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Una vertiginosa transizione
Recensione a “Gramsci. Il sistema in movimento” di Alberto Burgio
di Marco Ambra
Sull’“attualità di un inattuale” e di alcune sue categorie. Una recensione a “Gramsci. Il sistema in movimento” (DeriveApprodi, 2014) di Alberto Burgio
La percezione del movimento circolare di ogni cosa sprofonda, chi è preda delle vertigini, nell’apparenza visiva di una caduta prolungata, di un’accelerata discesa in un vuoto originario che allontana e allo stesso tempo non evita l’impatto con la solidità del terreno, con un saldo mondo di fondamenta. Il concreto sentimento del tempo storico presente nei Quaderni del carcere impone al lettore contemporaneo una sensazione analoga, di smisurata vertigine e assenza di fondamenta, un’immagine di solitudine ed estraneazione dalla violenta contingenza degli anni ’30, che guarda lontano senza mai impattare con il limite del terreno.
Un Gramsci inattuale dunque, costretto a meditare il mondo dal carcere fascista per affermare il valore nella storia e nel mondo della praxis. Ma anche un Gramsci attuale, lettore della logica storica di crisi della modernità, sradicato con la forza dall’agone politico della durata, il tempo umano delle azioni e della storia, e ricollocato nella prospettiva für ewig e di lunga durata della «filologia vivente» e quindi del nostro – eterno e appiattito – presente. Al quale i suoi occhi chiari, da triste profeta, non cessano d’imprimere vertigine e movimento.
Dunque è all’insegna della vertiginosa “attualità di un inattuale” che s’inscrive l’ultimo lavoro di Alberto Burgio sul filosofo sardo, Gramsci. Il sistema in movimento (DeriveApprodi, 2014), già autore di altre due importanti studi sull’argomento (Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere” per Laterza nel 2003 e Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno sempre per DeriveApprodi nel 2007) i quali sono in parte riassunti e aggiornati in questo nuovo testo.
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Dove sono i nostri
Riflessioni su classe, coscienza, politica
Domenico Moro
Recentemente è uscito nelle librerie “Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della Crisi” (la casa Usher, euro 10), scritto dal collettivo Clash city workers. Si tratta di un libro straordinario, nel senso letterale della parola, cioè di fuori dell’ordinario, sia per i temi che affronta sia per il metodo che adotta. Oggetto del libro è la composizione di classe, ovvero le caratteristiche e la struttura delle classi sociali in Italia. L’attenzione è rivolta in particolare alla classe dei lavoratori salariati (i nostri del titolo), ma, elemento da non sottovalutare, viene dedicato ampio spazio anche al lavoro autonomo ed ai settori intermedi e piccolo borghesi, che hanno sempre giocato un ruolo importante nella vita politica italiana. Sono questi temi quasi del tutto ignorati da decenni sia dalla ricerca universitaria (sociologica, politologica ed economica) sia da sindacati e da partiti di sinistra e persino comunisti. L’approccio degli autori non è accademico, visto che l’analisi è dichiaratamente funzionale all’azione, cioè alla ripresa e allo sviluppo della lotta di classe in Italia. “Dove sono i nostri è un libro coraggioso perché rimette al centro del dibattito politico le classi e la lotta di classe senza tacere di farlo in un’ottica di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente e ponendosi questioni enormi ma ormai ineludibili, come la ricomposizione e l’organizzazione della classe lavoratrice. Del resto, chiunque voglia ricostruire una presenza organizzata sindacale e politica di classe nel nostro Paese non può esimersi dal partire da che cosa sono i salariati qui ed ora. Lavori di questo tipo sono un segnale positivo da valorizzare e sviluppare specie nel momento attuale, quando la sinistra di classe e i comunisti vivono il momento di maggiore arretramento dalla fine della Seconda guerra mondiale".
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Cattivi pensieri
di Marcello Rossi
Non capisco perché alcuni – anzi, la grande maggioranza degli italiani, a quanto ci vogliono far credere – ritengano che leggere un disegno di legge due volte – una volta alla Camera e una volta al Senato – sia una perdita di tempo. Io penso, invece, che le leggi (e i relativi decreti attuativi, che però nessuno prende in considerazione) siano momenti importanti della vita associata e allora leggerle due volte è sempre meglio che leggerle una volta sola, tanto che si potrebbe pensare che il bicameralismo si sia chiamato “perfetto” proprio per i vantaggi indotti da questa doppia lettura.
Possibile che i nostri costituenti – i Mortati, i Moro, i Calamandrei, i Codignola, i Terracini – non si siano posti il problema se una doppia lettura fosse una perdita di tempo, o no? Possibile che in un momento di grande difficoltà per il paese, che usciva dalle macerie morali e materiali della guerra, si sia dato vita a un inutile doppione del potere legislativo? Non era questo apparente doppione un di piú di democrazia di cui il paese aveva bisogno? E oggi possiamo davvero rinunciare a questo di piú di democrazia, sposando le “raffinate” elaborazioni di una Maria Elena Boschi che ritiene che il bicameralismo “perfetto” sia solo una perdita di tempo?
Ma allora il Parlamento deve rimanere quello di sempre?
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Sindacalizzazione, lavoro digitale e economia della condivisione negli Stati Uniti
Tiziana Terranova intervista Trebor Scholz
Tiziana Terranova: Trebor, in Italia come altrove immagino, stiamo discutendo cosa sta succedendo a forme tradizionali di organizzazione del lavoro come i sindacati e di nuove forme di sperimentazione che potremmo definire di ‘sindacalismo sociale’. Ci interessa la relazione tra nuove forme di sindacalizzazione e la loro relazione con lotte più ampie e meno definite. Pensiamo per esempio alle lotte ambientali, a lotte informali nella città attorno al precariato ecc, che confondono la relazione tra vita e lavoro. Tu d’altro canto stai seguendo da vicino le trasformazioni del sindacalismo negli Stati Uniti, ma anche l’impatto globale della riorganizzazione del lavoro indotto dall’uso di Internet come infrastruttura lavorativa. Hai notato un ritorno di sindacalismo in luoghi di lavoro in cui è stato tradizionalmente molto difficile organizzarsi come l’industria del fast food o grandi magazzini come Walmart. Ma quello che sembra preoccuparti di più, però, è la sfida di organizzare quello che chiami lavoro digitale e in particolare il crowdsourcing che hai ribattezzato crowdmilking (la mungitura delle folle). Qui ‘lavoratori anonimi’ incontrano ‘datori di lavoro’ anonimi. Ci puoi parlare un po’ di questo nuovo modo di organizzare la produzione e la sfida che pone alla sindacalizzazione?
Trebor Scholz: Ciao Tiziana e grazie per il tuo invito a parlare del futuro dei sindacati tradizionali e di nuove forme emergenti di solidarietà e mutuo soccorso. Facciamoci una camminata nei campi del lavoro e per non perderci, stabiliamo prima i termini. Voglio essere chiaro che sono concentrato soprattutto sugli Stati Uniti e specialmente su quello che io chiamo il ‘lavoro digitale’ e in questo vasto labirinto di pratiche diverse, discuterò dei lavoratori più poveri e sfruttati nell’industria del crowdsourcing.
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Su Israele, l'Ucraina e la Verità*
di John Pilger
Da CounterPunch un'analisi spietata ed inquietante sull'eclissi delle capacità critiche della nostra civiltà. Dalle questioni geopolitiche (tra cui, spesso, massacri e guerre promosse dall'Occidente) ai fatti della nostra vita, si è realizzato nel modo più morbido il totalitarismo orwelliano: dietro l'illusione dell'"era dell'informazione" e del multiculturalismo s'impone in realtà un'unica possibile visione del mondo, un unico schema di interpretazione della realtà. Se pure non c'è nulla di nuovo sotto il sole, oggi sembrano però mancare figure capaci di esprimere efficacemente un'alternativa radicale (o sono sommerse dal frastuono).
L'altra sera ho visto 1984 di George Orwell rappresentato sul palcoscenico, a Londra. Nonostante abbia fortemente bisogno di un'interpretazione contemporanea, l'avvertimento lanciato da Orwell riguardo al futuro è stato rappresentato come un oggetto d'epoca: remoto, non minaccioso, quasi rassicurante. È come se Edward Snowden non avesse rivelato nulla, come se il Grande Fratello non fosse oggi uno spione digitale e Orwell stesso non avesse mai detto: "Per essere corrotti dal totalitarismo non è necessario vivere in un paese totalitario."
Acclamata dai critici, questa sapiente rappresentazione ha dato la misura del nostro tempo culturale e politico. Quando si sono riaccese le luci, le persone stavano già uscendo. Sono sembrati impassibili, o forse avevano altre cose per la testa. "Che delirio," ha detto una giovane donna mentre accendeva il cellulare.
Mentre le società avanzate diventano de-politicizzate, i cambiamenti sono tanto sottili quanto spettacolari. Nei discorsi quotidiani, il linguaggio politico si capovolge, come Orwell profetizzava in 1984. La parola "democrazia" è un artificio retorico. La pace è "perpetua guerra". "Globale" significa imperiale. Il concetto di "riforme", un tempo pieno di speranza, oggi significa regressione, perfino distruzione. "Austerità" è l'imposizione del capitalismo estremo sui poveri e i doni del socialismo dati ai ricchi: un sistema ingegnoso nel quale la maggioranza copre il debito di pochi.
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Le fallacie dell’economia per i ricchi
keynesblog
Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi.
In un recente articolo per il New York Times , Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty:
Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti. In altre parole, risparmiando invece di spendere, chi lascia una proprietà agli eredi causa una redistribuzione non intenzionale dei redditi da altri proprietari di capitali verso i lavoratori.
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Ragione sanguinosa
20 tesi contro il cosiddetto Illuminismo e i "valori occidentali"
di Robert Kurz
Le catene del pensiero
1.
Il capitalismo sta avanzando verso la sconfitta finale, sia in termini materiali che sul piano ideale. Quanto maggiormente cresce la brutalità con cui questa forma di riproduzione convertita in modello sociale universale devasta il mondo, tanto più infligge dei colpi a sé stessa e sempre più va minando la sua propria esistenza. In questo quadro si iscrive anche lo sprofondare intellettuale nell'ignoranza e nella mancanza di concetti di nuovo tipo, delle ideologie della modernizzazione: la destra e la sinistra, il progresso e la reazione, la giustizia e l'ingiustizia hanno sempre coinciso in maniera immediata ogni volta che il pensiero dentro le forme del sistema produttore di merci si è impantanato completamente. Quanto più stupida diventa la rappresentazione intellettuale del soggetto del mercato e del denaro, tanto più oscuro arriva ad essere il suo farfugliare ripetitivo circa le distrutte virtù borghesi ed i valori occidentali. Non esiste un solo paesaggio segnato dalla miseria e dagli spargimenti di sangue, sopra il quale non vengano versate milioni di lacrime di coccodrillo dell'umanitarismo poliziesco democratico; non c'è una vittima sfigurata dalla tortura che non diventi un pretesto per l'esaltazione della gioia dell'individualismo borghese. Qualsiasi idiota leale allo Stato che si sfinisce a scrivere un paio di righe, invoca la democrazia ateniese; qualsiasi ambizioso furfante politico o scientifico pretende di abbronzarsi alla luce dell'Illuminismo.
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Peter Sloterdijk, il profeta disilluso dell’Ancien Régime
Marco Bascetta
Tempi presenti. Il nuovo libro di Peter Sloterdijk ha scatenato furiose polemiche. Quello del filosofo tedesco è un atto di accusa contro la Modernità ed esprime una critica conservatrice al capitalismo che sta conquistando in Europa sempre più consensi
Scrivere di un libro non letto può senz’altro considerarsi una operazione scorretta. Nondimeno, talvolta e provvisoriamente, quando l’uscita di un’opera suscita pronte reazioni e vivaci polemiche, o contribuisce a illuminare qualche tendenza in atto, arrischiarsi a parlarne può risultare utile. Confessato il peccato, dunque, relata refero. Il libro in questione, cinquecento pagine pubblicate qualche settimana fa in Germania dalla prestigiosa casa editrice Suhrkamp si intitola Die schrecklichen Kinder der Neuzeit, ossia gli orridi (o terrificanti) figli della Modernità. Ne è autore Peter Sloterdijk, filosofo-scrittore assai noto, non nuovo ad aspre polemiche e accese controversie, poco amato dall’accademia. Affetto da una buona dose di narcisismo il personaggio non nasconde l’ambizione di conseguire un certo seguito popolare, e sovente lo consegue.
Le bordate, soprattutto da sinistra, non si sono fatte attendere. Pesantissima la recensione di Georg Diez su Der Spiegel, che definisce il libro «mangime per una borghesia imbarbarita», un’opera ultrareazionaria che gronda risentimento e nutre nostalgia per le gerarchie che hanno governato la società prima della Rivoluzione francese e della frattura (lo «iato») che essa ha determinato nella storia dell’umanità.
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Il pensiero di Gramsci: un’eredità controversa
di Sandro Moiso
Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00
A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.
Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata alla trentina di Quaderni compilati durante la sua lunga detenzione carceraria dipende da molti fattori. Non ultimo l’artificiosità delle scelta che fecero pubblicare le sue lettere e i suoi quaderni in forme diverse e in tempi molto lunghi a partire dal secondo dopoguerra .
Certo è che Gramsci è stato sicuramente uno dei punti di riferimento del pensiero politico degli ultimi sessant’anni e, anche, uno degli uomini di cultura, “di sinistra”, più studiati in Italia e all’estero. Ciò è sicuramente indice della fecondità del suo pensiero, ma, anche, senza dubbio della sua contraddittorietà e complessità. Anche se in tutto questo, va qui subito chiarito, ha pesato non poco, fin dagli anni successivi alla caduta del fascismo, l’opera di recupero e canonizzazione messa in atto nei suoi confronti dallo stesso Palmiro Togliatti.
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Economia, alzati e cammina!
Riflessioni disarticolate intorno alla crisi economica
Sebastiano Isaia
I capitalisti e gli economisti mainstream, soprattutto quelli di scuola keynesiana, sostengono che il calo dei prezzi può portare a una prolungata stagnazione economica, com’è avvenuto ad esempio in Giappone dalla seconda metà degli anni Novanta fino a qualche anno fa. Ora, non solo questo non è vero in termini assoluti, ma qui assistiamo a un vero e proprio capovolgimento dei termini della questione: l’effetto della crisi (la caduta del livello dei prezzi) viene posto come sua causa. Dal punto di vista marxiano questo rovesciamento è tipico dell’«economia borghese volgare», la quale rimane impigliata alla superficie dei fenomeni economici e sociali.
Anche Keynes fu un severo critico della deflazione, e ai fini di un armonioso processo di accumulazione (cosa che presupponeva la presenza discrezionale dello Stato nella sfera economica) egli riteneva adeguata una moderata e costante inflazione. Nella sua infinita filantropia, il celebre economista inglese sosteneva la necessità di un’inflazione tesa a salvaguardare il livello dei profitti perché «i vantaggi che ne traggono il progresso economico e l’accumulazione di ricchezza sopravanzano gli elementi di ingiustizia sociale» (Trattato sulla moneta).
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La frantumazione di Vicino e Medio Oriente
di Pier Francesco Zarcone
Un caos propagabile
Nulla sarà più come prima. È una predizione assai facile, in base allo stato di disfacimento politico in cui oggi si trova tutta l’area che va dalla Libia all’Afghanistan, come al solito grazie all’imperialismo occidentale. Gli Stati più o meno artificiali creati dai vincitori della Prima guerra mondiale, spartendosi il defunto Impero ottomano attraverso la mistificazione dei “mandati”, potrebbero scomparire o comunque potrebbero nascere nuove linee di frontiera. Né vanno trascurati entità precarie come il Pakistan (originariamente addirittura distinto in due parti lontanissime fra loro, di cui quella orientale sarebbe poi divenuto il Bangla Desh) e l’Afghanistan, che obiettivamente è sempre stato un caso a parte, più o meno tenuto insieme da dinastie la cui forza derivava da accorti equilibrismi tra i componenti di un complicato mosaico etnico-religioso e tribale. Ciò almeno fino a che nel lontano 1973 il re Zahir Shah non venne spodestato dal cugino Sardar Muhammad Daud che proclamò la repubblica; le successive occupazioni sovietica e statunitense hanno però definitivamente scompigliato le tessere del puzzle con cui si può metaforicamente identificare quel paese.
Tutto si complica inevitabilmente quando, con estrema miopia ammantata da cinica furbizia, gli imperialisti utilizzano proprio l’estremismo islamico per destabilizzare e dominare. Il caos afghano è sotto gli occhi di tutti, e dopo il ritiro degli occupanti occidentali le cose andranno anche peggio. Il Pakistan, oltre ai suoi problemi endogeni è alle prese con la sovversione jihadista originariamente creata da quel mix fra incoscienza e autolesionismo che caratterizza da tempo la politica statunitense.
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La guerra alle porte
Dante Barontini
Obama e Cameron hanno deciso: ad abbattere l'aereo malese sono stati i filorussi che vogliono sganciarsi dall'Ucraina consegnata ai nazisti. L'inchiesta internazionale, di cui si continua a parlare, servirebbe eventualmente solo a confermare – con tutti i crismi dell'ufficialità diplomatica – una tesi che è eufemistico definire preconfezionata.
Sia chiaro: in questo tipo di vicende la verità è un optional. Nessuna delle parti ha il minimo interesse per come sono andate realmente gli eventi, importa soltanto l'uso che se ne può fare. E per l'Occidente l'occasione è di quelle lungamente cercate; per la Russia la conferma definitiva di un assedio che le carte geografiche e storiche dimostrano con disarmante evidenza.
Quindi escalation. Diplomatica, per ora. Con incremento e indurimento delle sanzioni applicate alla Russia (ma in realtà soprattutto all'Europa, che dal gas e dal petrolio russi dipende in misura notevole, per obbligarla a recidere i legami con l'est), l'estromissione di Mosca da tutta una serie di consessi internazionali dove si mediano gli interessi globali.
Ma la via è tracciata. È identica a quelle già percorse negli ultimi decenni, contro la Jugoslavia e la Libia, due volte contro l'Iraq, diversi paesi africani in cui il colonialismo si è ripresentato tale e quale. Con abiti francesi o inglesi o statunitensi, ma con identiche modalità: via i regimi non in sintonia con gli interessi imperialisti, dentro altri regimi – non certo “democratici” - totalmente allineati.
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Il triangolo
Neoliberismo, postmodernità, fine della storia
di Diego Giachetti
Introduzione
Il triangolo no, non l'avevo considerato,
d'accordo ci proverò, la geometria non è un reato,
(Renato Zero, Triangolo, 1978)
Nel corso degli ultimi tre decenni sono state introdotte “riforme” impostate secondo il paradigma neoliberista nel sistema socio-economico. Accanto all’erosione lenta ma continua delle norme e dei diritti conquistati a tutela del lavoro e dei lavoratori, è emersa una cultura parallela, nuova e giustificativa del processo in corso, che ha investito i campi del sapere: dalla filosofia all’economia, dalle scienze sociali e politiche alla storiografia. Questa cultura oggi è ideologia di massa, senso comune, che travolge anche il buonsenso. Esso, inteso come pensiero critico, non è scomparso del tutto ma se ne sta, per dirla con un passaggio tratto dai Promessi sposi del Manzoni, «nascosto per paura del senso comune»1 il quale domina l’immaginario odierno con una triangolazione di “idee”: neoliberismo, postmoderno, fine della storia.
Anche chi non crede alle combinazioni astrali, non può fare a meno di notare una sinergia triangolare che si manifesta sul finire degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. Un vero e proprio “triangolo delle Bermude” dove scompaiono misteriosamente le “vecchie” concezioni del mondo e della storia, inghiottite dalle onde del neoliberismo, del postmoderno e della finalmente finita storia della lotta tra le classi.
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Gli ultimi tre anni di un euro in bilico
Bruno Amoroso
Per la nuova edizione del libro di Bruno Amoroso L’euro in bilico, Castelvecchi 2014 l’autore ci ha inviato la sua nuova prefazione dal titolo Tre anni dopo che traccia uno scenario delle politiche europee che tiene conto di quanto avvenuto negli ultimi tre anni
Se otto ore vi sembran poche
provate voi a lavorare
e sentirete la differenza
di lavorar e di comandar.
[Canzone popolare]
La prima edizione di questo testo risale al 2011, tre anni che per il dibattito politico e gli eventi che sono seguiti appare come un’era geologica. Il testo fu accolto, salvo alcune generose eccezioni che fecero risaltare ancora di più le regole del gioco, con il silenzio degli accademici che vedevano con fastidio che un tale prodotto fosse partorito dall’interno del loro sistema, e dei giornali e dell’informazione in generale poiché ne metteva in luce la parzialità del loro ruolo.
I più infastiditi furono gli amici e i colleghi di ‘sinistra’ che vedevano giustamente in una mina vagante di questo tipo il rischio del diffondersi del grido ‘il re è nudo’, il re inteso sia l’euro sia la sinistra.
Sugli alti colli del potere nessuno si preoccupò. A Bruxelles erano confidenti che le grandi somme investite per la ‘ricerca europea’ avrebbero garantito la fedeltà delle call girl dell’accademia e del giornalismo europeo al loro piano, e prodotto tranquillamente il frutto dell’euro-dogmatismo.
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Chi è Juncker, il nuovo presidente della Commissione Europea?
Una breve nota su crescita e austerity
Clash City Workers
Jean Claude Junker, politico e avvocato lussemburghese, è stato nominato Presidente della Commissione Europea, con ben 422 voti favorevoli (per la maggioranza assoluta erano necessari 376 voti su 751), 250 contrari e 47 astensioni. Ma cos’è la Commissione? E chi è Junker? Di quali equilibri è frutto la sua nomina? Cosa ci dice questa notizia a noi proletari, studenti, disoccupati, lavoratori? Cerchiamo di rispondere a queste domande.
1. Che cos’è e a che serve la Commissione Europea
Si tratta di uno degli organi più importanti dell’Unione, secondo solo al Consiglio Europeo - che, essendo composto dai Governi dei singoli paesi, e fissando le priorità generali dell’UE, mantiene una sua premazia -. La Commissione, che è formata da 28 commissari, serve ad armonizzare gli interessi delle differenti borghesie continentali, a rappresentare questi interessi nel suo insieme e a renderli attuativi. Il suo stesso nome ci dovrebbe far capire molto di quello che è: come ci ricorda l’etimologia della parola - e di parole analoghe come “commissariato” - indica qualcosa di ben poco democratico: un ristretto numero di persone specializzate in una data materia, deputate a speciali operazioni, che agevolano le procedure decisionali.
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L’individuo è l’essere sociale. Marx e Vygotskij
Felice Cimatti
1. «La coscienza è un rapporto sociale»
L’animale non umano, per Marx,
«è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività vitale]» Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Prendiamo un esempio determinato, un castoro. Per esplicare la sua ‘attività vitale’, ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi, un castoro si basa essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non deve imparare, che non sono fuori di lui. Essere un castoro significa appunto nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso se il costruire dighe è una attività che distingue il castoro dalle altre specie animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è presente in modo implicito dentro di lui già alla nascita: l’essenza del castoro è dentro il castoro, come un chilo di rigatoni sta dentro la scatola di cartone che lo contiene. Questo non significa che non sia importante anche l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato; il punto è che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido dalla sua costituzione biologica innata. Per l’animale non umano, allora, non vale la frase di Marx dei Manoscritti economico filosofici del 1844 che abbiamo scelto come titolo, al contrario, qui l’individuo coincide con l’essere individuale, cioè l’essenza è dentro ogni singolo animale non umano. Espresso in altro modo, ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso che dovunque ci sia un castoro troveremo più o meno le stesse attività, la stessa forma di vita, le stesse esperienze.
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Il debito pubblico dell’eurozona (e soprattutto dell’Italia) va ristrutturato
Ecco perché
di Thomas Fazi
Oggi in Europa, in ambito mainstream, esistono fondamentalmente due approcci al problema del debito pubblico, perlomeno in Europa: quello rigorista e quello pseudo-keynesiano (vedremo poi perché “pseudo”). Il primo – che dal 2010 in poi ha monopolizzato il discorso pubblico europeo e fornito il necessario sostegno teorico, ideologico e mediatico al “regime di austerità” – afferma che uno stato è come una famiglia o un’impresa: quando si accumulano troppi debiti, l’unico modo per ridurli è tagliare le spese. In sostanza, considerando che il rapporto debito/Pil è costituito da un numeratore (debito) e un denominatore (Pil), l’approccio rigorista interviene sul numeratore, aumentando l’avanzo primario dello stato (l’eccedenza delle entrate rispetto alle uscite, escludendo gli interessi sul debito) con l’obiettivo di liberare risorse da destinare al servizio del debito. Ovviamente ci sono solo due modi per ottenere un maggiore avanzo primario: o si taglia la spesa pubblica o si aumentano le tasse. Il problema di questo approccio (a prescindere dalle implicazioni sociali) è che aumentando l’avanzo primario si riduce il Pil, a causa del cosiddetto moltiplicatore fiscale, e dunque il rapporto debito/Pil aumenta. Il motivo è che un paese che registra un avanzo primario sta di fatto levando risorse all’economia reale per destinarle ai creditori, nazionali ed esteri.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Luciano Vasapollo*
Con questa intervista a Luciano Vasapollo arriviamo alla terza puntata del ciclo di interviste il fascino discreto della crisi economica. Vasapollo è docente universitario di Metodi di Analisi dei Sistemi Economici presso “La Sapienza” di Roma. Grande conoscitore dei paesi del Centro e Sud America, Vasapollo è anche Professore all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río (Cuba). Dirige il centro studi CESTES e la rivista Proteo. Il suo ultimo libro è “Un sistema che produce crisi. Metodi di analisi dei sistemi economici” (Jaca Book, 2013).
L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo.
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Il desiderio comunista
Jodi Dean *
In un suo famoso articolo del 1999, intitolato “Resisting Left Melancholy”1, Wendy Brown adopera l’espressione “malinconia di sinistra”, presa in prestito da Walter Benjamin [Linke Melancholie], per diagnosticare la malinconia propria della sinistra contemporanea. Il saggio, che richiama da vicino la riflessione di Stuart Hall sulla nascita del Tatcherismo, si preoccupa principalmente di analizzare le ansie e le paure di una sinistra in declino: una sinistra che guarda all’indietro, si autopunisce, resta attaccata ai propri fallimenti e si mostra incapace di immaginare un futuro di uguaglianza ed emancipazione. Suggestivo e d’attualità, a detta di molti il saggio di Brown coglieva all’epoca un elemento di verità rispetto alla parabola finale di una certa sequenza storica attraversata dalla sinistra britannica, europea e nordamericana. Rilevando il sentimento della fine e della perdita originato dal disintegrarsi di quel “noi” un tempo condiviso dal discorso del comunismo – o con le parole di Brown “l’incalcolabile perdita” e “l’ideale, inconfessabilmente distrutto, significato contemporaneamente dai termini: sinistra, socialismo, Marx e movimento” – l’autrice forniva una pista per riflettere sul fallimento e la persistenza dei progetti storici della sinistra, a partire da un’analisi dei desideri che li animano2. Perciò il modo in cui Brown trattava le sorti di questo “movimento storico perduto” restituiva l’immagine di una sinistra intenta ad accettare la realtà – la realtà del capitalismo neoliberista e la sconfitta dello stato sociale -o a farci i conti.
Riletto a distanza di più di un decennio, tuttavia, il saggio di Brown suona meno convincente: oggi sembra non essere riuscito nell’impresa di rendere conto di che cosa è andato perduto e del perché.
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Cosa è il “nazarenismo”
Logica del patto Renzi-Berlusconi
Aldo Giannuli
Sono francamente divertito dalle letture che sono state date della lettera di risposta del M5s al Pd: “improvvisa svolta”, “Grillo sconfessa Di Maio”, “Di Maio e Casaleggio impongono la loro linea a Grillo”, “Rottura, no ricomposizione!”, “Le due anime del movimento”. Avendo qualche conoscenza diretta della vicenda, posso dire che sono interpretazioni che non stanno in piedi. In primo luogo, posso attestare che quello che c’è scritto nella lettera di ieri era esattamente quello che la delegazione del M5s, sin da dieci giorni prima, aveva deciso di dire nell’incontro in un primo momento previsto per il 2, prima che arrivasse lo stravagante diktat renziano della risposta scritta. E, nel complesso, era quello che già era maturato quando era stato chiesto il confronto con il Pd. Anzi, mi pare che nessuno ricordi che tutto si è aperto con una lettera a firma congiunta Grillo-Casaleggio. Dunque, non mi pare che ci sia un’anima trattativista ed una “oltranzista”, un buono ed un cattivo. Anzi se il riferimento è ai toni di Grillo nel suo post, devo dire che, quando è arrivata la notizia che il confronto saltava, il più furibondo mi è parso Casaleggio, pur se nelle modalità della sua tipica “rabbia fredda”. Ma qui non si sta parlando delle reazioni individuali più o meno accese di uno o dell’altro, quello che conta è la linea politica che a me sembra unica.
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La lotta di classe dei ricchi
Mario Pierro
Il paese della ricchezza privata e della povertà pubblica. È il ritratto dell’Italia che emerge dal Rapporto sui diritti globali giunto alla dodicesima edizione e presentato ieri a Roma nella sede nazionale della Cgil. Il rapporto «Dopo la crisi, la crisi» (Ediesse), curato da Sergio Segio, con prefazioni di Susanna Camusso e don Luigi Ciotti, e stato promosso dalla Cgil insieme a un cartello di associazioni composto da Antigone, Arci, Cnca, Gruppo Abele, Legambiente e Fondazione Basso.
Dove sono finiti i soldi?
«Non si parla mai della ricchezza esistente, ma della povertà prodotta dalla crisi – ha detto Danilo Barbi della segreteria Cgil – In Italia esiste una gigantesca concentrazione di ricchezza non tassata in maniera progressiva come ad esempio in Spagna». Dove sono finiti questi soldi e come vengono distribuiti? Questa è la domanda che attraversa i cinque capitoli del rapporto (Economia e lavoro, Welfare e terzo settore, diritti umani, ambienti e beni comuni, politica internazionale) offrendo una prospettiva sulla crisi dal punto di vista di chi l’ha subita.
L’occultamento di queste ricchezze emerge dall’analisi delle diseguaglianze sociali. Secondo Bankitalia, nel 2012 il 10% della popolazione più ricca possedeva quasi la metà della ricchezza nazionale (il 46,6%), mentre il 10% delle famiglie più povere percepisce solo il 2,4% del totale dei redditi.
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La Sinistra e l’Unione antieuropea: la fine delle illusioni
di Enrico Grazzini
La sinistra sembra illudersi che la Ue possa cambiare all'interno dell'attuale quadro istituzionale, politico e monetario. Bisogna invece rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika
Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei. La sinistra italiana ed europea guidata da Alexis Tsipras dovrebbe prendere atto della cruda realtà politica di questa UE appena rieletta e modificare la sua politica pro UE e pro euro nutrita di buone e nobili illusioni. L'ideologia dell'europeismo a tutti i costi rischia infatti di diventare inconcludente, inefficace e impopolare verso la politica economica imposta dalla UE, che è senza dubbio la principale causa della crisi senza fine che affligge drammaticamente l'Europa e l'Italia. Anche considerando che, dopo le elezioni europee, l'opinione pubblica, delusa dalla mancanza di tangibili cambiamenti positivi, diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea.
Matteo Renzi chiede di realizzare gli Stati Uniti d'Europa e reclama la fine dell'austerità senza crescita. Renzi in questo senso è molto più coraggioso e innovatore di Enrico Letta e di Pier Luigi Bersani, il quale, quando ancora sperava di diventare premier italiano, nelle sue interviste al Wall Street Journal rassicurava sul rispetto integrale di tutte le politiche d'austerità.
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La III Guerra in Iraq, stavolta senza tamburi
Un motivo c'è
di Patrick Boylan*
La III Guerra in Iraq è già iniziata, con la rapida conquista della fascia centrale del paese da parte delle milizie ben armate dell'IS (Stato Islamico - originariamente ISIL, Stato Islamico dell'Iraq e del Levante) e con la presa armata, da parte della guerriglia curda nel nord, della zona petrolifera di Kirkuk e l'«espulsione» (agevolata con premi di trasloco) dei non-curdi della regione.
Strano a dirsi, quest'ascesa folgorante dei fanatici dell'IS non sembra preoccupare l'Occidente più di tanto - e nemmeno l'espansionismo curdo. Niente allarmismi da Washington, nemmeno dai falchi, solitamente pronti a cogliere qualsiasi occasione per reclamare un'azione militare.
Di conseguenza, i nostri mass media non battono con fracasso i tamburi di guerra, come fecero prima della I Guerra in Iraq (1990), della Guerra in Afghanistan (2001), della II Guerra in Iraq (2003), e della Guerra in Libia (2011) per far accettare dall'opinione pubblica l'impiego anche di militari italiani in questi conflitti.
Una spiegazione per tutto ciò ci sarà.
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Il mito della riunificazione tedesca
Andrew Spannaus intervista Vladimiro Giacché
Si parla molto del boom della Germania, come un modello da seguire: un paese che ha i conti a posto, una forte economia basata sull’export di alto livello, dove non ci sono i terribili problemi di burocrazia e corruzione che si vivono qui in Italia.
Da tempo mi chiedo se sia proprio così, cioè se davvero la Germania abbia fatto tutto giusto: sono più bravi, efficienti, ma, soprattutto, sono riusciti a mantenere quell’impronta sociale che in passato si contrapponeva al modello “anglosassone” del libero mercato?
Infatti, il cosiddetto modello renano è stato tanto criticato da chi promuoveva la deregulation e il dominio della finanza qualche anno fa.
Un giorno ad un convegno a Roma mi sono trovato seduto accanto a Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche. Dopo esserci scambiati qualche commento sugli interventi degli altri relatori, e i rispettivi biglietti da visita, ci siamo poi incontrati di nuovo qualche settimana dopo. Alla fine ho letto il suo libro sulla Germania: Anschluss, l’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur editore, Reggio Emilia 2013).
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M5S: in ginocchio da Renzi
di Leonardo Mazzei
In ginocchio da Renzi. Gli hanno fatto 10 domande e loro gli hanno detto 10 SI'. Certo, lo hanno fatto ribadendo diverse obiezioni. Ma lo hanno fatto, mettendolo perfino per scritto. Sulla sostanza della proposta di legge del M5S - un finto proporzionale alla "spagnola", di fatto un maggioritario antidemocratico - abbiamo già argomentato in un altro articolo. Ora, con i 10 SI' di ieri, la sbandata di M5S si è fatta ancora più grave.
Nelle dieci risposte al Pd, i primi due SI' sono quelli decisivi. Con il primo si accetta il doppio turno, in base alla premessa renziana che "un vincitore ci vuole sempre". Con il secondo si accetta addirittura il premio di maggioranza, purché preventivamente vagliato dalla Corte Costituzionale. Ipotesi sulla quale anche Renzi sembrerebbe d'accordo.
Il principio secondo cui "un vincitore ci vuole sempre" era proprio quello alla base del Porcellum, realizzato in quel caso attraverso un premio di maggioranza senza soglia minima. Il doppio turno garantisce quello stesso risultato, senza bisogno di un premio di maggioranza esplicito, dato che il premio - lo scarto cioè, potenzialmente anche altissimo, tra la percentuale dei voti e quella dei seggi - è garantito implicitamente dal meccanismo stesso.
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