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Un banale “viaggiatore zaino in spalla” risponde a Giulia Innocenzi
Luigi Farrauto
Cara Giulia Innocenzi.
Che dolore, leggere il suo reportage. Come essere umano sono dispiaciuto per le disavventure che ha vissuto in Iran, paese che ho visitato due volte e in cui ritornerei altre mille. Paese che ho convinto molti miei amici — e amiche — a visitare, ma non è molto importante in questa sede raccontarle il loro giudizio, al ritorno. Parrebbe come un’inutile battaglia a colpi di “a me ha fatto innamorare”, come a voler compensare la sua esperienza negativa, che certo non si può cancellare.
Ma sono addolorato, perché la risonanza delle sue parole ha un peso molto più forte di quello che potrei direi io sul paese, o le tante persone che viaggiano in Persia ogni anno (tant’è che il Corriere della Sera ha subito pubblicato le sue disavventure, non le mie, né quelle dei tantissimi viaggiatori che raccontano l’Iran con parole magnifiche).
Come si può rispondere o commentare a ‘palpate al sedere’, ‘inseguimenti’, ‘uomini che fanno mostra del proprio pene’ o ‘aggressioni fisiche’? Riportando esperienze diametralmente opposte vissute nel medesimo paese si farebbe il gioco della bilancia, e in questo caso non è la cosa più importante.
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Quante balle sono state raccontate sull’Iran
Fabrizio Marchi
E’ ora di cominciare a smascherare un’altra delle tante menzogne che ci sono state propinate da decenni a questa parte dai media occidentali, nessuno escluso, come sempre, da “sinistra” a “destra”.
Quella in base alla quale l’Iran, una delle culle della civiltà mondiale, così come tanti altri paesi del mondo, sarebbe una sorta di inferno oscurantista e medioevale governato da fondamentalisti sanguinari e popolato da masse di esaltati, integralisti e invasati ma anche da una minoranza (ma potenziale maggioranza) di persone che, se potessero (se cioè non gli fosse impedito con la forza bruta dai “cattivi” e barbuti imam e dai loro seguaci), opterebbero senz’altro per il “way of life” occidentale; ergo, a diventare dei bravi cittadini democratici, “partecipativi”, civili e tolleranti (consumatori passivi, mercificati e precari privi di ogni coscienza e identità?…) chiamati periodicamente a ratificare i propri governanti-amministratori.
Peccato che questo “esercizio” di democrazia, pur con tutti i suoi limiti (vale anche per l’Iran ciò che vale per le democrazie occidentali) in Iran sia già ampiamente praticato, a differenza di tanti altri paesi dell’area mediorientale e non solo.
L’Iran, infatti (audite, audite!), è un paese nella sostanza più democratico rispetto a tanti paesi occidentali dove ormai la dialettica politica maggioranza/opposizione è ridotta ad una finzione, a cominciare dagli USA dove i repubblicani/conservatori e i democratici/progressisti si dividono sullo spinello libero e sul matrimonio gay ma non certo sulla natura e sulla vocazione capitalista e imperialista della loro nazione, chiamata ad assolvere ad una sorta di compito messianico, di missione escatologica che la Storia le avrebbe assegnato (“gli USA, l’unica nazione indispensabile al mondo” come ha coerentemente dichiarato lo stesso Obama).
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«Euro sì, Euro no». Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica
Carmine Fiorillo e Luca Grecchi
Il refrain “Euro sì, euro no”/L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”/Tre notazioni per correggere la rotta/Il limite dell’approccio monetario e geografico/Il “contingente” elude la presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria//Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica/Qualche minimo contenuto per affrontare il problema/Le scorciatoie non esistono
Il refrain “Euro sì, euro no”
Oramai da qualche anno il dibattito pubblico delle forze più “radicali” nel panorama politico italiano, si incentra sul tema della permanenza dell’Italia nell’euro e nella Unione Europea. Associazioni, blog, perfino trasmissioni televisive, vivono sul refrain “Euro sì, euro no”. Rispetto ad altri temi, il dibattito in questo caso è anche sostenuto da una discreta schiera di studiosi, che hanno nel tempo apportato molti contributi.
L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”
Ci pare tuttavia che la doppia tesi sostenuta dai “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” – ossia: a) che l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe sicuramente benefica per le classi subalterne; b) che essa costituirebbe la principale condizione necessaria per favorire una progettualità anticapitalistica –, sia per la prima parte (a) incerta, e per la seconda parte (b) errata.
Per iniziare ad argomentare, chiariamo subito – per evitare che sussistano equivoci sul punto – di essere pienamente consapevoli che l’euro e l’Unione Europea sono strumenti del modo di produzione capitalistico, e come tali utilizzati solo in favore del capitale.
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Note sul Capitale
(Capitale e mutamento storico)
di Moishe Postone
- I -
1. L'enorme trasformazione epocale del mondo negli ultimi decenni ha indicato drammaticamente che l'attuale teoria sociale e storica dev'essere intesa come centrale rispetto alle dinamiche storiche ed ai cambiamenti strutturali su larga scale, se vuole dimostrarsi adeuata al nostro universo sociale.
2. La categoria marxiana di capitale è di importanza cruciale per quel che riguarda la costituzione di una tale teoria del mondo contemporaneo - ma solamente se essa viene riconcettualizzata in modo da distinguersi sostanzialmente dai modi nei quali la categoria di capitale è stata recentemente usata nei diversi discorsi delle scienze sociali, così come nelle interpretazioni marxiste tradizionali.
3. La categoria di capitale che presenterò, allora, ha ben poco in comune con i modi in cui "capitale" viene usato da una grande varietà di teorici, che vanno da Gary Becker, passando per Bourdieu, fino ad arrivare a molti marxisti per i quali "capitale" generalmente si riferisce ad un surplus sociale di cui ci si appropria privatamente. All'interno di quest'ultimo quadro interpretativo, capitale è essenzialmente surplus di ricchezza nelle condizioni di sfruttamento di classe astratto e non palese.
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La distruzione del tempio di Baal a Palmira. Lettura geopolitica
di Piotr
Geopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana
Quando visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e commosso.
Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.
L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti dellareligionelaicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
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Stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto
di Vladimiro Giacchè
1. Il ritorno dello “stato stazionario”: la “stagnazione secolare”
La teoria economica ha recentemente riscoperto il concetto di «stato stazionario». È accaduto nel novembre 2013, allorché l’economista statunitense Laurence Summers ha parlato di «stagnazione secolare» (secular stagnation) in un discorso al Fondo Monetario Internazionale, per tornare sul tema pochi mesi dopo, nel febbraio del 2014, davanti agli economisti d’impresa statunitensi. In verità non si tratta di una teoria originale, ma di un revival: perché di «stagnazione secolare» aveva parlato nel 1938 l’economista Alvin Hansen rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti1 .
Dopo Summers, l’idea è stata ripresa da altri economisti ed è attualmente al centro di un vivace dibattito, il cui contesto è stato così sintetizzato:
«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’»2 .
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Sicurezza e guerra all’alba del XXI secolo: il grande gioco
di Aldo Giannuli
Ancora oggi, l’opinione più diffusa fa coincidere i problemi della sicurezza dello Stato con quelli di natura militare: la parola guerra è ancora associata all’idea di scontri di aerei, carri armati. Ma da oltre mezzo secolo le cose sono andate mutando.
Proprio l’impossibilità di giungere ad una guerra aperta fra i due grandi blocchi – pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo - spinse a cercare altre strade per piegare la volontà dell’altro alla propria, cioè, altre forme di guerra.
Il concetto di strategia andò affrancandosi dall’ originaria pertinenza militare, diventando un concetto molto più ampio:
<<...ho voluto di proposito collocarmi sul piano della strategia totale, quella che ha per oggetto di condurre i conflitti, violenti o insidiosi, contemporaneamente nel campo politico, economico, diplomatico, militare, e che presenta pertanto un carattere generale. Infatti, la strategia diventa in genere inintelligibile se si limita al campo militare, in quanto troppi fattori decisivi sono trascurati..>>
Dal momento in cui Beaufre scrisse queste righe (1963) è passato mezzo secolo in cui il concetto di strategia è diventato sempre più onnicomprensivo, inghiottendo l’economia, la ricerca scientifica, il sistema satellitare, la finanza, la propaganda politica, le reti telematiche, ecc. e le guerre sono sempre meno guerre aperte ed a carattere militare, mentre diventano sempre più commerciali, valutarie, finanziarie ecc.
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Passioni ludiche senza desiderio
di Jean Baudrillard
“Nessun giocatore deve essere più grande del gioco stesso”. La battuta di un film a suo modo chiave, Rollerball, veniva posta da Jean Baudrillard in esergo al terzo capitolo del suo De la séduction, pubblicato nel 1979 per i tipi di Galilée, edito in Italia da Cappelli e poi da SE, per la traduzione di Pina Lalli. Proprio da questo lavoro pubblichiamo un estratto, importante per la riflessione sul “destino politico della seduzione”. Un destino che si dipana, nel suo asse centrale, proprio attraverso le dinamiche del gioco e della regola. Un gioco che “assorbe non solo il giocatore, ma il mondo”, scriveva Baudrillard e lo consegna all’infinita deriva del ludico
È quello che dice il Diario del seduttore: nella seduzione non c’è nessun soggetto padrone di una strategia, e quando questa si dispiega nella piena consapevolezza dei mezzi posseduti, è ancora sottomessa a una regola del gioco che le è superiore. Drammaturgia rituale al di là della legge, la seduzione è un gioco e un destino che conduce ineluttabilmente i protagonisti verso la propria fine, senza che la regola sia infranta, poiché è lei che li lega. E l’obbligo fondamentale è che il gioco continui, sia pure a costo di morire. Una specie di passione lega dunque i giocatori alla regola che li lega, e senza la quale non sarebbe possibile giocare.
Comunemente viviamo nell’ordine della Legge, anche e persino quando abbiamo il fantasma di abolirla. L’unico al di là della legge per noi concepibile è la trasgressione o l’eliminazione del divieto. Infatti, il modello della Legge e del divieto governa il modello inverso di trasgressione e liberazione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l’assenza di legge, è la Regola.
La regola gioca su una concatenazione immanente di segni arbitrari, mentre la Legge si fonda su una concatenazione trascendente di segni necessari. L’una è ciclo e ricorrenza di procedure convenzionali, l’altra è un’istanza fondata su una continuità irreversibile. Per l’una esistono soltanto obblighi, per l’altra costrizioni e divieti. La Legge può e deve essere trasgredita, perché instaura una linea di spartizione. Di contro, non ha alcun senso «trasgredire» una regola del gioco: nella ricorrenza di un ciclo, non c’è linea da oltrepassare (si esce dal gioco, punto e basta).
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Lenin, Lenin sempre Lenin
Introduzione a Classe partito, guerra, 2014
Emilio Quadrelli e Giulia Bausano
Il proletariato non ha altra arma che l’organizzazione nella lotta per il potere.
(V. I. Lenin, Un passo avanti due indietro)
Nell’editoriale Musica d’avanguardia del 30 luglio 2014, il Collettivo Militant constatava con non poca amarezza come, di fronte al massacro sionista perpetuato nei confronti della popolazione palestinese di Gaza e del golpe neonazista in atto in Ucraina, nel nostro Paese le mobilitazioni di solidarietà al fianco di queste popolazioni non abbiano potuto vantare iniziative di una qualche consistenza. Le retrovie dell’imperialismo, per usare un lessico forse un po’ datato, sembrano essere sostanzialmente sicure. Neppure a livello simbolico il complesso militare – industriale imperialista è stato sfiorato, le sue sedi economiche e commerciali sono rimaste intonse, mentre il personale politico – diplomatico e le sue strutture non sono stati vittime di alcuna contestazione.
I tempi del Vietnam appaiono distanti anni luce. A conti fatti, nel nostro Paese, i più attivi e incisivi sostenitori della lotta del popolo palestinese e della popolazione del Donbass si sono mostrati due gruppi musicali le 99 Posse per quanto riguarda la Palestina, la Banda Bassotti per quanto concerne gli antifascisti ucraini. La presenza attiva di queste due band al fianco delle resistenze popolari, in una condizione di normalità politica, avrebbe dovuto e potuto essere la classica ciliegina sulla torta mentre, nell’asfittico panorama politico nostrano, le due formazioni musicali sono diventate la torta tout court. Succede così che, a loro, sia destinato il compito tanto di cantare quanto di portare la croce. Di ciliegine, quindi, meglio non parlare.
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L’idea di politica dalle parti di Podemos
di Pierfranco Pellizzetti
«Fine della guerra fredda e recupero del
conflitto ottocentesco, quando gli operai
cominciavano a organizzarsi. I barbari
sono all’interno. La patria non può essere
la plebaglia. La patria è formata da quelli
che hanno un reddito»
J.C. Monedero
«Nel XX secolo i filosofi hanno cercato di
cambiare il mondo. Nel XXI è ora che si
mettano a interpretarlo in modo diverso»
Manuel Castells
Una riflessione sull’idea alternativa di politica che sta imponendosi tra le nuove generazioni spagnole, a partire dal libro “Corso urgente di politica per gente decente” di Juan Carlos Monedero, ex numero due di Podemos, edito in Italia da Feltrinelli. Un testo che è la cartina di tornasole delle profonde difficoltà a pensare l’Altrapolitica in maniera – al tempo – strutturata e strategica
Se buona parte dei giocatori del Barça sono il prodotto della “cantera” (alla lettera “cava/miniera”, significato traslato nel vocabolario della stampa sportiva come “allevamento/incubatore”), la scuola per calciatori junior della società catalana, allo stesso modo buona parte dei quadri medio-alti di Podemos provengono dal laboratorio dell’Università madrilena Complutense.
Vale per il leader – Pablo el colete Iglesias – vale anche per l’ex numero due della formazione politica emergente sulle ceneri del Movimento degli Indignados (o 15-M, da quel 15 maggio 2011 in cui la protesta si accampò alla Puerta del Sol), il professor Juan Carlos Monedero; autore del saggio sull’idea alternativa di politica che sta imponendosi tra le nuove generazioni spagnole e che – sulla scia del successo mediatico di tale parola d’ordine – è stato recentemente editato da Feltrinelli.
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Il biopotere che scorre su Amazon
di Benedetto Vecchi
Non è mai troppo tardi. E’ la frase più facile da usare per quanto è accaduto dopo la pubblicazione di un reportage del quotidiano statunitense New York Times sulle condizione dei lavoratori del più grande shopping mall telematico presente in Rete. In un articolo Amazon viene passata al setaccio a partire dalle regole alle quali i lavoratori devono attenersi. Il giornalista ha raccolto i racconti, le invettive, le analisi di dipendenti e ex-dipendenti dove il giudizio più benevolo verso lo store digitale è: una caserma. Ma è il decalogo delle regole – doveri e obblighi, più che altro, visto che di diritti non ce ne è traccia alcuna – che tutti devono seguire che ha fatto gridare allo scandalo. Dal divieto di parlare di come e di cosa accade negli enormi capannoni di Amazon, all’invito-obbligo a esprimere giudizi sul comportamento di altri lavoratori e di capi e capetti, non c’è nulla che viene omesso dal giornalista. Neppure il costante controllo al quale è sottoposto il singolo, usando i badge e un geolocalizzatore che segnala posizione e tempo di percorrenza per trovare la merce da impacchettare, viene dimenticato. Grande rilevo viene dato alla divisione tra i buoni (gli iperproduttivi) e cattivi (fanno ciò che devono senza dannarsi l’anima) lavoratori. Altrettanta enfasi è dedicata alla disponibilità “h24, sette giorni su sette” che i lavoratori devono garantire.
Il primo commento, in Rete, all’articolo ha equiparato quello di Amazon a un regime schiavistico, dove vige un comportamento inumano assieme all’assenza di compassione nelle relazioni lavorative e umane. Un imbarazzato Jeff Bezos, guru e padrone indiscusso di Amazon, ha affermato che quella non era la sua miliardaria impresa e che ogni persona di buon senso scapperebbe da quell’inferno.
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Critica dell'economia politica, oltre il marxismo tradizionale: Moishe Postone e Robert Kurz
di Jordi Maiso ed Eduardo Maura
Questo testo intende presentare due proposte di attualizzazione della critica marxiana dell'economia politica: quelle di Moishe Postone e di Robert Kurz. I loro approcci, sviluppati a partire dagli anno Ottanta, offrono delle chiavi per superare le insufficienze del marxismo tradizionale ed aprono prospettive fruttuose al fine di rendere attuale la teoria critica. Partendo da una reinterpretazione comune delle categorie di Marx, i due autori arrivano, tuttavia, a diagnosi differenti: mentre Postone insiste su come il capitalismo crei (e blocchi) la possibilità di un nuovo ordine sociale, Kurz sottolinea il fatto che il capitalismo contemporaneo abbia raggiunto il suo limite interno e sia entrato in una fase irreversibile di declino e di disintegrazione.
Negli anni successivi alla "rottura epocale" del 1989, la critica dell'economia politica in chiave marxiana era considerata un capitolo chiuso della storia del pensiero, ed ostinarsi a criticare il capitalismo era ritenuto proprio di qualche testardo che non voleva riconoscere i nuovi segni dei tempi. Erano gli anni dell'euforia della "fine della storia" e della "fine delle ideologie", e l'imposizione dell'economia di mercato su scala planetaria prometteva di concretizzare il sogno di un One World che avrebbe superato le divisioni fra i blocchi ed avrebbe dato inizio ad un'epoca di prosperità globale.
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Cos’è davvero la Cina?
F. M. Parenti intervista Domenico Losurdo
Prosegue il nostro speciale sulla Cina, volto ad indagare, al di là di facili semplificazioni e deformazioni della prospettiva occidentale, le vere caratteristiche del suo sistema politico. Vi proponiamo l’intervista al Prof. Domenico Losurdo, esperto di questioni cinesi
Perché lo sviluppo della RPC degli ultimi decenni viene frettolosamente definito come capitalistico tout court – spesso aggettivato come autoritario – sia dai media occidentali che da molti studiosi di scienze sociali?
Faccio un bilancio storico: nei primi 15 anni di vita della Russia sovietica è possibile individuare il succedersi di tre diversi modelli di sviluppo postcapitalistico. Inizialmente c’è il comunismo di guerra, poco dopo, a partire da una situazione disastrata, c’è la NEP e, infine, c’è la completa collettivizzazione, anche alla luce dei pericoli di guerra. Non c’è dubbio che il terzo modello a un certo punto è caduto in crisi, come è avvenuto negli ultimi anni della Cina maoista. I dipendenti non si presentavano al lavoro e quando lo facevano si impegnavano ben poco, continuando tuttavia a godere di un salario garantito: ciò non corrisponde affatto alla definizione marxiana di socialismo, in cui la retribuzione deve essere proporzionata al lavoro erogato.
La storia della Cina è diversa. Se prendiamo le mosse dalle aree governate dal PCC già nella seconda metà degli anni Venti, per quasi novanta anni di storia c’è stata una sostanziale continuità: un sistema a economia mista con forte controllo statale. Edgar Snow riferiva che in Cina erano presenti tutte le forme di proprietà. Mao Zedong a metà degli anni Cinquanta fa una distinzione netta tra espropriazione politica ed espropriazione economica della borghesia e sostiene che l’espropriazione economica non va portata fino in fondo, poiché la borghesia ha conoscenze imprenditoriali e capacità manageriali utili e necessarie all’instaurazione del socialismo.
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Cronache della volatilità di borsa
La guerra finanziaria serve per guadagnare
di Redazione
Sul concetto di guerra finanziaria si potrebbero dire molte cose. Per non farla lunga limitiamo a parlare di chi non lo apprezza. Prima di tutto quelli per cui la vera crisi è sempre altrove. Ok, starà pure nel giorno stesso in cui hanno inventato il primo telaio a Manchester però avviene oggi nelle reti tecnologiche delle borse. E fa effetti oggi. E se non li capisci politicamente non ci sei. Poi ci sono gli analisti di borsa, quelli cauti sulle ipotesi di guerra finanziaria. Li comprendiamo: dover consigliare ai propri clienti il comportamento durante una guerra finanziaria è uno stress da guerra vera e non garantisce risultati. Ma come ha detto un analista mainstream ma furbo “mi preoccupa più un rimbalzo in positivo così forte il giorno dopo di un indice in rosso così marcato il giorno precedente”. Segno che la guerra finanziaria c’è e che le logiche prevalenti non sono quelle del commmercio ma del conflitto.
Ma dove si combatte? Entro quella che viene chiamata, in gergo, volatilità dei mercati. Funziona, a sommi capi, in questo modo: entro uno scenario di crisi, sempre propedeutica ad una guerra, un giorno le borse scendono, un altro risalgono. Quando fai i conti delle due giornate vedi che qualcuno avrà perso di brutto mentre c’è chi avrà guadagnato sul serio. Mentre i tg hanno detto che “la borsa recupera”, c’è stato uno scontro finanziario con morti e feriti. Uno scontro a somma zero, se non negativa. Il capitale è rimasto più o meno lo stesso. Comunque, nel complesso di rialzi e ribassi, l’allocazione delle risorse finanziarie segue la logica della guerra non quella del finanziamento efficiente alle risorse produttive. Il passaggio da competizione a guerra finanziaria è semplice: nella guerra qualcuno ci lascia la pelle. Come per Lehman nel 2008.
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La ripresa Usa: una tigre di carta?
Prodromi di una nuova crisi globale
di Lorenzo Carrieri
Ultimamente sono molti gli articoli che parlano di una crescita dell’economia degli Stati Uniti, che avrebbe ripreso a crescere a ritmi costanti nel corso degli ultimi anni: negli ultimi trimestri si è addirittura sentito parlare di livelli di crescita compresi tra il 4% e il 5%.
Ma quanti di questi dati hanno un legame con l’economia reale, ergo con aumento occupazionale e produttività industriale, spesa in beni di consumo e redistribuzione della ricchezza?
A scandagliare e comparare i grafici sulla crescita si notano diverse cose interessante.
Primo, stando ai dato del Bureau of Labor Statistics il 20% delle famiglie americane è composto da tutti disoccupati: come fa dunque il tasso di disoccupazione a stare all’attuale 5,5%?
L’errore della narrativa imperante qui sta nei filtri usati per calcolare i disoccupati: calcolare solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono alla ricerca di un nuovo lavoro e/o quelli che lo cercano fino a 4 settimane dopo la perdita, trascurando coloro che sono inoccupati di lungo corso.
In tal modo la descrizione della composizione della forza lavoro viene sempre più a restringersi, evitando in tal modo di approfondire la profondità reale della crisi sociale americana.
Altro cosa da sottolineare: l’aumento di posti di lavoro non considera l’aspetto contrattuale dello stesso rapporto: dai dati del BLS risulta che quasi il 90% delle nuove posizioni sono solo part-time (dai 3 ai 6 mesi di contratto, assunti per lo più nella ristorazione e nei fast-food, dove la busta paga settimanale è di 351$…), mentre quasi 250mila posizioni full-time sono andate perdute.
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Per Lukàcs
di Renato Caputo
Seguendo l’invito di La Porta a riprendere la riflessione, in occasione del centoventesimo anniversario della morte, su uno dei massimi esponenti del marxismo novecentesco: György Lukács, proviamo a fornire un breve profilo dello sviluppo del più organico tentativo di sviluppare una Weltanschauung marxista attraverso le opere maggiormente significative del filosofo ungherese
Gli scritti giovanili
Fra gli scritti giovanili di Lukács (Budapest 1885 – Budapest 1971), anteriori all’approdo al marxismo, occorre ricordare, in particolare, L’anima e le forme e Teoria del romanzo. Tali opere risentono della formazione del giovane Lukács, che ha avuto modo di studiare con alcuni dei maggiori filosofi e sociologi del tempo, come Heinrich Rickert e Georg Simmel. In esse la riflessione sull’arte e la vita si intreccia sempre più con la filosofia della storia, che diverrà un punto fermo della visione del mondo di Lukács negli anni successivi.
Per quanto riguarda la prima opera, del 1911, influenzata in particolare dalla filosofia della vita allora in voga, Lukács mostra come l’opera d’arte da una parte esprime un determinato atteggiamento nei confronti della vita, dall’altra interviene sul suo caotico corso regolandolo mediante la forma. A differenza della scienza che mira al contenuto, ovvero si occupa dei fatti e delle loro connessioni e ha, dunque, come oggetto il mondo naturale, l’arte è caratterizzata dalla forma in quanto esprime le anime e i loro destini e ha come oggetto la sfera dello spirito. In Teoria del romanzo (1916) Lukács affronta per la prima volta l’opera d’arte in una prospettiva storicistica, che sarà posta al centro dei successivi sviluppi della sua teoria estetica.
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I fatti sono stupidi (Nietzsche)
Il problema della bêtise in filosofia
Giovanni Bottiroli
1. Immaginiamo un docente universitario di filosofia che all’inizio delle lezioni si rivolge agli studenti e chiede se qualcuno ha portato con sé il manuale adottato per quel corso. Gli studenti, dando prova di particolare zelo, estraggono il testo dalle loro borse: il professore legge la frase di apertura, poi commenta: “Stupidaggini” (forse si serve di un’espressione più colorita); e invita gli studenti a strappare la prima pagina di quel testo, e a gettarla via.
Probabilmente la maggior parte dei lettori ha riconosciuto la scena che ispira la mia riflessione: è tratta da un film, L’attimo fuggente (1989), di Peter Weir. Nel mio esempio, l’analogia riguarda il fatto che il docente (come il professor Keating) si trova a utilizzare un manuale non scelto da lui; la differenza riguarda il tipo di manuale, non letterario bensì filosofico. Ebbene, qual è l’affermazione che il protagonista del mio esempio considera una stupidaggine? È la tesi di un filosofo analitico, Willard Van Orman Quine, ed è stata enunciata in un saggio del 1948 pubblicato in volume nel 1953. Suona esattamente così: «Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può venir posto, in inglese, con tre sole parole: 'What is there?'»1.
2. Perché quest’affermazione è stupida? E, ammettendo che lo sia, come è possibile che continui a ricevere tante adesioni? Mi limiterò a menzionare un testo piuttosto recente: “La metafisica e l’ontologia, a ben guardare, ruotano attorno a una semplice domanda: che cosa esiste?”2.
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Per una lettura materialistica delle vicende medio-orientali
L.C.
Le conquiste di Daesh (nome arabo di quello che qui da noi viene erroneamente tradotto in Stato Islamico) in Iraq e Siria sono soltanto gli ultimi avvenimenti sfruttati dai media mainstream per riproporre la storia di una (presunta) decadenza della civiltà medio-orientali legata all'Islam.
Funzionale alla riproduzione di pseudo-analisi dal carattere marcatamente orientalistico che usano come prisma di lettura quello della religione islamica, e la sua presunta incapacità ad adattarsi alla modernità, la narrazione occidentale del Vicino e del Medio Oriente ha una storia secolare come fenomeno culturale e politico.
Essa non è una vuota astrazione, ma è la risultante della cristallizzazione dei rapporti di forza costituitosi nel tempo (già la stessa definizione di Medio Oriente presenta aspetti di parzialità linguistica, dovuti alla forza di chi ha imposto questa etichetta) e il prodotto di energie materiali ed intellettuali dell'uomo.
Come ha magistralmente illustrato Edward Said nel suo “Orientalismo”, questo sapere è diventato scienza in Occidente, e la distinzione sia epistemologica che ontologica tra l'Oriente da un lato e l'Occidente dall'altro è diventata narrazione e lettura tassonomica del sapere universalmente accettata in campo accademico ed extra-accademico.
Quanto detto finora è oggi paradigmatico nella narrazione dei fatti che ci vengono riproposti sul Medio Oriente.
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I flussi mondiali di investimenti
Un’istantanea del capitalismo contemporaneo
di Ferdinando Gueli
I dati del Rapporto annuale dell’UNCTAD sui flussi di investimenti diretti esteri ci forniscono un quadro che conferma le attuali dinamiche dei sistema capitalistico, nella sua fase di globalizzazione, che comporta anche un cambiamento degli equilibri geoeconomici e, quindi, geopolitici, con tutte le contraddizioni che ne possono emergere, ma anche un peso sempre più dominante ed incontrollato delle multinazionali. Rispetto a questi fenomeni appare velleitario e forse un po’ nostalgico il richiamo ad un multilateralismo sovranazionale che aveva svolto un ruolo sicuramente importante in una fase storica differente, oggi difficilmente ripetibile, almeno nel contesto attuale
Introduzione
Il Rapporto annuale dell’UNCTAD “World Investment Report – WIR 2015” rappresenta un’utile istantanea delle attuali dinamiche del capitale mondiale. Il Rapporto non si occupa degli investimenti di portafoglio, cioè dei movimenti finanziari di natura speculativa, ma si concentra invece sui flussi internazionali di investimenti diretti esteri (IDE), cioè sostanzialmente sull’esportazione ed importazione di capitali nei vari paesi.
Da una lettura del Rapporto emergono alcuni dati interessanti che offrono spunti di riflessione dal punto di vista dell’analisi critica delle dinamiche del capitalismo contemporaneo.
Cominciamo con il dire che il volume globale di investimenti in entrata ha subito, nel 2014, una contrazione del 16% rispetto al 2013, attestandosi a 1.230 miliardi di dollari USA. Questo conferma sostanzialmente il quadro di crisi globale che, nonostante i proclami, gli annunci e le stime artificialmente ottimistiche diffuse dalle istituzioni economiche e finanziarie dominanti, non accenna a risolversi.
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Noioso ripetere, ma...obbligatorio (data l’ignoranza imperante)
Gianfranco La Grassa
1. Ancora pochi giorni fa, un amico (nemmeno proprio un semicolto, anche se, ahimé, legge “Micromega”, il concentrato della demenza di “sinistra”) mi ha contestato il fatto d’aver sostituito la lotta tra capitale e lavoro con la geopolitica. Bontà sua, mi ha risparmiato la “lotta di classe”, la lotta tra borghesia e proletariato. Tuttavia, non c’è un gran miglioramento, anzi! La “lotta di classe”, come idea intendo dire, è partita quasi due secoli fa, ha avuto poi un rigurgito un po’ nauseante (sempre come idea) con il ’68 del secolo scorso ed infine è finita in conflitto capitale/lavoro; in Italia, direi soprattutto dopo la sconfitta della “Classe Operaia” alla Fiat nel 1980.
La lotta di classe partiva da certe analisi di Marx – compiute nel suo “laboratorio” d’epoca, l’Inghilterra – che avevano un loro realismo, non avevano comunque proprio nulla dell’utopia. A metà ‘800 era appena terminata la prima “rivoluzione industriale” (grosso modo 1760-1840). Appena appena si cominciava ad intravvedere quella che verrà denominata impresa, che significa appunto iniziativa di un dato “soggetto” (non di un individuo). In definitiva, si indica una unità organizzativa attiva nella sfera economica; ma non necessariamente nel processo produttivo in senso stretto, di trasformazione di dati materiali in prodotti per soddisfare certe esigenze, trasformazione attuata in quelle che vengono più specificamente denominate fabbriche e che sono prese in considerazione da Marx quale struttura portante della società nel suo complesso. In base all’idea che per poter sopravvivere, ogni società (non solo quella capitalistica) deve produrre, nel senso di trasformare materiali forniti dalla natura in oggetti d’uso sociale; anche come mezzi di produzione per successivi processi trasformativi.
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Per un programma ecosocialista
di Daniel Tanuro
Pubblichiamo la trascrizione (rivista e ridotta dall'autore) della relazione tenuta da Daniel Tanuro lo scorso 28 luglio al 32° campeggio internazionale anticapitalista, che ha avuto luogo in Belgio. La relazione è stata rivista anche sulla base degli interventi di quell'incontro, che hanno permesso all'autore di ritoccare e precisare il testo in alcuni punti
Di fronte all’urgenza ecologica: progetto di società, programma, strategia
In Aprile, due equipe differenti di glaciologi statunitensi specialisti dell’Antartide sono arrivati – con metodi diversi, basati sull’osservazione - alla stessa conclusione: rispetto al riscaldamento climatico globale, una porzione della calotta glaciale ha cominciato a sciogliersi e questo scioglimento è irreversibile.
Anche se gli scienziati sono riluttanti a considerare le loro proiezioni certe al 100%, sono stati comunque categorici: “il punto di non ritorno è superato" hanno dichiarato nel corso di una conferenza stampa congiunta. Secondo loro, nulla può impedire un aumento del livello degli oceani di 1,2 metri nei prossimi 3-400 anni. Stimano sia molto probabile che il fenomeno porti alla destabilizzazione accelerata della zona adiacente, ciò che potrebbe causare un aumento supplementare del livello degli oceani di più di 3 metri.
La catastrofe silenziosa è in marcia
Le conseguenze sociali dell’aumento del livello degli oceani di una tale ampiezza non possono sfuggire a nessuno. Basta ricordare che 10 milioni di egiziani vivono ad un'altitudine inferiore al metro slm - così come 15 milioni di bengalesi, una trentina di milioni di cinesi e indiani, venti milioni di vietnamiti… senza contare tutte le grandi città costruite nelle zone costiere :Londra, New York, San Francisco…
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L'insostenibile leggerezza dei tecnici
di Domenico Tambasco
Viaggio nelle lande della tecnocrazia dove previsioni e raccomandazioni scientifiche di “esperti” senza volto, declamanti la flessibilità e la “moderazione salariale”, si affiancano a panorami sociali devastati dalla crescente disoccupazione e dal crollo della produttività. Colpa della mancata realizzazione delle “riforme strutturali” o, al contrario, della loro pervicace attuazione? La coscienza della fallibilità e dell’incertezza delle soluzioni tecniche calate dall’alto potrebbe – forse – smascherare l’insostenibile leggerezza dei tecnici
“Houston abbiamo un problema”: ovvero dell’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale
Nel cuore di una torrida estate ha fatto scalpore l’ultimo rapporto periodico del Fondo Monetario Internazionale sull’Eurozona in cui, alla voce “Italia”[1], si punta il dito sull’elevato livello di disoccupazione che da tempo ha ormai superato il 12% (e che potrà essere riportato ai livelli pre-crisi solo tra vent’anni), con un 60% dei disoccupati privi di lavoro per almeno un anno ed il correlativo elevato rischio di dispersione del “capitale umano”, di incremento nella disuguaglianza dei redditi e, in definitiva, con un sensibile aumento del pericolo di cadere in nuove sacche di povertà[2]. A tale fosco quadro fa da cornice una produttività stagnante da circa quindici anni, frutto anche di un mercato del lavoro frammentato e poco flessibile, in cui i costi del lavoro incidono negativamente[3]. Sebbene in prospettiva l’intervento operato dal Jobs Act appaia idoneo ad incidere sulla storica rigidità del mercato del lavoro italiano, ancora altri passi devono essere fatti dall’Italia sulla strada della riduzione del costi del lavoro e dell’aumento della flessibilità, attraverso l’introduzione ed il potenziamento della contrattazione decentrata e l’incremento della qualità del “capitale umano” per mezzo della riforma del sistema di istruzione[4].
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Le dure repliche della storia
Marino Badiale, Fabrizio Tringali
Come era prevedibile aspettarsi, l'esito infausto della vicenda greca sta cambiando qualcosa, nelle riflessioni interne al variegato mondo “antisistemico”, che è costretto a confrontarsi con quelle che, in altro contesto, Bobbio chiamò “le dure repliche della storia”.
Finalmente una parte di quel mondo sta accettando una delle nostre tesi di fondo: cioè il fatto che mettere sul tavolo l'uscita dall'euro, almeno come “piano B”, è una condizione necessaria (anche se, come abbiamo ripetuto molte volte, non sufficiente) per qualsiasi programma politico di contrasto ai ceti dominanti nazionali e internazionali.
Ci sembra importante segnalare le sempre maggiori aperture che si stanno registrando in questo mondo, perché anche di qui passa la necessaria costruzione di un soggetto politico realmente antagonistico all'attuale organizzazione sociale.
Senza nessuna pretesa di esaustività, indichiamo alcune prese di posizione succedutesi dopo la sconfitta di Syriza (qualcuna l'avevamo già segnalata in post precedenti).
Riccardo Achilli prende una posizione netta a favore della nascita di “una sinistra nazionale, che mette l'uscita dall'euro al centro della sua proposta, e lo smantellamento della sovrastruttura comunitaria, che deve essere considerata un nemico, non un interlocutore.”
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Il lavoro ai tempi del capitale fittizio
di Norbert Trenkle
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Che la produzione sociale, nella società capitalista, prenda la forma della produzione di merci, è opinione largamente condivisa. E' questo il motivo per cui Marx considera la merce come la "forma elementare" della ricchezza capitalista, e la sceglie come punto di partenza analitico per la sua critica dell'economia politica. La teoria economica non ha alcuna idea di cosa farsene di un tale approccio teorico. Essa tratta il concetto per cui le persone mediano la loro socialità attraverso la produzione e lo scambio di merci come se fosse un truismo antropologico. Non considera mai un essere umano come qualcosa di diverso da un potenziale produttore privato che fabbrica cose per poi poterle scambiare con altri produttori privati, avendo sempre ben presente in mente i propri particolari interessi. La differenza fra produzione di ricchezza nella società capitalista moderna e produzione di ricchezza nelle comunità tradizionali viene quindi considerata come una mera differenza di grado, con la puntualizzazione per cui sotto il capitalismo la divisione sociale del lavoro è di gran lunga più sviluppata, a causa dei progressi tecnologici e che le persone diventano più produttive nella misura in cui divengono più specializzate.
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Perché l’Eurogruppo sta governando l’Europa?
di Alberto Bagnai
La farraginosa complicazione del diritto europeo fa sì che ben pochi tra i comuni cittadini siano consapevoli di quali siano le modalità di governo della UE, un’organizzazione che sta diventando sempre più determinante per le nostre vite. In questo quadro oscuro, può accadere che organismi informali prendano delle decisioni per le quali non hanno alcun potere e al di fuori di ogni certezza del diritto…e nessuno se ne accorga! Sul suo blog Goofynomics, il prof. Alberto Bagnai analizza storia e origini dell’Eurogruppo, quest’organo stravagante che paradossalmente (e non per caso) ha in mano la gestione della crisi dell’euro. Una lettura indispensabile
Supponiamo che gli assessori alla finanza dei comuni di Manchester, Glasgow, Nottingham e Oxford si incontrino per caso in spiaggia a Bristol (Regno Unito). Decidono di prendere una birra insieme e durante questo incontro informale prendono un’altra, meno irrilevante, decisione: aumentare la vostra pressione fiscale. Sì, voglio dire proprio la vostra, anche se vivete a Londra, o Smarden, o Edimburgo, o dovunque nel Regno Unito …
Quali sarebbero le vostre reazioni il prossimo anno, una volta giunto il giorno felice di pagare le tasse? Suppongo che sareste contrariati. Ma, soprattutto, probabilmente vi porreste una ovvia domanda : “Chi o cosa mai al mondo ha dato a questa gente il diritto di aumentare la mia aliquota fiscale?”
La risposta è: nulla. Sono abbastanza sicuro che non c’è niente nella Costituzione inglese (o francese, o tedesca) che garantisce a una riunione informale di politici locali il diritto di aumentare le tasse a livello nazionale, o anche a livello locale. Una decisione del genere, se fosse applicata da una qualche autorità, provocherebbe subito una rivolta.
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