutti i costi. Ma i dubbi sono molti
C’è nella proliferazione delle monete complementari e/o alternative, sia pure di livello locale (o magari proprio per questo), qualcosa per cui le si possa avvicinare alle iniziative caratterizzate dal ‘prendersi cura’? E’ una domanda che volentieri vorremmo porre (non mancherà l’occasione) alla stessa Silvia Federici e alla quale tuttavia verrebbe a un primo esame da rispondere affermativamente. Le cose in realtà sono più complicate, come vedremo.
Breve parentesi: complicazioni o meno facciamo nostro l’invito di Federici a dare fiducia ai progetti sperimentali anche se non sono immediatamente di marca antagonista, ci interroghiamo, al di là della loro capacità di collegarsi con le molteplici realtà di movimento, se si muovono in un’ottica che riesca a far proprie anche istanze concrete provenienti dal mondo del lavoro cosiddetto di cura o riproduzione. Per non agitare solo problemi teorici richiamo ad esempio qui, anch’io come Romanò, l’esperienza della Ri-Maflow, la fabbrica milanese occupata e trasformata in un punto d’eccellenza del riciclo elettronico, che dunque pratica una logica rigenerativa delle risorse e che contemporaneamente in spazi liberati della fabbrica organizza un mercato permanente dell’usato, un laboratorio per il riuso di apparecchi elettrici ed elettronici, un Gas e un’attività di autoproduzione con prodotti del Parco agricolo Sud Milano e di SOS Rosarno (a cui fornisce una logistica alternativa alla grande distribuzione), una palestra, una sala musica, corsi, eventi culturali e spettacoli, un ostello per migranti e senza casa (più notizie qui ).
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Il teorema di Maastricht e la sua confutazione
di Davide Tarizzo
L’attuale strozzatura della vita democratica in Europa si può ricapitolare in un solo e unico teorema, che non si può ridurre al teorema dell’euro, già ampiamente smentito dai fatti, ma va identificato con il teorema di Maastricht, più inclusivo e insidioso del primo. In base a questo teorema, l’integrazione economica tra i vari paesi europei può essere disgiunta, come di fatto accade tuttora, dalla loro integrazione politica. Ciò implica una lunga serie di conseguenze che non erano difficili da prevedere: una delle più rilevanti è che paesi con discrepanti legislazioni sul lavoro saranno lasciati competere in un mercato unico, affidando al capitale la valutazione sulla legislazione più conveniente per il capitale stesso. I capitali tenderanno, di conseguenza, a concentrarsi là dove i salari sono meno tutelati, per incrementare i profitti, mentre i paesi in cui i salari sono più protetti tenderanno ad adeguarsi e ad abbassare le tutele sul lavoro, per recuperare competitività, in una spirale al ribasso senza fine. Questo processo è automatico e oggettivamente inevitabile se l’integrazione economica non è preceduta da, o associata a, una qualche forma di integrazione politica. È inevitabile perché le legislazioni nazionali sono così lasciate in balia del capitale, che tende automaticamente, necessariamente, oggettivamente a fare i propri interessi. È questo che chiamo il teorema di Maastricht.
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Michel Foucault e la critica dell’ideologia
I Corsi al Collège de France
di Orazio Irrera*
Nella lezione del 30 gennaio del suo Corso del 1980 al Collège de France Del governo dei viventi, Foucault ribadisce il suo rifiuto di analizzare «il pensiero, il comportamento e il sapere degli uomini» nei termini di un’analisi ideologica, aggiungendo che, praticamente ogni anno, durante ogni suo corso, egli è ritornato su questa esigenza di smarcarsi da una prospettiva segnata dall’ideologia, operando ogni volta un piccolo spostamento per conferire così alla sua critica nuove forme di intelligibilità1. Questa mobilità, così caratteristica del modo di condurre il proprio lavoro teorico, non deve tuttavia farci perdere di vista il fatto che se Foucault, nell’arco di circa un decennio, si è così insistentemente soffermato sulla critica dell’ideologia, è perché, presumibilmente, tale nozione rappresenta per lui – seppur negativamente – un nodo teorico e metodologico di grande rilevanza. Infatti attraverso tutta questa serie di considerazioni critiche sulla reale capacità esplicativa della nozione di ideologia, risulta possibile far apparire, quasi in filigrana al suo insegnamento, un percorso teorico che lo attraversa sotterraneamente dalla fine dall’inizio degli anni ’70 fino ai primi anni degli anni ’80.
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Antropomorfosi del capitale
di Sandro Moiso
Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi 2015, pp. 254, € 18,00
Difficilmente Marx, quando scrisse le sue pagine sulla sussunzione reale di tutti i processi di produzione e valorizzazione delle merci all’interno del capitale e, quindi, della sua completa appropriazione di ogni attività umana, avrebbe potuto immaginare che si potesse giungere alla situazione affrontata dalla ricerca di Melinda Cooper e Catherine Waldby.
Un testo importante che induce, necessariamente, a rivedere gran parte della storia del lavoro in regime capitalistico e delle strategie messe in atto per mantenere nelle mani del capitale il comando sulla forza-lavoro, anche laddove si siano rese necessarie delle riforme “democratiche” per la sua gestione.
Una ricerca che, guarda caso, ha avuto modo di svilupparsi a partire dal mondo anglo-sassone, in cui il pragmatismo degli obiettivi da raggiungere impone il superamento dell’attività meramente speculativa e permette, perciò, di conseguire risultati concreti nella ridefinizione dei nuovi contesti operativi con cui l’antagonismo sociale si trova oggi a fare i conti. Svolta a partire dall’ambiente universitario di Sidney che ha aiutato significativamente, anche dal punto di vista economico, le due autrici, come le stesse tendono a precisare fin dai ringraziamenti.
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La conferenza ad Atene
di Jacques Sapir
Jacques Sapir racconta della conferenza organizzata ad Atene, che finalmente contempla in maniera esplicita la possibilità per la Grecia di uscire dall’euro. Questa conclusione pare obbligata in ogni caso, ma occorre che la politica si muova per evitare che essa avvenga in maniera conflittuale e disordinata. La conclusione del grande economista francese è che, per evitare catastrofi, l’Europa deve abbandonare la moneta unica al più presto
La conferenza organizzata dal settimanale The Economist sul rapporto tra la Grecia e i suoi creditori ha consentito una discussione molto franca sulla possibilità di un’uscita della Grecia dell’euro. Questa idea, pur se ancora provoca una sensazione di paura e di incertezza in una parte del pubblico, comincia ora ad essere molto più accettata. Un’ipotesi che è stata quindi discussa nell’ambito di questa conferenza è stata quella di un’ ‘uscita di velluto’ (velvet exit). Si noti il riferimento al processo di separazione tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia, che a suo tempo fu chiamato “rivoluzione di velluto”. Il fatto che questa ipotesi possa essere discussa e valutata dai molti partecipanti a questa conferenza, sia greci sia stranieri, è un segno inconfondibile del progresso dell’idea di un’uscita dall’euro. Essa corrisponde a ciò che l’ex Presidente Francese, Valéry Giscard d’Estaing ha definito, alcune settimane fa, un “GREXIT amichevole”.
Questa conferenza ha riunito, sotto la guida della signora Joan Hoey, che dirige l’edizione locale dell’Economist, e che è anche una conosciuta analista della situazione locale, insieme al vice ministro degli affari esteri, signor Euclid Tsakalatos e a Nikos Vettas, direttore della Fondazione per la ricerca economica e industriale e professore di economia presso l’Università di Atene, vari accademici:
- Andreas Nölke, professore di economia e relazioni internazionali, dell’università Goethe di Francoforte.
- Henk Overbeek, professore di relazioni internazionali all’Università di Amsterdam.
- Giovanni Dosi, professore di economia e direttore degli studi economici presso l’Università di Pisa.
Oltre al sottoscritto.
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“Era necessario il capitalismo?”, di Hosea Jaffe
Un libro per chi?
di Pietro Piro*
Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa.
K. Jaspers. La questione della colpa
I.
La tesi centrale del libro di Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?” è tanto chiara, quanto difficile da accettare. Per l’autore, infatti:
"Il capitalismo fu e resta il modo di produzione più distruttivo della storia umana." (H. Jaffe, Era necessario il capitalismo? Jaka BooK, Milano 2010, p. 154).
Ricostruendo la storia dell’umanità, l’autore smonta pezzo per pezzo, l’idea che il capitalismo sia la fase necessaria e inevitabile, di una storia umana sempre più improntata al miglioramento e al benessere degli individui. Il capitalismo è una forma distruttiva e altamente involutiva:
"Il modo di produzione capitalistico e la sua struttura sociale furono peggiori del modo di produzione comunitario, di quello schiavista e delle rispettive strutture sociali in termini di condizioni di vita, di sopravvivenza fisica, di condizioni lavorative, di possibilità di scelta personale, di libertà, di relazioni fra sessi, di coesione sociale, di cooperazione e socialità, salute, educazione, standard etici, libertà di culto, accesso ai prodotti di consumo, pace tra i popoli, rispetto degli altri. Sarebbe corretto sostenere inoltre che il capitalismo fu peggiore anche rispetto all’altro modo di produzione più diffuso, etnicamente inclusivo e universale, ovvero quello del dispotismo comunitario (…)." (ivi, p.30).
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L'austerità non funziona per la ripresa ma solo per distruggere la democrazia
di Quarantotto
1. Ancora sulla ripresa fantasma, "a dispetto del QE" e delle sue attese irrealistiche.
"Le famiglie non spendono e lasciano in banca oltre 30 miliardi di euro in un anno: vuol dire che ogni mese vengono accantonati 2,5 miliardi. Negli ultimi 12 mesi è passato infatti da 861 a 891 miliardi, in aumento di oltre il 3%, l'ammontare delle riserve degli italiani.
"C'è paura di spendere e paura di investire, paura di nuove tasse o di ulteriori difficoltà coi bilanci'', spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. Una tendenza seguita anche dalle aziende e dalle imprese familiari, con i salvadanai cresciuti, rispettivamente, di 13 miliardi (da 190 a 203 miliardi) e di 2 miliardi (da 43 a 45 miliardi), oltre che dalle onlus (+717 milioni) e dagli istituti di credito (+32 miliardi); in leggero calo i depositi delle assicurazioni (-1,3 miliardi). Complessivamente, le provviste finanziarie sono salite di 78 miliardi (+5%) passando da 1.457 miliardi a 1.535 miliardi.
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Creditocrazia
Andrew Ross
Anticipiamo un estratto da Creditocrazia e il rifiuto del debito illegittimo (ombre corte, 2015) in libreria da mercoledì 18 marzo. In questo lavoro di inchiesta e di denuncia, Andrew Ross analizza nei dettagli il funzionamento della schiavitù del debito, il ruolo delle banche, la subalternità della politica. Spiega i motivi per cui possiamo parlare di una vera e propria “creditocrazia”, di un sistema cioè in cui i governi rispondono esclusivamente al mondo della finanza, mentre i cittadini sono costretti a indebitarsi per soddisfare i propri bisogni primari.
Quando spingono per l’adozione di politiche di austerità, i falchi del deficit invocano spesso una giustizia intergenerazionale: è ingiusto trasmettere ai nostri figli e nipoti enormi debiti pubblici. Ma i debiti pubblici sono ben lungi dall’essere quella minaccia o quel peso oneroso così come ci vengono dipinti dai sostenitori dell’austerità. Probabilmente, sarebbe più ingiusto tramandare alla prossima generazione una democrazia gravemente compromessa, in cui ogni attività domestica è un mercato aperto ai creditori per estrarre rendita.
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Sulla produttività l’Italia è ferma agli anni Novanta
di Roberto Romano
Dagli anni novanta tutte le "riforme" del mercato del lavoro sono state legate a una visione neoliberista per cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato
Le riforme
Dagli anni novanta i governi sia di centro destra sia di centro sinistra hanno introdotto diversi cambiamenti al mercato del lavoro, in nome della competitività e dei giovani, ma nei fatti tutte le riforme sono strettamente legate a una visione neoliberista secondo cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato. Termini come pensione di anzianità e retributiva, liquidazione, CCNL, contratto a tempo indeterminato e reintegro del lavoratore hanno perso progressivamente significato a favore di parole come flessibilità in entrata e uscita, deregolamentazione, precarietà, collocamento privato e libertà di contrattazione fra il datore di lavoro e il lavoratore.
Nel 1995 (legge 355/1995) il passaggio del sistema pensionistico dal metodo retributivo (la pensione è calcolata in proporzione agli ultimi anni di salario) a quello contributivo ( la pensione viene calcolata in funzione dei contributi versati durante l’arco della vita lavorativa) e l’istituzione della gestione separata dell’Inps è stato il primo passo verso lo smantellamento del modello di lavoro in essere dagli anni settanta grazie all’approccio bipartisan da parte delle forze politiche.
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Scienza della letteratura e critica della vita
Note su “The Bourgeois” di Franco Moretti
Raffaello Palumbo Mosca
Uscito nel 2013, “The Bourgeois” di Franco Moretti non ha ricevuto in Italia tutta l’attenzione che merita. Si tratta tuttavia di uno dei frutti più maturi delle digital humanities e del metodo del distant reading. La riflessione su questo metodo porta inoltre a interrogativi ancora più generali sullo statuto della critica letteraria
Il libro
Pubblicato nel 2013 presso la casa editrice Verso e subito entusiasticamente recensito da tutte le maggiori riviste americane e inglesi, The Bourgeois. Between History and Literature di Franco Moretti non ha avuto, in Italia, l’attenzione che merita. Ed è stata un’occasione persa. Innanzi tutto perché questo volume è, a oggi, il frutto più maturo e interessante delle digital humanities e in particolare di quel metodo di distant reading i cui vantaggi Moretti illustrava già in Graphs, Maps, Trees: Abstract Models for a Literary History del 2005. Ma The Bourgeois è anche ‒ forse soprattutto ‒ uno studio nel quale la virtuosistica capacità dell’autore di bilanciare e perfettamente intrecciare l’analisi storica e teorica, l’analisi dei dati e quella più propriamente critico-letteraria, tocca il suo apice.
Il risultato, notevolissimo, è uno studio che, per quanto agile, non solo riscrive e analizza in modo originale la storia e il declino della borghesia europea, ma ci consente anche di guardare da una prospettiva nuova e diversa le tecniche letterarie di volta in volta utilizzate nel corso di due secoli. Da una parte, quindi, Moretti rifiuta ‒ come vorrebbe una lettura ormai sclerotizzata di Simmel, Weber, Sombart e altri ‒ di identificare borghesia e capitalismo come due facce della stessa medaglia, o di ridurre il borghese all’etica del lavoro (come lo stesso Weber sembrava inclinato a fare), per restituirci invece una storia più complessa e sfaccettata, in grado di illuminare sia le contraddizioni interne alla borghesia stessa, sia l’ambiguo rapporto che essa intrattiene con lo sviluppo del capitalismo europeo.
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Che cos’è un governo?
di Sandro Chignola
Impiantare la verticalità dell’organizzazione sull’orizzontalità dei movimenti, si è detto. Bene. Forse vale la pena tornare su quest’espressione per provare a chiarirne il senso. Ciò a cui pensiamo non cambia nulla di ciò su cui abbiamo insistito in questi anni. Per dirlo altrimenti, e forse in modo ancor più radicale, il piano della critica della rappresentanza politica su cui ci siamo assestati negli anni – anche in momenti nei quali altri pensava di poter sfruttare il momento favorevole e capitalizzare una rendita di posizione impancandosi a portaparola dei movimenti o di quello che allora si chiamava il «movimento dei movimenti» – definisce per noi un punto inaggirabile. Quando parliamo di verticalità non parliamo di rappresentanza, ma di vettori organizzativi, di forza, di dinamiche costituenti. Vale allora la pena di chiarire un paio di cose. La prima: il processo rappresentativo alimenta processi di spoliticizzazione nell’esatta misura in cui lavora alla produzione di sintesi unitarie. La seconda: è il modo in cui vengono evolvendo equilibri politici e costituzionali che si assestano oltre gli assetti classici della rappresentanza politica a marcare il punto di soglia che ci spinge a confrontarci con la riemersione del fatto di governo.
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Ucraina: storia di un cappio al collo
di Alexik
In questi tempi di conflitto, uno dei refrain più ricorrenti nella retorica bellica del presidente ucraino Petro Porošenko è quello che imputa a Putin di “volersi appropriare delle fertili terre ucraine”.
Io non vorrei dirglielo, ma mentre il “re del cioccolato”1 passa in rassegna le truppe in partenza per le regioni ribelli, ho l’impressione che le fertili terre ucraine se le stia per accaparrare qualcun altro. E con la sua piena complicità, visto che è stato proprio Porošenko, a firmare l’accordo di libero scambio fra Ucraina e Unione Europea (DCFTA – Deep and Comprehensive Free Trade Area), e ad ottenere un nuovo prestito dal Fondo Monetario Internazionale. Due atti che sul così detto “granaio d’Europa” avranno notevoli conseguenze.
Storia di un cappio al collo
Originariamente, il DCFTA doveva essere siglato a Vilnius nel novembre 2013 dall’allora presidente Viktor Janukovyč. L’accordo era collegato a un prestito di 17 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale, che portava con se il solito corollario di misure di aggiustamento strutturale. La squadra del FMI in visita a Kiev in ottobre, le aveva così elencate:
Risanamento del bilancio dello Stato tramite un drastico taglio della spesa pubblica, da perseguire grazie al taglio dei sussidi, al contenimento dell’occupazione ed alla moderazione salariale nel pubblico impiego. Rinvio a data da destinarsi di eventuali tagli delle tasse.
Liberalizzazione del settore energetico, aumento delle tariffe del gas per le famiglie.
Costruzione di un clima amichevole per il business tramite riforme strutturali (in pratica la rimozione di lacci e lacciuoli).
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L’identità occidentale e i suoi nemici
Andrea Zhok
1. La chiamata alle armi
A commento dell’attentato a Charlie Hebdo sulla prima pagina del Corriere della Sera del 10/01/2015 campeggiava un articolo del noto editorialista Piero Ostellino, dal titolo “Il buonismo che ci accieca”. Secondo l’autore l’Occidente (e l’Italia in particolare) soffrirebbe di “un’identità ambigua e compromissoria”, e il nostro “buonismo retorico, politicamente corretto” sarebbe incapace di guardare la realtà, portando solo a “patetiche invocazioni al dialogo”. I responsabili di questa nostra identità fragile e inetta di fronte all’aggressività teocratica dell’Islam sarebbero innanzitutto una “sinistra che non sa e non vuole darsi un’identità” e, in seconda battuta un “Papa pauperista”, che, si inferisce, non farebbe quanto in suo potere per difendere la nostra identità. Il messaggio di fondo lo si trova riassunto verso la chiusa del pezzo: “Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro.”
La posizione di Ostellino, peculiarità stilistiche a parte, non è affatto idiosincratica. Pur giocando su toni che vogliono apparire ‘contro corrente’ si tratta di una posizione per certi versi esemplare di un orientamento culturale da tempo crescente, e non solo in Italia.
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Draghi, Hamilton e i creditori contro la democrazia
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
In un recente editoriale su Repubblica, Eugenio Scalfari paragona Mario Draghi, attuale Presidente della Banca Centrale Europea, ad Alexander Hamilton, il primo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti d’America (dal 1789 al 1895). Draghi sarebbe l’Hamilton dell’Unione Europea. È un paragone che Scalfari riprende da un articolo apparso sul Foglio a firma di Aresu e Garnero, in cui si spiega come “Hamilton, per migliorare le aspettative dei creditori, usò con determinazione l’unico strumento concreto di cui disponeva: la creazione di un’unione fiscale con un allineamento di istituzioni e di interessi in grado di aumentare la reale probabilità di pagamento da parte del governo federale”. Ovvero: l’integrazione fiscale degli stati come modo per rassicurare i creditori e per difenderne gli interessi.
Anche Draghi ha in più occasioni invocato il completamento dell’unione fiscale tra gli stati membri dell’Eurozona, sostenendo che senza unione fiscale non può esserci alcuna unione monetaria funzionante, né convergenza economica.
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Le ultime battaglie
Il maggio parigino del 1968
di Robert Kurz
Il maggio '68 in retrospettiva
Chi non si ricorda del maggio parigino? Anche chi non c'era perché era nato troppo tardi, se lo ricorda sulla base dei documenti storici, e ancora oggi il maggio del 68 vaga nella letteratura come un'anima in pena. Il maggio parigino del 68, non il maggio di Berlino o di Francoforte che sono stati un simulacro del maggio. La Francia, di fatto, venne scossa fin nelle sue fondamenta borghesi, e de Gaulle si gettò fra le braccia del generale Massu, che non vedeva l'ora di mandare a Parigi i carri armati dell'esercito francese che si trovavano di stanza in Renania. La rivolta degli studenti, innescata da un piccolo gruppo di marxisti di sinistra, i cosiddetti "situazionisti" dell'Università di Nanterre, fu una vera e propria scintilla in grado di appiccare il fuoco alla steppa: le lotte all'Università innescarono, com'è noto, una colossale ondata di scioperi e innumerevoli occupazioni delle fabbriche da parte dei lavoratori. A differenza del relativamente pallido movimento del 68 in Germania, il maggio parigino sembrava porre all'ordine del giorno la questione dell'emancipazione sociale, e la base del sindacato era pronta allo scontro sociale. Dal 3 di maggio al 30 di giugno del 1968, il potere del sistema dominante apparve paralizzato.
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Il disagio della "totalità" e i marxismi italiani degli anni '70*
Roberto Finelli
La «rivoluzione passiva» dell’ultimo quarantennio e il mancato incontro tra comunismo del Novecento e cultura del riconoscimento del Sé. I «marxismi senza Capitale» di Gramsci e Della Volpe. Dalla «dialettica» tedesca alla «differenza» francese. L’operaismo italiano tra Gentile e Heidegger
Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali italiani hanno abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il fenomeno non è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel congedo significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di una comunanza di idee, di linguaggio, di confronti e di scontri. «Nell’arco di quattro o cinque anni, fra il 1976 e il 1981, sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli di pensiero, criteri di valutazione morale e psicologica, forme della sensibilità. E con le “cose” cambiarono le “parole”. A sottolineare il carattere radicale di questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di tutto un ceto sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più tardi la metafora della mutazione antropologica e genetica»1.
Rivoluzione passiva
Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata insieme ad altri fattori, quella «rivoluzione passiva» che i ceti popolari e i gruppi sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante l’ultimo quarantennio, e continuano tuttora dolorosamente e drammaticamente a subire.
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La neolingua del Jobs Act
di Domenico Tambasco
Nonostante ci si affanni a sostenere che le ideologie sono morte con la fine del “secolo breve”, la realtà odierna ci mostra, con sempre maggiore chiarezza, come nel presente si sia imposto, incontrastato, il dominio di una “nuova” ideologia: quella neoliberista, che nonostante un’ostentata modernità, utilizza gli stessi mezzi di manipolazione delle masse propri del secolo trascorso. La “neolingua del Jobs Act” è uno di questi.
“Jobs Act”, “jobs property”, “flexicurity”, “tutele crescenti”, “semplificazione”, “mutamento di mansioni”, “moderazione salariale”, “crescita”, “competitività”: da alcuni mesi a questa parte, in coincidenza con “l’epocale” riforma del lavoro, l’opinione pubblica è costantemente bombardata da una pioggia di anglicismi e termini tecnici ripetuti ormai all’infinito. Sono le parole d’ordine dell’Italia del nuovo millennio che, come argutamente osservato da qualcuno, si è trasformata tutto d’un tratto in un popolo di giuslavoristi.
Potremmo riprendere le parole del morettiano protagonista di “Palombella rossa” che, nel disperarsi contro il “trend negativo” evocato da una giovane giornalista, scolpiva una pietra miliare del cinema affermando, contro la corruzione del linguaggio, che “chi parla male pensa male, e vive male”.
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Un'Alba Mediterranea contro troika ed euro
Il M5S rompe gli indugi
Luca Fiore - Alessandro Avvisato
Una platea composita e affollata ha seguito oggi con estrema attenzione l’iniziativa organizzata dal Movimento 5 Stelle presso l’Auditorium Sandro Pertini della Camera dei Deputati. L'incontro ha visto la partecipazione di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle come Di Stefano e Di Battista, del giornalista Gianni Minà, di alcuni intellettuali militanti – come Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola - e di numerose rappresentanze delle ambasciate paesi dell’Alba.
Una iniziativa che a partire dal processo di rottura avvenuto in America Latina nei decenni scorsi rispetto all’asfissiante dominazione economica statunitense e alla dollarizzazione delle economie, propone un processo di rottura all’interno dell’Unione Europea che liberi i Pigs – i paesi “maiali” oggetto di quasi un decennio di politiche di austerity – dall’ormai intollerabile gabbia rappresentata da una moneta – l’Euro – e da alcune istituzioni – la Bce, la Troika – che i partecipanti all’iniziativa hanno esplicitamente contestato.
Introducendo i lavori, il parlamentare del M5S Manlio Di Stefano ha sottolineato "L'insostenibilità del sistema-euro per i paesi europei con condizioni diverse tra loro e gli effetti della globalizzazione". A questo punto si può fare altro? A questa domanda Di Stefano ha risposto citando l'esempio dei paesi dell'Alba Latino americana. "Quindi i cittadini italiani possono discutere anche di altre ipotesi possibili". Importante il passaggio nel quale ha affermato che il M5S vuole tradurre tutto questo in atti legislativi.
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L’ “invenzione” della classe operaia*
Marx e il “partito come classe”
Paolo Favilli
“Finito il concetto di una vita, di un sapere tecnico, di un lavoro. Il lavoratore del futuro dovrà essere pronto a un riciclaggio continuo, se non vuole finire accantonato in un mercato del lavoro in perenne riconversione, dove sicuri e tranquilli probabilmente saranno solo i conferenzieri occupati a vendere la necessità di non essere né sicuri né tranquilli” (M. Vázquez Montalbán, 1994)
Vorrei iniziare riflettendo su alcune affermazioni di un grande scrittore italiano: Italo Calvino.
Calvino, agli inizi degli anni sessanta, affrontava, con la consueta “leggerezza metodologica”, il problema della “centralità operaia” nel discorso culturale contemporaneo in uno di quei suoi articoli costruiti in attento e calibrato equilibro tra specifico letterario e teoria della società, ed affermava: “Da più di un secolo a questa parte, il termine “operaio” da denominazione d’una condizione sociale o professionale è diventato elemento esplicito o implicito di ogni discorso culturale. (…) l’operaio è entrato nella storia delle idee come personificazione dell’antitesi”1.
Certamente le culture del marxismo sono state essenziali nella determinazione del valore di immanenza universalistica attraverso il quale il termine “operaio” ha espresso tanto la soggettività che l’oggettività di un processo storico che avrebbe dovuto, negando l’esistente, concludersi in un orizzonte di liberazione totale.
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La necessità di un governo forte di fronte alla disarticolazione della società
di Militant
La controriforma costituzionale/istituzionale del sistema politico italiano si presenta, da un lato, come l’ennesimo tentativo di risolvere tramite ingegneria costituzionale un problema politico del nostro paese – e dell’Europa intera – di lungo corso, quello cioè della perdita di sostanza del concetto di “democrazia rappresentativa”; dall’altro, questa ennesima riforma sancisce la chiara volontà da parte dei governanti (non solo Renzi e il PD, ma tutto l’arco potenzialmente chiamato a poter governare) di bypassare la crisi di consenso e del concetto di rappresentanza che la costruzione europeista impone agli Stati aderenti. Questi due aspetti sono evidentemente legati fra loro: il primo costituisce il problema politico di lungo periodo che attraversa le società capitaliste neoliberiste; il secondo la risposta che la visione politica egemone al momento ha escogitato per tentare non di risolvere, ma di contenere e gestire quel tipo di problema.
E’ ormai cosa nota – ci arrivano pure Corriere e Repubblica – che è in atto nel consesso europeo una “crisi della democrazia”, intesa come estrema difficoltà, da parte delle istituzioni rappresentative preposte, nell’inglobare le differenti visioni del mondo e le differenti classi all’interno di un contesto formale di rappresentanza politica.
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La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity
di Vladimiro Giacchè
In un suo recente contributo sulla stagnazione secolare nell’eurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato che “dalla Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppati non sono stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre-crisi”, ha rilevato però come “da nessuna parte nel mondo sviluppato l’ipotesi della ‘stagnazione secolare’ sia meglio confermata che nell’eurozona”. Lo stesso (ri)scopritore del concetto di “secular stagnation”, Laurence Summers, ha in effetti ricordato che nella zona dell’euro «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008», e anche il prodotto potenziale «è stato rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento». Ma torniamo a De Grauwe: lo studioso belga osserva che, se già prima della crisi il pil reale dell’eurozona evidenziava dinamiche di crescita inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’area monetaria, dalla crisi del 2008 in poi questa divergenza si è accresciuta ulteriormente (v. grafico 1).
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Il PIN di Renzi e i numeri dell'economia reale
di Leonardo Mazzei
L'altro giorno la controriforma costituzionale voluta da Renzi ha avuto l'approvazione della Camera. Nel buffonesco linguaggio dell'inquilino di Palazzo Chigi «il secondo numero del Pin è stato digitato». Ecco, infatti, cosa ci è capitato di sentire dalla bocca del segretario del Pd:
«Fare le riforme costituzionali non crea di per se nuovi posti di lavoro, ma - se posso usare l'espressione - è prendere il telefonino. Le riforme sono il Pin. Se tu non digiti il Pin e sblocchi la tastiera non c'è verso di far funzionare niente. Le riforme costituzionali sono questa cosa qui». (Gr1, ore 8 del 10 marzo 2015).
Il tentativo è chiaro: occultare, dietro alla solita retorica efficientista, il progetto antidemocratico che punta al presidenzialismo partendo dallo svuotamento di ogni potere parlamentare. Un disegno ben rappresentato dalla farsa di un Senato di nominati. Almeno lo si fosse eliminato davvero! Invece no, quel che si è voluto eliminare è solo la sua elezione da parte dei cittadini. Una mostruosità che si commenta da sola.
Ma se la sostanza della controriforma costituzionale è questa, vale comunque la pena di seguire il filo del ragionamento di Renzi. Il quale vorrebbe farci credere (vedi il riferimento alla disoccupazione) che: 1) la crisi dipenda da un eccesso di parlamentarismo, 2) che solo un governo (ovviamente guidato da lui) senza opposizione saprà venirne fuori, 3) che dunque lo scasso della Costituzione serve in definitiva al bene comune.
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Tre Riflessioni Sull'Orlo Dell'Abisso
Written by Franco Berardi Bifo
L’errore del 2005
Si avvicinano le elezioni dipartimentali in Francia, e i sondaggi dicono che il Front National sarà il grande vincitore. Il premier Manuel Valls ha rimproverato i cittadini francesi per la loro passività, e ha detto che gli intellettuali non fanno il loro dovere antifascista. Davvero Manuel Valls ha la faccia come il culo, che fuor di metafora vuol dire che proprio non tiene vergogna. I socialisti francesi come i democratici italiani hanno tradito le loro già pallide promesse di opporsi all’oltranzismo austeritario, hanno gestito in prima persona la mattanza sociale, e ora fanno le vittime, si lamentano perché il popolo non li segue e gli intellettuali non si impegnano.
Lasciamo perdere gli intellettuali francesi che non esistono più da almeno venti anni, a meno di considerare Bernard Henri Levy un intellettuale mentre a me pare che si tratti di un imbecille molto pericoloso, come dimostrano le sue campagne a favore dell’intervento in Siria e in Libia.
Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra.
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Il populismo continentale
Leonardo Clausi intervista Perry Anderson
Perry Anderson, docente della University of California di Los Angeles, nonché tra i teorici fondatori della «New Left» anglosassone e della rivista «New Left Review», è osservatore meticoloso della scena europea e di quella italiana in particolare, da lui studiate secondo un metodo comparativo delle strutture politiche e assetti culturali che tiene ben presente il magistero gramsciano. Fin dagli anni Settanta, lo storico inglese ha intrecciato dialoghi illuminanti con figure cardine del nostro panorama intellettuale: Lucio Colletti, Norberto Bobbio, Carlo Ginzburg, fino alle recenti, sentite commemorazioni di Sebastiano Timpanaro e Lucio Magri apparse sulla «London Review of Books». Gli articoli che da anni dedica all’Italia sulla «Lrb» sono stati ora pubblicati, accompagnati da una nuova conclusione, per la prima volta da Castelvecchi con il titolo L’Italia dopo l’Italia. Il libro è un’analisi spietata degli ultimi venticinque anni di politica nazionale, dal dominio berlusconiano all’offensiva neoliberista dell’attuale presidente del consiglio, dove il personalismo autoritario di Matteo Renzi, convinto com’è di poter riformare il paese sul duplice fronte economico e istituzionale, si tinge di gaullismo. Lo abbiamo raggiunto via email da Los Angeles.
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