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La geografia delle rivolte sociali
Scritto da Sergio Cararo
Dai Pigs ai Brics. L’esplosione delle rivolte sociali coinvolge soprattutto i paesi emergenti. Il cambio di passo nell’economia mondiale aumenta le aspettative lì dove si cresce ma congela il conflitto dove è aumentata la paura di perdere tutto. E’ ipotizzabile un punto di convergenza della rivolta sociale?
Le rivolte popolari che hanno squassato prima il Medio Oriente e adesso paesi emergenti come Brasile, Turchia, Sudafrica, interrogano in modo decisivo sulle prospettive della lotta nel classe nel mondo contemporaneo.
La fortissima polarizzazione tra i centri imperialisti e i paesi emergenti, provoca effetti rilevanti nelle periferie interne come i paesi europei Pigs, dove le istituzioni del capitalismo finanziario e multinazionale impongono un brusco arretramento delle condizioni sociali e delle aspettative generali. Aspettative che, al contrario, non potevano che crescere nei paesi emergenti che vedono aumentare la loro quota nell’economia mondiale e i ritmi di crescita. Il problema è che le classi dominanti dei Brics non si sottraggono al dominio del capitalismo e della egemonia della finanziarizzazione, frustrando così le aspettative accresciute delle classi sociali che sono venute affermandosi dentro i nuovi livelli economici. Lo conferma il Brasile dove il PT (Partito de los Trabahladores) diventato partito di governo non si è sottratto ad una certa marcescenza e corruzione che viene denunciata nelle manifestazioni e dai movimenti sociali.
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Krugman, il «socialismo reale» e il trionfo del capitalismo
di Sebastiano Isaia
Ho letto l’edizione «aggiornata» del saggio di Paul Krugman sul Ritorno dell’economia della depressione pubblicato per la prima volta nel 1999 (Garzanti), dopo le crisi finanziarie che sconvolsero diverse economie dislocate un po’ su tutto il globo: dall’Asia all’America Latina, passando per la Russia. Avevo letto quell’interessante edizione, rispetto alla quale la nuova (Garzanti, 2009) non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo, e piuttosto conferma la lettura post-keynesiana (o «liberal», come preferisce definirla l’autore) delle crisi passate, presenti e future. Per l’economista di successo la crisi internazionale partita alla fine del 2007 dagli Stati Uniti nasce, «come negli anni Trenta», dal sistema finanziario per abbattersi successivamente sull’«economia reale», provocando gravi sconvolgimenti in tutta la struttura sociale. Tesi ribadita anche nel saggio La coscienza di un liberal (Laterza, 2009), un vero e proprio manifesto per «un nuovo New Deal». Com’è noto, il Presidente Obama ha fatto di tutto per deludere le aspettative del guru economico.
Sembra che i nessi interni che legano inscindibilmente il sistema finanziario alla cosiddetta «economia reale», alla cui sfera occorre peraltro ricondurre, «in ultima istanza», i fenomeni – speculazione compresa – che hanno fatto di quel sistema il Moloch che conosciamo, continuano a rimanergli per l’essenziale ignoti, nonostante il Nobel agguantato nel 2008. Ho sempre pensato che la comprensione dell’essenza storica e sociale del Capitalismo è troppo importante perché sia lasciata nelle mani degli scienziati sociali, e che solo la coscienza – «di classe» – è in grado di afferrare la cosa alle radici.
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Capitalismo, religione, follia
La società del debito
di Andrea Sartori*
A scena aperta: una domanda di partenza
Nel recente romanzo Resistere non serve a niente di Walter Siti – curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per i Meridiani della Mondadori – è evocato un episodio di corruzione che ha i tratti epifanici della grazia: «Ventimila marchi elargiti in un giorno di pioggia a un portiere d’albergo per non essere registrato; un poema la faccia di quello, la bocca aperta come i pastorelli di Fatima: più una predella devozionale che una scena di corruzione» [1]. Protagonista di un gesto così religiosamente significativo da meritare d’essere ricordato sulla fascia dipinta che correda il piede di una pala d’altare, è Morgan, rampollo d’una famiglia mafiosa. Tommaso – broker d’assalto in cerca di utili consigli – lo interpella in qualità di teorico del nuovo capitalismo monetario (creditizio e portatore d’interessi), ovvero di quell’età dell’economia moderna, la cui principale leva per il profitto non coincide con lo sviluppo dell’industria garantito dallo sfruttamento del lavoro, né con lo scambio delle merci sospinto dal consumo, ma con il debito fine a se stesso sugli interessi di un capitale in buona sostanza lasciato inerte [2]. Nei mercati in interconnessione globale, infatti, sono ormai solo i valori nominali a essere vorticosamente spostati da un capo all’altro del mondo; per questo l’immagine del capitale a oggi più attuale – una massa immobile, improduttiva, attorno alla quale ronzano opportunisti e speculatori – è forse ancora quella scatologica allusa dal titolo del profetico romanzo del 1989 di Paolo Volponi, Le mosche del capitale.
Come viene declinato, tuttavia, l’odierno rapporto tra religione e capitalismo? È ancora valida la tesi di Max Weber sull’origine dello spirito del capitalismo dalla religione protestante? Tra la religione e questo capitalismo incentrato sul debito – un passo oltre la stessa società dei consumi – sussiste quel salto di continuità, che per Weber era conseguente all’intervento sottotraccia della secolarizzazione, e che doveva cristallizzarsi nella separazione tra la sfera delle opere e la sfera della grazia?
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Il liberalismo di Napolitano
Scritto da Diego Fusaro
La frase della settimana è indubbiamente quella pronunciata da Giorgio Napolitano: “non possiamo non dirci liberali”. Non è qui importante ragionare su chi l’ha pronunciata, su qual è il suo passato e quale la sua funzione presente. Occorre, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. E la cosa stessa è presto identificata: nell’epoca schiusasi con la data-sineddoche del 1989 e con il trionfo della libertà pensata secondo il parametro aziendale libero-scambista, il pensiero liberale si è imposto come pensiero unico dominante.
Per questo, non passa giorno senza che esso accampi la sua arrogante pretesa di essere il solo modo legittimo di pensare, di esistere e di organizzare lo spazio sociale ridotto a teatro dell’economia divenuta il solo valore direttivo di riferimento. Oggi, in tutte le sue forme, in quelle più estremistiche come in quelle più temperate, il pensiero liberale che si autoproclama il solo giusto, valido e degno di essere praticato (“non possiamo non dirci liberali”) è sempre la funzione ideologica del capitale finanziario. Sbagliano quanti pensano che oggi “liberalismo” significhi ciò che significava ai tempi di Benedetto Croce: nel presente, esso è la pura e semplice sovrastruttura del nomos dell’economia, dello spread e della dittatura del mercato.
L’odierna epoca inauguratasi con l’inglorioso crollo dei comunismi storici assume come propria dimensione simbolica di riferimento il pensiero liberale e, insieme, si proclama come il tempo della fine delle ideologie.
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Quelli che ‘in Brasile l’inflazione è al 90%’
di Alberto Bagnai
Incalzate dalla violenza dei fatti, dalle analisi dei massimi economisti, dalle ammissioni dei loro leader, dalla crescente consapevolezza dei cittadini, le milizie del PUDE (Partito Unico Dell’Euro) sono allo sbando. I peones,privi dei propri generali (che da tempo si sono messi al vento, sapendo benissimo come sarebbe andata a finire), tentano disperate sortite dalle casematte dell’informazione di regime, per azioni di terrorismo i cui esiti sarebbero tragici, se non fossero ridicoli.
L’arma “fine di mondo” dei bislacchi Stranamore dell’informazione nostrana è sempre quella: l’inflazione! Abbiamo già commentato in questo blog un tentativo non del tutto riuscito di usarla per terrorizzare gli spettatori televisivi. Ma si sa, in televisione puoi dire quello che vuoi, il mezzo non sempre consente di tornare sulle lievi imprecisioni profferite. Nei social media, invece, le cose stanno in modo diverso, e bisogna fare un po’ più attenzione, anche se non tutti l’hanno capito. Un esempio? Gustatevi questo breve riepilogo di una conversazione su Twitter, che credo vi offrirà un sorriso: Vittorio Zucconi, direttore dell’edizione web di uno dei più autorevoli quotidiani nazionali, dimostra di non sapere cosa sia quel tasso di inflazione che però usa come spauracchio per sostenere “la causa dell’Euro”.
Il ragionamento di Zucconi sembra essere questo: “Vedete? In Brasile l’inflazione è al 90% e hanno un sacco di problemi.
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Femministe a parole
Un libro per tutte e per nessuna
di Evelyn Couch
Come recita il sottotitolo, il libro Femministe a parole (Ediesse, Roma, 2012, pp. 368), curato da Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat e Vincenza Perilli, si presenta come un insieme di grovigli da districare. La raccolta di voci, che va dalla A di Anticolonialismo alla W di Welfare transnazionale, è stata compilata da diverse autrici – più un autore e un collettivo – che hanno cercato di stilare una «lista di temi aggrovigliati». I lemmi sono selezionati dalle curatrici in modo parziale, ovvero secondo una scelta di parte derivata dal posizionamento di ognuna, «a volte distante e persino opposto», e sono pensati per essere letti da un pubblico vasto di donne e di femministe. Secondo l’intenzione delle curatrici, ridefinendo alcune delle proprie parole chiave il femminismo può ripensare se stesso. In questo groviglio di temi, o tra questi temi aggrovigliati, è allora legittimo chiedersi come riemerga il femminismo e in che modo riesca a esprimere una parzialità.
Si può dire che ne emerga, in primo luogo, un femminismo plurale. Non esiste – e non si vuole che esista – un accordo tra le molte autrici del libro sulla natura stessa della ricerca femminista. La disomogeneità delle posizioni è il punto di partenza dichiarato sin dall’introduzione, ritenuto necessario a «stimolare una riflessione critica sulle esperienze teoriche e pratiche che oggi abitano l’universo femminista».
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Il diritto del comune
di Girolamo De Michele
G. Allegri, A. Amendola, A. Arienzo, M. Blecher, M. Bussani, P. Femia, A. Negri, U. Mattei, G. Teubner, Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, a cura di Sandro Chignola, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 236, € 20,00
Questo volume, che raccoglie parte dei materiali prodotti in occasione di una giornata di studi nel marzo 2011, ha la sua ragion d’essere in almeno due temi: la crisi del diritto e della sovranità, e la pratica necessità di processi costituenti messi all’opera dai movimenti globali.
Che in un’epoca di crisi dell’economia globale siano entrate in crisi tanto gli istituti della rappresentanza politica “democratico-costituzionale”, quanto il diritto in quanto tale; che si debba parlare di una crisi delle costituzioni sia dal lato teorico (fondamenti formali dell’architettura giuridica che regolamenta la produzione di leggi e la loro applicazione), sia dal lato materiale (garanzia dell’inviolabilità dei diritti fondamentali iscritti nelle carte costituzionali e tutela sostanziale del cittadino), non è una novità per gli studiosi di questi argomenti.
Meno comune è la comprensione di questa crisi da parte della (cosiddetta) opinione pubblica, e le sue conseguenze nella precaria quotidianità di questo lungo fine secolo.
Partiamo da alcuni concreti casi esemplari di violazione dei diritti umani da parte di società multinazionali: «l’inquinamento ambientale e il trattamento disumano di gruppi di popolazione locale, come nel caso della Shell in Nigeria;
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“Tertium non datur”
di Elisabetta Teghil
Lenin “Che fare?”
In tanta parte del movimento c’è la convinzione che l’alleanza con il PD e con i partitini della sinistra così detta radicale sarebbe una riedizione aggiornata dei fronti popolari.
Alla base di questo assunto c’è la lettura che il PD e i partitini di cui sopra sarebbero sì riformisti e, magari, collusi per un certo verso con la borghesia, ma comunque sarebbero di sinistra e una diga contro le avventure neo fasciste.
Questa analisi dimentica che il capitalismo nella sua fase auto espansiva e di auto valorizzazione è approdato alla stagione neoliberista. Il neoliberismo è un’ideologia gramscianamente intesa come lettura onnicomprensiva della società e, pertanto, non ha bisogno nell’immediato delle soluzioni fasciste tradizionali, relegando i fascisti nel lavoro di bassa manovalanza.
Se dimentichiamo questo cadiamo nella lettura che vuole il fascismo altro rispetto al capitalismo, mentre non è che un’opzione che in determinate situazioni ed epoche storiche il capitalismo stesso ha adottato nel suo divenire.
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Il nuovo realismo è un totalitarismo
di Fabio Milazzo
Apologia della doxa.
Il “nuovo realismo” è letteralmente una trovata geniale. Il paradigma, reso recentemente famoso da Maurizio Ferraris, che ne è il promotore in Italia, e da quella fucina di idee progressiste che è il gruppo La Repubblica[1], è riuscito a ritagliarsi un posto nelle asfittiche e claustrofobiche chiacchierate della filosofia italiana. Ma cos’è questa postura intellettuale che tanto credito sembra ottenere da personalità quali Umberto Eco – che, a dir la verità, già dai tempi de I limiti dell’interpretazione ha operato una svolta anti-ermeneutica – e dalle tante teste pensanti riunitein convegni quali quello di Bonn[2]?
Fondamentalmente è un ritorno ai fasti della doxa (δόξα), l’opinione comune, ciò contro cui si erge il pensiero filosofico fin dalle sue origini pre-socratiche[3]. Detta in maniera brutale, ma forse anche efficace, il nuovo realismo afferma la consistenza oggettiva della realtà, al di là di ogni fenomeno interpretativo. Il suo principale avversario non può che essere il Nietzsche che nel noto frammento postumo dichiarava profeticamente:
«Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”‘, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo.
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Ristrutturare il debito
di Guido Viale
Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un'intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine.
Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare - e paghi - 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall'anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL.
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Il teatrino di Stato
di Walter G. Pozzi
Malgrado la solennità con cui è stata presentata, la rielezione di Giorgio Napolitano, alla fine dei conti, non può che apparire per quello che è: un giochino ben orchestrato. Una lunga narrazione iniziata con le ripetute dichiarazioni del protagonista di non avere alcuna intenzione di accettare una sua ricandidatura alla presidenza, e conclusa con la cerimonia ufficiale del suo rinnovato giuramento di fedeltà alla nazione.
Se è vero che la realtà è ciò che rimane una volta sfrondato l’intero impianto simbolico, di reale in questa vicenda resta ben poco: il vuoto politico degli ultimi vent’anni, la malafede dei suoi attori, il congelamento del Movimento 5 stelle e l’autodafé politico, definitivo, del Pd, esemplificato dall’insediamento del governo Letta in stretta complicità con Berlusconi. Occorre ammettere, a giochi conclusi, che desta sempre una certa impressione notare l’impatto positivo sui cittadini che riesce a ottenere la solennità di un atto ufficiale di Stato. Il Parlamento gremito, le telecamere, la diretta televisiva, gli stralci dei discorsi trasmessi nei telegiornali; la capacità che ha tutto questo di creare un consenso acritico, totalmente pre-razionale, nei suoi spettatori.
Forse qualcos’altro di reale, una volta strappate le erbacce simboliche, c’è. Ed è la rimozione. La rielezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, e la maniera con cui è stata celebrata – un contesto ad alta tensione drammatica e con un portato emotivo costruito ad arte – appaiono un luminoso esempio della potente capacità delle forze istituzionali di azzerare il passato, anche il più torbido.
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La rivoluzione non sarà trasmessa da Facebook
di Osvaldo Coggiola
Le manifestazioni per la riduzione della tariffa dei mezzi pubblici sono cominciate due settimane fa, il 6 giugno, riunendo circa duemila persone nella Avenida Paulista. Dieci giorni dopo, le stime dei giornali davano, sottostimandone i numeri, 230mila manifestanti in dodici capitali. Il 20 giugno, i manifestanti già si attestavano ad oltre un milione, ma un milione erano solo quelli di Rio. In un momento economico segnato da minacce di crescita dell´inflazione, il movimento è cresciuto di circa il 100.000% in 15 giorni, un indice che fa impallidire i più alti tassi iperinflazionari della storia (se 2.000 = 100; 2.000.000= 100.000), come se ognuno dei 2000 manifestanti paulisti iniziali avesse reclutato mille nuovi manifestanti in quindici giorni. Per rappresentare graficamente questo fenomeno si dovrebbe usare una scala logaritmica (l’iperinflazione tedesca del 1923, nell’ordine percentuale di miliardi annui, è stato il primo fenomeno in cui si è dovuti ricorrere all´uso di queste scale nelle analisi economica). Si è spiegato il fenomeno con l’uso massiccio delle reti sociali.
Certamente le reti sociali rappresentano uno strumento spettacolare di accelerazione della velocità e di ampliamento della diffusione di idee e proposte, ma a condizione che tali idee e proposte esistano previamente.
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Le geniali ricette antiliberiste di Herr Lafontaine
di Sebastiano Isaia

Lafontaine: È cambiato che le proposte fatte allora non sono mai state realizzate perché in Europa abbiamo una determinata ideologia. È l’ideologia del neoliberismo, particolarmente presente in Germania. Secondo questa ideologia bisogna essere sempre più competitivi. Vale a dire, prima di tutto è necessario ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto e poi ridurre la tassazione. E poi c’è la concorrenza fatta con il dumping salariale, il dumping fiscale e il dumping sociale, e quindi lo smantellamento dello stato sociale. Non può funzionare. Questa ideologia impedisce uno sviluppo salutare all’Europa […] Ci troviamo di fronte al disastro. Proprio perché l’ideologia di cui ho appena parlato non cessa di sostenere che i paesi devono farsi concorrenza (Intervista di Deutschlandradio a Oskar Lafontaine, 4 giugno 2013).
Prendi il Capitalismo come Marx comanda, chiamalo ideologia neoliberista e il gioco è fatto!
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Euro: cui prodest?
di Andrea Ricci
Il silenzio con il quale è stata accolta nei media la richiesta d’indizione di un referendum sul Fiscal Compact, promossa con perizia tecnica e legittimità democratica dal Comitato No Debito, non deriva soltanto da radicate infatuazioni ideologiche. Dietro l’ostinato rifiuto che spesso s’incontra nell’establishment anche solo a discutere seriamente intorno al nodo dell’euro si celano corposi interessi materiali di una fetta importante e variegata della borghesia italiana. Vale la pena allora porsi, prima di ogni altra considerazione, la domanda di Medea: Euro, cui prodest?
Infatti, a differenza di quanto accade per la gran parte dei soggetti sociali, a cominciare dai lavoratori, per i quali l’analisi dei costi e benefici derivanti dalla moneta unica è complessa, per altri soggetti l’euro continua ancor oggi a rappresentare, nonostante la crisi, un vantaggio certo. L’individuazione di questi soggetti è una condizione necessaria per comprendere pienamente la situazione in cui il Paese si trova.
Di ciò non sempre a sinistra vi è piena consapevolezza. Non di rado capita di incontrare argomentazioni, paradossalmente coincidenti con quelle della teoria economica neoclassica e liberista, circa il fatto che in un’economia capitalistica i fenomeni monetari costituiscono un semplice velo che si limita a coprire il corpo vivo della produzione.
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Joseph Schumpeter
La titanica impresa dell'innovazione
di Toni Negri
Sono cinque capitoli diversi, meglio, sembrano diversi ma rinviano ad un unico filo, un filo spezzato, nel senso che l'un capitolo rinvia ad un altro come su una scala sghemba. Il grande Joseph Schumpeter percorre un labirinto, a zig-zag, sperimentando, provando e facendo, di questo suo cercare, la teoria. Ma dove va? Questa la questione posta da Adelino Zanini nel volume Principi e forme delle scienze sociali. Cinque studi su Schumpeter (Il Mulino, pp. 205, euro 16).
Alla ricerca di un programma per le scienze sociali. Siamo all'inizio del secolo scorso ed in mezzo alla Methodenstreit: ci si chiede come causalità e/o innovazione, scienza e/o politica possano percorrere la storicità fluente del reale e, lì dentro, spezzandola ma al tempo stesso integrandola, fondare la scienza sociale - come ogni altro linguaggio scientifico. «Il dato non analizzato è muto». È la questione che da allora ha percorso tutto il ventesimo secolo e Schumpeter si muove in questa problematica dal suo inizio: coglie la molteplicità delle scienze sociali, dei loro metodi, guarda con attenzione ai mutamenti rapidi che subiscono ed allo statuto incerto che mostrano. Adelino Zanini nota che in questo cercare si sviluppa quasi l'invenzione (comunque una modalità) di «sociologia del conoscere» (Wissenssoziologie). Essa qui appare non come conclusione ma come condizione di una qualsiasi metodologia delle scienze sociali, al cui interno - non secondariamente - deve bilanciarsi la scienza economica.
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Mts, la fabbrica dello spread
La nostra crisi frutta miliardi
Giorgio Cattaneo
Prima mossa: disabilitare la banca centrale, impedendole di continuare ad essere il “bancomat” del governo, a costo zero. Seconda mossa: togliere al governo la facoltà di emettere moneta, obbligandolo ad “acquistare” dalle banche private la valuta un tempo sovrana, cioè gratuita. Terza e ultima mossa: abolire anche l’ultima quota residua di sovranità politica, imponendo al governo una camicia di forza per limitare la spesa pubblica, vitale per i cittadini: sanità, scuola, assistenza. Risultato ovvio: tracollo dell’economia e catastrofe sociale. E’ l’Europa dell’euro, dove tutto sta precipitando. Tunnel senza uscita. Un sistema feudale di sovrani invisibili e nuovi sudditi, governato da un potere occulto e micidiale, nascosto dietro un nome straniero: spread. Il trucco: “privatizzare” il debito statale un tempo pubblico, mettendo all’asta la vita di milioni di cittadini. Gli Stati sotto ricatto: il prezzo della sopravvivenza decretato da un pugno di oligarchi. Più gli Stati s’indebitano, più gli strozzini si arricchiscono. La crisi è il loro affare d’oro, e ha un nome familiare: debito pubblico. Film dell’orrore, made in Italy: ideato da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.
Lo sostiene Glauco Benigni, che su “Globalist” svela l’origine del più opaco meccanismo di potere con il quale la tecno-finanza tiene in pugno i popoli dell’Eurozona, a cui nessuno spiega mai perché “le cose vanno male”. Congiunture internazionali e flessioni fisiologiche dell’economia?
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L’austerità espansiva e i numeri (sbagliati) di Reinhart e Rogoff
Vittorio Daniele
Se c’è un effetto positivo delle grandi crisi economiche, è certamente quello sulle idee e sulle teorie. Era già accaduto nel ’29 con la Grande depressione, e le sue drammatiche conseguenze sulle vite di milioni di persone, quando i presupposti della visione macroeconomica del tempo rivelarono la loro fallacia. Fu, poi, John Maynard Keynes, con la sua Teoria generale, a offrire un paradigma nuovo per interpretare le crisi economiche e strumenti macroeconomici per affrontarle.
Qualcosa di analogo è accaduto anche stavolta, con la crisi finanziaria del 2007 e la Grande recessione che ne è seguita. Anche questi eventi hanno costituito una sorta di “banco di prova” per la macroeconomia. E anche stavolta, alcune idee e teorie non hanno retto alla prova dei fatti.
È il caso dell’austerità espansiva, una tesi affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso, sulla base di alcune ricerche empiriche, e incorporata nell’approccio economico dominante. In nuce, la tesi afferma che consolidamenti fiscali, diretti a stabilizzare o abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e realizzati attraverso tagli alla spesa pubblica, possano stimolare consumi e investimenti privati. Si tratta di un effetto controintuitivo, significativamente definito “non-keynesiano”.
Gli effetti espansivi delle politiche di austerità si giocano tutti, o quasi, sul ruolo delle aspettative. Se i tagli di spesa vengono percepiti come segnali di un futuro abbassamento delle imposte, i consumatori si aspetteranno un più elevato reddito permanente (reddito futuro atteso), per cui tenderanno ad aumentare i consumi correnti. Effetti analoghi, secondo alcuni economisti, si avrebbero anche in seguito a consolidamenti fiscali attuati attraverso aumenti delle imposte[1].
La storia è nota. Nel 2009, per cause diverse, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia entrano in recessione.
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Il sindacato fra diseguaglianza e deregolazione*
Antonio Lettieri
Quando si sono passati molti anni nel sindacato, alcuni ricordi rimangono particolarmente impressi nella memoria. Fra questi c’è il rapporto con Claudio Sabattini. Ci trovammo insieme nella Segreteria della Fiom alla fine degli anni 70, un tempo che ci appare antichissimo, quando c’erano Bruno Trentin, Pierre Carniti alla FIM e Giorgio Benvenuto all’UILM. Ricordando quel tempo, sentiamo spesso l’obiezione: “Voi parlate di un altro secolo”. Certo, però non si può fare a meno di tornare a parlarne, anche per capire il presente, e verso dove andiamo.
Ricordo che con Claudio capitò quasi sempre di essere d’accordo sulle cose essenziali. Succedeva anche di non esserlo, ma non si poteva disconoscere la sua dote critica, il suo stimolo intellettuale, la sua capacità di dare senso ai dubbi e alle scelte sulle questioni da affrontare.
In quegli anni il sindacato era attraversato da un dibattito molto vivo che intrecciava i temi politici correnti con una riflessione più difondo sulle contraddizioni all’interno delle quali si muoveva l’azione sindacale. Vi era anche una particolare tendenza a ragionare sui fondamenti culturali in grado di fornire (o così si riteneva) maggiore spessore al l’analisi e alle conclusioni che se ne traevano.
Era un tempo nel quale si poteva far riferimento a Carlo Marx senza essere considerati fuori luogo. Ma non si trattava di un vezzo intellettuale.
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La Siria al centro dello scontro globale
di Spartaco A. Puttini
L’attuale tragedia siriana si inscrive a pieno titolo tra i capitoli che compongono il libro nero dell’Occidente. Cioè nella storia della lotta condotta dalle forze imperialiste per riportare sotto il loro controllo un paese e un popolo che per un secolo ha rappresentato un importante fattore della rinascita araba e della lotta antimperialista.
Nel loro tentativo di controllare la ricca e strategica regione del Vicino Oriente, gli Stati Uniti hanno ingaggiato da tempo un braccio di ferro con la Siria, sia direttamente che per interposta persona, tramite Israele. Ma le strategie dell’imperialismo per indurre Damasco a capitolare sono state finora sempre sconfitte (e sonoramente), dalla guerra civile libanese (tra il 1975 e il 1991) in poi.
Dominio mondiale e “Grande Medio Oriente”
Le guerre che Washington ha lanciato nel recente passato per inseguire il suo sogno di “dominio a pieno spettro”, a partire dall’avventura irakena, sono state foriere di guai.
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Dalla Grande Trasformazione alla Grande Transizione
di Pierluigi Fagan
K. Polanyi nel suo celebre “La Grande Trasformazione” segnalò che la forma della economia politica moderna era inusuale in quanto per la prima volta l’economia era scorporata dalla società. Non era più intessuta nella trama sociale, bensì la dominava. “La Grande Transizione” di Bonaiuti ci dice che l’unico esito auspicabile di un potente cambiamento delle cose del mondo, che quello stesso sistema analizzato da Polanyi ha messo in moto, è riportare l’economia all’interno del tessuto sociale e da questo, farla dominare. Se il sistema del capitalismo moderno aveva la sua cifra nella crescita, almeno per l’Occidente, la restrizione delle proprie condizioni di possibilità che stanno portando ad una progressiva decrescita reale (recessione-depressione), consigliano di promuovere un nuovo concetto di decrescita intenzionale basata su una profonda revisione e ridefinizione dei ruoli dell’economia e del mercato, di una sfera pubblica basata sulla redistribuzione e di una sfera sociale basata sulla reciprocità. L’autore è noto[1], ma meno di altri che parlano su questi temi, forse poiché perviene al concetto di decrescita per una via diversa da quella strettamente ecologista o geopolitica o della critica culturale o dell’anticapitalismo-antiliberismo o della divulgazione. Questa è la via dell’immagine di mondo data dalla frequentazione delle scienze della complessità, un aggregato di sguardi e di saperi non ancora completamente formalizzato, eppure in costante evoluzione almeno da mezzo secolo. Di questo sguardo fa parte la messa a fuoco della realtà attraverso i concetti di sistema, ambiente, adattamento, tempo, feedback. Questo set di disposizioni cognitive porta qualsiasi osservatore che ne fa uso a considerazioni magari più fredde di quelle che agitano le passioni politiche, eppure per certi versi ancor più inesorabili, logiche e definitive.
La grande transizione che vede Bonaiuti è quella del sottotitolo: dal declino (delle nostre società occidentali) alla società della decrescita.
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Dividiamoci il lavoro. Risposta a Lunghini
di Giovanni Mazzetti
Tra le intuizioni dei sostenitori del reddito di cittadinanza e le critiche di chi, come Giorgio Lunghini, pensa che quel reddito non risolva la questione dell’autonomia dei non occupati, rimane aperta una sola via: la redistribuzione del lavoro tra tutti, con la riduzione del tempo di lavoro ma senza decurtazioni di salario
Giorgio Lunghini nel suo “Reddito sì, ma da lavoro” ha sottolineato che la proposta del reddito di cittadinanza soffre di limiti intrinseci. Con le sue parole: “quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolve la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.”
Si tratta di un’argomentazione logicamente ineccepibile. Ma l’evoluzione della realtà sociale notoriamente non va di pari passo con la logica, visto il ricorrente sopravvenire di eventi contraddittori, cioè di fenomeni che impongono la ristrutturazione degli stessi presupposti del ragionamento e dell’azione. Può così accadere che la giusta critica alla proposta del reddito di cittadinanza venga articolata senza tener conto di alcuni degli elementi che hanno fondatamente spinto i sostenitori di quella strategia ad optareper quella soluzione, anche se poi quegli stessi elementi li hanno spinti a sbagliare nello svolgimento della soluzione del problema, ma non nella sua formulazione di partenza. Cerchiamo di vedere di che cosa si tratta.
Lunghini rappresenta il quadro dei rapporti sociali attuali con il seguente schema:
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Maitre-à -penser. Sulla fine degli intellettuali
di Benedetto Vecchi
Un sentiero di lettura sulla produzione culturale. Dai saggi dello storico Eric Hobsbawm al «forte» relativismo culturale di Rino Genovese, allo sciame dell'intelligenza collettiva in Rete. Gramsci, Sartre, Roosevelt Benda e il movimento 5Stelle. Il manifesto, 18 giugno 2013
La sua morte è stata annunciata più volte, per essere in seguito altrettanto repentinamente smentita. Il primo che ne ha stilato un obituary, attraverso un libro segnato da una malcelata nostalgia per il passato alle sue spalle, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla conoscenza delle tesi lì espresse, è Julien Benda, che ne Il tradimento dei chierici denunciava la scomparsa dell'intellettuale custode di valori universali a favore di un personaggio pubblico impegnato nell'agone politico. Il tradimento, stava nella rinuncia alla sua separatezza dalla mondanità: separatezza tanto importante quanto indispensabile per continuare a illuminare la caverna dove uomini e donne vivono, diradando così le ombre che impediscono la ricerca della verità. Tempo un decennio - il Tradimento dei chierici fu pubblicato nel 1927 - e gli intellettuali diventarono una presenza abituale nella sfera pubblica, grazie alle loro prese di posizione contro il fascismo e il nazismo, ma anche per l'impegno, al di là dell'Oceano, nel New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Sempre negli anni Trenta, dal carcere Antonio Gramsci scriveva le note sull'intellettuale organico come una conseguenza della modernità capitalistica. La partecipazione dell'intellettuale alla vita pubblica, più che decretarne la morte, segnalava il potere che esercitava nell'arena politica.
La gabbia della parcellizzazione
È stato dunque l'intellettuale organico la figura che, nel bene e nel male, si è imposta nel Novecento. Anche il maître-à-penser caro a Jean-Paul Sartre era un intellettuale che si incamminava sulla strada dell'impegno politico, rivendicando un'autonomia di giudizio dal partito che doveva rappresentare la classe, ma si considerava tuttavia organico a un progetto di trasformazione radicale della società.
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Il nemico parla chiaro
di Sergio Cararo
Le Costituzioni nate dalla sconfitta delle dittature in Europa sono ormai considerate una palla al piede dai poteri forti. Loro parlano chiaro mentre l'ipocrisia è il linguaggio della sconfitta.
La brutta sensazione era nell'aria da un po' di tempo. Poi, come spesso accade, il messaggio arriva brutale ma netto. Un documento della banca d'affari JP Morgan dice chiaro e tondo quello che la classe dominante europea e il suo ceto politico-tecnocratico stanno facendo senza dirlo.
Le Costituzioni approvate in Italia, Spagna, Grecia, Portogallo dopo la caduta delle dittature militari e fasciste sono ormai un intralcio insopportabile per la tabella di marcia del capitale finanziario nei paesi europei Pigs. Nel linguaggio crudo dei banchieri “l'eccesso di democrazia” rende debole la governabilità e non predispone i sudditi al piegarsi ad una esistenza che non prevede diritti o garanzie. Non solo. Siccome l'austerità farà parte del panorama europeo ancora per un lungo periodo, i paesi aderenti all'Eurozona dovranno anche predisporsi affinchè non sia prevista la “licenza di protestare quando vengono proposte modifiche sgradite allo status quo”.
Un messaggio e un linguaggio brutale che devono suonare come un allarme rosso nella testa e nella coscienza di chi vive in condizione subalterna nei paesi europei, soprattutto nei Pigs.
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Napoleoni, Claudio
Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Economia (2012)
di Riccardo Bellofiore
Claudio Napoleoni è una delle voci più significative dell’economia politica italiana, nell’ambito della quale ha svolto una funzione essenziale, critica e ricostruttiva insieme. Il rigore scientifico e la passione politica sono sempre state in lui inscindibili. Non si è stancato mai di indicare le ragioni di una lotta che puntasse a una trasformazione sociale profonda. Nei suoi scritti si ritrova un pensiero radicale, che sa cioè andare alla radice delle cose. La teoria economica, per Napoleoni, è scienza sociale che deve mutarsi in ‘critica dell’economia politica’, senza tradire il rigore del proprio statuto disciplinare; e al tempo stesso farsi critica del processo storico dato, mantenendo forte un legame intrinseco con il movimento reale di soppressione dell’alienazione e dello sfruttamento.
La vita
Napoleoni nasce a L’Aquila il 5 marzo del 1924. Dopo la maturità al liceo Mamiani di Roma, si iscrive a scienze naturali. Interrompe gli studi a causa dell’occupazione tedesca. Dal 1945 studia economia politica da autodidatta, leggendo Karl Marx e Léon Walras. Al termine del conflitto si iscrive al Partito comunista italiano (PCI). Collabora al Ministero della Costituente, occupandosi dei sistemi educativi su scala mondiale. Nel frattempo, si iscrive alla facoltà di Lettere e filosofia di Roma, studi che interrompe nel 1947: il suo è uno dei rari casi di docente universitario privo di laurea. Nel 1946 collabora con Mauro Scoccimarro, ministro delle Finanze nel governo Parri. Napoleoni fa parte della Commissione economica, diretta allora da Bruzio Manzocchi, e si interessa dei problemi relativi ai Consigli di gestione. Dal 1948 al 1950 dirige «La realtà economica», bollettino quindicinale del Comitato nazionale dei Consigli di gestione.
Nel 1951 abbandona il partito. Nel 1953 entra alla SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) di Pasquale Saraceno, dove dirigerà, dal 1958 al 1963, il Corso di formazione e specializzazione sui problemi della teoria e della politica dello sviluppo economico. Collabora allo Schema Vanoni, e fa poi parte della commissione di esperti che preparerà la nota aggiuntiva al bilancio 1962 del ministro Ugo La Malfa (Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano). Nel 1956-57 riprende i rapporti con Franco Rodano, e collabora a «Il dibattito politico».
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La Germania e l’euro: una partita ambigua
di Riccardo Achilli
Un giudizio costituzionale aggrovigliato
Mentre l’attenzione del Paese è, come al solito, distratta da pinzillacchere varie, come ad esempio il risultato rugbistico delle amministrative, o le beghe da telenovela (perché prive di analisi politica e caratterizzate da un elevato tasso di sceneggiata napoletana) dentro il M5S, altrove, cioè a Karlsruhe, Germania, si sta consumando qualcosa di importante. La Corte Costituzionale tedesca è infatti chiamata a decidere della costituzionalità della partecipazione tedesca all’Omt, il meccanismo di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario ideato da Mario Draghi per calmierare il galoppo dei rendimenti del debito pubblico dei PIIGS. Il nocciolo della questione giuridica è che un eventuale default della Bce, costretta ad acquistare titoli pubblici dei Paesi in difficoltà, difficilmente rivendibili sul mercato, costringerebbe la Germania a coprire una parte delle perdite, e ciò potrebbe, ipoteticamente, mettere sotto tensione l’obbligo costituzionale di pareggio del bilancio federale. E’ del tutto evidente che l’arzigogolata motivazione giuridica del ricorso contro l’Omt presso i giudici costituzionali tedeschi poggia su basi quantomeno precarie. Si chiede infatti alla Corte di giudicare su un’eventualità teorica, resa ancor più teorica dal fatto che l’Omt, in realtà, non è mai stato attivato, pur essendo stato annunciato, e non si conoscono nemmeno i dettagli di funzionamento di tale meccanismo.
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