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“Se hai i soldi, voti per restare… se non ne hai , voti per uscire”
di John Harris
“Z” è un instancabile commentatore di questo blog, che da anni esprime con pacata ironia il suo totale disaccordo su qualunque cosa io scriva.
E siccome è anche una persona gentile, ha tradotto dall’inglese questo articolo di John Harris, uscito su The Guardian. Un articolo con cui io mi trovo largamente d’accordo, per cui lo sforzo di Z diventa ancora più encomiabile.
“Se hai i soldi, voti per restare” disse con sicurezza “se non ne hai, voti per uscire”. Venerdì scorso eravamo a Collyhurst, quartiere povero al confine nord del centro di Manchester, e ancora non avevo trovato un elettore che avrebbe votato Remain. La donna con cui stavo parlando mi spiegava che nel quartiere non c’erano parchi né aree gioco per bambini: sospettava che tutti i soldini fossero stati destinati al centro di Manchester, Paese delle Meraviglie rimesso a nuovo, a dieci minuti di strada.
Solo un ora prima mi trovavo ad un evento per il reclutamento di personale laureato, a Manchester, dove nove intervistati su dieci erano schierati per Remain. Alcuni parlavano dei votanti per il Leave con freddezza e supponenza: “Alla fine, siamo nel ventunesimo secolo”, diceva un ragazzo tra i venti e i trent’anni “Se ne facciano una ragione”. Non era la prima volta che sentivo l’atmosfera intorno al referendum puzzare di zolfo – non solo di disuguaglianza sociale, ma anche di una malintesa guerra tra classi.
Ed eccoci qui, dopo la decisione terrificante di andarcene. Gran parte degli elementi politici di primo piano sono stati ormai spazzati via. Cameron e Osborne. Il partito laburista così come lo conosciamo, che si rivela ancora una volta un fantasma ambulante, i cui precetti non riescono più a raggiungere le sue supposte roccaforti.
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Il Brasile e le acrobazie della democrazia
A. Di Eugenio intervista Francisco Foot Hardman
Pubblichiamo l’intervista realizzata da Alessia Di Eugenio, dottoranda all’Università di Bologna, a Francisco Foot Hardman, professore presso l’Università Statale di Campinas. Negli anni ’70 e ’80 del Novecento Foot Hardman è stato militante contro la dittatura militare in Brasile e tra il 1983 e il 1985, nella fase finale della dittatura, è stato uno dei principali editorialisti del quotidiano «Folha de S. Paulo», politicamente impegnato nella campagna per le elezioni dirette per la presidenza del Brasile. Si è occupato di storia del movimento operaio in Brasile e, più recentemente, del ruolo della memoria e delle rappresentazioni culturali riguardo il periodo storico della dittatura (1964-1985). Ha inoltre partecipato e sostenuto le iniziative del collettivo «Feijoada Completa», creato a Bologna da studenti e ricercatori brasiliani e italiani in solidarietà alle proteste nelle città brasiliane contro il golpe.
Foot Hardman fornisce una precisa ricostruzione dei recenti avvenimenti della crisi brasiliana, inserendola in un quadro genealogico che mostra le dinamiche complesse in cui si è prodotta.
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"Killary è il candidato della guerra. Per questo sarà il prossimo Presidente Usa"
Alessandro Bianchi intervista Peter Koenig
L'AD intervista l'ex economista della Banca Mondiale: L'informazione in Europa e altrove nel mondo occidentale è controllata per il 90% da sei giganti dei media che sono anglo-sionisti"
Peter Koenig è un noto economista e analista geopolitico. Ha lavorato nella Banca Mondiale e in giro per tutto il mondo come esperto ambientale e di risorse idriche. Scrive regolaramente su Global Research, ICH, RT, TeleSur, the Voice of Russia / Ria Novosti, The Vineyard of The Saker Blog, e altri siti internet. E' l'autore di Implosion – An Economic Thriller about War, Environmental Destruction and Corporate Greed – un docu-film basato sui fatti di attualità e sui 30 anni di esperienza nella Banca Mondiale.
Come Antidiplomatico abbiamo avuto il privilegio di rivolgergli alcune domande sulla politica internazionale attuale.
* * *
Partirei da una domanda brutale sulle campagne presidenziali statunitensi. Ma cosa è diventato questo Paese se come migliore candidato, in quanto meno pericoloso per la sopravvivenza del mondo, offre Donald Trump?
P.K.: "Gli Stati Uniti sono un paese chiuso al resto del mondo quasi ermeticamente grazie al lavaggio del cervello fatto di bugie e propaganda quotidiane che i cittadini subiscono. E' una propaganda vecchia quanto gli Stati Uniti, ma si è rapidamente intensificata durante la Guerra Fredda e poi nuovamente dopo la caduta del muro di Berlino.
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Karl Marx, Zur kritik der politische Ökonomie
di Stefano Garroni
L’analisi della merce, come lavoro in doppia forma, di valore d’uso – quale risultato di un lavoro reale o di una attività <produttiva> finalizzata – e di valore di scambio, o tempo lavoro o lavoro sociale indifferenziato, è il risultato critico finale della ricerca quasi secolare dell’economia politica classica, che in Inghilterra inizia con W. Petty, in Francia, con Boisguillebert e si chiude, in Inghilterra, con Ricardo, in Francia con Sismondi. Solo apparentemente la pagina di Marx è chiara: che significa, infatti, lavoro produttivo o finalizzato? Non è questa la caratteristica di ogni lavoro, che non sia un mero passatempo?
In un senso generalissimo, certamente le cose stanno così, ma appunto alla condizione di attenersi ad un senso generalissimo dei termini, dunque, ad un senso impreciso, vago ed in questo senso estraneo ad un linguaggio, che si voglia almeno comprensibile, se non addirittura scientifico.
Ed allora cominciamo a notare che il lavoro, produttore di valore d’uso, è finalizzato a realizzare una situazione di jouissance o di Nutznißung, ovvero di piacere, godimento o utilità. Mentre il lavoro produttore di valore di scambio, sia pure en principe, ha lo scopo, mediante lo scambio, di realizzare profitto – ed alla nozione di profitto, si badi, non appartengono di necessità logica né quella di godimento/jouissance né quella di utilizzabilità immediata/Nutznißung.
Dunque, la distinzione a cui l’economia politica è giunta, appunto, è quella tra lavoro come produttore di jouisance o Nutznißung (lavoro concreto, reale, finalizzato) e lavoro come lavoro sociale indifferenziato[1], il quale, almeno en principe, è produttore di profitto (e, ripeto, nel concetto di profitto né è compreso quello di jouissance, né quello di utilità).Passiamo ora ad un’altra interessante notazione.
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Brexit: l’Europa genera mostri
di Andrea Fumagalli
Pubblichiamo una breve analisi di Andrea Fumagalli sull’esito del referendum inglese, a cui segue, in coda, la traduzione in portoghese (Brasil), ripresa dal sito di UniNomade Brasil, che ringraziamo
All’indomani del risultato del referendum che ha sancito l’abbandono dell’Europa da parte della Gran Bretagna è possibile cominciare a discutere i probabili effetti su tre piani di analisi: finanziario, economico-istituzionale, politico-istituzionale.
Gli effetti finanziari
Nonostante l’impatto immediato di caduta degli indici di borsa e di forte svalutazione della sterlina, gli effetti sulla finanza non devono essere ritenuti negativi. In primo luogo, occorre, infatti ricordare che qualsiasi turbolenza, con forti oscillazioni nella dinamica degli indici, è manna per la speculazione finanziaria. Ciò che è successo nella settimana precedente il voto è da manuale. Sulla base di sondaggi più o meno attendibili, tutti a favore della Brexit, per circa tre giorni, abbiamo assistito al prevalere della speculazione al ribasso (vendo ora i titoli che mi aspetto diminuiscano domani, per poterli ricomprare dopodomani ad un valore nettamente inferiore). L’omicidio della deputata laburista Cox, in quel modo cinico che caratterizza il mondo finanziario, ha invertito la tendenza. I sostenitori del “remain” hanno ripreso fiato e le aspettative sono ritornate positive. In tal modo si è potuto capitalizzare la precedente fase speculativa al ribasso.
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Cos’è il M5S, cosa può e cosa non può fare nella situazione politica italiana
di Marco Maurizi
[In passato LPLC ha pubblicato interventi molto critici nei confronti del Movimento Cinque Stelle. È probabile che lo faccia anche in futuro. Proprio per questo ci sembra interessante ospitare un punto di vista diverso e argomentato su un partito che rappresenta un fenomeno radicalmente nuovo nella vita politica italiana (gm)]
Oltre le reazioni epidermiche e le analisi generiche e consolatorie
La recente vittoria alle amministrative di Roma e Torino del M5S necessita di una riflessione attenta sulla natura del movimento creato da Grillo e ciò che esso rappresenta nel panorama politico italiano. Non si può liquidare con una scrollata di spalle un fenomeno che catalizza il 40% del voto operaio e raggiunge percentuali del 70% in quartieri popolari, raccogliendo l’adesione di una fetta importante di popolo della sinistra: da dirigenti FIOM ad attivisti No TAV. Purtroppo per anni, invece di tentare un’analisi seria, sine ira et studio, del movimento, militanti ed elettori hanno pensato di poter semplicemente catalogare il fenomeno in concetti preconfezionati, dedicandogli battutine sarcastiche ed altri esorcismi assortiti[1]. Al riparo della propria superiorità intellettuale e culturale, il “populismo” diventa la comoda categoria entro cui racchiudere tutto ciò che non viene compreso e che pertanto spaventa, sigillandolo là in attesa che tempi migliori siano propizi a scenari politici più graditi. E tuttavia elettori e classi sociali non aspettano i nostri tempi e se mai un tempo nostro ci sarà, potrà nascere solo dall’attiva preparazione con cui ne predisponiamo la maturazione.
Così, ad ogni tornata elettorale il voto per il M5S diventa un grosso problema di coscienza per chi a sinistra vorrebbe trovare una propria rappresentanza politica e se non trova (più) una forza adeguatamente rappresentativa delle proprie istanze, fa fatica a dare il proprio contributo all’affermarsi elettorale di un movimento “anti-sistema” che sente come ambiguo, forse “di destra”, se non addirittura “pericoloso” per la democrazia.
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Il fantasma di Hayek riappare nel disprezzo elitario per il voto
di Quarantotto
1. Dire che la situazione "è grave ma non seria" appare un paradosso persino un po' logoro, alla luce della reazione del sistema mediatico, e del suo sovrastante concerto di forze dominanti.
Stiamo assistendo a tentativi di neutralizzazione dell'esito del referendum Brexit che, personalmente, come ho spiegato, ritengo assuma un valore più simbolico che relativo a contenuti significativi di un mutamento di paradigma politico-economico.
Si vuole, addirittura, che il referendum sia prontamente ripetuto e, per implicita logica, almeno fino a quando non si raggiunga la vittoria del "remain". Una petizione intenderebbe legittimare tale ripetizione del voto, salvo che non si comprende bene chi siano i "sottoscrittori".
2. In alternativa si propone che il referendum concernente scelte "importanti" debba avere almeno un quorum del 75% di votanti e del 60% di "favorevoli": notare che si adduce a sostegno il parere favorevole della Venice Commission UE, quella che ritiene che non il modello parlamentare-elettivo ma (v.p.2) un sistema di governance tecnocratico-finanziaria, modellato su quello della World Bank, debba governare l'€uropa.
Quindi neppure un 59% di voti pro-Brexit sarebbe considerato idoneo a scalfire il fogno e a far riflettere su come, in termini pratici e di obblighi di diritto internazionale già vigenti, l'effetto pratico della stessa Brexit non potrebbe mai essere traumatico come lo si dipinge, nella stucchevole campagna terroristica che, in Italia, raggiunge i suoi massimi vertici.
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Italicum, il dietrofront che Renzi non può fare
di Leonardo Mazzei
Adesso alcuni si aspettano da Renzi una qualche novità, qualche aggiustamento tattico, qualche ripensamento. In molti credono che il piatto forte potrebbe essere la rimessa in discussione dell'Italicum, come preme alla sinistra Pd. Scordatevelo. Non solo perché tutto ciò non è nelle corde del personaggio, ma soprattutto perché è oramai troppo tardi. Essendosi spinto troppo avanti, Renzi non può fare oggi un dietrofront così smaccato senza perdere completamente la faccia.
Venerdì si terrà la direzione del Pd, un luogo assai pittoresco dove il ducetto provoca e sfida gli avversari interni. I quali solitamente non sanno far di meglio che mettere in mostra la vocina timorosa di un Cuperlo, alternata alla faccina insicura di uno Speranza. Della natura da avanspettacolo di questo organismo ha parlato ieri anche Massimo D'Alema, in un'intervista già brillantemente commentata da Piemme. In ogni caso non è dalla sinistra piddina che verranno cose importanti.
Domandiamoci piuttosto quale sarà la mossa del presidente del consiglio di fronte alla debacle dei ballottaggi di domenica scorsa. A rischio di una rapida smentita, avanzo una risposta assai semplice: Renzi dirà che ci "vuole più Renzi". Può sembrare una battuta, ma non lo è. Certo, da imbonitore consumato qual è, ammetterà (come ha fatto ieri) qualche problema, dirà che "il Pd si deve aprire di più", che "deve ascoltare maggiormente i cittadini".
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Un testo cinese: “Lettera a una professoressa”
di Elvio Fachinelli
Dalla silloge di scritti politici di Elvio Fachinelli Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989) curata da Dario Borso per Derive e Approdi pubblichiamo, ringraziando l’editore per la cortesia, la recensione di Fachinelli a Lettera a una professoressa, originariamente apparsa sui “Quaderni piacentini” del luglio 1967
Un testo cinese. L’autore del libro di cui parlo è collettivo, Scuola di Barbiana, il titolo Lettera a una professoressa. L’appellativo: cinese, è più provocatorio, e meno indeterminato, di quel che può parere a prima vista. Se il libro non mi fosse capitato tra le mani per caso, e non temessi la mia disinformazione, oserei persino scrivere: il primo testo cinese del nostro paese. Penso che i motivi della denominazione – diversi ma non in contrasto fra loro, e tutti presenti, qui e ora – si andranno chiarendo man mano.
In forma di brevi capitoletti, accompagnati e spesso commentati da sottotitoli, senza grande ordine apparente, e con molte note esplicative, il libro è opera dei ragazzi-scolari, dei ragazzi-maestri e del loro maestro comune, don Lorenzo Milani, della scuola di un paese toscano, Barbiana di Vicchio nel Mugello. Notare le numerose stranezze del fatto. Il punto di vista da cui partono, da cui esaminano il mondo, è altrettanto strano: il ragazzo contadino, e anche operaio, bocciato a scuola.
Entriamo il primo ottobre in una prima elementare. I ragazzi sono 32. A vederli sembrano eguali. In realtà c’è già dentro 5 ripetenti. [...] Prima di cominciare mancano già 3 ragazzi. La maestra non li conosce, ma sono già stati a scuola.
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Brexit, verso la de-globalizzazione
di Rodolfo Ricci
Ciò che era iniziato lo scorso anno in Grecia e che era stato stoppato col ricatto mafioso di Bruxelles e con l’ipocrisia dei governi di tutti gli altri paesi, si ripropone a distanza di un solo anno, in Gran Bretagna; stavolta non si tratta solo di dire no al memorandum della Troika, ma di uscire hic et nunc non dall’Euro, dove non era mai entrata, ma dall’Unione Europea; se si potesse fare rapidamente un referendum in ciascun paese è probabile che la maggioranza dei popoli europei si esprimerebbe nello stesso modo: fuori da questa Europa.
Che poi l’uscita dall’involucro neoliberista e mercantilista – imposto a suo tempo in una fase in cui le rispettive borghesie finanziarie e della rendita andavano d’accordo perché condividevano l’estorsione di valore praticata sul lavoro e sulla messa in concorrenza dei lavoratori – sia cavalcata dalle cosiddette destre populiste e xenofobe non è il centro della questione: ciò manifesta solo l’incapacità o la subalternità di prospettive alternative e “di sinistra” che hanno latitato qui come altrove.
Le socialdemocrazie europee sono state tra i primi e migliori artefici degli eventi che stiamo seguendo. La loro accondiscendenza alla chiamata alla fine della storia e all’offerta dei poteri multinazionali della globalizzazione di diventare classe dirigente privilegiata di questo processo è stata la variabile decisiva per lo scardinamento dell’idea di Europa come da tanti in più generazioni lo si era immaginato e ricorda non poco all’approccio interventista dei partiti socialisti nell’imminenza della prima guerra mondiale che distrusse l’idea di internazionalismo e le cui conseguenze sono note.
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La Grassa e i dominati
Il meccanico del marxismo
Gianni Petrosillo
C’è un giudizio ingeneroso e sommario che, da troppo tempo, aleggia sul pensiero di Gianfranco La Grassa. Quello per cui la sua teoria negherebbe, in maniera eccessivamente sbrigativa e sprezzante, la possibilità ai dominati di essere protagonisti di una trasformazione sociale nel/del sistema capitalistico. Così è anche secondo Augusto Illuminati che riprende, nella postfazione al libro (che vi consiglio) di Piotr Zygulski “La Grassa: il meccanico del marxismo” (Petite Plaisance), un parere del filosofo torinese Costanzo Preve:
“Preve, – dice Illuminati – proprio grazie al suo essenzialismo, coglie però il limite principale del suo interlocutore, 'il totale disprezzo per le azioni dei dominati e il solo ossessivo interesse per le azioni «strategiche» dei dominanti', che in effetti definisce un punto di forza dell’analisi sociale ma anche una radicale estraneità ai movimenti rivoluzionari, privando i dominati di qualsiasi praticabile transmodalità e speranza di riscatto. Non vogliamo rimproverare a La Grassa un limite effettuale di schieramento e tanto meno (come Preve) una debolezza filosofica, ma proprio un difetto di analisi, per il suo escludere il conflitto di classe dalla scena primaria della storia, relegandolo alla combattiva negoziazione tradeunionistica del salario. Non gli imputiamo, alla Preve, una teoria “aleatoria” del socialismo (Althusser aveva ben diversamente declinato tale assunto in favore della rivoluzione e della forma-movimento rispetto ai partiti), ma proprio che, di fatto, il cambiamento del modo di produzione venga escluso nella forma di un rinvio sine die o di una prospettiva catastrofista”.
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Scusate, ma non c'è rimedio
Zoltan Zigedy
Lawrence Summers è una superstar tra gli economisti borghesi. Ha ricoperto posizioni direttive alla Banca Mondiale, al Dipartimento del Tesoro USA e più di recente nell'amministrazione Obama. Oltre all'insegnamento ed agli incarichi amministrativi, ha svolto consulenze e collaborato con istituti finanziari. La sua consulenza è ricercata da governi e multinazionali. E non si è mai fatto intimidire dalle posizioni contrarie.
Fin dal crack del 2008, gli economisti mainstream hanno nascosto i loro peggiori timori per arrivare oggi a definire l'evento come un rallentamento insolitamente brusco del ciclo economico. Naturalmente gli economisti si dovevano arrampicare sui vetri per spiegare il collasso virtuale del settore finanziario, il panico e l'andare in fumo di migliaia di miliardi di dollari.
All'epoca, dominava una disperazione generalizzata, una sensazione diffusa di incombente tragedia. Ma, con una memoria corta, gli economisti hanno ricostruito l'evento come un severo, ma gestibile (e gestito) aggiustamento periodico del normale corso del capitalismo.
All'alba della crisi, i commentatori ammettevano una lenta "guarigione", ma tuttavia concordavano sul fatto che l'economia globale fosse rientrata in rotta.
Summers dissentiva da questa visione, come avrebbe dovuto.
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Finanza, inquinamento e capitalismo. Quale futuro?
di Spohn
L’ultimo libro scritto da Luciano Gallino prima della sua scomparsa (L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, spiegata ai nostri nipoti, Einaudi, Torino, 2015) fa parte di quelle indagini economiche e sociali che non negano le contraddizioni capitalistiche, pur non utilizzando a pieno gli strumenti di comprensione del materialismo storico e della critica all’economia politica di Karl Marx. Tuttavia, la questione ecologica e soprattutto le colpe dell’attuale situazione ambientale nel mondo non vengono imputate, come in genere si suol fare, a un generico e impalpabile responsabile collettivo quanto, invece, vengono ascritte direttamente alla cerchia capitalista che governa il mondo dell’industria e della finanza mondiale.
Sia l’approfondimento sulla cosiddetta «finanza del carbonio», sia la lettura classista su cui Gallino struttura, sulla falsariga di movimenti come Occupy, la contrapposizione tra un’élite mondiale del 1% e un proletariato del 99%, comunque privo della necessaria coscienza di classe, offrono però un grosso numero di spiegazioni sintetiche sulle dinamiche del capitalismo, sul ruolo e le funzioni della finanza, sul perché della crescita del debito pubblico e sui meccanismi tipici dell’irrazionalità di questo modo di produzione attuale.
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Traiettorie globali nella tradizione politica dell’operaismo
Antonio Negri da «Quaderni Rossi» e «Classe Operaia» a Empire1
di Elia Zaru
1. Gli operaisti e l’operaismo
L’esperienza dell’operaismo italiano è tra le più significative della storia politica e intellettuale dell’Italia repubblicana. Il fatto che nasca all’interno delle turbolente vicende che hanno interessato il movimento operaio dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 evidenzia la particolarità di quella che è stata definita la differenza italiana2. Secondo Michael Hardt
in Marx’s time revolutionary thought seemed to rely on three axes: German philosophy, English economics and French politics. In our time the axes have shifted so that, if we remain within the same Euro-American framework, revolutionary thinking might be said to draw on French philosophy, U.S. economics and Italian politics3.
L’operaismo costituisce uno dei fondamenti teorici di queste «Italian politics». Il pensiero operaista non può però essere considerato un insieme organico, ma, piuttosto, una coalescenza di esperienze soggettive animate da un desiderio collettivo: partecipare teoreticamente e praticamente al conflitto sociale in atto in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ‘70.
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L'ottava guerra del "nobel per la pace"
E lo scoglio Eritrea
di Fulvio Grimaldi
“La storia della specie e ogni esperienza individuale trasudano prove che non è difficile uccidere una verità e che una bugia ben raccontata è immortale”. (Mark Twain)
“La libertà è stata perseguitata su tutto il globo; la ragione è stata fatta passare per ribellione; la schiavitù della paura ha reso gli uomini timorosi di pensare. Ma tale è l’irresistibile natura della verità che tutto ciò che chiede, tutto ciò che vuole, è la libertà di apparire” (Thomas Paine, 1791)
“E’ mai concepibile che una democrazia che ha rovesciato il sistema feudale e ha sconfitto sovrani possa arretrare davanti a bottegai e capitalisti?” (Alexis de Tocqueville)
C’è una resistenza, addirittura un’avanguardia? Regime change!
Si parte con una campagna di demonizzazione del leader e del suo regime. Si attivano per la bisogna Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontieres, Medicins Sans Frontieres, Soros, house organs coperti, come “il manifesto”, Ong del posto o, in mancanza, del circondario. Cotti ben bene i neuroni di un’ampia opinione pubblica trasversale, ci si prova con una rivoluzione colorata. Se localmente difettano le basi materiali, umane, come nel caso dell’Eritrea, se ne inventa una esterna, della dissidenza in esilio, possibilmente a Washington e in mancanza di massa critica si fa un fischio alle presstitute e i media sopperiscono. Se poi tutto questo non fa vacillare il reprobo, valutata l’ipotesi di un approccio da dietro col sorriso, alla cubana, vietnamita o iraniana, e trovatola impraticabile di fronte all’ostinazione dell’interlocutore, si passa alle maniere forti: sanzioni per ammorbidire ogni resistenza popolare, suscitare lacerazioni sociali e malumori nei confronti dei vertici che preparino il terreno all’intervento armato. Diretto, perchè condotto con istruttori, armamenti, finanziamenti e forze speciali proprie, ma occultato dall’impiego visibile e teletrasmesso di sicari surrogati, tipo Isis o nazisti di Kiev. Nel caso in esame, etiopici.
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Cristoforo Colombo forever?
Per la critica delle attuali teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione"
di Roswitha Scholz
In quest'articolo, Roswhita Scholz discute le recenti teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione". Tali teorie hanno guadagnato slancio nel dibattito interno alla sinistra, almeno a partire dal crollo del 2007/2008. Secondo Klaus Dörre, l'assunto di base, nonostante tutte le differenze di ciascun approccio, è quello per cui il capitalismo ha bisogno di un esterno per poter continuare ad esistere. Assai spesso, si presuppone una "accumulazione primitiva" che si ripete successivamente. Quest'accumulazione non viene considerata limitata ai primordi del capitalismo, ma viene bensì dichiarata essere la legge centrale eterna del capitalismo. Scholz, in questo saggio, contrappone al teorema della colonizzazione, e alle corrispondenti ipotesi di una "accumulazione primitiva" permanente, la dinamica essenziale del capitale come "contraddizione in processo". Per evidenziare le differenze relative alla critica della dissociazione-valore, Scholz si focalizza sui concetti di colonizzazione di Klaus Dörre e di Silvia Federici - preminenti in Germania e non solo - a partire dai quali si può attribuire a Dörre un orientamento più sindacale e a Silvia Federici un orientamento più operaista-femminista. In questo contesto, l'articolo prosegue affrontando anche la dimensione delle attuali guerre civili mondiali, trascurata da Dörre e da Federici.
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Brexit!!!
Brexit e Lezioni di Democrazia
di Jacques Sapir
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"La Brexit può mettere a rischio anche l’euro”
L. Sappino intervista Emiliano Brancaccio
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Vittoria della destra nel referendum inglese e rimbecillimento della sinistra antieuropea
di Michele Nobile
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Brexit: rassegnatevi, il voto dei poveri e degli "ignoranti" conta quanto il vostro
Daniele Scalea
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Ma la Brexit è stata una sconfitta o una vittoria?
di Aldo Giannuli
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Heat or eat? Due appunti sul voto inglese
di Dodo
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Contorsioni logiche della sinistra europeista
di Militant
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Brexit: il vero smacco è che si riveli fruttuosa
di Alberto Bagnai
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Rilanciare l’economia europea? È possibile
Sergio Bruno
Thomas Fazi e Guido Iodice hanno avanzato una proposta per stimolare le economie europee attraverso investimenti pubblici finanziati in deficit. Ecco perchè potrebbe funzionare
Guido Iodice e Thomas Fazi (I&F), anticipando un articolo che comparirà sul Journal of Progressive Economy1 , hanno pubblicato una proposta molto interessante2 in merito alla possibilità di stimolare le economie europee attraverso investimenti pubblici finanziati in deficit.
Ciò che rende particolarmente interessante la proposta è che essa è organizzata in maniera tale da risultare “quasi fattibile” sul piano politico restando nello spirito delle regole stabilite dalla Commissione Europea e dalla Banca Centrale Europea (BCE). La proposta recupera in parte, e completa per altro verso, una simile fatta alla fine del 2011 da R.C.Koo, del Nomura Research Institute3 . I&F ritengono che se la BCE facesse sua la proposta in una delle sue possibili varianti ciò permetterebbe un notevole rilancio delle economie europee, limitando in tal modo il rischio di uscite dall’area Euro. Per essi c’è di più: tenuto conto dei vincoli politici, solo l’adozione di questo tipo di politiche “soft” potrebbe salvare l’Euro.
Fazi e Iodice partono dall’osservazione che le economie europee si trovano in una balance sheet recession (recessione da deterioramento dello stato patrimoniale).
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Perché tout le monde déteste le Parti Socialiste
di Jamila Mascat
Una lotta, per natura, non è un torneo amatoriale che possa concludersi per i contendenti con la soddisfazione di aver partecipato. Ancora meno nel caso della – tanto entusiasmante quanto estenuante – mobilitazione contro la Loi el Khomri che ha visto da quattro mesi a questa parte centinaia di migliaia di studenti, lavoratori, intermittenti e precari francesi dispiegare una quantità eccezionale di energie fisiche e morali per resistere alle pressioni, e soprattutto alla repressione, del governo Valls.
L’ultima grande giornata di sciopero nazionale interprofessionale, indetta dai sindacati tuttora contestatari lo scorso 14 giugno, è stata una sintesi paradigmatica, per quantità e qualità, dell’onda lunga di questo movimento. Un milione e 300mila persone in marcia in tutta la Francia secondo gli organizzatori, spezzoni compatti e rumorosi dei lavoratori che in queste settimane hanno riabitutato il paese al gusto un po’ retro della lotta di classe (uno per tutti quello dei portuali di Le Havre, a Parigi, che ha respinto le cariche dei celerini), centinaia di giovani fantasisti in testa alla parata parigina che dribblavano come potevano le granate scagliate dalla polizia, 1500 lacrimogeni lanciati solo nella capitale secondo Libération, centinaia di feriti da percosse e esplosioni (di cui uno molto grave la cui nuca bucata ha fatto tristemente il giro del web) stando alle stime di Streetmedics, le squadre mobili di volontari addetti al primo soccorso dei manifestanti.
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La storia terreno di scontro
Ottone Ovidi
Ci sono persone che con la loro vita incarnano lo spirito di un determinato tempo storico. Raccontare la vita di queste persone è oggi più che mai fondamentale. Per molto tempo i contemporanei hanno avuto l’abitudine di rivolgersi al passato, nel tentativo di cercare esempi di vita o ispirazione. Poteva avvenire sia per la costruzione di un immaginario legato al potere dominante, sia per la costruzione di immaginari “altri”, popolari e/o antagonisti. Negli ultimi decenni abbiamo però assistito al venir meno della capacità dei movimenti di classe o più genericamente di protesta di creare, attraverso battaglie culturali e/o politiche, un immaginario conflittuale in cui i singoli individui potessero riconoscersi, al di là dello specifico vissuto personale.
Allo stesso tempo la società neoliberista, sulla spinta della vittoria ottenuta contro i movimenti rivoluzionari e della pacificazione armata che è seguita in Europa, ha dimostrato ancora una volta la capacità della società del capitale di sussumere i modelli di vita delle sottoculture, in diversi modi a seconda del livello di resistenza di cui i diversi segmenti di popolazione erano portatori, di appropriarsene e metterli a valore, evitando così anche la possibilità che una loro politicizzazione potesse farli diventare pericolosi.
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Quanto è lungo un secolo?
Invito alla lettura di Giovanni Arrighi
di Vincenzo Marineo
Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi è, per il lettore non specialista, una occasione per allontanarsi dai nostri tempi, dalla loro supposta insistente novità, dalla crisi che sembra condizione permanente, per tornarvi avendo saputo che quello che sembra nuovo (e incomprensibile) non è poi davvero tale. Certo, bisogna avere una buona dose di curiosità per affrontare le sue 500 pagine; ma la constatazione della complessità delle cose che sono fuori dal libro, nel mondo, e la paura e l’insicurezza che quindi percepiamo, dovrebbero essere motivi sufficienti per provare a seguire chi ambiziosamente tenta discorsi all’altezza di quella complessità.
Fa crescere la curiosità la lettura della biografia di Arrighi, raccontata in una lunga intervista del 2009 (poco prima della sua scomparsa) con un interlocutore d’eccezione, David Harvey. Arrighi, a differenza di tanti altri scienziati sociali, ha lavorato: prima nell’azienda paterna, una piccola industria che produceva macchine (per il settore tessile, in seguito per riscaldamento e condizionamento); nello stesso settore operava l’azienda del nonno, presso la quale Arrighi ha raccolto i dati per la tesi in economia; infine ha lavorato presso una multinazionale, la Unilever. Queste esperienze, afferma, gli sono state utili per valutare criticamente la validità delle teorie economiche (“l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici”, come osserva non senza ironia nell’intervista), e per comprendere la multiformità, la “plasticità”, del capitalismo. E anche, c’è da supporre, per districarsi tra i vari tipi di lavoro – utile, astratto, vivo, necessario, immediatamente sociale, immediatamente socializzato ecc. – che affollano le pagine del marxismo.
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Italian Theory?
di Lorenzo Chiesa
Che cos’è la cosiddetta “Italian Theory”? Per quali ragioni è diventata di recente così centrale in una serie di dibattiti ontologici e politici, soprattutto nel mondo anglofono, dibattiti che coinvolgono non soltanto la filosofia ma anche le scienze sociali? E anche: da dove proviene la sua spesso elusiva prossimità alla biopolitica, una politica per la quale, seguendo la definizione di Giorgio Agamben, “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione”?
In questo intervento intendo sondare criticamente il successo, ma anche i limiti, di tale fenomeno teorico e sociologico (significativamente denominato “Italian Theory” anche in italiano). Da un lato l’espressione “Italian Theory” rimane altamente problematica nonostante una serie di recenti tentativi di chiarimento (penso in primis al lavoro ammirevole di Roberto Esposito): è sia troppo generica, cercando di raggruppare sotto questa etichetta un’ampia gamma di posizioni che rimangono per lo più incompatibili, che troppo specifica, dato il connesso rischio di essere associata al tentativo di far risorgere un’idea, francamente datata, di filosofia “nazionale”. Dall’altro lato, è fuori dubbio che nel corso degli ultimi due decenni un numero crescente di pensatori italiani provenienti sia dalla filosofia che dalle scienze sociali sono diventati a ragione molto popolari all’estero.
Come spiegare questa inaspettata notorietà su scala globale? Si tratta forse di una specifica capacità nostrana di sperimentare nella pratica politica le filosofie della differenza originate in Francia nella seconda metà del ventesimo secolo?
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Il ruolo della Russia
di Spartaco A. Puttini
Negli ultimi anni è aumentata la tensione tra Usa e Russia e parallelamente si è sviluppata un'intensa campagna mediatica volta a dipingere un pericolo russo e, più in particolare, un “pericolo Putin”. Con varie sfumature i media occidentali di quasi ogni colore politico si sono fatti docile veicolo di input russofobi, la cui ricaduta principale, ne siano o meno coscienti, è quella di fare il coro ai tamburi di guerra che minacciano l'umanità. In realtà, per comprendere la politica estera di Mosca all’inizio del nuovo secolo occorre anzitutto tenere presente il contesto nel quale questa si inserisce.
Quale sfida abbiamo di fronte?
Con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione del blocco sovietico gli Stati Uniti sono rimasti l’unica vera superpotenza. Il mondo, privo di contrappesi, pareva ai loro piedi. In quel contesto, sotto l’Amministrazione di Bush senior, Washington formulò l’ambizioso progetto di costruire un “Nuovo Ordine Mondiale” unipolare. Da allora gli Usa hanno perseguito con lucida determinazione l’obiettivo di imporre al resto del mondo la loro indiscutibile egemonia. Le scelte strategiche compiute dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi 20 anni, qualsiasi siano state le motivazioni ufficiali addotte, sono state dettate dal tentativo di garantire a Washington un dominio a pieno spettro sulle altre civiltà del pianeta.
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Alea iacta est. La capitolazione della sinistra di fronte alla storia
di Militant
Quello che è successo ieri in Inghilterra è un fatto politico enorme, che porta con sé una carica oggettiva, difficile da interpretare a caldo, ma che ci dice senz’altro una cosa incontrovertibile: si è aperta una grande falla sul Titanic della Ue. Una falla difficile da arginare anche per il suo carattere immediatamente simbolico. La Brexit assume un valore emblematico decisivo: è possibile rompere le maglie di questa gabbia del governo oligarchico-tecnocratico, espressione diretta degli interessi del capitale transnazionale, causa della tragedia collettiva che le masse popolari europee stanno vivendo da almeno quindici anni.
Per ricordare un evento così significativo bisogna tornare indietro a quel 5 luglio di un anno fa, quando il popolo greco bocciò il memorandum imposto dalla Troika, un referendum voluto dal governo Tsipras appena insediatosi, e che nemmeno una settimana dopo fu tradito dalla vergognosa capitolazione da parte dello stesso governo “riformista”. Quella sconfitta si era fatta sentire e aveva chiuso una finestra di possibilità difficilmente riproducibile nel breve periodo. La storia, come evidente, va però avanti lo stesso.
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Torino 2016, l'invincibile armata, gli "utili idioti", il cretinismo extraparlamentare e la zavorra sindacale
di Cesare Allara
La botta presa dal PD domenica scorsa è di quelle storiche. Il risultato di Roma era abbastanza scontato dopo decine d’anni di amministrazioni corrotte, dopo Mafia Capitale e la defenestrazione voluta da Renzi dello spaesato Marino.
Il risultato più sorprendente da analizzare è però quello di Torino.
Dove dal 2011, anno dell’esordio in Consiglio Comunale con due consiglieri, il M5S ha costruito meticolosamente giorno dopo giorno la vittoria cercando soprattutto di dividere, erodere quel consolidato blocco sociale che per decenni ha consentito alla “sinistra” torinese e alle sue clientele di dominare la città. Blocco sociale, meglio ricordarlo, che riusciva a tenere assieme gli interessi di FIAT, di Banca San Paolo, del Collegio Costruttori, fino all’operaio iscritto al PCI-PDS-DS-PD, al pensionato inquadrato nelle truppe cammellate di quella vera e propria setta chiamata SPI-CGIL, e agli “utili idioti” che pensano ancora al PD come partito della classe operaia: una invincibile armata, fino a qualche giorno fa.
Le giunte di “sinistra” che si sono succedute (Castellani, Chiamparino, Fassino) si sono solo e sempre occupate ovviamente di compiacere gli anelli forti di quel blocco sociale: Marchionne, e colui che è stato il vero dominus di Torino, Enrico Salza ex presidente di Intesa-San Paolo che qualche giorno prima del ballottaggio ha dichiarato: “Fassino non può non vincere, altrimenti finiscono Torino e il Piemonte” (La Stampa, 9 giugno).
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