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Christine La “gaffe” (!?!)
di Carlo Formenti
La prima pagina del Corriere del 13 marzo dedica alla cosiddetta “gaffe” della presidente della BCE, Christine Lagarde, uno spazio assai più contenuto di quello di altri quotidiani nazionali, a ulteriore conferma della sua linea Europa uber alles. Tuttavia, dal momento che l’uscita della cinica rappresentante degli interessi della finanza globale è stata di portata tale da suscitare, oltre a pesanti effetti depressivi sulle borse, reazioni stizzite persino da parte del tremebondo Mazzarella e del dirigente della Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, il quotidiano milanese non ha potuto esimersi dal dedicare due pagine (la 8 e la 9) alla scandalosa battuta della segaligna Lagarde (“Non siamo qui per chiudere gli spread”). Così come ha indotto il pur inossidabile europeista Federico Fubini – nel taglio basso di pagina 8 – a farsi scappare alcune verità ormai troppo evidenti per essere ignorate.
Non si è trattato di una gaffe, spiega Fubini, bensì dell’imbarazzante ammissione di quali interessi guidino certe scelte: non a caso quelle parole ricalcano alla lettera una frase di Isabel Schnabel, rappresentante tedesca nel comitato Bce; non impreparazione o lapsus dunque, bensì rigorosa applicazione dei dettami della Bundesbank. La battuta in questione rivela l’auspicio che l’Italia, in odore di recessione a causa dell’epidemia, sia prima o poi obbligata a chiedere un “salvataggio” dalla Ue, avviandosi a subire il destino della Grecia (anche se questo, naturalmente, Fubini si astiene dall’esplicitarlo). Mentre la stizza della Confindustria è un sintomo evidente della paura che la Germania (e in misura minore la Francia) colgano l’occasione per arraffare altre fette del nostro apparato produttivo e dei nostri mercati, riducendo definitivamente l’Italia allo status di semicolonia degli “imperi centrali” (a tale proposito ricordo che il direttore del Sole24Ore, qualche giorno fa, si è spinto ad affermare che se l’Europa insiste a comportarsi in un certo modo, “è giusto che l’Italia vada per conto suo”).
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Coronavirus: lo spettacolo di un’epidemia che non ha avuto luogo
di Gianpaolo Cherchi
Quando l’emergenza Coronavirus sarà cessata (si spera, ovviamente, molto presto) e le nostre vite verranno restituite alla loro normalità, la domanda che dovremo farci dovrà essere la seguente: ha avuto veramente luogo un’epidemia di Coronavirus?
Ciò che abbiamo vissuto è stata una reale situazione di emergenza sanitaria o abbiamo piuttosto assistito ad uno spettacolo in cui fatti, numeri, statistiche, opinioni contrastanti e informazioni contraddittorie si sono accavallati con una velocità impressionante, dando luogo ad una situazione irreale? Che ruolo ha giocato, nelle misure estreme varate dal governo, l’informazione?
La velocità con cui hanno circolato le notizie in continuo aggiornamento sul contagio, la viralità con cui sono proliferate le opinioni contrastanti dei tecnici e degli esperti, l’eccezionalità delle soluzioni politiche adottate, sono tutti elementi che non possono esimerci da una riflessione sul ruolo tutt’altro che secondario che è stato giocato dalla percezione del fenomeno, o meglio sarebbe dire dalla sua spettacolarizzazione. Un punto soltanto sfiorato nel dibattito, spesso appena accennato quando non clamorosamente mancato o imperdonabilmente taciuto, mai approfondito a sufficienza. È quanto ci si propone di fare, invece, in questo articolo.
Percezione
È in relazione ai suoi studi sul rapporto tra velocità e politica che Paul Virilio introduce il concetto di logistica della percezione, pilastro fondamentale nella sua dromologia, o “scienza della velocità”. Il termine logistica non è casuale: oggetto di indagine del teorico francese è l’insieme delle operazioni di reperimento, catalogazione e distribuzione applicabili non alle persone e alle cose che fanno parte della realtà (si potrebbe dire alle merci, ma non lo diremo), quanto alle percezioni della realtà stessa, alle sue immagini (anch’esse, appunto, merci).
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La crisi precipita: helicopter money subito, come fatto a Hong Kong
di Enrico Grazzini
Il governo italiano può creare nuova moneta e distribuirla direttamente alle famiglie e alle imprese. Come è successo ad Hong Kong
La situazione sanitaria, economica e finanziaria è diventata gravissima ed emergenziale. Il governo italiano deve intervenire immediatamente per reperire tutte le risorse necessarie per fronteggiare la crisi ospedaliera e finanziaria, offrire subito reddito e liquidità alle famiglie e alle imprese, e prepararsi a fare ripartire l'economia nazionale prima che essa venga irrimediabilmente danneggiata.
La crisi sta precipitando anche perché la diffusione del Covid-19 ha innescato una gravissima crisi finanziaria globale che sta diventando paragonabile alla Grande Crisi dei Subprime, e che sta mettendo a nudo l'estrema fragilità e l'insensatezza del capitalismo finanziario: le borse stanno precipitando e i mercati stanno bruciando centinaia di miliardi di carta e di moneta falsa. La posizione dell'Italia è a rischio: non solo il nostro Paese è il più colpito dal virus ma è anche il più esposto sul mercato a causa dell'elevato debito pubblico.
Gli stati dell'eurozona dovrebbero intervenire subito con interventi immediati per tamponare la crisi senza attendere le istituzioni europee. La flessibilità e i finanziamenti promessi dall'Unione Europea sono ovviamente benvenuti ma rischiano di essere seriamente insufficienti, sia nel breve che nel medio periodo.
Il problema è che l'Unione Europea e la Banca Centrale Europea hanno già storicamente dimostrato di non essere in grado di affrontare una grave crisi economica e uno shock finanziario di grande portata come quella che sta avanzando a livello globale. La BCE è nata per combattere l'inflazione e non può fare molto contro la recessione. E l'Unione Europea è stata congegnata per diminuire la spesa pubblica e l'intervento pubblico.
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Il coronavirus e lo stato di eccezione individuale
di Fulvius Styx
«Il potere è dominio: può solo vietare e imporre l’obbedienza.»
Michel Foucault
A chi crede ancora, lungo tutto lo spettro politico, che i nostri imperi si preoccupino realmente della loro popolazione — «stavolta vogliono davvero il nostro bene» — o, detta altrimenti, che i nostri imperi non nutrano alcun interesse in questa crisi sanitaria, ci permettiamo di rispondere aggiungendo qualche riga all’eccellente descrizione fornita da Agamben sul Manifesto qualche giorno fa.
Promemoria per gli studenti della prima fila: il modello di contratto sociale che ha maggiormente ispirato e tuttora ispira la rete di potere non è quello di Jean-Jacques Rousseau, ma quello del Leviatano di Thomas Hobbes. Un’opera che ha dato vita ad altre correnti, tra cui quella utilitarista — alla quale dobbiamo il Panopticon di Jeremy Bentham. Questo brillante trattato di urbanistica (Il Panopticon!), in mano ai nostri governanti, ha partorito la maggior parte dell’architettura carceraria, ma anche di quella scolastica. Ma forse siete poco interessati alla scienza politica e all’urbanismo carcerario, e vi starete chiedendo: «che rapporto ci sarà mai tra il contratto sociale e l’aspetto terrorizzante di questa nuova influenza?»
Promemoria per gli studenti dell’ultima fila: l’etimologia di «strategia» viene da «strategemma» («complottista!»), e dovrebbe portarci a considerare un’evidenza: che l’astuzia dell’avversario è sempre relativa, e si definisce sempre in rapporto alle nostre qualità percettive — alla nostra capacità cioè di leggere tra le righe nei discorsi dei governanti e dei loro galoppini senza qualità.
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Il virus dell’uomo capitalistico
di Michele Castaldo
Valter Veltroni, consumato uomo politico italiano, ex sindaco di Roma nonché intellettuale e scrittore, in un fondo sul Corriere della sera di giovedì 12 marzo, in una perentoria affermazione include una capziosa domanda: «Ma questo virus - qualcuno un giorno ci dirà con certezza da dove è sbucato? – cambia la storia».
Concediamo il beneficio della buona fede al signor Veltroni e gli consigliamo di leggere qualche buon saggio su come si sono sviluppati certi virus negli ultimi 250 anni. Potrebbe leggere qualcosa di Richard Levins, biologo, matematico e filosofo, oppure di Robert G. Wallace, sennò di Laura Spinney che scrive, tra il saggio e il romanzo, un testo di estremo interesse al riguardo. Questo, ripeto, se in buona fede intende veramente comprendere la natura di certi virus e farsi un’idea più precisa da dove potrebbe provenire l’attuale coronavirus. Se in malafede, lo lasciamo in balia degli eventi e in compagnia della sua ignoranza.
Ma a parte il dubbio sulla provenienza del virus, a Valter Veltroni va riconosciuto il merito di una intuizione brillante, quando afferma: «Ma questo virus cambierà la storia». Si, questo virus cambierà la storia, dunque la percezione è che ci troviamo di fronte a un fatto storico straordinario.
Dal momento che Veltroni non è uno qualsiasi e ancor meno lo è il Corriere della sera, giornale storico della borghesia italiana, dobbiamo dedurne che sua eccellenza l’Establishment sta tremando di fronte a un fenomeno con caratteristiche poco controllabili e poco gestibili; e che per esorcizzare la paura comincia a pensare al «dopo-virus», cercando di farsi coraggio dando fondo alle proprie risorse di ottimismo italico. Diamine, siamo un grande paese con una storia straordinaria alle spalle!
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Il “cigno nero” e’ qui. Crisi, guerra e prospettive dello scontro di classe
di *
Che sia il canto del cigno del capitalismo decadente!
Un castello di carte
Sotto la sferza dell’epidemia di coronavirus, una nuova crisi produttiva e finanziaria del sistema capitalistico internazionale è tornata a farsi estremamente vicina e, mai termine fu più appropriato, virulenta.
Se a dar fuoco alle polveri nel 2007/2008 sono stati i mutui sub-prime, oggi è il covid-19 ad aprire le danze, cioè uno shock esogeno, anche se tale aggettivo è corretto solo se utilizzato in senso stretto, cioè prescindendo da tutte le devastazioni che il modo di produzione capitalistico ha inferto all’ambiente naturale, nel senso più ampio del termine e che, negli ultimi decenni, si sono estese e approfondite con una progressione esponenziale.
In ogni caso, il coronavirus ha svolto la funzione di detonatore di contraddizioni e problemi che l’economia capitalistica porta in grembo da tempo e che, a dispetto del suo andamento ciclico – fatto di recessioni/crisi finanziarie e riprese successive e nonostante la situazione diversa in cui si collocano le differenti aree – si caratterizza per una difficoltà crescente della riproduzione capitalistica a scala globale, che ha la sua radice nella crescente difficoltà di valorizzazione, della quale i più sofisticati artifici della finanza speculativa e l’impiego di tutte le risorse delle Banche Centrali, capaci di creare denaro – ma non valore – dal nulla non riescono a venire a capo.
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Le pandemie come fallimento istituzionale
di Maurizio Franzini
“Molti dei più grandi mali del nostro tempo sono il frutto del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza.” Così scriveva, quasi un secolo fa, nel 1926, Keynes nel suo The End of Laissez-Faire. Queste sue parole sembrano appropriate per riflettere sul grande male di questi giorni, la pandemia da corona virus, ed è così anche considerando quelle che immediatamente le precedono: “la cosa importante per il governo non è fare le cose che gli individui già fanno, né è farle un po’ meglio o un po’ peggio; ma è fare le cose che nessuno fa…”. Proviamo a vedere cosa c’entra tutto questo con la pandemia da corona virus, iniziando da qualche riferimento storico.
È stato osservato da G. Yamey et al. su The Lancet che rispetto alle pandemie si susseguono cicli di panico e cicli di indifferenza, se non proprio – aggiungo io – di serena incoscienza. Il riferimento non è ai singoli individui ma ai governi e, più in generale, alle istituzioni che in vario modo sono collegate alle pandemie. Restando su un orizzonte temporale breve, rispetto alla storia secolare delle pandemie, si può ricordare che, stando a quanto riporta F. M. Snowden nel suo libro Epidemics and Society (Yale University Press, 2019, p. 23) alla fine degli anni ’60 il clima di euforia, a livello globale, rispetto alla capacità di combattere le epidemie era tale che le Università di Yale e Harvard chiusero i dipartimenti universitari sulle malattie infettive. Da allora, come è noto, non sono affatto mancate epidemie e pandemie e, soprattutto, non sono mancati veri e propri gridi di allarme provenienti da diversi ambiti scientifici.
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Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
di Roberto Buffagni
Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.
L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche delle nazioni e dei popoli. La scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.
Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:
- Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
- Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).
Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo.
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«Una nuova politica di classe»?
Note critiche sui discorsi attuali [*1]
di Thomas Meyer
- I -
È da un po' di tempo che la questione sociale e la politica di classe sono sempre più oggetto di discussione. Sebbene le situazioni sociali ecc. siano state discusse fin dal primo decennio del secolo, negli ultimi anni questo discorso ha ricevuto un nuovo impulso. Una delle ragioni, è stata l'elezione di Donald Trump, anche lui eletto dai "lavoratori" [*2][*3]. Inoltre, tutti questi discorsi sono motivati dal fatto che anche la "nuova destra" fa riferimento alla "questione sociale" (o a quello che la destra intende con essa): allo stesso modo in cui lo fa il Front National, o Björn Höcke che fa appello al "patriottismo solidale". Questo discorso è stato alimentato da varie pubblicazioni, in particolar modo dal libro di Didier Eribon, "Ritorno a Reims". [*4]
È vero che per molto tempo la questione sociale è stata del tutto ignorata da vasti settori della sinistra, che aveva smesso di farne un argomento. Questo vale in particolare per la sinistra postmoderna, la quale ha rinunciato a qualsiasi pretesa di verità, attribuendo il totalitarismo a qualsiasi "grande teoria", e considerando tutto come semplicemente un discorso, come un gioco del linguaggio e, pertanto, non era in condizione di poter fare un'analisi attualizzata del presente. Il postmodernismo, non solo ha reso apatica la sinistra, ma con il collasso del blocco dell'Est ha anche portato ad una paralisi permanente. Le reazioni al 1989 sono state di due tipi: o una resa incondizionata, oppure un «continuare così» - in quello che è il passaggio socialista - come se non fosse successo niente. Una crisi del capitalismo, un limite interno alla valorizzazione del valore non poteva esserci! [*5].
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Coronavirus e dintorni , laboratorio Italia
Grande esercitazione "tutti ai domiciliari e tutti in guerra"
di Fulvio Grimaldi
Tornate alle vostre superbe ruine, /All’opere imbelli dell’arse officine, /Ai solchi bagnati di servo sudor. / Il forte si mesce col vinto nemico, / Col novo signore rimane l’antico; / L’un popolo e l’altro sul collo vi sta. / Dividono i servi, dividon gli armenti; / Si posano insieme sui campi cruenti / D’un volgo disperso che nome non ha /Alessandro Manzoni, Adelchi, Atto III).
Per “l’un popolo e l’altro” possiamo intendere correttamente "Oligarchie globalizzatrici" e "loro euro- e italo-domestici".
Ciao ragazzi, ciao di Adriano Celentano, buona risposta al “solo in casa” contiano:
Nooo, nooo ! Ciao ragazzi, ciao. Voglio dirvi che… un giorno sono venuti a prendere anche me (te, lei, lui, noi) e non c’era più nessuno a protestare (tranne i detenuti, non quelli ai domiciliari come tutti, buoni buoni, ma gli altri, in carcere).
Un bignamino dell’esercitazione
E così vi traccio l’evoluzione di quanto ci stanno facendo attraverso la serie di titoli che, via via, ho immaginato per l’articolo che stavo pensando, mentre si passava, di doccia scozzese in doccia scozzese, fino al l’obnubilamento e alla sottomissione generali, dall’allarme forsennato, alla rassicurazione paterna, alla tranquillizzazione così così, a seconda dei propagandisti di turno, al catastrofismo assoluto. E dunque allo stato d’assedio proclamato dal Conte Pippo lunedì sera e spalmato sul colto e l’inclita a dosi maggiorate dai cantori di Big Pharma e dello Stato di Polizia.Volevo vedere come sarebbe andata a finire prima di scrivere e, nel frattempo c’erano da seguire altre baracconate, specie mediorientali, dei dirittioumanisti da plutocrazia.
Coronavirusando
La traccia dell’ultima mesata è questa:
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Su una recente edizione tedesca del I libro del Capitale*
Nota critica di Alessandro Cardinale
Karl Marx, Das Kapital, Kritik der politischen Ökonomie, Erster Band, Buch I: Der Produktionsprozess des Kapitals, a cura di Thomas Kuczynski, VSA Verlag, Hamburg, 2017
Di carta e di silicio si presenta la più recente edizione tedesca del Libro primo de Il capitale: il libro cartaceo con il testo principale è infatti accompagnato da una pennetta USB a forma di carta di credito che contiene una copia digitale del testo e l’apparato storico-critico. Il curatore Thomas Kuczynski, statistico di formazione, nato a Londra nel 1944 durante l’esilio del padre Jürgen (l’autore della monumentale opera Die Geschichte der Lage der Arbeiter unter dem Kapitalismus, uscita a Berlino dal 1960 al 1972 in 40 volumi), è stato l’ultimo direttore dell’Istituto per la Storia dell’Economia dell’Accademia delle Scienze della DDR, sciolta il 31 dicembre 1991.
La scelta di Kuczynski è stata di partire da quella che considera «la base irremovibile di ogni nuova edizione [die unverrückbare Grundlage jeder neuen Ausgabe]»1 del Libro primo, vale a dire dalla seconda edizione, quella licenziata da Marx in persona, e di editarla2 scegliendo «in ogni singolo caso dalle differenti varianti testuali marxiane [...] quella che col maggior grado di probabilità avrebbe corrisposto alle intenzioni dell’autore accennate nel Dicembre del 1881»3. Il riferimento è alle intenzioni accennate nella lettera inviata il 13 Dicembre 1881 a Nikolai F. Daniel´son4, lettera in cui Marx affermava che avrebbe concordato con l’editore di effettuare per la terza edizione solo le modifiche e integrazioni indispensabili (rimandando invece a un tempo successivo una ulteriore più ampia rielaborazione).
Il bisogno o l’opportunità di forni re una edizione alternativa alla terza e quarta (pubblicate rispettivamente nel 1883 e nel 1890) curate da Engels sta per Kuczynski nella convinzione di poter svolgere rispetto a quello engelsiano un lavoro editoriale migliore, cioè più fedele alla volontà di Marx.
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Il discorso di Conte: coronavirus e cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Raramente, forse mai, un momento così solenne è stato fatto oggetto di un discorso così inadeguato. Mai in tempo di pace un’intera nazione era stata fermata, limitati gli spostamenti da paese a paese, da città a città, chiusi gli esercizi ad orario da coprifuoco, ostacolati i normali spostamenti, impedite le manifestazioni e qualunque riunione, dai matrimoni alle funzioni religiose, ai funerali.
Mai in tempo di pace.
Perché, in effetti, non siamo più in tempo di pace.
Qualcuno ci ha dichiarato guerra. E non è stato il coronavirus.
Lui non è neppure un essere vivente, e non è tanto meno un’individualità (si tratta di una nuvola di virus a Rna, continuamente mutanti). Il coronavirus si sta semplicemente adattando ad un nuovo ambiente, essendo ‘saltato’ dal vecchio ospite ad un altro. Non è una cosa particolarmente strana, noi conviviamo con miliardi di organismi, batteri e virus, che sono integrati nel nostro organismo, ma questo è nuovo.
Quella che ci ha dichiarato guerra è la nostra stessa follia. In linguaggio informatico sarebbe un difetto di sistema. Aver per decenni ridotto la spesa sanitaria, portandola sotto il livello di un paese a reddito pro capite medio come la Cina, eliminato quasi tutti i servizi territoriali di prevenzione, ridotta la pubblica amministrazione sotto la media europea (16% dei lavoratori). Solo Germania, Lussemburgo e Olanda hanno meno dipendenti pubblici, paesi come la Scandinavia ne hanno il doppio. In generale siamo alla metà dei paesi nordici, il 14% dei dipendenti, per 3,2 milioni di addetti. Per fare un paragone con paesi simili, la Spagna ne ha il 15% e la Francia ben il 22%. Portarci al livello della famosa burocrazia e livello dei servizi pubblici francesi significherebbe, dunque, assumere 1,5 milioni di addetti, portarci intanto alla media europea corrisponderebbe a 0,4 milioni di assunzioni urgenti.
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Uno si divide in due
di Alain Badiou
In Il secolo, Cap. 6, 7 - aprile 1999
Il secolo, dunque, non è in alcun modo un secolo di “ideologie” nel senso dell’immaginario e delle utopie. La sua determinazione soggettiva principale è la passione del reale, di ciò che è immediatamente praticabile qui e ora. Abbiamo dimostrato che l’importanza della finzione non è che una conseguenza di tale passione.
Che cosa dice il secolo, a proposito del secolo? Che, in ogni caso, non si tratta del secolo della promessa, ma del compimento. È il secolo dell’atto, dell’effettivo, del presente assoluto, non quello dell’annuncio e dell’avvenire. Dopo millenni di tentativi e di insuccessi, il secolo vive se stesso come il secolo delle vittorie. È al secolo precedente, all’infelice romanticismo del xix secolo che gli attori del xx riservano il culto del tentativo vano e sublime, e quindi l’asservimento ideologico. Il xx dice: basta con i fallimenti, è l’ora delle vittorie! Questa soggettività vittoriosa sopravvive a tutte le apparenti disfatte, in quanto non è empirica, ma costituente. La vittoria è il motivo trascendentale che organizza il fallimento stesso. Uno dei nomi di tale motivo è “rivoluzione”. La rivoluzione d’Ottobre, le rivoluzioni cinesi e cubana, e poi le vittorie degli algerini e dei vietnamiti nelle lotte di liberazione nazionale valgono tutte come prova empirica del motivo e sconfiggono i fallimenti, riparano i massacri del giugno 1848 o della Comune di Parigi.
Il mezzo della vittoria è la lucidità, teorica e pratica, nei riguardi di uno scontro decisivo, di una guerra finale e totale. Dal fatto che tale guerra sia totale deriva che la vittoria sia veramente vittoriosa.
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Specchi lontani e vicini: la malattia come evento e come rappresentazione
di Eros Barone
Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami. / Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, / di cui lor sorte rea padre ti fece, / vanno adulando, ancora / ch’a ludibrio talora / t’abbian fra sé... libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il pensiero...
Giacomo Leopardi, Da La ginestra.1
1. Una storia, più storie
La diffusione del coronavirus e il clima di allarme e di mobilitazione che il fenomeno in corso sta scatenando nel mondo e segnatamente nel nostro paese costringe a riconoscere nell’esperienza della malattia una dimensione largamente presente, e quindi cruciale, nella vita delle generazioni umane. In effetti, chi si avvicina alla storia del passato è inesorabilmente colpito dall’onnipotenza della malattia. Essa, del resto, ha sempre costituito uno dei passaggi obbligati della narrazione storica e della reinvenzione letteraria, da Tucidide ai cronisti medievali, da Boccaccio al Manzoni, senza dimenticare due classici del Novecento come La montagna incantata di Thomas Mann e La peste di Albert Camus.
Manifestazione del male e nel contempo inquietante metafora del male, la malattia rappresenta e simboleggia quel sentimento di insicurezza che, già ben presente e radicato nelle età antica, medievale e moderna, costituisce, ad onta delle rimozioni e a dispetto della scotomizzazione, il fulcro della sensibilità contemporanea nell’epoca del tardo capitalismo e della sua cronica “crisi generale”.
Endemica debolezza fisica, epidemie, pandemie, tubercolosi, malaria, malattie della pelle e malattie nervose, malformazioni di tutti i generi, mutilazioni, e, su tutto, la peste e la lebbra: la storia di queste fattispecie nosologiche è connessa in modo inestricabile con quella delle società, ed è un intreccio molteplice.
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Documento preparatorio della Tesi sul socialismo del XXI secolo
di Carlo Formenti e Alessandro Visalli
Contributi e revisioni: Andrea Zhok, Mimmo Porcaro, Onofrio Romano, Thomas Fazi
1. Socialismo o barbarie
Viviamo una fase storica in cui il socialismo appare, al tempo stesso, impossibile e necessario. Mentre la prospettiva socialista sembra oscurata da secoli di errori politici, teorici e culturali, l’alternativa socialismo o barbarie non è mai stata attuale come oggi. Questo perché quarant’anni di rivoluzione neoliberista hanno trascinato il mondo sull’orlo del collasso economico, politico, sociale e ambientale. Il capitalismo contemporaneo, in misura superiore a tutte le forme che lo hanno preceduto, distrugge a ritmo accelerato ogni struttura sociale e comunitaria, fino alle famiglie e agli stessi individui; genera disuguaglianze crescenti, che crescono su se stesse fino ad assumere proporzioni intollerabili; appiattisce il potere politico sul potere economico, distruggendo i fondamenti della democrazia; sconvolge l’ambiente in misura tale da minacciarne le condizioni di compatibilità con la specie umana.
Il combinato disposto della rivoluzione tecnologica – in particolare nei settori della comunicazione, dei trasporti, dell’intelligenza artificiale e della robotica industriale -, della deregulation finanziaria e della globalizzazione dei mercati di merci, forza lavoro e capitali genera effetti devastanti sulle condizioni di lavoro e di vita di miliardi di esseri umani. In tutto il mondo sono in atto “riforme” del lavoro che prevedono la riduzione delle tutele dal licenziamento, la proliferazione di mercati del lavoro che contemplano livelli diversi di tutele giuridiche, sanitarie, infortunistiche, assistenziali, ecc. dei lavoratori, l’autorizzazione di forme di lavoro precarie e a bassa retribuzione, l’accettazione di elevati tassi di disoccupazione, il depotenziamento dei diritti sindacali e la conseguente decontrattualizzazione dei rapporti di lavoro.
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I fantasmi di una recessione prossima ventura
Le sue implicazioni sul piano di classe e su quello internazionale
di Gianfranco Greco
L’incendio della Grenfell Tower è la tragedia che ha riguardato un grattacielo, o meglio un termitaio, in cui erano accatestati/alloggiati poveri, immigrati, gente comune che ha avuto origine dall’incendio, nel 2017, di pannelli altamente infiammabili che costituivano il rivestimento esterno del medesimo grattacielo, pannelli il cui utilizzo – dato tristemente rilevante – consentiva un miserevole risparmio di 2,5 euro a metro quadro ma che – a causa della loro pericolosità – erano stati già banditi dal resto d’Europa. Al tirar delle somme quello spregevole risparmio, in linea con le regole auree dell’economia borghese, ha avuto quale tragico corrispettivo la morte di 78 persone.
Il fattaccio della Grenfell Tower emblemizza, con cruda trasparenza, le crescenti criticità che involgono una realtà britannica tutta sospesa all’interno di una stucchevole pantomima, la Brexit, che, contrariamente ai desiderata di settori della borghesia britannica che hanno sempre considerato il permanere del Regno Unito nella UE come fastidioso orpello capace di mortificare i sogni degli hardbrexiters, tutti presi a favoleggiare di una “Singapore on Thames”, ossia un regno della finanza ultra-liberista completamente avulso da regole sul lavoro e sull’ambiente, è rimasta impantanata in tutta una serie di problemi, risolti i quali ne sorgerebbero – come per le teste dell’Idra di Lerna – altri ancora. Stando a tale scenario Londra metterebbe a profitto la fuoriuscita dall’Unione europea attestandosi quale spazio di intermediazione tra il sistema finanziario Usa e società della UE il cui preminente obiettivo sarebbe l’accesso ai mercati statunitensi.
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Quale Karl Polanyi?
di Michele Cangiani
Negli ultimi anni, è potentemente ripresa a livello scientifico la discussione sull'eredità di Karl Polanyi. Ma la maggior parte dei suoi interpreti contemporanei elude la questione, fondamentale per lui, delle caratteristiche più generali che distinguono la società contemporanea. È da qui, però, che bisognerebbe ripartire
Tempo di crisi
A un giornalista, che nel settembre 2007 gli chiedeva quale candidato preferisse per la presidenza degli Stati Uniti, Alan Greenspan, Presidente della Federal Reserve fino all’anno precedente, rispose che non importava molto: «Il mondo è governato dalle forze di mercato»[1]. Con quali risultati? Era in vista la crisi, che tuttora non si può dire superata. Teoria e pratica neoliberali restano in auge, benché dannose per l’ambiente umano e naturale e persino controproducenti rispetto al loro scopo “economico”. Continua, infatti, ad essere stentata e precaria la ripresa dell’accumulazione capitalistica, anche perché la svalutazione globale della forza lavoro e l’aumento della quota di reddito assorbita dalle rendite, finanziarie ma non solo, hanno un vantaggio immediato, ma poi un effetto deflattivo. Inoltre, la “crescita” sempre auspicata si scontra con quei «limiti dello sviluppo»[2], che non sono più una previsione, ma una realtà.
C’è chi parla di crisi ‘sistemica’ e chi ricorre a Karl Marx (Il Capitale, L. III) per spiegarla. Ben più assiduo riferimento viene fatto all’opera di Karl Polanyi, la fortuna del quale ha continuato a crescere nel tempo della nostra sfortuna, a partire dalla crisi degli anni 1970 e soprattutto con il successivo affermarsi della globalizzazione neoliberista.
La sensazione che i tentativi di superare le difficoltà in cui la nostra società si trova siano poco efficaci o addirittura controproducenti porta alla questione cruciale, rappresentabile con una metafora cibernetica: se correggendo la mira l’errore aumenta, è il sistema di puntamento che va modificato. Ma come? In The Great Transformation (1944)[3], Polanyi sostiene che la crisi del capitalismo liberale (ottocentesco, «vittoriano») era inevitabile e definitiva.
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La trasformazione dei valori in prezzi di produzione
Il capitolo IX del Terzo libro del Capitale
di Giorgio Bellucci
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
I.
Sono passati più di 120 anni dall’uscita del III libro del Capitale di Marx a cura di F. Engels. Fin da subito, quel testo fu oggetto e bersaglio delle più forti critiche, da destra e da sinistra, da parte di tutte le più varie specie di economisti e filosofi, da parte di antimarxisti come da parte di marxisti eterodossi, ortodossi, rinnovatori o riformisti. Per onestà intellettuale bisogna riconoscere che una tale sequela, lunga più di un secolo, non ha eguali in letteratura né in economia.
Delle molte soluzioni che si sono tentate di dare al famoso problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, si può discettare quale sia, o possa essere, la più vicina all’originale; nessuna però, in ogni caso, si presenta basata sui calcoli del Capitolo nono o sui ragionamenti impliciti ed espliciti dello stesso capitolo. La materia è dunque ancora incandescente e da parte degli studiosi, accademici o meno, il rischio di scottarsi è sempre alto.
Sono convinto da tempo che se anche si trovasse una soluzione logicamente coerente al problema della trasformazione, essa non sarebbe comunque considerata valida e validante ai fini dell’interpretazione della società capitalistica. Sono anzi convinto che essa scatenerebbe ulteriore livore verso l’opera di Marx. D’altronde, le continue accuse di falso che percorrono le pagine di Bortkievicz o di Steedman stanno lì a dimostrarlo. Come già avvenuto in passato, quando alcuni pezzi dell’intellettualità marxista e di quella keynesiana attribuirono addirittura a Marx e al suo esercito industriale di riserva le radici analitiche alla base delle teorie dell’inflazione legate alla curva di Philips, anche oggi la storia potrebbe ripetersi.
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Rosa Luxemburg, teorica marxiana dell’economia e della politica
di Riccardo Bellofiore
[Dal numero monografico dedicato a Rosa Luxemburg dalla rivista «Alternative per il socialismo», n. 56, dicembre 2019/marzo 2020]
«Qualche sentimentale piangerà che dei marxisti bisticcino fra loro, che ‘autorità’ provate siano messe in discussione. Ma il marxismo non è una dozzina di persone che si distribuiscano a vicenda il diritto alla ‘competenza’, e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria che lotta per sempre nuove conquiste della conoscenza, che da nulla aborre più che dalle formule valide una volta per tutte, che mantiene viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate dell’autocritica e nei fulmini della storia.» (Rosa Luxemburg, 1916)
Sono trascorsi cento anni dall’assassinio di Rosa Luxemburg. Ecco che si sono svolte numerose iniziative per ricordarne la figura, è stato pubblicato qualche volume, o qualche articolo di rivista. Certo, nulla a che vedere con la doppia ricorrenza marxiana che abbiamo alle spalle (due anni fa, il cento- cinquantenario della pubblicazione della prima edizione del Capitale, l’anno scorso duecento anni dalla nascita di Karl Marx). Nel caso di Rosa Luxemburg, comprensibilmente (ma pur sempre discutibilmente) il fuoco eè stato sulla figura personale e politica, non sulla teorica, tanto meno sulla Luxemburg economista. Il che, dal mio punto di vista, è una mutilazione che cancella il centro della figura che si vuole ricordare, e in fondo rende concreto il rischio di disperderne l’eredità.
Mi proverò allora a ripercorrerne la riflessione guardando agli scritti economici e politici, oltre gli stereotipi. Si comincerà dalla Luxemburg marxista, per approdare alla Luxemburg marxiana, che ci interroga ancora oggi. Dovrò procedere un po’ con l’accetta, rimandando per un approfondimento a miei altri scritti, che saccheggerò qua e là.
Gli inizi: ristagno e crisi nel marxismo
Rosa Luxemburg nasce il 5 marzo 1871. Formalmente, la sua istruzione universitaria, un vero e proprio dottorato, fu a Zurigo (dov’era emigrata nel 1889), in legge ed economia, dopo iniziali studi in filosofia, scienze naturali e matematica.
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La questione ambientale
di Ascanio Bernardeschi
Pubblichiamo la relazione introduttiva di Ascanio Bernardeschi al seminario promosso dell’Associazione la Rossa
L’impegno, e l’auspicio di riuscirci, è che questo sia un primo seminario promosso dell’Associazione la Rossa per poter discutere, con maggiore possibilità di approfondimento di quanto possa avvenire nei pur interessanti, tradizionali dibattiti nelle feste rosse, di questioni della massima rilevanza.
E la questione dell’ambiente e del clima ha la massima importanza, se si pensa che il doomsday clock, la lancetta virtuale che simboleggia la distanzia dalla catastrofe del pianeta, la quale nel 1947 indicava 7 minuti alla fine del mondo, oggi indica 100 secondi. Abbiamo cioè consumato abbondantemente ¾ del tempo a disposizione. Il motivo di tale pericoloso avvicinamento è dato sia dal rischio di un conflitto disastroso, sia dai rapidi cambiamenti climatici in atto. Le due cause hanno fra di loro una forte correlazione.
A noi non interessa interloquire con i negazionisti ma con chi, anche da posizioni diverse dalle nostre, prende atto del problema e si pone l’obiettivo di risolverlo.
Però, se va crescendo la consapevolezza della concretezza del problema, non è così per le cause e i rimedi, anche a causa di tesi massicciamente divulgate quanto fuorvianti, talvolta per insufficienza analitica, altre per deliberata scelta.
A fine gennaio, per esempio, mi sono imbattuto nel Manifesto di Assisi per un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica, un documento che ha raccolto ben 2 mila adesioni fra istituzioni, mondo economico, politico, religioso ecc. Fra i promotori, oltre al solito “ambientalista” embedded (nel senso di arruolato al sistema), Ermete Relacci, ed esponenti della Chiesa cattolica, vi figurano i presidenti di Coldiretti e Confindustria e gli amministratori delegati di Enel e Novamont. La compagnia è già di per sé eloquente.
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Il disastro della nuova scuola
E il compito di restaurare l’istruzione pubblica
di Paolo Di Remigio, Fausto Di Biase
Le riforme attuate nella scuola italiana ed europea negli ultimi trent’anni contrastano in modo così risoluto con la natura della didattica da poter essere comprese soltanto come effetti del contemporaneo rivolgimento politico. Sconfitto l’«impero del male», l’oligarchia economica occidentale, quella che ispira i documenti degli organismi internazionali e parla attraverso i giornali, ha potuto finalmente rompere l’alleanza più onerosa, quella con le masse; ha dunque indebolito gli Stati e sottratto loro il controllo delle banche centrali per indebitarli e abbattere la spesa sociale, e ha introdotto la mobilità dei capitali, delle merci e delle persone per colpire il lavoro. Il diffondersi della disoccupazione ha falcidiato i salari, precarizzato i contratti dei lavoratori e annientato le loro organizzazioni. Sindacalisti e politici di sinistra hanno però conservato la loro professione – cambiando schieramento: li ha captati l’oligarchia perché la loro influenza sui lavoratori li rendeva utili a sopire le resistenze. Da allora progressisti e rivoluzionari dissimulano con la lotta contro l’eterno fascismo e per i diritti umani la loro complicità in un attacco al lavoro pari soltanto a quello avvenuto durante il vero fascismo[1].
La sicurezza economica dei lavoratori per un lato dipende dall’azione dello Stato per realizzare la piena occupazione, per l’altro è condizione della famiglia. Le oligarchie non potevano realizzare il loro piano generale di precarizzazione[2] senza inserirvi la scuola, che si colloca tra famiglia e Stato. Così l’hanno separata da quest’ultimo per assoggettarla agli organismi internazionali, l’hanno denigrata con la propaganda e demoralizzata con lo stillicidio delle riforme perché gli abbienti si rivolgessero all’istruzione privata; inoltre le è stato prescritto di invadere le competenze della famiglia occidentale votata all’estinzione[3] e di educare ai valori della nuova società multietnica; infine è stata costretta a organizzare il tirocinio per il lavoro precario.
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Coronavirus, cronache del crollo
di Alessandro Visalli
8 marzo 2020, ore 18.00, Napoli, Italia.
Una professoressa dei miei due figli potrebbe essere contagiata, o almeno lo teme. Un suo compagno ha un caso nel palazzo di casa e un altro, di un’altra classe, risulta positivo. Ma in Campania quasi un giorno fa risultavano meno di novanta casi.
Nel mondo cento paesi risultano[1] contagiati, in Cina si è arrivati al picco di circa ottantamila casi ma ora è in fortissimo calo, in Corea del Sud ci sono oltre settemila casi, in Italia più di seimila probabilmente, l’Iran ha quattromisettecento casi, seguono la Germania con seicentotrentanove casi, la Francia con seicentotredici, il Giappone con quattrocento, la Spagna con trecentosettanta, la Svizzera con duecento, gli Stati Uniti con duecentotredici casi, il Regno Unito con centosessanta, e via dicendo. In tutto circa centomila casi nel mondo e tremilacinquecento morti.
Obiettivamente, se fosse questo, sarebbe un’inezia.
Ma quel che conta sono due cose: ieri in Italia c’erano oltre mille casi in meno, e ovunque, salvo in Cina, l’andamento quando è monitorato è in crescita esponenziale; una parte dei casi rilevati, uno su cinque, sviluppa complicazioni polmonari serie o gravi e la metà deve essere ricoverato in terapia intensiva pena una rapida morte per asfissia.
Quanti sono uno su dieci? Troppi.
Prendiamo la celebrata sanità italiana: sessanta milioni di abitanti, al vertice insieme a Germania e Giappone della classifica delle popolazioni più anziane; centocinquantamila posti letto pubblici e quarantamila privati; ma solo cinquemila al massimo abilitati per la terapia intensiva per la quale bisogna avere, oltre alle attrezzature mediche, un medico specializzato e due infermieri specializzati per ogni quattro posti letto. Complessivamente si stima che sono impegnati fino a quindici addetti per ogni persona in grave rischio di vita.
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Didier Eribon, Ritorno a Reims
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
A volte capita di imbattersi senza nemmeno volerlo in libri che si rivelano molto più interessanti di quanto non si immaginasse quando li si è presi in mano. Ritorno a Reims, di Didier Eribon e pubblicato in Italia nel 2017 per i tipi della Bompiani è sicuramente uno di quei casi. Si tratta di un lavoro difficilmente catalogabile perché lo si potrebbe approcciare come un piccolo saggio di sociologia sulle trasformazioni delle classi popolari francesi, oppure, senza per questo sbagliare, potrebbe essere letto tranquillamente come l’autobiografia di un proletario cresciuto in un ambiente pieno di pregiudizi che si ferma a riflettere sulla propria omosessualità e sul percorso di soggettivazione e “reinvenzione di sé” che l’ha portato a scappare dall’ambiente sociale della sua infanzia e della sua adolescenza, fino a farne, come lui stesso si definisce, un “transfugo di classe”. A ben vedere, però, la definizione che più si addice a questo libro è quella data dallo stesso Eribon: un’analisi storica e teorica fortemente ancorata, però, ad un’esperienza personale. La morte del padre, che non vedeva ormai da anni, spinge infatti l’autore ad intraprendere un viaggio di ritorno verso quel “periurbano imposto”, quello spazio istituito della segregazione urbana e sociale in cui sono stati spinti a vivere i suoi genitori, due operai di tradizione comunista che nella loro vita avevano avuto la fabbrica come unico orizzonte sociale possibile.
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Althusser e l’Ideologia
di Bollettino Culturale
Viviamo in un mondo dominato da un modo particolare di vedere, in cui le opinioni neoliberali, socialmente autoritarie e pro-capitaliste sono date per scontate dalla maggior parte della popolazione, almeno in alcune parti del mondo. Questo fenomeno, indicato come «ideologia» nella teoria marxista, è il campo principale in cui Louis Althusser è rilevante.
Sebbene non sia più ampiamente studiato nei corsi universitari, lo strutturalista marxista Althusser ha avuto una grande influenza sia sulla teoria critica, sia sullo sviluppo del marxismo dagli anni ’70. Badiou, Ranciere e Balibar sono tra i suoi seguaci più noti, Laclau e Castells sono tra i suoi ex allievi e Spivak, Žižek, Foucault e Negri mostrano tutti forti segni della sua influenza.
È diventato fuori moda per una serie di ragioni, alcune biografiche, altre teoriche. Tuttavia, essere fuori moda non implica necessariamente essere meno rilevanti. La teoria dell’ideologia di Althusser continua a fornire spunti sul funzionamento di un discorso dominante sempre più chiuso, anche se, come suggerito di seguito, presenta anche difficoltà fondamentali.
La funzione dell’ideologia
Per capire il lavoro di Althusser, è necessario dare un senso al modo in cui usa le idee della struttura sociale. Althusser è un teorico sincronico, non diacronico. Ciò significa che, anziché guardare alle origini storiche degli aspetti della struttura sociale, osserva come si adattano insieme in un sistema, le funzioni che svolgono e come possono essere ricostruiti teoricamente come escrescenze della logica sottostante del sistema.
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Il ritorno della questione salariale
di Luca Casarotti
Una recensione a “Basta salari da fame!” di Marta e Simone Fana
A due anni da Non è lavoro, è sfruttamento (già recensito qui su Lavoro Culturale), Laterza pubblica Basta salari da fame! (2019, pp. XX-172). L’accostamento dei titoli è sufficiente a segnalare che i due libri sono tra loro in rapporto di stretta parentela. Non solo perché Marta Fana è autrice del primo e coautrice – con il fratello Simone – del secondo, ma anche perché comune è il tema affrontato: i modi in cui si dà lo sfruttamento della classe lavoratrice, in Italia e non solo. Se il pamphlet del 2017 era soprattutto una fenomenologia del qui e ora, il saggio del 2019 mantiene il focus sull’attualità, ma imprime alla critica dello stato delle cose la profondità della prospettiva storica. L’obiettivo è rompere la gabbia del “non ci sono alternative”, ossia rispondere con gli strumenti del materialismo storico alla naturalizzazione del presente. O meglio, di un’idea del presente, quella condensata nell’ubiqua massima (d’autore incerto) secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Una naturalizzazione che si è sentita evocare a più riprese in occasione dei trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, e che non è affatto nuova. È anzi piuttosto datata: il libro che ne rappresenta il manifesto filosofico politico, The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama, risale al 1991), ma riprende in buona sostanza Kojève, il quale a sua volta interpretava, forse unilateralmente, Hegel. Come che sia, è poca cosa accontentarsi di constatare quanto può essere vecchia e teoricamente insostenibile l’idea di un capitalismo naturalizzato, perché è su quest’idea (non a caso strenuamente difesa dal suo cantore, a costo d’introdurre caveat e fare concessioni ai critici) che si continuano a giustificare la realtà dei rapporti di produzione e le radicali ineguaglianze che ne sono il fondamento e il prodotto.
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