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Il grande ircocervo e la mutazione genetica dello Stato
di Guido Cappelli
In principio è stata l’emergenza. Emergenza percettiva, interiore e interiorizzata, emergenza come Weltanschauung, come profezia che si autoavvera saldando il percepito col reale.
L’emergenza è legata all’Eccezione, e l’attesa della catastrofe offre il campo – logico e psicologico, cioè politico – ai salvatori, ai messia, agli illuminati da qualche ragione superiore e qualche tecnica salvifica. Ne sono apparsi a bizzeffe, in questo tempo bisognoso di promesse: i più risibili sono quelli dell’astensione rivoluzionaria, ma questa è un’altra storia su cui prima o poi dovremo tornare.
Intanto, gli ingredienti della distopia sono belli e serviti. Bastava un nulla, l’annuncio di un pericolo, qualche immagine convenientemente manipolata, un po’ di ammuina mediatica, la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’ossessione securitaria che ha invaso la nostra opulenza ormai da mezzo secolo – proprio in concomitanza, guarda caso, con l’esplosione del consumismo compulsivo di massa, con l’illusione di un benessere per default, di una felicità in servizio permanente effettivo.
E così, eccezione dopo eccezione, uno shock dopo l’altro, il cittadino medio sembra aver dimenticato i fondamenti elementari della convivenza democratica, per lasciarsi condurre a precipizio dai nuovi conducatores, siano il truce super Mario, l’esaltata britannica, il transumanista francese o qualche altro umanoide formato alla scuola di zio Klaus (Schwab).
Non sappiamo che cosa ci sia esattamente in fondo al precipizio, ma nella discesa abbiamo già incontrato alcuni “amici” di cui difficilmente ci libereremo nei prossimi secoli, a meno di uno scatto deciso e collettivo che non si sa se sia all’orizzonte.
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Noi siamo tutto. La miseria del (post-)operaismo
di Robert Kurz
«Il fatto che io sia paranoico, non vuol dire che io non sia perseguitato.» ( Woody Allen )
La svolta del marxismo occidentale verso la teoria dell'azione - una svolta che nella prassi ideologica postmoderna rimane separata dalla teoria di Marx in generale - invece di continuare a svilupparsi, lascia uno scheletro nell'armadio, vale a dire, la critica dell'economia politica: la critica che affronta le complicate "legalità" della macchina sociale capitalista sulla base della costituzione feticista, l'analisi continuata del processo capitalista "trasformatore della società", nella sua unità di oggettivazione e trattamento (soggettivo) della contraddizione, tra cui le ideologie assassine. La soluzione apparente di questa problematica non liquidata, ha prodotto la corrente forse più importante della nuova sinistra, sorta in Italia, parallelamente al marxismo strutturalista di conio althusseriano e all'atomizzazione foucaltiana della critica: il cosiddetto operaismo. Il punto di partenza fu la situazione specifica della giovane popolazione proveniente dal Mezzogiorno, che affollava le industrie fordiste del nord dell'Italia negli anni '60 e non aveva ancora interiorizzato la disciplina di fabbrica del "lavoro astratto". Mentre i regimi della "modernizzazione ritardata" del capitalismo di Stato, nella periferia del mercato mondiale, avevano imposto la frusta dell'azione disciplinatrice, fatta in nome dell'ideologia di legittimazione "marxista"; in Italia, a partire da una situazione simile, si sviluppa una determinata "militanza operaia" contro il regime produttivo fordista occidentale; una resistenza legittima, nella prospettiva adottata, ma immediatamente anche una forma specifica del trattamento limitato della contraddizione, la quale, nella sua immediatezza, poté diventare un campo di riferimento teorico per gli intellettuali di sinistra.
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Questa società è troppo ricca per il capitalismo!
di Norbert Trenkle e Ernst Lohoff
Presentiamo qui l’epilogo del libro Die große Entwertung di Norbert Trenkle e Ernst Lohoff, autori del Gruppo Krisis ed esponenti di punta della cosiddetta Wertkritik (Critica del Valore), libro uscito in Germania nel 2012 e, come la maggior parte dei testi provenienti da questa ricca corrente di pensiero, purtroppo ancora inedito in Italia. Abbiamo deciso di presentarne la parte finale perché questo breve testo ci sembra racchiuda, con una formula decisamente azzeccata, una parola d’ordine che potrebbe diventare centrale per le rivolte del prossimo futuro. Il titolo, infatti, recita Questa società è troppo ricca per il capitalismo.
Il messaggio che qui risuona (ma non solo in questa occasione) appare particolarmente indicato, crediamo, per rappresentare una svolta nel desolante panorama degli “slogan” politici di movimento, poiché trasgredisce alla regola dell’auto-sofferenza a cui ci hanno abituati, almeno da fine anni ‘70 in poi, i movimenti che dovrebbero e vorrebbero sovvertire il sistema. L’ultimo di questi “slogan”, quello per il quale avremmo oltrepassato i limiti e adesso dovremmo fare tutti dei sacrifici per far tornare il mondo, e noi stessi, in uno “stato di salute”, è particolarmente insidioso nella misura in cui va incontro proprio ai più intimi desideri del sistema del capitale nella sua fase finale, quella cioè determinata dalla iper-produttività a traino microelettronico, che ne erode le fondamenta e impedisce una sufficiente redditività agli ingenti capitali in circolo – i quali, non a caso, si rifugiano nella finanza per soddisfare la propria inestinguibile fame di denaro.
Il capitale in crisi è capace solo, oramai, di fecondare poche sacche di territorio qua e là, vere e proprie “riserve” dove il meccanismo riesce in qualche modo a funzionare – ovviamente sempre più a spese del resto del mondo – mentre altre, molto estese, sono lasciate andare alla deriva e utilizzate al più come scorta di preziose materie prime da depredare e forza lavoro schiavizzata da sfruttare.
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Note sul gas di Putin
di Vincenzo Comito
Sostituire il gas russo non sarà per niente facile. E non vi è motivo di pensare che trovarne altro, di altra provenienza, sarà più facile – più rapido e meno costoso – che sostituirlo con altre fonti di energia
Introduzione
Capita di frequente che dei personaggi che hanno lasciato una importante traccia nella storia contemporanea abbiano trascurato di far crescere dei successori abbastanza degni e capaci di raccogliere in qualche modo la loro eredità; si pensi così al deplorevole stato in cui Angela Merkel ha lasciato il suo partito e più in generale la politica tedesca, mentre ci ha regalato il trasferimento dai tranquilli sonni berlinesi a Bruxelles di una così inadeguata figura nella persona di Ursula von der Leyen.
Tra le sue frasi celebri bisogna ricordare quella secondo la quale sarebbe stato facile liberarsi del gas e del petrolio russo. La realtà, almeno per quanto riguarda il gas, appare piuttosto diversa, come cerchiamo di mostrare nel testo, esplorando, parzialmente almeno, la situazione dei principali paesi fornitori di gas all’Europa, a cominciare dalla stessa Russia, nonché le prospettive del nostro continente per questo inverno.
Comunque intanto una risposta indiretta alla von der Leyen viene da Ben van Beurden, il capo della Shell, la più importante società energetica europea, che ha di recente dichiarato che affermare che staccarsi dal gas russo sarà in qualche modo facile appare una fantasia che bisogna mettere da parte.
Diamo intanto il quadro sintetico della situazione attuale; secondo i dati disponibili (fonte: Eurostat), nel primo semestre del 2021 l’UE ha importato il 46,8% del suo fabbisogno di gas dalla Russia, il 20,5% dalla Norvegia, l’11,6% dall’Algeria, il 6,3% dagli Stati Uniti, il 4,3% dal Qatar e il 10,5% da altre fonti.
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Marxismo e movimenti sociali
di Alessandra Ciattini
In questa fase di grave confusione ideologica e politica è forse il caso di tornare a chiederci chi è nelle condizioni sociali di agire come agente trasformatore
In un libro pubblicato in Italia nel 1973 (Neocapitalismo e crisi del dollaro), in cui sono raccolti vari articoli scritti in precedenza che sono ammirevoli per la profondità di analisi e la lucidità dell’autore, Ernest Mandel riflette sulla “negazione della funzione centrale del proletariato dei paesi metropolitani nella lotta su scala mondiale contro l’imperialismo e il capitalismo” (p. 118). Come è noto, Mandel era un autorevole economista trotskista, che certo non può esser trascurato per questa ragione in una fase in cui siamo invitati a riflettere a fondo su tutta la nostra complicata e dolorosa tradizione.
Esamina con cura questa tesi perché polemizza con chi sostiene che la stabilità del sistema capitalista non può esser alterata se non sollecitata dalle rivoluzioni avvenute nei paesi ex coloniali (Lin Piao) e con chi invece ritiene che i seppellitori di esso saranno i “gruppi ai margini della società: le minoranza nazionali e razziali, i settori supersfruttati della popolazione, le nuove avanguardie giovanili”.
Queste tesi poggiano su una generalizzazione sbrigativa di fatti inconfutabili: “il proletariato occidentale è passato in secondo piano nella lotta rivoluzionaria mondiale durante gli ultimi 20 anni tra il 1948 e il 1968”, anche per le manipolazioni ideologiche cui è sottoposto. Le tesi su indicate si fondano su argomentazioni tutt’oggi valide che prendono le mosse dalle profonde trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche che hanno investito il neocapitalismo o tardo capitalismo (p. 118).
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La requisitoria di Sahra Wagenknecht e i suoi limiti
di Marx XXI
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht – dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
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"Nell'inferno dei quartieri di Donetsk"
di Sara Reginella
Al ritorno da un’esperienza di tre settimane nel Donbass, credo sia doveroso ritrarre lo scenario articolato con cui mi sono interfacciata.
Il primo aspetto sui cui vorrei porre l’attenzione riguarda la complessità. Non è possibile fare generalizzazioni su un quadro variegato come quello del conflitto ucraino, comprensibile solo nella misura in cui si evitano facili generalizzazioni.
Nel Donbass è in atto un conflitto dal 2014, i cui primi anni sono stati quasi totalmente censurati dai mass media occidentali. Non entrerò in merito alle cause che hanno portato al conflitto, a partire dal golpe di Kiev, durante l’Euromaidan, già oggetto di miei precedenti lavori e reportage, né disputerò sulle questioni geopolitiche legate al pericoloso espansionismo della NATO ai confini della Russia. Mi limiterò a riferire sulla situazione osservata nell’estate 2022 nei territori del Donbass, che ho personalmente visitato.
A Lugansk, capitale della LNR (Luganskaya Narodnaya Respublika – Repubblica Popolare di Lugansk), la popolazione vive in una condizione di pace relativa. Sono in molti a combattere al fronte, ma l’ultimo bombardamento risale a circa un mese e mezzo fa. Con l’arrivo dell’esercito russo, da febbraio 2022, il fronte si è spostato di oltre settanta chilometri in avanti, rispetto alla capitale. Nel territorio di Lugansk, ho potuto appurare come la popolazione sia grata all’esercito russo, in quanto le persone riferiscono come dal suo arrivo, nei territori dell’omonima Repubblica, dopo otto anni, l’esercito ucraino non può più colpire.
A Donetsk invece, capitale della DNR (Donetskaya Narodnaya Respublika – Repubblica Popolare di Donetsk), il fronte si sviluppa a partire dalle aree periferiche della città.
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Il futuro dell’energia
di Fabrizio Russo
Nessun politico vuole raccontarci la vera storia: la disponibilità di combustibili fossili si sta esaurendo. Siamo infatti già a corto di petrolio, carbone e gas naturale perché i costi diretti e indiretti di estrazione stanno raggiungendo un punto in cui il prezzo di vendita del cibo e di altri beni di prima necessità deve essere fissato ad un livello talmente alto, ed inaccettabile, da compromettere l’operabilità del sistema economico globale, nel suo assetto attuale. Allo stesso tempo, l’energia eolica, solare e altre fonti di “energia pulita” non sono ancora in grado, neppure in misura parziale ma tale da consentire un funzionamento “sui minimi” del sistema, di sostituire la quantità di combustibili fossili perduta.
Il problema economico, che ha per protagonista l’energia, è essenzialmente un problema di fisica. L’energia pro capite e, di fatto, le risorse pro capite (qualsiasi produzione richiede infatti energia), devono rimanere sufficientemente elevate in presenza di una crescita della popolazione a cui fa capo una determinata realtà economica. Quando ciò non accade, come la storia ci dimostra, le civiltà tendono a – o perlomeno rischiano di – crollare.
I politici non possono però ammettere apertamente che l’economia mondiale possa oggi essere diretta verso il collasso, come peraltro già accaduto a molte/tutte le civiltà precedenti. Devono dare invece l’illusione di essere al comando, di avere la situazione sotto controllo. Ciò spinge i politici a dare al pubblico, in qualche modo, motivazioni per cui i cambiamenti futuri potrebbero essere o desiderabili, (ad es. per evitare il cambiamento climatico) o, perlomeno, che le difficoltà sollevate siano temporanee/condizionate (ad es. a causa delle sanzioni contro la Russia).
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Operazione Z
The Postil Magazine intervista Jacques Baud
Siamo lieti di presentarvi questa nuova intervista a Jacques Baud, in cui copriamo ciò che sta accadendo ora nella lotta geopolitica che è la guerra Ucraina-Russia. Come sempre, il signor Baud porta una visione profonda e un’analisi chiara alla conversazione
The Postil (TP): Hai appena pubblicato il tuo ultimo libro sulla guerra in Ucraina — Operazione Z , edito da Max Milo. Per favore, raccontaci qualcosa: cosa ti ha portato a scrivere questo libro e cosa desideri trasmettere ai lettori?
Jacques Baud (JB): Lo scopo di questo libro è mostrare come la disinformazione propagata dai nostri media abbia contribuito a spingere l’Ucraina nella direzione sbagliata. L’ho scritto sotto il motto “dal modo in cui comprendiamo le crisi deriva il modo in cui le risolviamo”.
Nascondendo molti aspetti di questo conflitto, i media occidentali ci hanno presentato un’immagine caricaturale e artificiale della situazione, che ha portato alla polarizzazione delle menti. Ciò ha portato a una mentalità diffusa che rende praticamente impossibile qualsiasi tentativo di negoziare.
La rappresentazione unilaterale e parziale fornita dai media mainstream non ha lo scopo di aiutarci a risolvere il problema, ma di promuovere l’odio nei confronti della Russia. Così, l’esclusione dalle competizioni di atleti disabili, gatti , persino alberi russi , il licenziamento dei direttori d’orchestra, il de-platforming di artisti russi, come Dostoevskij , o anche la ridenominazione dei dipinti mira ad escludere la popolazione russa dalla società! In Francia, i conti bancari di persone con nomi che suonavano in russo sono stati persino bloccati. I social network Facebook e Twitter hanno sistematicamente bloccato la divulgazione dei crimini ucraini con il pretesto di “incitamento all’odio”, ma consentono l’appello alla violenza contro i russi.
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L’invenzione della classe operaia
di Maria Grazia Meriggi
Vent’anni fa veniva pubblicato il volume L’invenzione della classe operaia di Maria Grazia Meriggi, frutto di una straordinaria ricerca su sopravvivenza e rottura delle dimensioni comunitarie in Francia, su costruzione di forme di partito e sovrapposizione fra rivendicazioni economiche e avventure insurrezionali, tra tramonto del popolo degli artigiani e alba del movimento operaio, fra la svolta della Rivoluzione francese e il 1848. In questo articolo l’autrice ripercorre un viaggio affascinante in mondi del lavoro complessi, composti in molti casi da operai ancora padroni dell’autorevolezza del mestiere ma che gli avversari vedono invece immersi nelle classi pericolose in cui la disoccupazione può farli precipitare.
* * * *
Ancora una volta mi preparo a scrivere per «Machina», una rivista affascinante anche quando a volte non se ne condividono tutti i contenuti e sono stata sollecitata a riflettere sui temi di (e a partire da) una mia ricerca che è poi quella che mi è probabilmente più cara anche se studi, saggi e monografie su periodi più recenti hanno suscitato più attenzione e dibattito. Si tratta di L’invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848 [1]. Tuttavia in un percorso che dura ormai da più di quarant’anni le domande che ponevo come centrali di quel volume nei Ringraziamenti [2], che riguardavano e riguardano tuttora «i contributi delle trasformazioni economiche e delle culture diffuse nel produrre i soggetti sociali» lo sono ancora nelle mie ricerche. In queste righe sono riassunte le ragioni per cui vale la pena di tornare ai contenuti e ai metodi di quella ricerca, al di là della tentazione della ego-histoire.
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La politica statunitense “pericolosa” e la “falsa narrativa dell’Occidente” alimentano le tensioni con Russia e Cina
Amy Goodman e Juan Gonzàlez intervistano Jeffrey Sachs
Discutiamo dell’egemonia occidentale e della politica statunitense in Russia, Ucraina e Cina con l’economista della Columbia University Jeffrey Sachs, il cui nuovo articolo è intitolato “La falsa narrativa dell’Occidente su Russia e Cina”. Sachs afferma che l’approccio bipartisan degli Stati Uniti alla politica estera è “inspiegabilmente pericoloso e storto” e avverte che gli Stati Uniti stanno creando “una ricetta per l’ennesima guerra” nell’Asia orientale.
Politico riporta che l’amministrazione Biden si prepara a chiedere al Congresso di approvare una nuova vendita di armi da 1,1 miliardi di dollari a Taiwan. Secondo quanto riferito, il pacchetto include 60 missili antinave e 100 missili aria-aria. Ciò avviene dopo che due navi da guerra statunitensi hanno navigato domenica attraverso lo Stretto di Taiwan per la prima volta da quando il presidente della Camera Nancy Pelosi ha visitato Taiwan all’inizio di questo mese. La Cina ha condannato la visita e ha lanciato importanti esercitazioni militari vicino a Taiwan.
Nel frattempo, la scorsa settimana il presidente Biden ha annunciato 3 miliardi di dollari in più di aiuti militari per l’Ucraina, compresi i soldi per missili, colpi di artiglieria e droni per aiutare le forze ucraine a combattere la Russia.
Iniziamo la puntata di oggi guardando la politica degli Stati Uniti su Russia e Cina. Siamo raggiunti dall’economista Jeffrey Sachs, direttore del Center for Sustainable Development della Columbia University. È presidente della Rete di soluzioni per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Ha servito come consigliere di tre segretari generali delle Nazioni Unite. Il suo ultimo articolo è intitolato “La falsa narrativa dell’Occidente su Russia e Cina”.
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Robert Kurz, il Capitale Mondo e la Cina
di Giuliana Commisso e Giordano Sivini
Ricevo da Giordano Sivini, che ringrazio, un interessantissimo articolo sulla Cina odierna, in cui - a partire da "Il capitale mondo" di Robert Kurz, e dal libro sulla Cina dello stesso Sivini ("La costituzione materiale della Cina") - viene svolta un'ampia riflessione sulla "modernizzazione ritardataria" e sulle possibilità di crisi e di sviluppo che interessano alcuni di questi paesi orientali. Il preambolo all'articolo, chiarisce l'intento per cui, come sempre, è finalizzato a una miglior comprensione della realtà che, a partire dalle categorie marxiane e dall'analisi di Kurz, ci possa permettere di muoverci meglio in quella che è la crisi finale sistemica del capitale nella sua totalità
La pubblicazione in italiano di "Il capitale mondo" (Meltemi 2022) induce a riflettere sulle ragioni teoriche che avevano spinto Kurz nel 2005 a dare una interpretazione liquidatoria della Cina e delle sue prospettive di crescita. «La Cina - aveva scritto - è l’esempio più eclatante di come la periferia del mercato mondiale sia vincolata al capitalismo transnazionale di crisi generato dalla terza rivoluzione industriale e dal collasso, a esso legato, di tutti i progetti di sviluppo basati sullo Stato nazionale o sull’economia nazionale. In tutti i casi abbiamo a che fare con zone insulari più o meno vaste, in cui lo stock di capitale delle imprese transnazionali ha creato una peculiare struttura rizomatica all’interno di un territorio che ha totalmente perso ogni capacità autonoma di riproduzione capitalistica» (p. 219).
Al tempo della pubblicazione di Das Weltkapital (2005) la storia già consentiva di cogliere le specificità della Repubblica Popolare Cinese e le sue potenzialità di crescita rispetto agli altri paesi che avevano cercato di affrancarsi dall’imperialismo. Questo è documentato in "La costituzione materiale della Cina" (Giordano Sivini, Asterios, 2022). Per tentare di capire il diverso assunto di Kurz, è opportuno ripercorrere per sommi capi le tappe teoriche e storiche della sua esposizione, distinguendo, pur nella loro connessione, tra capitali individuali, capitale complessivo, contesti in cui essi operano - dalle economie nazionali a quella globale - e Stati come entità ad essi funzionali, per concludere con il capitale fittizio. Il capitalismo "con caratteristiche cinesi" andrà riletto con riferimento a questo quadro teorico.
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Lavoro, reddito, consumo
di La redazione di Malanova
Il lavoro, nella sua essenza di processo trasformativo, non è una prerogativa dell’essere umano; macchine e animali possono svolgere molte mansioni, ma soprattutto le macchine le quali, in ragione dell’avanzamento tecnologico, tendono a sostituire il lavoro umano. Quindi il lavoro in sé, come fonte di profitto per chi lo utilizza, organizzandolo in un processo razionale, potrebbe fare a meno dell’essere umano se si potesse affidare ogni mansione ad un sistema meccanizzato o elettronico. Per quanto fantascientifico possa apparire, è quello che si sta realizzando, seppur in alcune aree economiche circoscritte dell’Occidente, ma questo non è un problema nuovo che attanaglia la contemporaneità, esso fu ipotizzato già nel momento stesso in cui si ravvisavano le prime innovazioni tecnologiche nel campo industriale. Ricardo, già nel 1817 nei “Principi di economia politica e dell’imposta” difatti scriveva: l’opinione della classe lavoratrice secondo la quale l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai propri interessi non si basa sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica. Ciò che Ricardo non immaginava era che l’evoluzione dei mezzi di trasporto e di comunicazione, avrebbero diviso il mondo sostanzialmente in aree di due categorie, da un lato le aree a capitalismo avanzato che implementando lo sviluppo tecnologico richiedono meno forza lavoro, e le aree con un capitalismo in via di definizione, che attraggono quote crescenti di produzione dai paesi avanzati grazie al vantaggio competitivo costituito in primis il costo del lavoro, in secondo luogo da norme assai lasche o inesistenti circa salute, sicurezza e ambiente.
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La passività del proletariato nella crisi
di Michele Castaldo
Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che la questione della passività del proletariato, in modo particolare in questa crisi, richiederebbe un approfondimento ben più corposo che queste poche note. Chiarisco innanzitutto, perciò, che la metafora dei girasoli l’ho usata per definire il modo d’essere del proletariato nei confronti del capitale, cioè come i girasoli che guardano al sole. Dunque un modo teorico per definire un rapporto fra due diverse componenti coesive per la produzione delle merci, o – come avrebbe detto Hegel – due diverse schiavitù: il capitalista che non può fare a meno dell’operaio e l’operaio che non può fare a meno del capitalista. Stabilito il principio teorico è necessario poi osservare i comportamenti tanto dell’uno quanto dell’altro nell’andamento del processo di accumulazione capitalistico e della vita sociale e politica nel suo complesso. Fatta questa premessa cerchiamo di analizzare in che modo si vanno disponendo le varie categorie sociali rispetto al voto del 25 settembre e agli sviluppi di della crisi.
C’è poi una terza componente che all’improvviso è entrata in scena e in modo molto clamoroso, è il ruolo delle materie prime e innanzitutto di gas e petrolio che sta sconvolgendo l’insieme dell’assetto del modo di produzione e che richiama una serie di questioni come gli assetti istituzionali dei vari paesi. Insomma mai come oggi è applicabile il famoso detto di Mao «grande è il disordine sotto il cielo », e in una situazione di disordine generale e di caos è sempre più difficile rintracciare le linee di tendenza del moto.
Faccio un passo indietro, al Referendum del 4 dicembre 2016, perché le questioni di allora si vanno riproponendo con una potenza decuplicata proprio a causa della crisi energetica. Per quanto inelegante possa apparire, non di estetica stiamo trattando, propongo perciò la rilettura di quell’intervento.
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Analisi di laboratorio negli studi clinici dei vaccini COVID-19: missing in action?
di Marco Cosentino
Aver omesso durante le sperimentazioni gli esami di laboratorio e continuare a ignorarli oggi, impedisce la corretta valutazione degli effetti avversi e più in generale il razionale impiego dei vaccini. È, invece, urgente valutare i profili dei parametri di laboratorio e strumentali che si verificano nei soggetti sia prima che dopo la vaccinazione
Nella maggior parte dei paesi occidentali, le campagne di vaccinazione di massa contro la malattia da Coronavirus-19 (COVID-19) in corso dalla fine del 2020 si basano su due vaccini mRNA contro SARS-CoV-2 (BioNTech/Pfizer BNT162b2 e Moderna mRNA-1273) [1,2]. Entrambi i prodotti hanno ricevuto l’autorizzazione all’uso di emergenza (EUA dalla FDA negli Stati Uniti) e l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionale (CMA dall’EMA nell’UE), sulla base dei risultati di studi clinici che hanno sollevato molte polemiche [3,4]. In particolare, la sicurezza del prodotto in quegli studi è stata valutata solo attraverso la segnalazione di eventi avversi (EA) da parte dei partecipanti e non è stata presa in considerazione alcuna valutazione clinica di laboratorio se non nella piccola parte di fase I del programma di sperimentazione, in cui sono state arruolate solo poche dozzine di partecipanti. Tuttavia, anche un campione così piccolo è stato sufficiente per identificare diversi alterazioni di parametri di laboratorio: ad esempio, lo studio di fase I BioNTech/Pfizer ha registrato diminuzioni clinicamente importanti tra l’8,3% e il 33,3% nella conta dei linfociti in ciascun gruppo di dose e neutropenia in altri due partecipanti [5]. Nonostante questi risultati, nessuna valutazione clinica di laboratorio è stata successivamente inclusa nello studio di fase III.[1]
Secondo le linee guida del Consiglio internazionale per l’armonizzazione dei requisiti tecnici per i prodotti farmaceutici per uso umano (ICH), le valutazioni cliniche di laboratorio sono una parte fondamentale della valutazione complessiva della sicurezza di qualsiasi nuovo farmaco. In particolare, secondo il Common Technical Document (CTD) Efficacy (M4E),[2] che descrive la struttura e il formato dei dati clinici ai fini della documentazione di una domanda di autorizzazione di nuovo farmaco, una specifica sezione dovrebbe descrivere i cambiamenti nei test di laboratorio con l’uso del nuovo farmaco, con confronti appropriati tra i gruppi di trattamento e di controllo.
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La prigione più grande del mondo
di Carlo Formenti
L'editore Fazi pubblica un libro che fin dal titolo – La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati - lascia intuire l’opinione dell’autore in merito alla politica israeliana nei confronti del popolo palestinese. Ove non bastasse il titolo la dedica dissipa ogni dubbio: “Ai bambini palestinesi, uccisi, feriti e traumatizzati dal vivere nella più grande prigione del mondo”. Opera di un intellettuale comunista pregiudizialmente ostile nei confronti di Israele, di un esponente della destra antisemita, di un simpatizzante di Hamas o di un pacifista “a senso unico”? No, a firmare il libro è Ilan Pappé, autorevole storico israeliano (docente all’Università di Exeter, in Inghilterra) già autore di diversi bestseller fra i quali Palestina e Israele: che fare? ( con Noam Chomsky).
Pappé è una mosca rara in un Paese dove le uniche forze che denunciano la politica israeliana nei Territori Occupati come ingiusta, crudele, per non dire criminale, sono il piccolo Partito Comunista, qualche minuscolo movimento anti sionista e quella esigua minoranza di intellettuali “illuminati” di cui lo stesso Pappé è un esponente. Tuttavia il suo lavoro non è una perorazione ideologica né una predica morale (o peggio moralistica), bensì una rigorosa esposizione di fatti storici corredata da un’ampia documentazione (verbali di riunioni di governo, memorie dei protagonisti, cronache nazionali e internazionali, sentenze di tribunali militari e civili, testi di legge, decreti, regolamenti emanati dalle autorità di occupazione, dichiarazioni di leader di partito, ecc.). Una mole di materiali talmente ingente che chi non abbia seguito con particolare attenzione gli eventi del conflitto palestinese dalla Guerra dei sei giorni (1967) a oggi rischia di perdercisi dentro (parlando di attenzione, non mi riferisco tanto all'attività militante dei movimenti filo palestinesi quanto a un costante impegno di documentazione sulla realtà dei fatti).
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Perché Erwin Schrödinger torna all’antica Grecia
di Antonio Sparzani
Nel 1996 la Cambridge University Press pubblica per la prima volta, riuniti in un unico volume, due scritti di Erwin Schrödinger (Vienna 1887-1961), Nature and the Greeks, pubblicato la prima volta nel 1954 e l’altro, Science and Humanism, pubblicato già nel 1951. Io comprai questa edizione della CUP una ventina di anni fa, la trovai estremamente interessante e, di recente, mi sono chiesto se esiste in italiano. Dopo varie ricerche, che in un primo tempo sembravano dire che il secondo dei due scritti era stato già bellamente tradotto, ma il primo no – tanto che pensavo di proporne la traduzione a qualche editore – mi accorsi invece che c’era stato un (per me) oscuro editore triestino, Beit Edizioni, che l’aveva tradotto, mettendo però come titolo Scienza e Umanesimo e quasi come sottotitolo La natura e i Greci. Contattai l’editore, il dr. Piero Budinich, che era anche il traduttore e mi confermò che il libro è ormai introvabile, cosa che avevo già scoperto indagando qua e là, ma aggiunse anche che stava chiudendo la casa editrice. Però mi mandò molto cortesemente il pdf del volume (dal quale traggo le citazioni che seguono), nel quale la mia pignoleria voleva controllare la cura editoriale, note e via dicendo, e scoprii così che oltre all’introduzione originale del fisico Roger Penrose, ne aveva aggiunta una anche Carlo Rovelli, che ormai pubblica molto in Italia.
Tutto questo per dire che non mi propongo di recensire un libro ormai irreperibile, ma di spiegare le ragioni addotte da Schrödinger per tornare a indagare il pensiero della Grecia classica. A questa spiegazione è infatti dedicato il primo capitolo del libro, letteralmente “Le ragioni per tornare al pensiero antico”. Schrödinger scrive direttamente in inglese (che gli aveva insegnato da piccolo la sua britannica nonna materna) e si tratta del testo di alcune conferenze che tenne nel 1948, prima a Dublino e poi a Londra (Shearman lectures).
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Non votare
di Coordinamenta femminista e lesbica
<Hanno detto – non prendertela… Hanno detto – stai calma… Hanno detto – smettila di parlare… Hanno detto – stai zitta… Hanno detto – stai seduta… Hanno detto – abbassa la testa… Hanno detto – continua a piangere, lascia scorrere le lacrime… Come dovresti reagire? Dovresti alzarti ora dovresti stare in piedi tenere le spalle dritte tenere alta la testa… dovresti parlare dire cosa pensi dirlo forte urlare! Dovresti urlare così forte da farli correre a nascondersi. Diranno – “Sei una svergognata!” Quando lo senti, ridi… Diranno – “Hai un carattere dissoluto!” Quando lo senti, ridi più forte… Diranno – “Sei corrotta!” E tu ridi, ridi ancora più forte… Sentendoti ridere, grideranno, “Sei una puttana!” Quando dicono così, tu mettiti le mani sui fianchi, stai ferma e dì, “Sì, sì, sono una puttana!” Resteranno scioccati. Ti fisseranno increduli. Aspetteranno che tu dica di più, molto di più… Gli uomini fra loro arrossiranno e suderanno. Le donne tra loro sogneranno di essere una puttana come te. > TASLIMA NASRIN < Vai ragazza!>
Che il neoliberismo sia una vera e propria ideologia e che le sue linee di tendenza siano molto chiare ce lo dice, se mai ce ne fosse bisogno, la parabola politicoeconomica che l’Italia ha percorso in tutti questi anni.
Il PD è stato il motore trainante delle scelte che hanno portato alla privatizzazione di importanti strutture pubbliche, alla svendita di interi settori produttivi alle multinazionali, alla aziendalizzazione della sanità, della scuola e degli altri servizi sociali, alla trasformazione del mercato del lavoro, nel senso di una precarizzazione selvaggia, alla distruzione dei ceti medi e delle piccole strutture economiche, alla elaborazione di una vera e propria ideologia della “sicurezza” e “legalità”, apparato teorico giustificativo di una serie di stravolgimenti dello stesso diritto borghese, primo fra tutti la creazione di quelle infami istituzioni totali chiamate oggi Cpr e del principio della detenzione amministrativa e delle sanzioni amministrative. Riforme che hanno avuto un forte impatto sul tessuto sociale e culturale del Paese, determinando alcuni spostamenti del comune sentire, progressivamente sempre più assuefatto all’utilizzo di strumenti di controllo generalizzato, capillare, diffuso e parossistico di ogni azione personale e collettiva.
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Energia: dieci verità per fermare la catastrofe
di Leonardo Mazzei
Breve riassunto
Poiché ci è venuto fuori un pezzo un po’ lungo, iniziamo con un riassunto sintetico di quel che abbiamo scritto. In particolare, sulle conclusioni a cui siamo giunti.
Primo. La questione energetica, dunque quella del caro bollette, è oggi centrale. E lo sarà per un periodo non breve.
Secondo. Le misure del governo italiano, come quelle dell’Ue, sono del tutto inadeguate ad affrontare l’emergenza che loro stessi hanno creato.
Terzo. Nell’esplosione dei prezzi il ruolo della speculazione è importante, ma essa non avrebbe mai raggiunto questi livelli se non fossimo di fatto in guerra contro la Russia.
Quarto. Le politiche anti-russe ci stanno portando verso una carenza strutturale, e di lungo periodo, del gas. Al di là dei picchi attuali, l’aumento dei prezzi che si profila per il futuro è comunque insostenibile per l’economia italiana.
Quinto. Per venire fuori dall’attuale disastro bisogna innanzitutto revocare le sanzioni, portando l’Italia fuori dalla guerra e ristabilendo normali relazioni politiche e commerciali con Mosca.
Sesto. Si potrà porre fine alla speculazione solo con l’uscita da tutti i mercati borsistici dell’energia, quelli internazionali e quelli nazionali. Questi ultimi andranno semplicemente chiusi.
Settimo. E’ necessario nazionalizzare il sistema energetico, a partire da Eni ed Enel. Alla nuova Enel il compito di produrre e distribuire l’energia elettrica per l’intero Paese. All’Eni quello di garantire tutti gli approvvigionamenti con contratti di lungo periodo con i vari fornitori. Allo Stato il ruolo di programmazione e di fissazione di prezzi stabili amministrati.
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Gran Bretagna: gli scioperi contro l'inflazione non si fermano
di Paul Demarty
Dal giugno scorso la Gran Bretagna è scossa da un’ondata di scioperi che vedono come protagonisti i settori strategici della classe lavoratrice. Il principale bersaglio è l’impennata dell’inflazione e il muro contro muro opposto dal governo conservatore alle richieste dei sindacati. A luglio – anche a causa della sua incapacità di frenare il movimento rivendicativo – il premier Boris Johnson ha dovuto dimettersi, senza per questo che gli scioperi si siano arrestati. Anzi, proprio in questi giorni in cui un altro esponente dei Tory si appresta a installarsi a Downing street, la dinamica della lotta di classe continua la sua traiettoria ascendente coinvolgendo strati sempre più larghi di lavoratori.
In un contesto in cui il caro-vita erode il potere d’acquisto anche nel nostro paese – mentre la burocrazia CGIL riesce a rispondere solo sul piano verbale – è importante che l’esperienza del movimento operaio britannico venga discussa dai lavoratori italiani.
In quest’ottica, pubblichiamo la traduzione di un’analisi delle lotte in corso in Gran Bretagna, uscita la settimana scorsa sul sito dell’estrema sinistra britannica, Weekly Worker. Il pezzo è particolarmente interessante poiché non si limita all’elenco degli scioperi, ma li inserisce nel quadro della crisi politica che coinvolge il Regno Unito, mentre fornisce un giudizio critico sulle campagne di sostegno alla lotta contro il carovita portate avanti dalla sinistra del partito laburista vicina a Corbyn. Si tratta di campagne “liquide” rivolte a un pubblico generico, quindi strutturalmente incapaci di radicarsi nel movimento operaio (figuriamoci di proporre una direzione); un modus operandi che in Italia conosciamo bene.
* * * *
A nessun lettore di Weekly Worker può essere sfuggita l’enorme ondata di lotte industriali degli ultimi mesi. Si tratta di un fenomeno senza precedenti da quando chi scrive milita nella sinistra (ovvero dalla metà degli anni duemila).
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Karl Marx: umanismo e materialismo
di Caterina Genna (Università di Palermo)
Ad inizio del XXI secolo, consolidatasi la crisi delle ideologie, la memoria storica induce a ripensare alle opere di alcuni autori, che hanno caratterizzato il pensiero occidentale contemporaneo. Tra gli autori che di tanto in tanto tornano di moda, oppure sono ricordati con nostalgica memoria, trova posto Karl Marx, troppo spesso legato alle vicende storiche del XX secolo, dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 al processo di destalinizzazione avviato in URSS con lo svolgimento del XX congresso del PCUS nel 1956; nonché dall’esplosione del movimento giovanile del 1968 alla caduta del muro di Berlino nel 1989. L’autore de Il capitale, nel corso della seconda metà del XX secolo, è stato oggetto di studio e di continue reinterpretazioni alla luce della riscoperta o della pubblicazione postuma di non poche opere giovanili1. Sempre nel corso della seconda metà del XX secolo, è stato oggetto di facili entusiasmi, sia in Europa orientale che in Europa occidentale; con la riscoperta di alcuni scritti giovanili, per un verso (in Europa occidentale), è stato osannato per avere posto al centro della sua produzione il cosiddetto problema della persona umana nell’ampio contesto della Sinistra hegeliana2; per un altro verso (in Europa orientale), è stato assunto a simbolo di un sistema politico che riteneva di potere cambiare il mondo3. Venuto meno il sistema politico del socialismo reale, l’opera di Karl Marx costituisce a pieno titolo una delle componenti più interessanti della storia della cultura contemporanea, se si presta la dovuta attenzione, oltre che agli scritti del Marx giovane, a quelli del Marx giovanissimo solitamente trascurati. Se ci si sofferma sui contenuti delle opere dedicate all’economia politica, si può riscontrare che il problema della persona umana continua a costituire il tema centrale del materialismo storico e dialettico, già posto ed elaborato nelle opere giovanili sul piano antropologico e sociologico.
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Interrogarsi sulla natura del sistema politico-economico cinese
di Bollettino Culturale
Rémy Herrera, economista e ricercatore al Centro di Economia della Sorbona (CNRS), e Zhiming Long, economista e professore all’Università Tshinghua di Pechino, sono autori di un testo molto interessante sul socialismo con caratteristiche cinesi: “La Cina è capitalista?”.
Questo libro, pubblicato in Italia da Marx21, affronta questioni contemporanee cruciali, come la rinascita della Cina come una delle principali potenze del sistema internazionale, le cause della sua rinascita e dove si sta dirigendo. È un libro olistico e una lettura consigliata a chiunque sia interessato a questi problemi. La principale questione sollevata dagli autori, che mette in discussione le teorie prevalenti in questo ambito, è che, nel contesto della crescita economica cinese, non va trascurato il ruolo della Cina maoista nel periodo 1949-1978. Gli autori sono innovativi nel modo in cui rompono con le correnti dominanti e nelle informazioni che aggiungono, avendo creato serie temporali di grafici per giustificare le proprie tesi.
Va ricordato che per quanto riguarda i dati statistici sulla Cina popolare non c’è nessun consenso o dato ufficiale sul periodo storico analizzato.
Il lavoro si articola in tre capitoli: in un primo capitolo, intitolato “Caratteristiche generali, elementi storici e confronti internazionali”, gli autori intendono familiarizzare i lettori con alcuni dati, informazioni e contestualizzazioni riguardanti la Cina contemporanea. In quanto tali, menzionano il fatto che la Cina è un paese geograficamente esteso, che ospita la più grande popolazione del mondo.
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Montagne di debiti in movimento
di Tomasz Konicz
Il prodigioso mondo dei mercati obbligazionari - attualmente molto più eccitante di quanto vorrebbero molti quadri dell'economia statale e finanziaria
Tediosi, monotoni, mortalmente noiosi:così sono di solito i mercati dei titoli obbligazionari dei centri del sistema mondiale. Quando il capitale necessita di essere parcheggiato in maniera sicura, quando i fondi pensione hanno bisogno di garantire una rendita sicura, per quanto bassa, quando le compagnie di assicurazione desiderano depositare il loro denaro, ecco che allora i soldi cominciano a fluire in direzione dei titoli di Stato statunitensi o tedeschi, i quali vengono considerati come la base stabile del sistema finanziario mondiale, la spina dorsale della finanziarizzazione neoliberista del capitalismo in questi ultimi decenni. Per poter quantificare tutto questo cemento sul cui è stato costruito il castello di carte della finanza neoliberista degli ultimi decenni, l'unità di misura appropriata, è il trilione [in italiano, mille miliardi!]: alla fine del 2020, con un volume di oltre 22mila miliardi di dollari, il mercato delle obbligazioni sovrane degli Stati Uniti aveva il volume più grande al mondo, seguito dalla Cina (20mila milioni di dollari) e dal Giappone (12mila milioni di dollari) [*1]. A livello globale, nel periodo in questione sono stati scambiati 128,3mila miliardi di dollari di obbligazioni, di cui il 68% era costituito dal debito del settore pubblico, e il 32% da debito societario.
Di solito è più emozionante stare a guardare l'erba crescere, piuttosto che osservare i mercati dei titoli del Tesoro statunitense. Normalmente. Il fatto che la sfera finanziaria sia al centro di quella che è - a dir poco - una crisi insolita che sta erodendo le sue stesse basi, possiamo misurarlo proprio dal movimento dei mercati obbligazionari negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, come in un giro sulle montagne russe che fa saltare i nervi sia ai grandi che ai piccoli investitori.
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La dittatura della finanza e il mercato del gas
di Andrea Fumagalli
Prefazione
Il 12 e 13 settembre 2008, nel pieno del crollo finanziario dei subprime negli Usa, due giorni prima del fallimento della Lehmann Brother (15 settembre 2008), a Bologna si svolgeva un convegno organizzato da UniNomade sui mercati finanziari e la crisi dei mercati globali. Gli atti di quel convegno (e molto di più) verranno pubblicati l’anno successivo da Ombre Corte a cura di Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra con il titolo Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici[1]. All’interno di quella raccolta di saggi, compariva un testo di Stefano Lucarelli: “Il biopotere della finanza”. All’epoca, tale titolo ci pareva più che mai azzeccato per descrivere il dominio delle oligarchie finanziare nel definire le traiettorie di accumulazione del nuovo capitalismo delle piattaforme, che da lì a poco sarebbe emerso dalle ceneri di quella crisi.
Oggi a quasi 15 anni da quegli eventi, possiamo dire di aver sottovalutato il problema. Certo, la nostra analisi si era rivelata più che corretta nel sottolineare il ruolo centrale e dominante della finanza speculativa nel nuovo (dis)ordine monetario internazionale e il tendenziale declino del dollaro come moneta di riserva internazionale. Ma nel frattempo, il biopotere (che poteva dare origine anche a qualche forma di contropotere, come illusoriamente ha fatto credere la parabola del bitcoin) si è trasformato in una vera e propria dittatura.
La finanziarizzazione delle materie prime
Ciò che sta succedendo nella determinazione del prezzo del gas nel mercato di Amsterdam lo conferma ampiamente. Già nel passato c’erano state avvisaglie della capacità della speculazione finanziaria, oggi sempre più essenza e anima dei mercati finanziari, di stravolgere in modo quasi irreversibile le stesse regole di funzionamento di un mercato neo-liberista.
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Flat tax: rubare ai poveri per ingrassare i ricchi
di Aristoteles
Vorremmo sottoporre ai lettori alcune riflessioni a partire da un piccolo “caso di studio”: il tema elettorale della Flat Tax. Ma il nucleo vero del nostro ragionamento è più ampio – dare qualche spunto su come affrontare questo ed altri temi da sinistra. Per inciso: non iniziamo a discutere se esistono ancora destra e sinistra prima di aver finito l’articolo, per favore.
A metà articolo troverete una cesura, che separa radicalmente due prospettive: laddove infatti la disamina dettagliata di una politica è un momento necessario per capire se rigettarla, non è detto che questo approccio analitico sia poi il modo migliore di contrastarla. In questa seconda sezione faremo pertanto qualche riflessione su come combattere politiche ingiuste ed indigeste.
Sia chiaro: non vogliamo dire la parola definitiva sulla Flat tax; men che meno risolvere i (tanti) problemi della sinistra in questo banale articoletto. Non abbiamo le “istruzioni per l’uso”, sebbene questa sia la forma che provocatoriamente abbiamo adottato. Non vogliamo insegnare niente a nessuno. Vorremmo discutere – assieme – qualche spunto, eclettico, di riflessione.
Atto primo
Come affrontare un tema, dal punto di vista analitico, passo dopo passo.
1. Definire concettualmente l’oggetto
Cosa vuol dire Flat Tax, nelle sue accezioni? Essenzialmente, per Forza Italia e Lega, un’aliquota unica per tutti coloro che sono soggetti a imposizione fiscale (cittadini e imprese), che stanno al di sopra di una “no tax area”. Ad esempio, si può decidere che sopra gli 8 o i 12mila euro di reddito annuo, si applichi una aliquota fissa del 23% su quanto supera questa soglia (proposta di Forza Italia).
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