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Il fascismo non è un fiume carsico, scorre da anni alla luce del sole.
di Enzo Pellegrin
Recentemente, in un efficace articolo, il prof. Angelo D'Orsi ha avuto modo di soffermarsi sulle ultime esternazioni dei governanti italiani sulla strage delle Fosse Ardeatine e sull'atto di guerra messo a segno dai GAP romani in via Rasella. L'articolo può essere letto qui.
Bene fa lo storico a ricordare la polemica tra De Felice e Bobbio. Il primo, impegnato a demolire il contributo della Resistenza alla genesi storica dell'Italia democratica, ha sempre insistentemente insinuato l'idea che fascisti e antifascisti fossero minoranze impegnate a difendere in buona fede una fede politica. Nel mezzo ci sarebbe stata la maggioranza degli italiani, che si "trovarono" dall'una o dall'altra parte, quasi per caso, per necessità o bisogno. Terribile è il bisogno. A questo artefatto, Bobbio semplicemente rispose che, se avessero vinto i primi, una discussione del genere manco si sarebbe potuta tenere, senza finire in guardina.
Non è però possibile negare che l'insinuazione di De Felice non abbia avuto fortuna egemonica. Essa è stata anzi veicolata anche all'interno di certa sinistra "democratica", con sfrontata nonchalance e benedizione istituzionale.
La lista è lunga e D'Orsi ne fa buoni esempi: Giampaolo Pansa e la sua rancorosa campagna antipartigiana, il saluto ai "ragazzi di Salò" del postcomunista Violante, per giungere alle ultime gesta del "Partito Democratico". Quest'ultimo è da anni impegnato nel servire un autoritarismo non così differente da quello del ventennio, nel rapporto con gli altri popoli del globo: lo stivale del Patto Nord Atlantico e dell'Unione Europea, strumenti antisovietici e antieuropei che gli USA imposero per tutelare i propri interessi.
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Iran e Medio Oriente, intrecci regionali e grandi potenze
di Alberto Bradanini
La doverosa attenzione alla nozione di complessità consiglia cautela quando si tenta un’analisi della scena mediorientale, dove sedimentazioni storiche e interessi delle Grandi Potenze (ex o attuali) si mescolano con sovrastrutture religiose, arretratezza culturale, assenza di prospettive di vita e lavoro per popolazioni giovani e frustrate, cui si aggiunge un acuto, e non senza ragione, risentimento contro l’Occidente, quello del passato coloniale e del presente neocoloniale.
Davanti alla Grande Menzogna (globalista, militarizzata e americano-centrica) che anche in Medio Oriente controlla la narrazione degli eventi far emergere qualche aspetto di plausibile riflessione non è impresa facile. Ci si limiterà qui a qualche misurata ponderazione, con un cauto sguardo sull’orizzonte.
Come altrove, anche in Medio Oriente i fattori identitari sono costituiti da lingua, etnia, colore della pelle, religione (o anche famiglie religiose), tutti intrecciati tra loro e su cui soffiano i detentori di privilegi e le Grandi Potenze, in primis gli Stati Uniti, per estrarre benefici politici e ricchezze materiali.
A seconda di tempi e luoghi, alcuni fattori prevalgono su altri. La religione – per sua natura messaggera di orizzonti messianici – occupa un posto centrale, vittima e insieme protagonista di fanatismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, su cui prosperano gerarchie ecclesiastiche e oligarchie di ogni risma. È invece storicamente deficitaria un’agenda di rivendicazioni sociali alla luce dell’emarginazione politica e culturale nella quale sono relegate le classi subalterne.
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Parigi: convergenza di rabbie e di lotte
di Andrea Inglese
Insurrezione per motivi meschini
Secondo certa sinistra ben addottrinata, una contestazione radicale di un governo in carica, con tanto di scioperi, blocchi stradali, manifestazioni non autorizzate e altre azioni di disubbidienza civile dovrebbe essere motivata da altissimi e umanistici principi, non certo dall’aumento del prezzo del carburante, in conseguenza per altro di una virtuosa carbon tax. Invece è proprio ciò che ha costituito l’innesco di uno dei più ampi, spontanei e determinati movimenti di contestazione politica del XXI secolo almeno in Europa, ossia il movimento francese dei “gilet gialli”. Non si può parlare di quanto accade oggi, senza ricordarsi di quanto accadeva nelle piazze francesi prima che l’epidemia di Covid-19 congelasse non solo le proteste, ma la vita intera di tutti noi europei. Dal novembre 2018 al giugno 2019, i gilet gialli non cessarono, autorizzati o meno, di protestare contro il governo Macron, sia con grandi manifestazioni a Parigi sia con una moltitudine di azioni sulle rotatorie ovunque nel paese. Le loro rivendicazioni apparentemente meschine e anti-ecologiche si rivelarono rapidamente di tutt’altra natura, riportando la questione dell’eguaglianza sociale e della rappresentanza democratica al centro della scena pubblica, senza ignorare il contesto della crisi climatica, ben percepito come orizzonte ormai ineludibile di ogni controversia politica.
È indubbio che tale movimento fosse di difficile decifrazione rispetto alle opzioni politiche circolanti: la loro identità di classe era incerta, le loro rivendicazioni contraddittorie, la loro storia politica inesistente: non volevano partiti, né leader, né sindacati alla testa dei loro cortei.
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Tedeschi al fronte
di Wolfgang Streeck
Secondo la Legge di Hofstadter, ovviamente derivante da quella di Murphy, “tutto richiede più tempo di quanto pensi”. L’anno scorso il primo a conoscerla in grande stile è stato il signore della guerra russo, Putin, che ovviamente avrebbe potuto risparmiarsi lo shock seguendo le indicazioni di Trotsky e Mao Zedong e dedicando un po’ di tempo alla lettura di Clausewitz. Non essendo riuscito a conquistare Kiev con la sua Operazione Militare Speciale – programmata per concludersi nel giro di una o due settimane per porre fine una volta per tutte al fascismo endogeno e all’occidentalismo esogeno dell’Ucraina – Putin ha dovuto affrontare la spiacevole prospettiva di un’operazione su vasta scala, una guerra di durata indefinita, non solo con l’Ucraina ma anche, in un modo o nell’altro, con gli Stati Uniti.
Meno di un anno dopo, una simile rivelazione l’ebbe il suo omologo americano, Biden. Nessuna vittoria ucraina all’orizzonte e la raffica di sanzioni economiche contro la Russia e contro gli oligarchi amici di Putin, sorprendentemente, non avevano compromesso la capacità russa di mantenere il Donbass e la penisola di Crimea. Le elezioni di medio termine del novembre 2022, in cui i Democratici hanno perso la maggioranza alla Camera, hanno inequivocabilmente messo in evidenza che la disponibilità dell’elettorato americano a finanziare l’avventura Biden-Blinken-Sullivan-Nuland è tutt’altro che illimitata. In effetti, la guerra di logoramento senza fine che sta prendendo forma ora è sempre più vista come un potenziale problema per le elezioni presidenziali del 2024.
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Delega fiscale: Meloni fa pagare solo i lavoratori
di coniarerivolta
Pubblichiamo un articolo dedicato al disegno di legge delega sulla riforma del fisco del governo Meloni
È stata presentata nei giorni scorsi, dopo diversi annunci, la delega fiscale predisposta dal Governo Meloni. Si tratta di una proposta di legge, che dovrà essere approvata dal Parlamento, che delega il Governo ad adottare una serie di atti (decreti legislativi) sulla riforma del sistema fiscale. La legge delega si limita, come noto, a stabilire i principi e i criteri ai quali i decreti legislativi, che avranno il valore di vere e proprie leggi, dovranno attenersi. Molti dettagli, dunque, sono ancora incompleti, mentre ben chiara è, come vedremo, la direzione di marcia.
È un documento importante, non solo perché interviene a 360 gradi sul fisco, ma anche perché è forse il primo atto di politica economica interamente addebitabile a questo Governo, che finora era soprattutto intervenuto (ovviamente sempre in modo peggiorativo) in modalità parziale su singoli istituti (i casi più evidenti sono state le pensioni e il reddito di cittadinanza).
I primi articoli sono dedicati alla riforma dell’IRPEF e in generale della tassazione delle persone fisiche, e questa è la parte che forse meglio di tutte chiarisce la profonda iniquità di questa riforma.
Accompagnata dalla promessa della “flat tax per tutti”, la delega si traduce immediatamente in un enorme colpo a quel poco di progressività che residuava nel nostro sistema, con vantaggi evidenti per i redditi più alti.
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Competizione tecnologica. I segnali del sorpasso cinese
di Vincenzo Comito
Secondo molti centri di studio occidentali la Cina prevale sugli USA in gran parte dei settori tecnologici chiave e si appresta a superarli in tutti gli altri. Gli Stati Uniti si stanno impegnando con ogni mezzo per bloccare la rincorsa del rivale e l’esito della gara non è affatto scontato
La gran parte delle persone in qualche modo interessate al tema pensa che la Cina stia sviluppando fortemente nel tempo la sua presenza nelle tecnologie avanzate, ma che gli Stati Uniti mantengano un rilevante vantaggio complessivo sul paese asiatico nel settore.
La svolta forse più importante in tema di lotta competitiva tra gli Stati Uniti e la Cina sul fronte delle nuove tecnologie si è verificata nel 2015, quando il paese asiatico ha svelato un suo piano all’orizzonte 2025 (il “Made in China 2025”) che si poneva l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti entro tale data sul fronte della gran parte delle tecnologie innovative. Da allora assistiamo a un’escalation crescente delle ostilità statunitensi verso la stessa Cina, ostilità che negli ultimi mesi ha raggiunto con Biden certamente un’intensità parossistica, con nuovi episodi quasi ogni giorno: gli Stati Uniti cercano di contrastare a tutto campo e con tutti i mezzi – da quelli economici, a quelli politici, tecnologici, militari – l’ascesa del rivale, in particolare, appunto, nelle nuove tecnologie.
Ma gli ultimi dati e alcune tra le più recenti valutazioni pongono in forte dubbio l’opinione comune e la possibilità da parte statunitense di riuscire a fermare i processi in atto, che vanno per molti versi nella direzione di una crescente tendenza al primato tecnologico del paese asiatico.
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Una rossa primavera
di Enrico Tomaselli
Mentre il mondo si polarizza e si assiste sempre più di frequente a un distacco tra l’occidente ed il resto del mondo, la guerra in Ucraina si avvia probabilmente a segnare una nuova fase del conflitto, rompendo l’attuale stasi apparente. I prossimi mesi potrebbero risultare di grande importanza, non tanto nel decidere l’esito del conflitto, quanto nell’influenzarne fortemente la durata. Mentre i governi europei sembrano rassegnati a subirne il sanguinoso prolungamento
Una drôle de guerre?
Apparentemente, la situazione attuale della guerra ucraina sembra ricordare il primo conflitto mondiale: guerra di trincea, scarsa mobilità, cambiamenti della situazione lenti e non decisivi. In parte, questa percezione deriva per contrasto da ciò che abbiamo introiettato come idea di guerra moderna, a partire dal Blitzkrieg della seconda guerra mondiale sino alle fulminanti campagne contro l’Iraq e la Libia. Così come, per altro verso, da una scarsa conoscenza del grande pubblico delle specificità del teatro di guerra, cui si aggiunge quanto diffuso da una propaganda grossolana ed omissiva (quando non del tutto mendace), spesso riportata da pseudo esperti, privi di cognizione e competenza almeno quanto il pubblico al quale si rivolgono.
Questa guerra, dunque, ci appare più strana di quanto in realtà non sia. Questo perché, in fondo, noi tutti vorremmo che finisse in fretta. La sua lentezza va, dunque, confrontata con la velocità con la quale noi vorremmo si svolgesse.
Ma è poi davvero una guerra lenta e di trincea? Lo è solo in parte, e solo per una parte del tempo. La natura del terreno, intanto, è estremamente condizionata dall’andamento stagionale. Le piogge autunnali trasformano il terreno in fango, l’inverno lo gela, la primavera disgela e riporta il fango, l’estate asciuga. La mobilità, quindi, è limitata ad alcuni periodi dell’anno, mentre negli altri mesi è estremamente complicata, soprattutto per i mezzi pesanti. C’è inoltre da considerare l’assoluta anomalia di questo conflitto, un vero e proprio unicum nella storia – e non solo di quella moderna. Diversamente da tutte le guerre combattute dall’occidente, dal 1945 in poi (con la sola eccezione della guerra di Corea), questa non è una guerra asimmetrica.
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A proposito di Crimini e criminali di guerra. La STRAGE DI MY LAI in Vietnam. Per la Memoria storica
di Enrico Vigna
Questa pagina è solo una delle migliaia di pagine di crimini, orrori, ferocia di cui l’esercito statunitense, assistito dai maggiordomi occidentali ed europei, Italia compresa, ha insanguinato il mondo negli ultimi settant’anni. A proposito di crimini e di criminali…quanti generali, ufficiali, politici occidentali sono stati chiamati a rispondere dei crimini DOCUMENTATI storicamente, in: Korea, Puerto Rico, Guatemala, Vietnam, Laos, Cambogia, Indonesia Permesta, Libano 1958, Cuba Baia Porci, Repubblica Democratica Congo 1964, Thailandia, Bolivia, Repubblica Dominicana, Libano 1982, Grenada, Libia 1986, Iran Golfo Persico 1987, Panama, Iraq 1991, Somalia 1992, Jugoslavia, Haiti, Repubblica Federale Jugoslava Kosovo, Afghanistan, Yemen, Iraq 2003, Pakistan Nord Ovest 2004, Somalia 2007, Libia 2011, Uganda, Siria, Niger 2018…oltre a quasi 300 partecipazioni in conflitti senza risultare ufficialmente, come riportato da David Swanson, autore, attivista per la pace, giornalista statunitense e candidato al Nobel per la Pace. Si tratta di centinaia di migliaia di vittime in ogni angolo della Terra, tutto questo senza che nessun “fervente e celebrato servitore della democrazia, della giustizia e della verità”, abbia mai posto un problema di CRIMINI e CRIMINALI di GUERRA a cui chiedere conto delle loro atrocità e infamie contro l’umanità diseredata o renitente ai loro ordini.
Senza dimenticare la nostra “italietta”: nella sola Jugoslavia e Grecia, sono stati incriminati oltre 400 criminali di guerra…naturalmente MAI processati.
* * * *
Il Tenente W. Calley –e il gen William Westmoreland e Colin Powell all’epoca maggiore, che cercò di insabbiare la notizia del massacro. Tre EROI della democrazia occidentale.
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Lettera a mio padre: finale di partita tra tempo e rivoluzione
di Vincenzo Morvillo
Lessi il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.
Si viveva in una sorta di quotidianità parallela, attraversata da dilatazioni e rallenty temporali. Immersi in auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o in distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale per intenderci.
O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri si poteva avere l’impressione di venire scossi da accelerazioni improvvise e inattese, che sembravano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dall'ermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.
Leggevo, e non potevo fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti ed ombre, Barbara sa condensarli in una lingua vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.
Perché la sua scrittura – dalle cadenze allegoriche e magiche di L'ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano – ci parla del nostro presente e del nostro passato. Gettando una luce ferita, ma non sconfitta, sul nostro futuro.
Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare tra gli spazi bianchi dei sintagmi le voci di passate civiltà, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un'umanità dall'intelligenza creativa e dalle mani sapienti.
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L’Ucraina e la "trappola di Tucidide"
di Michael Brenner
Professore emerito di Affari internazionali all’Università di Pittsburgh e Fellow del Centro per le relazioni transatlantiche del SAIS/Johns Hopkins. Michael Brenner è stato direttore del programma di relazioni internazionali e studi globali dell’Università del Texas. Ha lavorato anche presso il Foreign Service Institute, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e Westinghouse. È autore di numerosi libri e articoli sulla politica estera americana, sulla teoria delle relazioni internazionali, sull’economia politica internazionale e sulla sicurezza nazionale
Agli occhi dei funzionari statunitensi, l’importanza dell’Ucraina va ben oltre il suo intrinseco valore geopolitico o economico. Questo era vero nel 2014 come lo è nel 2021 – e sicuramente oggi. Il significativo investimento degli Stati Uniti nella campagna per riportare l’Ucraina nell’orbita occidentale indica quali sono gli obiettivi strategici più ampi di Washington. In parole povere: la crisi è radicata nelle preoccupazioni di Washington nei confronti della Russia. Ha poco a che fare con l’Ucraina in quanto tale. Questo sfortunato Paese è stato l’occasione, non la causa, dell’attuale confronto.
Per più di 20 anni, da quando Vladimir Putin è salito al potere, la denaturazione della Russia come potenza significativa sulla scena europea (e ancor più su quella mondiale) è stata un obiettivo fondamentale della politica estera statunitense. L’ascesa del Paese dalle ceneri, simile a una fenice, ha innervosito Washington, sia i politici che gli esperti dei think tank. Nemmeno la minaccia di gran lunga maggiore rappresentata dalla Cina per il dominio globale degli Stati Uniti ha alleviato questa ansia. Al contrario, la temuta prospettiva di una partnership sino-russa ha rafforzato il desiderio di indebolire – se non eliminare completamente – il fattore Russia nell’equazione strategica statunitense.
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"Il grande disegno di Kissinger": 50 anni fa i petrodollari nascevano in questo modo
di Giacomo Gabellini
Come è noto, l’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale riuscì a rimettersi in piedi grazie soprattutto agli aiuti forniti dagli Stati Uniti – in cambio della rinuncia alla sovranità politica da parte degli Stati del “vecchio continente” – nell’ambito dell’ormai celeberrimo Piano Marshall, il quale impedì che le prospettive di ricostruzione si infrangessero sui vincoli della bilancia dei pagamenti di ogni singolo Paese. Eppure, dal punto di vista strettamente economico, la linea operativa portata avanti da Washington produsse ricadute molto più positive sull’Europa e sul Giappone che sugli stessi Stati Uniti, i quali, fungendo anche da mercato di sbocco per le merci prodotte in Europa, cominciarono a fare fatica a realizzare tassi di crescita analoghi a quelli conseguiti dalla Comunità Economica Europea (il cui export, nel 1960, fu per la prima volta superiore a quello statunitense) e si videro costretti a far leva sull’enorme spazio di manovra garantito dal ruolo di valuta di riferimento di cui era titolare il dollaro per emettere moneta in misura tale da finanziare il proprio deficit, che stava cominciando a crescere in maniera preoccupante.
Convertibilità di "facciata"
Il consigliere economico del presidente Charles De Gaulle, Jacques Rueff, si era accorto di come la convertibilità tra dollaro ed oro fosse divenuta ormai soltanto “di facciata”, in quanto il dollaro aveva ormai acquisito lo status di moneta fiduciaria solo formalmente ancorata ad un valore fisico reale. Rueff fece quindi notare a De Gaulle come questo stato di cose fosse garante di pesanti squilibri valutari e consentisse agli Stati Uniti di accumulare deficit crescenti nella bilancia commerciale senza pagarne il prezzo corrispettivo.
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Dentro Operai e capitale
di Andrea Rinaldi
I primi anni Sessanta, in Italia, sono attraversati da una dinamica ambivalente: da un lato rappresentano l’apogeo del cosiddetto «miracolo economico», dall’altro segnano l’inizio di uno straordinario ciclo di lotte, guidato da quello che sarà conosciuto come operaio massa. Andrea Rinaldi ritorna al principio dell’esperienza dei «Quaderni rossi», nella combinazione tra soggetti differenti, per indagare le fondamenta dell’elaborazione di Operai e capitale e dell’intero operaismo politico italiano.
* * * *
I «Quaderni rossi» nascono e si sviluppano in un particolare momento di novità politiche imposte dal movimento operaio. Come è noto i primi anni Sessanta sono l’apogeo del miracolo economico italiano, ma anche l’inizio di un inaspettato nuovo ciclo di lotte operaie. Il clima cooperativo che gli industriali del Nord avevano tentato di costruire per aumentare la produttività si stava guastando. A rovinare i piani di sviluppo economico furono proprio quei soggetti meridionali immigrati che venivano pensati come argine alla contestazione e che finirono per essere invece l’incubo di ogni tentativo rappresentativo. «Gli operai immigrati trovarono in fabbrica il luogo privilegiato di un’azione collettiva che era loro negata all’interno della comunità; essi portavano dentro i cancelli degli stabilimenti tutto il risentimento che provavano per le condizioni di vita che sopportavano al di fuori di questi»[1].
Quando si andava strutturando il primo gruppo dei «Quaderni rossi», nel 1961, la Fiat era ancora il luogo apparentemente pacificato voluto dal presidente Vittorio Valletta, e sparuti focolai si vedevano solo nelle altre fabbriche piemontesi.
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Il partito comunista cinese e il controllo sui mezzi di produzione
Le imprese pubbliche industriali dal mercato alla sfida tecnologica
di Giordano Sivini
Introduzione
Il controllo del partito comunista sui mezzi di produzione è uno dei fondamenti della Costituzione materiale della Cina (Sivini 2022), architrave del sistema di potere della Repubblica Popolare dal momento della sua fondazione ad oggi, al di là dei cambiamenti delle sue basi strutturali. Mao Zedong (1949-1976) aveva cercato di realizzare una struttura nella quale i rapporti sociali di produzione improntati al socialismo egalitario avrebbero dovuto condizionare lo sviluppo delle forze produttive. Deng Xiaoping (1978-1992), che gli succedette, operò affinché la costruzione del socialismo si basasse sulla redistribuzione di una ricchezza realizzata da forze produttive mosse dalla competizione tra soggetti attivi nel mercato. Questa dinamica cambiò i rapporti sociali di produzione, aprendo la strada alla generalizzazione di una loro configurazione capitalistica, che Jiang Zemin e Zhu Rongji (1993-2003) contribuirono ad istituzionalizzare, e che tuttora permane. Socializzazione, statizzazione e capitalizzazione sono le modalità che, in queste diverse fasi della storia della Cina, hanno realizzato il controllo sui mezzi di produzione da parte del partito comunista.
In un recente libro pubblicato in Messico, Barry Naughton – statunitense, tra i maggiori studiosi occidentali della Cina – ha sostenuto che da Deng in poi, per una lunga fase, la crescita del paese è stata prodotta dal mercato e non dai governi e dal partito. I piani quinquennali sono rimasti incompiuti o sono falliti, e gli interventi statali hanno mirato, con scarsi risultati, a rendere le imprese pubbliche efficienti in termini di mercato. L’affidamento al mercato ha però intaccato le capacità produttive cinesi rispetto a quelle occidentali, e, per por rimedio al gap tecnologico, sono stati elaborati tardivamente piani, implementati dopo la grande crisi finanziaria.
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Promuovere la cultura della complessità
di Pierluigi Fagan
Promuovere la cultura della complessità. Questo è l’intento sottostante il Festival che giunge quest’anno alla sua tredicesima edizione. Cosa intendiamo con “cultura della complessità” e perché riteniamo che la sua diffusione meriti impegno?
Il concetto di complessità non dà vita ad una nuova disciplina ma ad una teoria della conoscenza. Riguardando la conoscenza in generale, riguarda tutte le discipline che usiamo per conoscere l’uomo ed il mondo. La complessità è sempre esistita, come sono sempre esistiti i fenomeni che solo dal XVII secolo in poi abbiamo cominciato ad indagare con la scienza e come sono sempre esistiti i problemi che si sono posti per la prima volta gli antichi Greci ionici da cui parte la storia della filosofia. In questi due epocali casi non emersero nuovi fenomeni ma nuovi modi di conoscerli.
Una nuova forma di conoscenza adeguata ai tempi
Le due culle teoriche della cultura della complessità, la Teoria dei sistemi di Bertalanffy e la Cibernetica di Wiener, sono dell’immediato dopoguerra. Dall’immediato dopoguerra ad oggi, abbiamo assistito ad un notevole e rapido incremento della complessità del mondo. Sono vertiginosamente aumentate le varietà del mondo (triplicazione della sua popolazione e degli Stati), le loro interrelazioni (trasporti, telecomunicazioni, interdipendenze, scambi, Internet, globalizzazione etc.), si è formato per la prima volta un vero e proprio sistema-mondo organizzato in sottosistemi.
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Sul precipizio climatico/2: chi già precipita. E chi sta nell’Ipcc
di Angelo Baracca
Dopo l’invio del mio articolo su Contropiano “Sull’orlo del precipizio climatico” sento la necessità di scendere dalle considerazioni generali più sul concreto.
L’Ipcc è un comitato . . . “sub partes”
Comincio con una rettifica, faccio ammenda per l’affermazione che l’Ipcc è un panel INTERGOVERNATIVO. In realtà a ben vedere sembra piuttosto GOVERNATIVO: nel senso che sembra che gli Stati Uniti la facciano assolutamente da padroni. Il ché, voglio precisarlo chiaramente, non a che vedere con la serietà scientifica dei suoi report, ma piuttosto con il presentarsi (in realtà per essere considerato, al di là delle intenzioni dei vari scienziati) come l’organismo a cui tutti fanno riferimento per stabilire la gravità della situazione climatica: semmai il vero merito che va riconosciuto all’Ipcc, e ai suoi report, è di avere sbugiardato definitivamente i negazionisti.
Ma veniamo alla rappresentatività. Parto questo grafico, già molto eloquente:
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No, non è l’egemonia. Cosa c’è in ballo nello scontro tra Cina e Stati Uniti
di Fabio Ciabatti
Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios Editore, Trieste 2022, pp. 352, € 29,00
Lo scontro tra Cina è Stati Uniti è solo all’inizio. Si tratta di una complessa e inevitabile sfida sistemica dagli esiti quanto mai incerti. La Cina, per quanto rapidamente ascesa al rango di potenza mondiale, è ben consapevole di essere più debole del suo avversario e per questo non può e non vuole sfidare l’egemonia americana a livello planetario, per quanto essa risulti indebolita. E questo sia detto con buona pace degli antimperialisti d’antan, quelli che mai hanno elaborato fino in fondo il lutto per la scomparsa della vecchia Unione Sovietica e per questo immaginano un mondo multipolare in cui possa risplendere la stella del nuovo stato guida socialista. Ciò detto l’imperialismo è una questione quanto mai seria e gli esiti dello scontro tra Cina e America saranno fondamentali per le sorti dell’umanità intera. Con buona pace, questa volta, dei puristi della lotta di classe per i quali l’unica cosa importante è lo scontro diretto tra borghesia e proletariato, concepito in una sorta di vuoto geopolitico generalmente privo di riferimenti alla dimensione bellica.
Questo è solo un piccolo assaggio, con l’aggiunta da parte nostra di un pizzico di pepe polemico, dal ricco ed elaborato piatto rappresentato dall’ultimo libro di Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Si tratta di un testo in cui la geopolitica non è considerata come mero scontro tra potenze statuali ma è concepita come “economia e politica concentrate allo stadio dell’imperialismo”, capace di tenere insieme contraddizioni inter-borghesi e di classe, competizione inter-capitalistica e crisi socio-politica. Strutture, strategie, contingenze è il sottotitolo del libro che esprime il tentativo di dare conto sia degli ineludibili meccanismi oggettivi che governano il nostro mondo a livello planetario sia delle istanze progettuali collettive che cercano di modificare il contesto di riferimento. Il tutto nell’ambito di un processo che rimane aperto a differenti esiti, benché essi non risultino certamente infiniti e indefiniti.
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Marx e la decrescita. Il caso Saito
di Jacopo Nicola Bergamo
Cambridge University Press ha finalmente pubblicato Marx in the Anthropocene. Toward the Idea of Degrowth Communism, dell’ormai noto professore Kohei Saito dell’Università di Tokyo. La curiosità della comunità accademica occidentale per il best seller giapponese dal titolo Hitoshinsei no Shihonron [Capital in the Anthropocene] potrà essere dunque soddisfatta? Sì, ma il libro che cercate è un altro ed è stato pubblicato solo in spagnolo, per ora, con il titolo El capital en la era del antropoceno. Datemi modo di chiarire l’equivoco partendo da una piccola digressione sull’autore e l’interesse per questo volume.
Kohei Saito godeva già di fama negli ambienti accademici marxisti grazie alla sua tesi di dottorato conseguita all’università Humboldt a Berlino, nella quale dimostra l’attenzione di Marx per i problemi ecologici, in particolare per la riduzione della fertilità dei terreni agricoli seguita all’avvento dell’agricoltura capitalistica; il tutto grazie a uno studio rigoroso dei manoscritti marxiani degli anni Sessanta e Settanta dell’800, pubblicati nella Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA²), ovvero la nuova edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels. Questa tesi è stata poi pubblicata originariamente in tedesco e tradotta in altre sei lingue, sfortunatamente non in italiano, tra le quali l’inglese con il titolo Karl Marx’s Ecosocialism: Capital, Nature and the unfinished critique of political economy. Il volume è stato insignito del prestigioso premio Deutscher Memorial consacrando Kohei Saito come un riferimento per gli studi marxiani ed eco-socialisti, vicino alla tradizione della storica rivista statunitense Monthly Review e in continuità con l’interpretazione di John Bellamy Foster e Paul Burkett.
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Il posto del padre e la deriva post–moderna
di Gerardo Lisco
Su Il manifesto del 9 marzo, due pagine dedicate all’8 marzo festa della donna, titolo a carattere cubitale “Sciopero e cortei eco–trans femministi da Milano a Napoli. Manifestazioni in 38 città italiane indette dalla rete <<Non una di meno>>. Contro il “sistema patriarcale e il capitale”. Partendo dall’ultima affermazione ho provato ad analizzare la relazione esistente tra “patriarcato e capitalismo” soffermandomi sul posto del padre rispetto all’attuale deriva post–modernista. In un passaggio dell’articolo, a firma Giulia D’Aleo, leggo: <<Già dalla mattina, molte città avevano dato un’anticipazione dei cortei pomeridiani, con manifestazioni tematiche portatrici di una visione nuova della società, libera da un sistema patriarcale e capitalista basata sullo sfruttamento dei corpi, dell’ambiente, del sistema scolastico e di quello sanitario (…) oltre diecimila attiviste e attivisti hanno poi preso parte al ricordo delle vittime del naufragio di Cutro e assistito al flashmob finale, autodeterminazione della donna e la liberazione dallo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo>>. A mio parere, tutto ciò non è altro che un pout–porri senza né capo, né coda. Mi ha particolarmente colpito il riferimento critico al sistema patriarcale che, evinco dall’articolo, è per gli organizzatori delle numerose manifestazioni il principio di tutti i mali.
Insomma, Patria, Dio e famiglia sono stati sostituiti dai sinonimi: Patriarcato, Capitalismo, Maschio bianco eterosessuale.
Partendo dall’articolo, ho provato a ragionare sulla base del significato etimologico di “Padre”. Ai fini dell’economia del ragionamento che mi appresto a sviluppare, ritengo fondamentale prendere l’abbrivio dal significato etimologico del termine padre.
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Biden d’Arabia e la fine del mondo unipolare
di Domenico De Simone
La straordinaria giornalista Laura Ruggeri segnala e trasmette su Telegram uno spezzone di questo programma televisivo, una serie di gag sullo stato di salute mentale del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden che da mesi impazza sulla televisione di Stato Saudita. Una esterrefatta imitatrice di Kamala Harris cerca di accompagnare e supportare il Presidente ma non riesce ad evitarne le figuracce da rincretinito totale che ormai dispensa urbi et orbi sin dal tempo della sua rielezione. Naturalmente questa trasmissione è stata realizzata e mandata in onda con il pieno consenso del principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa’ud, capo del governo ed erede designato del trono saudita, ed è particolarmente indicativa dell’orientamento dei Sauditi nei confronti del grande alleato americano, con cui re Faysal aveva stretto un patto ferreo preferendoli agli inglesi sia per la ricerca e l’estrazione del petrolio sia per la protezione militare.
Questa alleanza, molto stretta e forte nonostante i numerosi contrasti, dichiarati e non, sia rispetto ad Israele che sul prezzo del petrolio, ha comunque retto fino a qualche anno fa, quando i rapporti si incrinarono decisamente per la conclusione dell’indagine della CIA che accusava il principe Mohammad di essere il mandante dell’assassinio del giornalista saudita dissidente Khashoggi, entrato nel Consolato saudita a Istanbul e lì scomparso. Khashoggi era editorialista del Washington Post e una voce molto seguita negli Usa. Il governo Biden in un primo momento, ha sostenuto con forza le accuse a Mohammad, ma poi Biden si è reso conto che stava perdendo un alleato fondamentale nello scacchiere mediorientale e non solo, e quindi nel luglio scorso si è recato a Riyadh per cercare di riallacciare i rapporti.
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Prefazione a Ontologia dell’essere sociale
di Alberto Scarponi
L’Ontologia è l’ultimo lavoro e l’ultima grande opera sistematica di György Lukács, morto a Budapest il 4 giugno 1971. Le circostanze della sua composizione, il fatto che l’autore avesse annunciato più volte negli ultimi anni di essere al lavoro su questo argomento, le anticipazioni di qualche suo contenuto che se ne sono avute Lukács vivente1, il modo frammentario in cui finora è stato pubblicato lo stesso testo originale tedesco per le difficoltà incontrate dai curatori nella redazione del manoscritto2, l’uso in campo marxista del termine di «ontologia», con il connesso sospetto di intrusioni metafisiche e cadute idealistiche, hanno fatto sì che intorno a quest’opera si coagulasse un’intensa atmosfera di attesa variamente intonata. E non sono mancati i giudizi definitivi in base a quanto già apparso in pubblico.
Il lettore italiano, avendo intanto a disposizione questa prima parte, potrà ora giudicare per via diretta la validità, la portata e anche il senso di quest’ultimo impegno del filosofo ungherese scomparso.
E non a caso viene di usare la parola «impegno», con tutte le sue assonanze. Perché, quali che saranno le riflessioni critiche suscitate dalla lettura del testo, comunque si articoleranno le eventuali obiezioni di merito rispetto al discorso che vi è contenuto, quest’Ontologia crediamo debba essere considerata un lavoro ancora una volta militante, di un uomo legato alla vita del movimento operaio e profondamente impegnato a intervenire, a dare il proprio contributo di pensatore alla lotta per il socialismo.
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Dominio e ricatto del capitalismo finanziario
Antonio Minaldi intervista Andrea Fumagalli
Dominio e sfruttamento nel capitalismo del XXI° secolo è un volume pubblicato da poco di cui consigliamo la lettura. Curato da Antonio Minaldi e Toni Casano (Ed. Multimage, 2023), il testo raccoglie i contributi di studiosi e militanti politici ad un ciclo di dibattiti su cinque grandi questioni: antropocene e capitalocene; il capitalismo della sorveglianza; il capitalismo della produzione immateriale; dominio e ricatto del capitalismo finanziario; imperi, guerra e destini del mondo. Pubblichiamo di seguito l’importante intervista sul capitalismo finanziario che Antonio Minaldi ha condotto con Andrea Fumagalli.
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Abbiamo il piacere di ospitare il professor Andrea Fumagalli. Con lui parleremo di economia. Tema ostico per molti, ma di cui dobbiamo necessariamente occuparci, perché da questioni come finanza, inflazione, debito pubblico dipende in gran parte la nostra vita. Il primo punto di cui ci occuperemo è quasi obbligato, e riguarda la guerra. Chiederei al prof. Fumagalli, anzi direi al compagno Andrea, di spiegarci che cos’è che sta cambiando, e cosa cambierà nel medio lungo periodo, con la guerra in Ucraina e col passaggio da un mondo unipolare a un mondo bipolare o più probabilmente multipolare. Ricordiamo che globalizzazione, crisi dello Stato nazione e libera circolazione delle merci e dei capitali per noi sono stati, in questi anni, cose quasi scontate. Ma forse non è più così!
Iniziamo con una doverosa premessa. Il capitalismo attuale è caratterizzato dal susseguirsi di crisi sistemiche, sia che si tratti di crisi indotte dall’instabilità finanziaria oppure da tensioni geopolitiche o da eventi sindemici.
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Un paese che si solleva
di Frédéric Lordon
Per fare dell’insurrezione francese un mezzo e non un fine, dice Frédéric Lordon, occorre formulare un desiderio politico positivo in cui la forza del numero possa riconoscersi
Lunedì 20 marzo, le prime pagine della stampa francese sono tutte dedicate all’eccitazione per una mozione di sfiducia, a contare i deputati che potrebbero votarla, a soppesare le possibilità, a prevedere gli assetti futuri, a fare la parte degli informati – che delizia il giornalismo politico: un passaporto per l’inanità politica.
Nel frattempo, insorta con tutta la sua forza, la politica si è impadronita del paese. Uno sciame di iniziative spontanee si dirama da tutte le parti – scioperi senza preavviso, blocchi stradali, tumulti o semplici manifs sauvages, assemblee studentesche ovunque, l’energia dei giovani a Place de la Concorde, per strada. Tutti si sentono sui carboni ardenti, le loro gambe sono impazienti – impazienti, certo, ma non delle sciocchezze che appassionano i ristretti circoli dell’intellighenzia parigina. I circoli, paradossalmente, sono simili ai vertici. Come i giornalisti, che restano incollati a Macron e a Élisabeth Borne, hanno una cosa in comune: gli uni come gli altri ignorano ciò che sta realmente accadendo, vale a dire l’ebollizione del paese.
È bello quello che succede quando l’ordine costituito comincia a deragliare. Piccolezze inaudite, che rompono l’isolamento rassegnato e l’atomizzazione su cui i potenti fondano il loro potere. Ed ecco che i contadini portano ceste di verdure ai ferrovieri in sciopero; un ristoratore libanese distribuisce falafel ai manifestanti sequestrati dalle «nasses» poliziesche [l’accerchiamento dei manifestanti, Ndt]; studenti e studentesse che si uniscono ai picchetti; e presto vedremo anche i cittadini aprire le loro porte per proteggere i manifestanti dalla polizia.
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Il ritorno del re
di Wolfgang Streeck
Se mai ci fosse stata una domanda su chi comanda in Europa, la NATO o l’Unione Europea, la guerra in Ucraina l’ha risolta, almeno per il prossimo futuro. Una volta, Henry Kissinger si lamentava che non c’era un numero di telefono unico a cui chiamare l’Europa, troppe chiamate da fare per ottenere qualcosa, una catena di comando troppo scomoda e bisognosa di semplificazione. Poi, dopo la fine di Franco e Salazar, è arrivata l’estensione a sud dell’UE, con l’ingresso della Spagna nella NATO nel 1982 (il Portogallo ne faceva parte dal 1949), rassicurando Kissinger e gli Stati Uniti sia contro l’eurocomunismo sia contro una presa di potere militare non da parte della NATO. Più tardi, nell’emergente Nuovo Ordine Mondiale dopo il 1990, l’UE avrebbe dovuto assorbire la maggior parte degli Stati membri del defunto Patto di Varsavia, in quanto questi erano in rapida successione per l’adesione alla NATO. Stabilizzando economicamente e politicamente i nuovi arrivati nel blocco capitalista e guidando la loro costruzione nazionale e la formazione dello Stato, il compito dell’UE, accettato più o meno con entusiasmo, sarebbe stato quello di consentire loro di diventare parte dell'”Occidente”, guidato dagli Stati Uniti in un mondo ormai unipolare.
Negli anni successivi il numero di Paesi dell’Europa orientale in attesa di essere ammessi nell’UE aumentò, con gli Stati Uniti che facevano pressioni per la loro ammissione. Con il tempo, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia hanno ottenuto lo status di candidati ufficiali, mentre Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Moldavia sono ancora in attesa. Nel frattempo, l’entusiasmo degli Stati membri dell’UE per l’allargamento è diminuito, soprattutto in Francia, che ha preferito e preferisce l'”approfondimento” all'”allargamento”.
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La politica economica tra inflazione e stabilità finanziaria
di Marcello Spanò
Il fallimento di Silicon Valley Bank – la sedicesima più grande banca degli Stati Uniti – e le altre scosse telluriche del sistema finanziario a cui abbiamo assistito in questi giorni riportano all’attenzione il tema dell’instabilità finanziaria. Ancora non sappiamo se questi siano i primi anelli di una lunga catena o se il contagio verrà in qualche modo arginato. Ciò che possiamo constatare è che, ancora una volta, l’economia capitalistica ad alta intensità finanziaria in cui ci tocca in sorte vivere si conferma fragile e soggetta a rischi sistemici. Al posto di azzardare previsioni, pratica su cui gli economisti si esercitano ostinatamente e la maggior parte delle volte inutilmente, preferisco qui avanzare alcune considerazioni sugli elementi di novità che emergono da questi (primi?) fallimenti e sulle linee guida di politica economica che dovrebbero esserne tratte.
1. I safe assets non sono safe
La prima considerazione che mi sembra opportuno sottolineare è un paradosso: i titoli del debito pubblico, normalmente considerati un rifugio per il loro basso grado di rischiosità (safe assets) sono stati proprio quelli che hanno portato la SVB al fallimento.
Una quindicina d’anni fa, quando l’intero mondo della finanza franava a causa del crollo dei titoli derivati il cui profilo di rischio era del tutto opaco e la cui valutazione tecnicamente contorta era affidata ad esperti che di economia sapevano poco o nulla, gli investitori finanziari spostarono somme enormi di ricchezza sui titoli di Stato, considerati appunto un buon rifugio di fronte al panico e all’incertezza del momento.
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Chi siamo e che vogliamo?
di Alessandra Ciattini
Prima di impegnarci in alleanze più elettorali che politiche, sarebbe opportuno chiederci chi siamo e che vogliamo
Se siamo convinti che esiste un’unica strada per uscire dal capitalismo e dalla sua disumanità, dato che esso appare sempre più irriformabile e avvitato in una spirale devastante, dato che le terze vie sono tutte fallite, occorre riconquistare la nostra identità sbriciolatasi in numerose e debolissime varianti, che si fanno genericamente paladine del popolo, degli sfruttati, degli umili. Nonostante il marxismo abbia una storia complessa e contraddittoria, che bisognerebbe apprendere a fondo, il suo nucleo centrale sembra costituire ancora oggi, in un orizzonte alquanto diverso da quello ottocentesco, un’adeguata chiave interpretativa della società contemporanea: il concetto di classe e il suo derivato la lotta di classe. Basti un esempio. Numerosi marxisti hanno interpretato la fase neoliberale come il tentativo riuscito di una restaurazione di classe dinanzi alla crisi dell’accumulazione, che non poteva più tollerare il compromesso keynesiano tra capitale e lavoro del dopoguerra. E hanno anche collegato tale impresa socio-economica all’imposizione di ideologie elogiative dell’individualismo identitario, miranti alla frammentazione dei lavoratori, del resto già divisi e separati da barriere quali il sesso, l’appartenenza etnica, religiosa ecc. Ideologie che purtroppo hanno profondamente colonizzato la cosiddetta nuova sinistra, che le ha fatte proprie soprattutto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il ripudio dello stalinismo, facendosi affascinare dal culturalismo contrapposto in maniera binaria e semplicistica al volgare economicismo.
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