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Iran: una rivoluzione popolare?
di Michelguglielmo Torri
C’è una pressoché totale unanimità nel modo in cui, in Occidente e in Italia, viene descritta la crisi iraniana nata dall’esito delle ultime elezioni presidenziali in Iran. La vittoria a valanga di Mahmoud Ahmadinejad non sarebbe che il risultato di un grossolano broglio elettorale, che ha tolto la vittoria a chi spettava legittimamente: Mir Hossein Mousavi. Il popolo iraniano, giustamente sdegnato, è quindi sceso in piazza. La risposta è stata una repressione brutale, che ha causato decine di morti e portato a centinaia d’arresti. In questa situazione, la «guida suprema» della rivoluzione, Ali Khamenei (di fatto e di diritto il potere ultimo nel sistema politico iraniano), invece di svolgere il ruolo di arbitro al di sopra delle parti che, a norma della costituzione iraniana, gli compete, ha usato la propria autorità per coprire la grossolana manipolazione del risultato elettorale.
Il fatto che la tesi in questione sia sostanzialmente egemonica sui media internazionali non vuole però necessariamente dire che essa sia accurata. In proposito basti pensare a come i media internazionali rappresentino e abbiano per decenni rappresentato la questione palestinese. Cioè distorcendo completamente la realtà effettuale, quale è ed è stata documentata dalla maggior parte delle ricostruzioni storiche più serie.
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Le false pensioni
di Galapagos
L'Ocse ha diffuso ieri un rapporto sulla spesa pensionistica nel 2005. Quello che ne emerge sono dati terrificanti per l'Italia: spende per la previdenza il 14% del Pil, quasi il doppio rispetto ai paesi concorrenti. Dopo la diffusione del rapporto c'è stata una corsa a reclamare una nuova riforma. In testa al gruppo, si è messo a tirare Enrico Letta. Ma c'è un «inghippo»: i dati Ocse sono palesemente falsi (magari ai pensionati italiani finisse veramente il 14% del Pil) e confrontano metodologie fra loro non confrontabili. Vediamo perché.
Con una premessa: oggi l'Ocse presenterà le nuove previsioni sulla crescita del Pil: l'anticipazione è che la ripresa slitterà al 2011. Nel frattempo, però, da Parigi chiedono una riforma che deve essere pagata dai lavoratori (quelli italiani sono già i più tartassati dal fisco) e non dal capitale finanziario che ha generato le bolle speculative che hanno innescato la recessione dell'economia mondiale.
Da parecchi anni in Italia viene pubblicato (a cura di Roberto Pizzuti) dal Dipartimento di economia pubblica dell'Università La Sapienza di Roma, un «Rapporto sullo stato sociale» che spiega - da tutti apprezzato - quello che l'Ocse nasconde. Apparentemente si tratta di questioni metodologiche, ma non lo sono. La spesa previdenziale pubblica è estremamente disomogenea rispetto a quella degli altri paesi.
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Il diversivo del Darfur
“Salvatori e sopravvissuti: il Darfur, la politica e la guerra al terrorismo"
di Muhammad Idrees Ahmad
The Electronic Intifada
Nel film del 2004 di Errol Morris, The Fog and the War [La nebbia e la guerra], l’ex Ministro della Difesa americano Robert McNamara ricorda l’affermazione del generale Curtis LeMay, la mente dei bombardamenti incendiari contro il Giappone nella seconda guerra mondiale, secondo cui "se avessimo perso la guerra saremmo stati tutti perseguiti come criminali di guerra". LeMay stava semplicemente esplicitando una delle verità inconfessate delle relazioni internazionali: il fatto che il potere conferisce, tra l’altro, il diritto di dare un nome alle cose.
In tal modo gli stermini perpetrati dalle grandi potenze, dal Vietnam all’Iraq e all’Afghanistan, vengono normalizzati da definizioni quali "antiguerriglia", "pacificazione" e "guerra al terrorismo", mentre comportamenti analoghi messi in atto dagli stati nemici provocano le accuse più severe. E’ questa politica di dare un nome alle cose ad essere l’argomento del nuovo, esplosivo, libro di Mahmood Mamdani, Saviors and Survivors: Darfur, Politics, and the War on Terror.
Come in Medio Oriente, vi sono delle zone dell’Africa che sono state devastate dai conflitti per la maggior parte dell’era post-coloniale. Se la copertura dei media in entrambi i casi è superficiale, nel caso dell’Africa è anche sporadica. Ogni volta che c’è una copertura, vengono messi in rilievo solo gli aspetti sensazionalistici o grotteschi. Se l’argomento non è la guerra, di solito è la fame, le malattie o la povertà – o qualche volta tutte e tre – e immancabilmente la copertura non parla del contesto. Le guerre accadono tra "tribù" guidate da "signori della guerra" che avvengono in "stati in rovina" dominati da "dittatori corrotti". Provocate da motivazioni arcaiche, raramente riguardano questioni comprensibili.
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GEAB Report n. 36, parti II e III
II. L’onda della disoccupazione di massa: tre date differenti di impatto in funzione delle nazioni. America, Europa, Asia, Medio Oriente e Africa
L’estate del 2009 sarà ricordata come il punto di svolta per quanto riguarda l’impatto della disoccupazione sul corso degli eventi della crisi sistemica globale. Infatti, sarà il momento in cui, invece di una conseguenza della crisi, la disoccupazione in tutto il mondo diventerà un fattore aggravante.
Naturalmente, questo processo non si svilupperà nè allo stesso passo dovunque, nè con le stesse conseguenze. Comunque, dovunque senza eccezioni, diventerà una elevata priorità sia per il grande pubblico sia per i leader economici.
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Ragazze immagine
di Ida Dominijanni
Distogliamo lo sguardo da Silvio Berlusconi e spostiamolo sulle giovani donne che hanno raccontato gli incontri a palazzo Graziosi e a Villa Certosa nell'inchiesta di Bari. Tutta questa storia aperta dalla denuncia di Veronica Lario sul «divertimento dell'imperatore» non ha niente di privato ed è tutta politica, stiamo sostenendo da più di un mese, perché porta alla luce un ganglio cruciale del sistema di potere e di consenso di Berlusconi e del berlusconismo. Ma sia il potere sia il consenso sono fatti relazionali: si fanno in due, chi dispone e chi obbedisce, chi propone e chi acconsente, sia pure in posizione dispari tra loro. Dunque c'è il sistema di potere del premier imperniato su una certa politica del sesso e dei rapporti fra i sessi, e ci sono queste giovani donne che vi partecipano e ne consentono il funzionamento, anzi lo hanno consentito fino a un certo punto per poi disvelarlo.
Ed è chiaro che, se lo scandalo investe prima di tutto il premier, l'interesse dovrebbe volgersi parimenti a loro, per quello che dicono e che non dicono della società a cui appartengono e dell'immaginario, dei sogni e dei progetti, dell'etica e dell'estetica di cui sono portatrici. E che, salvo liquidare difensivamente escort e ragazze-immagine come eccezioni rispetto alla norma e alla normalità femminile, ci interrogano e ci interpellano: quella società, quell'immaginario, quei sogni e quei progetti, quell'etica e quell'estetica dicono qualcosa a noi tutte.
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Siete pronti per la guerra contro il tanto demonizzato Iran?
di Paul Craig Roberts
Quanta attenzione ricevono dai media americani le elezioni in paesi come Giappone, India e Argentina? Quanti cittadini e giornalisti americani conoscono i capi di governo di paesi che non siano Inghilterra, Francia o Germania? Quanti sanno per esempio i nomi dei presidenti di Svizzera, Olanda, Brasile, Giappone o Cina?
Al contrario, tutti sanno chi è il presidente dell’ Iran, essendo questi demonizzato quotidianamente dai mezzi d’ informazione USA.
Questo fatto dimostra quanto l’ America sia ignorante. In Iran non é il presidente che detta le regole, tanto meno è egli il capo supremo delle forze armate. La sua politica non puó sconfinare oltre le regole dettate dagli ayatollah, i quali non sono disposti a rinunciare alla Rivoluzione iraniana in cambio dell’ assoggettamento agli Stati Uniti.
Gli iraniani hanno avuto un’ esperienza dolorosa col governo USA. la prima elezione democratica negli anni 50, dopo un periodo di occupazione e colonizzazione, venne boicottata dagli Stati Uniti, i quali misero al potere, al posto del candidato legittimamente eletto, un dittatore sanguinario che torturó e condannó a morte i dissidenti che pensavano che l’ Iran dovesse essere uno stato indipendente dal potere degli USA.
La superpotenza americana non ha mai perdonato agli ayatollah la rivoluzione alla fine degli anni ‘70 che prese le distanze dal potere USA e durante la quale vennero tenuti in ostaggio dei funzionari dell’ ambasciata americana ritenuti delle spie, mentre gli studenti ricomposero i documenti strappati che provavano la complicitá del governo statunitense nella distruzione della democrazia in Iran.
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Meridionale, sottoproletaria, incazzata
Cioè: ma cosa credeva di fare, ’sto brianzolo, calando nel Sud Italia con vetrini e brillantini manco si credesse in visita tra gli Apache?
Perché, insomma, le donne della mia zona so’ pragmatiche, e hanno nel DNA mille secoli di sopravvivenza ai maschilismi più beceri. E quando arriva il momento in cui, come dice oggi la Aspesi, “Mai le donne, tutte le donne, sono state tanto lontane dalle cosiddette pari opportunità“, nessuna più di loro gioca in casa. Figurati se ci andavano senza registratore o senza macchina fotografica, a casa di Berlusconi, la escort navigata e la ragazza madre coperta di tatuaggi.
Figurati se si fanno prendere per il naso da un pirla autocompiaciuto, due che si pagano un anno di affitto in Puglia con una settimana dall’emiro a Dubai. Queste sono donne che lavorano e lo sanno benissimo, mica se la raccontano come la Carfagna.
E invece Berlusconi cosa fa? Una, se la porta a letto e la paga con una tartarughina, scordandosi della promessa di sbloccarle l’appalto. A una escort di quaranta e rotti anni. Ma ci credo che si incazzi, scusa. Hai Berlusconi per cliente e quello ti tira il pacco? Ma le sarà venuta voglia di sbranarlo e poi di pulirsi i denti con le di lui ossa, e giustamente.
E all’altra, che ti ha detto chiaramente che la vita è dura e che lei ha molte spese, invece di sistemarla con qualche contrattino le metti una busta in mano con la frase: “Così tiri avanti per un po’“?? Ma se ne rendeva conto di stare firmando la sua condanna a morte, con una frase così incauta, che è come dire: “Non aspettarti altro“? I soldi vanno e vengono, e la cartamoneta ha più fascino al Nord, temo. Giù, ciò che piace è la “sistemazione”. E un Berlusconi deve potersela permettere, se vuole frequentare certi ambienti. Sennò cambi aria, appunto, e frequenti le borghesi, che sono più ingenue e infinocchiabili.
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Il Paese messo davanti allo specchio. Ma chi ha voglia di fare autocritica?
di Alberto Burgio
Siamo alla fine politica di Silvio Berlusconi? Molti sono pronti a scommetterci, e in effetti la fortuna sembra davvero voltargli le spalle. Come mai? Che cosa c’è di nuovo in quest’ultima storia, squallida e patetica, di donne «utilizzate» da un vecchio che non sa invecchiare (un «malato», per chi lo conosce), che l’ironia delle cose ha proiettato alla guida di questo Paese?
Non è la prima volta che Berlusconi inciampa in una grave disavventura, dopo lo “storico” avviso di garanzia recapitatogli – sublime coincidenza – mentre coordina a Napoli la Conferenza mondiale dell’Onu sulla criminalità organizzata. La sua intera vicenda è costellata di seri infortuni, solo in parte dovuti ai problemi giudiziari, alle leggi create per risolverli e all’enorme conflitto di interessi (il politico che opera a vantaggio delle proprie imprese che gli servono a consolidare il potere politico, in un circolo vizioso degno di una repubblica delle banane). L’insulto rivolto a Martin Schulz nell’aula di Strasburgo («La proporrò nel ruolo di un kapò») è rimasto emblematico, ma non basterebbe una pagina intera a ricordare tutti gli episodi incresciosi – o soltanto ridicoli – che l’hanno visto protagonista.
Nemmeno quest’ultima storia di baccanali è, a ben guardare, del tutto inedita. Si è appena consumata l’affaire Noemi.
Ed è ancora in progress la vicenda – a nostro parere ben più grave – delle amiche personali trasformate in parlamentari e ministre della Repubblica. Addirittura una semianalfabeta, presa di peso dalle retrovie di Forza Italia e spedita alla pubblica (e soprattutto privata) istruzione, a far danni all’università e alla scuola italiana, già stremate da decenni di pessime “riforme”.
Berlusconi non è solo un padrone prepotente e autoritario, mosso da un progetto politico arcaico. Non è soltanto un animale senza scrupoli, determinato ad accumulare fortune e poteri e a far fruttare relazioni con persone e ambienti al di sotto di ogni sospetto. È anche un personaggio da avanspettacolo tra il ridicolo e il feroce, un inconfondibile misto di cattivo gusto e di banalità. Ma tutto ciò è evidente e noto già da tempo. Perché questa volta la sua parabola sembra precipitare verso la disgrazia e l’ignominia?
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Le elezioni in Iran: cerchiamo di capire
di Franco Cardini
Ad alcuni giorni dalle ultime elezioni in Iran, i media di tutto il mondo occidentale, sia pure con qualche sfumatura, ci hanno proposto uno schema interpretativo abbastanza semplice. L’Iran è guidato da un regime fondamentalista che tuttavia mantiene alcune parvenze di democrazia e di pluralismo (molti partiti politici, giornali e televisioni differenti ecc.); le ultime elezioni sono state pesantemente manipolate, sia attraverso il sistematico uso dell’intimidazione e della repressione, sia attraverso autentici brogli elettorali (perfino urne scambiate); tuttavia, dinanzi alla massiccia, coraggiosa e prolungata protesta popolare, le autorità si sono spinte fino a promettere un riconteggio dei voti; senonché, a detta di alcuni osservatori e di taluni oppositori, tale riconteggio non porterebbe a nulla sia perchè si svolgerebbe comunque in un clima d’incertezza e di violenza, sia perchè le autentiche schede sono state almeno in buona parte distrutte e sostituite; per cui, l’unica strada possibile per un qualche ristabilimento della legalità democratica sarebbe procedere a nuove elezioni sotto lo stretto controllo di osservatori delle Nazioni Unite, cosa che il governo non è disposto a concedere. Si sta quindi andando o verso una situazione di compromesso che non piacerà a nessuno, soprattutto alle opposizioni; o verso uno scontro frontale.
Un quadro semplice. Ma tutti i problemi hanno sempre una risposta semplice. Peccato solo che, di solito, si tratti di quella sbagliata. Il punto di partenza, per noi, non può essere che una constatazione. Quella iraniana è una società complessa. Cerchiamo quindi di capirci qualcosa.
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La cultura economica e la crisi (1)
di Roberto Artoni
1. In questa nota tenterò di leggere la crisi attuale, finanziaria e reale, come il risultato in buona misura anticipabile dell’applicazione di un modello economico caratterizzato da elementi precisamente identificabili. Dalla lettura e dall’interpretazione critica di questo modello, altri, più attrezzati di chi scrive, dovrebbero delineare gli elementi costituivi di una nuova cultura politica ed economica.
2. Il modello di teoria e di politica economica dominante negli ultimi 25 anni ha alla sua base una fortissima fiducia nella capacità di autoregolamentazione dei mercati secondo modalità probabilmente mai riscontrate nella storia del mondo economicamente sviluppato. Sono state riprese e applicate, in altri termini, le indicazioni più elementari della teoria economica sull’ottimalità del meccanismo concorrenziale.
3. Con particolare riferimento alla teoria macroeconomica, e quindi alla più generale impostazione di politica economica il punto di partenza è costituito da modelli che abbiano un fondamento microeconomico, siano microfondati nel gergo degli economisti [Solow 2008]. Tuttavia ciò è avvenuto a costo di semplificazioni non innocue: la teoria macroeconomica, nella versione dominante di questi anni deriva da un modello nel quale agenti (consumatori, lavoratori e titolari di fattori produttivi) massimizzano la propria funzione di utilità su un orizzonte infinito in mercati perfettamente concorrenziali (caratterizzati da assenza di potere di mercato e da prezzi dei beni e dei fattori flessibili) e in un contesto di previsione perfetta o di aspettative razionali.
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La crisi non è finanziaria ma del capitale
di Domenico Moro
1. Sovrapproduzione e crisi
Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei governi, quella attuale è una crisi finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all’economia “reale”. Con questo tipo di analisi si coglie, però, solo la forma in cui la crisi si è manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le crisi sono la modalità tipica in cui emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese è produrre per fare profitti e per fare ciò riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioè la differenza tra costi e prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di scala, cioè per la produzione di masse di merci sempre più grandi nello stesso tempo di lavoro. A questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre più moderne al posto di lavoratori, e aumentati ritmi e intensità del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo sviluppo della produttività mette a disposizione dei consumatori masse di merci più grandi prodotte in un tempo minore. Il problema è che la produzione capitalistica è diretta non verso semplici consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto atteso, cioè verso un mercato.
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Crisi sistemica globale: lo shock cumulato delle tre "onde anomale" dell'estate 2009
GEAB Report n. 36
Come anticipato da LEAP/E2020 fin dall’Ottobre 2008, alla vigilia dell'estate 2009, la questione della capacità degli Stati Uniti e del Regno Unito di finanziare i loro deficit pubblici, oramai incontrollati, si è imposta come un fatto centrale nel dibattito internazionale, aprendo la via al doppio fenomeno di una cessazione dei pagamenti degli Stati Uniti e del Regno Unito, da qui alla fine dell'estate 2009.
Così, a questo stadio di sviluppo della crisi sistemica globale, contrariamente al discorso mediatico e politico attualmente dominante, l’equipe del LEAP/E2020 non ravvisa affatto una ripresa dopo l'estate 2009, né, d’altronde, nei dodici mesi a venire, (1). Al contrario, a causa dell'assenza di un trattamento di fondo dei problemi all'origine della crisi, riteniamo che l'estate 2009 vedrà la convergenza di tre "onde anomale" (2) particolarmente distruttrici che traducono il proseguimento dell'aggravamento della crisi e provocheranno degli sconvolgimenti storici da qui ai mesi di Settembre/Ottobre 2009. Come è successo dall'inizio di questa crisi, ogni regione del mondo non sarà beninteso toccata allo stesso modo (3); ma, per i nostri ricercatori, tutti senza eccezione conosceranno una forte degradazione della loro situazione da qui alla fine dell'estate 2009 (4). Questa evoluzione rischia così di prendere in contropiede numerosi operatori economici e finanziari tentati dall'euforizzazzione mediatica attuale.
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Gli smemorati di sinistra
di Alberto Asor Rosa
Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul manifesto durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale.
Un'assemblea, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà, - modestamente e ambiziosamente insieme - «Camera di consultazione della sinistra».
Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l'intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l'avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l'Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri.
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Il Times e Berlusconi: macché Noemi
di Paolo Barnard
Che il Times di Londra arrivi a scrivere un editoriale dove chiama il capo di governo di un Paese europeo “clown” e “buffone sciovinista”, e ciò solo per motivi di indignazione politica, lo lascio credere ai giornalisti, ma noi persone raziocinanti dobbiamo andare oltre. Un quotidiano della portata del Times, storico bastione del conservatorismo mondiale, voce internazionale dei Consigli di Amministrazione più potenti del pianeta, non si muove così violentemente per così poco (Noemi e festini), né è pensabile che abbiano scoperto solo oggi che Silvio Berlusconi alla guida del G8 è come un orango alla guida di un pullman. La scusante ufficiale per quell’editoriale di fuoco ai danni del Cavaliere è un insulto all'intelligenza. Rattrista, ma non stupisce, che in Italia nessuno dei paludati opinionisti pro o anti ci stia pensando.
Il motivo è altro, non v’è dubbio, ed è assai più importante. Per farvi capire, cito la caduta dal potere del dittatore indonesiano Suharto nel 1998. Uno dei peggiori assassini di massa del XX secolo, nulla da invidiare a Hitler per numero di morti, era il cocco di mamma degli USA e della Gran Bretagna, media inclusi, che lo adoravano perché obbediva puntigliosamente a ogni diktat dell’establishment economico neoliberale d’Occidente e soddisfaceva ogni sua voracità di profitto, naturalmente a scapito dell’esistenza di milioni di disgraziati suoi connazionali. Nel 1997 Suharto fece l’errore delle sua vita: disobbedì al Tesoro americano (leggi Fondo Monetario Internazionale), una sola volta. L’allora Segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright, gli disse due parole secche. Fine di Suharto.
Torno in Italia. Io sono convinto che lo stesso meccanismo sia in opera col nostro capo di governo. Deve aver fatto qualcosa di non gradito a chi oltrefrontiera aveva scommesso su di lui. Forse non gli sta obbedendo, da troppo tempo, e la corda si è spezzata, dunque l’attacco del Times.
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Perù-Venezuela. Stranezze della libertà d’espressione
di Gennaro Carotenuto
Un giorno sì e l’altro pure i nostri media si dicono preoccupati per la libertà di espressione in Venezuela. Per mesi hanno seguito con trepidazione la vicenda di una televisione, RCTV, che, nonostante abbia attivamente partecipato ad un colpo di Stato, quello dell’11 aprile 2002, ha trasmesso liberamente fino alla naturale scadenza della licenza.
Da settimane riportano compitando le parole dello scrittore ultraliberale peruviano Mario Vargas Llosa che va a Caracas a stracciarsi le vesti per dire (va da sé liberamente) che a Caracas non c’è libertà di espressione. Eppure chissà cosa farebbe Silvio Berlusconi se fosse nelle scarpe di Hugo Chávez e avesse a che fare con i media dell’opposizione venezuelana che dal 1998 in avanti disegnano il Presidente come un novello Hitler con tanto di baffetti senza che questo (o dimostrate il contrario) abbia mai mosso un dito.
Meritorio lavoro quello di preoccuparsi della libertà di espressione, anche se a volte vengono dubbi sulla genuinità e il disinteresse dell’impegno. Dubbi che crescono di fronte al silenzio assordante per casi per i quali il NED o la Freedom House non sono disposti a staccare assegni né a pagare voli in prima classe e soggiorni a cinque stelle. E’ il caso di “Radio La Voz” che dall’Amazzonia testimoniava delle voci degli indigeni in lotta contro il Trattato di Libero Commercio che distrugge la loro terra e massacrati dall’esercito. Il governo peruviano di Alan García non ci ha pensato due volte a ritirare la licenza e farla chiudere da un giorno all’altro senza che nessuno dei grandi paladini della libertà di espressione muovesse un’unghia.
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La Cina ora scappa dai titoli Usa, Geithner pessimista
di Francesco Piccioni
Era nominata sottovoce, evocata con il timore reverenziale che si deve provare davanti a una «bomba atomica». Ora la miccia è stata accesa. Il flusso di capitali verso gli Stati Uniti è drasticamente calato nel mese di aprile, segnando un saldo positivo di appena 11,2 miliardi di dollari. Un'inezia, per un paese abituato da anni a vedere affluire mensilmente tra i 50 e i 70 miliardi di capitali freschi, orientati verso i «super.sicuri» titoli di stato a lungo termine o verso il più rischioso mercato azionario (Wall Street). Solo a marzo erano entrati 55,4 miliardi in più di quanti ne erano usciti.
Stavolta i titoli del tesoro detenuti da investitori internazionali sono diminuiti di 44,5 miliardi di dollari. E per la prima volta sono diminuiti quelli in possesso della Cina, ormai il primo creditore degli Usa. E solo pochi giorni fa Pechino aveva chiesto al governo Usa di «garantire la sicurezza degli investimenti cinesi» in America. Si tratta della prima manifestazione concreta di un'intenzione che - insieme a Russia, Giappone, Brasile, India - era già stata espressa in modo chiaro: «differenziare gli investimenti» e cercare un'alternativa al dollaro come moneta di riserva globale. Ma anche Russia e Giappone hanno agito, in aprile, nello stesso modo, sia pure su cifre minori. La Cina, del resto, deve fare i conti con una sistematica riduzione degli investimenti esteri sul proprio territorio (-17,8% rispetto al 2008), che la costringono a far rientrare quel che serve per alimentare una crescita tuttora fortissima (intorno all'8% annuo).
Questa fuga, per gli Usa, è però di eccezionale gravità: dall'acquisto di titoli di stato dipende infatti la possibilità di rifinanziare il crescente debito pubblico, stressato dalla necessità di intervenire per salvare le banche «troppo grandi per fallire». L'affidabilità di questo debito, già dubbia, potrebbe a questo punto essere messa seriamente in discussione dalle società di rating, costringendo il tesoro usa a offrire rendimenti ancora più alti (e più costosi per le casse pubbliche).
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Il welfare diviso nove
Valerio Selan
Il disegno di un sistema di protezione sociale efficiente deve tener conto delle esigenze e degli atti di nove gruppi o soggetti, i cui bisogni possono a volte confliggere. Proprio per questo è poco utile concentrarsi su aspetti parziali: per un riforma è necessario un approccio globale
In attesa di una ripresa della produzione e di una probabilmente più lenta ripresa dell'occupazione, riecheggiano le vecchie note della riforma del welfare. L'acuta recensione di Carlo Clericetti all'ottimo libro di Laura Pennacchi sui due opposti modelli di welfare (di destra e di sinistra, per intenderci), riaccende i fari su un fondamentale elemento di sviluppo e di equilibrio di uno Stato moderno, nonché su uno dei crinali sui quali si divaricano le politiche economiche dei neo-liberisti e dei neo-socialisti. E' opportuno far chiarezza su alcuni aspetti oggettivi del problema e sulle posizioni dei vari protagonisti di una complessa rappresentazione.
Purtroppo nella realtà dei dibattiti e delle scelte - almeno sinora, nel nostro paese - le dramatis personae si sono affacciate alla ribalta solo singolarmente o al più in coppia, impedendo così di cogliere l'intera complessità del fenomeno, le interdipendenze ed anche le eventuali sinergie.
I protagonisti sono almeno una decina. Ognuno di loro ha legittime rivendicazioni e aspettative, unite a corrispondenti responsabilità. Queste aspettative possono essere conflittuali con quelle di altri protagonisti o addirittura tra loro, in base al motto "botte piena e moglie ubriaca".
L'antinomia si risolve nell'equilibrio matematico di massimi reciprocamente vincolati o, per stare al proverbio, con una botte non proprio piena ed una moglie solo un po' brilla.
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Chiuso per rettifica
Guido Scorza
Roma - Il Governo pone la fiducia sul discusso disegno di legge in materia di intercettazioni e la blogosfera ne fa le spese rischiando di essere "chiusa per rettifica". È questo il senso di quanto è accaduto nelle scorse ore in Parlamento, dove per effetto dell'approvazione del maxi-emendamento presentato dal Governo sta per diventare legge l'idea - di cui si è già discusso sulle colonne di questa testata - di obbligare tutti "i gestori di siti informatici" a procedere, entro 48 ore dalla richiesta, alla rettifica di post, commenti, informazioni ed ogni altro genere di contenuto pubblicato.
Non dar corso tempestivamente all'eventuale richiesta di rettifica potrà costare molto caro a blogger, gestori di newsgroup, piattaforme di condivisione di contenuti e a chiunque possa rientrare nella vaga, generica e assai poco significativa definizione di "gestore di sito informatico": la disposizione di legge, infatti, prevede, in tal caso, una sanzione da 15 a 25 milioni di vecchie lire.
Tanto per esser chiari e sicuri di evitare fraintendimenti quello che accadrà all'indomani dell'entrata in vigore della nuova legge è che chiunque potrà inviare una mail a un blogger, a Google in relazione ai video pubblicati su YouTube, a Facebook o MySpace o, piuttosto al gestore di qualsiasi newsgroup o bacheca elettronica amatoriale o professionale che sia, chiedendo di pubblicare una rettifica in testo, video o podcast a seconda della modalità di diffusione della notizia da rettificare. È una brutta legge sotto ogni profilo la si guardi ed è probabilmente frutto, in pari misura, dell'analfabetismo informatico, della tecnofobia e della ferma volontà di controllare la Rete degli uomini del Palazzo.
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Il governo, la crisi e i costi sociali del rigore finanziario
Guglielmo Forges Davanzati
Se si escludono i liberisti sopravvissuti al tramonto del liberismo, si registra un consenso piuttosto diffuso sulla necessità del ritorno all’utilizzo di politiche fiscali espansive per cercare di far fronte alla crisi, dopo un trentennio nel quale è stata dominante la convinzione della superiore efficacia della politica monetaria. Naturalmente, se di nuovo consenso si può parlare, occorre chiarire che non vi è affatto convergenza di opinioni né sulla qualità della spesa pubblica, né sulla durata necessaria del ritorno all’intervento pubblico in economia, e tantomeno sulla possibile espansione della sfera pubblica alla produzione diretta di beni e servizi e al controllo degli assetti proprietari di banche e imprese. Al momento, le traduzione più significative della convinzione della superiore efficacia della spesa pubblica in disavanzo rispetto alla manovra dei tassi di interesse le si ritrovano nel programma di politica economica dell’Amministrazione Obama, con uno stanziamento complessivo di 787 miliardi di dollari, equivalente al 5,6% del PIL statunitense, e nel piano finanziario cinese del novembre 2008 con uno stanziamento di oltre 580 dollari.
Il nostro Governo ha assunto, nel giro di pochi mesi, due posizioni radicalmente opposte. In una prima fase, ha cercato di elargire fiducia a costo zero, nella (vana) speranza di accrescere i consumi mediante messaggi televisivi. In una seconda fase, si è riconosciuto che la crisi è in atto anche in Italia, ed è preoccupante, e che il Governo è impegnato a farvi fronte con tutti gli strumenti a sua disposizione. Ma è sufficiente una rapida analisi dei dati forniti dalla Ragioneria generale dello Stato e dal Ministero dell’Economia per giungere alla conclusione che ciò che viene comunicato non corrisponde affatto a ciò che effettivamente si sta facendo.
Considerando i principali provvedimenti fin qui assunti - l’abolizione dell’ICI per la prima casa, la manovra finanziaria estiva, la legge finanziaria 2009 e il cosiddetto pacchetto anticrisi – si rileva che le risorse lorde impiegate ammontano a 18,1 miliardi di euro, pari all’1,2% del PIL, mentre la somma delle maggiori entrate e delle minori spese correnti e in conto capitale ammonta a 28,3 miliardi di euro, pari all’1,8% del PIL.
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+1,1 Italia, deficit record in USA
di Felice Capretta
Italia: +1,1% produzione industriale intitolano oggi molti quotidiani.
Tutti a festeggiare: la crisi è finita. Per la serie "crisi del 29 - crisi attuale, le pompose dichiarazioni" anche il solito Trichet dichiara che l'economia ripartirà nel 2010.
Al di là della propaganda economica, i lascia rapidamente spazio a dati ben diversi.
Risulta invece che lo striminzito +1,1% italiano dei titoloni dei giornal non è altro che la classica sceneggiata napoletana (gli affezionati lettori napoletani ci consentiranno il termine), infatti:
* Il famoso 1,1% in più è dato dall'indice destagionalizzato della produzione industriale, che mostra la tendenza mese su mese (quindi rispetto al mese precedente) in cui sono eliminate le oscillazioni a breve termine - le cosiddette fluttuazioni stagionali.
* Lo stesso indice negli ultimi tre mesi è sceso del 9,3%.
* Negli ultimi 12 mesi ha perso un drammatico 25,4% come indice grezzo
* Negli ultimi 12 mesi ha perso il 24,2% come indice corretto per gli effetti di calendario
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Brevi appunti di un non economista sulla crisi
di Giulietto Chiesa
Primo appunto. Andiamoci piano con i paralleli storici. È diventato di moda confrontare la presente crisi finanziaria mondiale con quella della fine degli anni '20 negli Stati Uniti.
In altri termini: i mal di testa di Barak Hussein Obama e di Franklin Delano Roosevelt hanno qualcosa in comune? Cioè la Grande Crisi del 1929 ha qualcosa a che fare con la Gigantesca Crisi del 2007-2009 (e, molto probabilmente, successivi)?
Vedo astronomiche differenze. La più evidente delle quali è che Roosevelt inaugurò di fatto l'Impero Americano sul mondo intero, mentre Obama ne sta registrando la fine. Grande presidente il primo, probabilmente grande presidente anche quest'ultimo. Ma le differenze sono enormi. FDR prese in mano le redini di un paese che era creditore complessivo verso il resto del mondo. Non c'era, in giro per il pianeta, qualcuno che non gli fosse debitore. Obama ha ereditato il comando del paese più indebitato del pianeta; un paese che non solo ha debiti da tutte le parti, ma che non è più in grado di pagarli.
Secondo appunto. Confrontiamo le classifiche dei primi venti giganti mondiali per capitalizzazione di mercato: quella del 1999 e quella del 2009. Queste cifre ci aiuteranno a capire meglio cosa significa quando un impero finisce, come lo si può addirittura quantificare. Nel 1999 l'elenco era capeggiato da Citigroup (151 mlrd $) e includeva ben 11 protagonisti del mercato finanziario anglosassone: americani (sette) e britannici (quattro). Era il quadro rappresentante plasticamente il trionfo della deregulation reagano-thatcheriana, del neoliberismo senza confini e senza alternative. Per trovare un ciclope europeo (non britannico) bisognava arrivare all'ottava posizione, dove si trovava l'UBS, la mitica Svizzera bancaria. Il primo giapponese si trova al nono posto (Bank of Tokyo-Mitsubishi). La lanterna di Diogene riusciva a trovare un altro ciclope europeo (oltre ai britannici HSBC, Lloyds TSB, Barklays, National Westminster Bank) solo all'altezza del 18-esimo posto, con lo spagnolo Banco di Santander. In sintesi America più Europa, e poco di più. Il resto del mondo contava poco o niente.
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Ecco perchè l’Europa deve cominciare a temere gli Usa
Mauro Bottarelli
La fuga di massa è iniziata. Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America, a sua volta “cavaliere bianco” di Merrill Lynch e la decisione del fondo sovrano di Abu Dhabi di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute (costringendo Barclays a vendere a Blackrock il suo gioiello del fund management Bgi per 13 miliardi di dollari), ecco un’altra notizia che ci segnala come la terza ondata di crisi sia ben oltre la soglia di casa.
Due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori hanno chiuso, dalla sera alla mattina: accadde così anche nel giugno di due anni fa, quando due fondi speculativi legati a Bear Stearns andarono a gambe all’aria dando il via alla crisi globale. Niente paura, era tutto previsto.
Non è un caso, infatti, che mentre i segnali che arrivano dal mercato segnano tempesta, qualcuno ricominci con le previsioni al rialzo e l’ottimismo a prezzo di saldo: Goldman Sachs, infatti, ha fissato a 85 dollari il prezzo che raggiungerà a breve il barile di petrolio. Lo scorso anno parlavano di quota 200 dollari e fallirono, ma in parecchi fecero molti, molti soldi grazie alle montagne russe del greggio che schizzò a luglio a 147 dollari il barile dando vita a una danza dei futures mai vista. Questo nonostante non ci sia alcuna ripresa reale in corso per quanto riguarda economie e soprattutto industrie: il fabbisogno energetico della Cina è calato del 10% e sul mercato, anzi nei magazzini, ci sono 100 milioni di barili di greggio pronti alla consegna ma che non verranno consegnati. Se non riparte la crescita, nessuno ha bisogno di petrolio in più.
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Le sberle del voto
Rossana Rossanda
Assieme all'astensione, che ha punito tutti i cantori dell'Europa quale che sia, le elezioni del 7 giugno hanno somministrato in Italia diverse sberle severe. La prima è quella dei due rissosi spezzoni di Rifondazione, nessuno dei quali ha raggiunto il 4 per cento, disperdendo oltre il 6 per cento dei voti espressi. Non ci riprovino, perché non beccherebbero più neanche quelli. La seconda è quella del Pd, il quale ha incassato lo schiaffone infertogli dallo sceriffo dell'Italia dei valori e col suo pasticciato programma ha subìto lo stesso colpo degli altri socialismi europei, privi di qualsiasi idea in proprio. La terza sberla l'ha presa Berlusconi, il cui sogno di oltrepassare il 40% per governare da solo con il sostegno della Lega si è dimostrato irrealizzabile. Il Pdl non ha superato il 35% e la Lega non è la costola di nessuno, è l'espressione nazionale di una destra europea particolarmente brutta, che mette radici da tutte le parti e condiziona il Pdl invece che farsi condizionare.
Quanto ai cattolici o ex Dc, ormai seguiranno Casini, ci si può scommettere. Per ultimo, è certo che gli uomini di Fini non si sono dati troppo da fare per il Cavaliere: se lavorano, lavorano per il loro capo che si sta volonterosamente fabbricando un'immagine di destra presentabile, cosa che a Berlusconi e Bossi è impossibile.
Né il Pdl né il Pd né la sinistra radicale sono riusciti a motivare l'elettorato, anche se l'astensione deve aver giocato piuttosto a sinistra, sempre nell'idea dura a morire che le sinistre rifletteranno sicuramente su chi gli ha rifiutato per sdegno il voto.
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Il continente nero?
di Fabrizio Casari
Lo sfondamento di Berlusconi non c’è stato, è vero. Il leader del Pdl, che vaticinava un risultato intorno al 45% e la sua popolarità al 75%, si è dovuto accontentare di perdere due punti percentuali dalle precedenti politiche. Lui sostiene essere colpa di Veronica, Noemi e Kaka, dei comunisti e di Murdoch, ma questo conta poco. Il fatto è che i voti che perde sono in parte minore l’esito di una cannibalizzazione interna alla destra, che sposta sulla Lega consensi prima forzitalioti, e in parte maggiore il segnale di un elettorato che comincia ad essere stanco del personaggio. Ma il parziale ridimensionamento del Pdl appare sì come un dato importante, ma non certo l’elemento attorno a cui far ruotare l’analisi del voto, che dev’essere ben più ampia e dolorosa. Non è il momento delle pietose bugie o delle sfumature linguistiche.
Il risultato elettorale italiano - che vedremo di seguito - è frutto del contesto europeo. Nell’Europa allargata senza costruzione politica, impoverita, senza progetto economico e abbandonata nel suo orizzonte ideale, la crisi del sistema neoliberista ha prodotto milioni di disoccupati e decine di milioni di paure generalizzate. Che vanno analizzate e comprese, non ignorate. Il tentativo di scaricare la crisi sui più deboli ha prodotto un rifiuto generalizzato della politica, manifestatosi con un astensionismo storico, o ha fatto vincere ovunque una destra xenofoba spesso dai tratti neonazisti, attorno alla quale si spalmano le incertezze, le paure e l’odio sociale che la crisi economica ha inoculato come virus micidiale nel corpo europeo.
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Non di solo gossip…
varie
C’è veramente ai piani alti del potere chi vedrebbe bene una messa da parte del Berluska, e perché e con quali obiettivi? La domanda diventa legittima, a patto di porsela senza dozzinali ipotesi complottiste, visto il rovesciarsi relativamente rapido dell’operazione “veline” da arma di distrazione di massa (rispetto ai possibili effetti della crisi globale, principalmente) in un mezzo boomerang per B. via vicende “familiari” e “personali”. Le virgolette sono d’obbligo contro chi ritiene che si tratti di gossip, presunta privacy da salvaguardare, ecc. Niente di più fuori della realtà. Non solo perché si tratta dell’ennesima aggressione, tutta politica, giocata sui corpi delle donne che d’un balzo ci porta indietro per certi versi a prima del Sessantotto. Ma anche perché il passaggio che abbiamo davanti rivela, e costruisce insieme, l’intreccio strettissimo tra una certa autorappresentazione del potere -ben oltre la rappresentanza formale e sociale irreversibilmente svuotate, con tratti di quasi impazzimento- e profonde linee di disgregazione radicate nella società (solo?) italiana.
Proviamo a formulare per analogia un’ipotesi accompagnata da una serie di distinguo importanti. Qualcuno dall’alto sta pensando -che è meno che preparare- a un cambio della guardia ai vertici dell’esecutivo che potrebbe per certi versi ricordare quanto si diede tra il ’92 e il ’93 con la dissoluzione della prima repubblica. Ovviamente in un contesto del tutto mutato. Allora si trattava di rispondere ad una crisi economica e monetaria (svalutazione della lira, indebitamento pubblico alle stelle) già precipitata mentre oggi i tornanti più duri paiono plausibilmente dover ancora arrivare. Allora si trattava di far fuori un’intera classe politica e un certo tipo di patto sociale divenuti eccessivamente onerosi per il capitale, oggi si tratterebbe “solo” di liberarsi di un personaggio, o poco più, che rischia di divenire scomodo e sempre meno presentabile.
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