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L’enigma del senso di colpa
Elettra Stimilli
Quello che segue è un estratto del saggio Debito e colpa, il nuovo libro della collana «Fondamenti» in libreria in questi giorni per la casa editrice Ediesse. Un saggio che muove dal nesso tra debito e colpa con l'intento di mettere a nudo i nodi teorici contenuti in questa relazione semantica, e di collocare il problema del debito in un contesto più articolato rispetto a quello strettamente tecnico della scienza economica
Il neoliberismo è una forma di governo che si pratica con l’autogoverno, implica strutture istituzionali di tipo amministrativo e una razionalità politica dotata di una «macchina antropogenica» diversa da quella a cui miravano le società moderne. Come si è cercato di mostrare sulla scia dello stesso Foucault, «l’invenzione» di questo dispositivo va genealogicamente individuato nel cristianesimo e nell’istituzione amministrativa dell’Ekklésia, che per prima scombina sul piano pubblico della comunità politica il dualismo dell’attività e della passività del potere, su cui si fondavano le società nel mondo antico e su cui, per altri versi, ha continuato a basarsi il patto politico moderno. Molte sono le differenze tra il «prototipo» e l’attuale realizzazione. Ma in ogni caso il suo funzionamento è dovuto al coinvolgimento di risorse specificheper la caratterizzazione della vita umana.
A queste risorse è rivolta l’attenzione di Judith Butler, intenta ad un’indagine sul potere che, al di là della sua struttura moderna, risalga piuttosto alle sue radici psichiche. La sua analisi presuppone la rottura con la logica repressiva del potere patriarcale moderno messa in atto dalle pratiche e dalle teorie femministe e mette al tempo stesso in discussione la naturalità di genere e dell’identità sessuale, pure rivendicate da un certo femminismo, a favore di una ricerca volta a individuare la loro origine culturale e la loro provenienza da pratiche sociali performative.
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“Trickle-down economics”
Guido Viale
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19-31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete. La teoria e la filosofia del Trickle–down in realtà si fermano alla prima parte della parabola. La seconda parte è compito nostro realizzarla; e non in Paradiso, dopo la morte, ma su questa Terra, qui e ora.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli USA dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono. L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazione e, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”.
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Il redde rationem: la Corte in mezzo al guado
L'emergenza democratica più grave dal 1948
di Quarantotto
1. Nel post del 1° maggio avevamo messo in risalto la questione del "quando e perchè" un diritto costituzionalmente tutelato dovesse trovare tutela integrale, cioè attraverso la piena espansione del principio della restituzione di quanto indebitamente percepito ovvero non erogato (dallo Stato), in applicazione della norma dichiarata incostituzionale.
Quello che può apparire un tecnicismo, è in realtà un punto fondamentalissimo per poter qualificare la (permanenza o meno della) sovranità di uno Stato, in relazione al concomitante principio della "scarsità delle risorse finanziarie" dello stesso, derivante dalla limitazione del deficit e dall'adesione all'euro, cioè dal "vincolo esterno" dei trattati europei.
In presenza del pareggio di bilancio, nella nuova formula dell'art.81 Cost., poi, il problema diviene di primaria importanza, perchè accelera e rende tangibile, anche a chi prima non se ne rendeva conto, lo stato di progressivo smantellamento dell'assetto sociale derivante dai principi fondamentali della Costituzione stessa.
2. E dunque avevamo evidenziato il concreto manifestarsi di questa accelerazione in questi termini:
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Euro: pensare di tornare indietro fa perdere tempo alla sinistra
Salvatore Biasco
Nessuna delle misure di economia di guerra ci salverebbe da un disastro. I difetti analitici di chi pensa sia opportuno autoinfliggercelo. Rimanere “dentro” è l’unica opzione possibile, anche se per nulla tranquillizzante. Il modo con cui uscire dalla crisi da sinistra è ciò su cui dovrebbe impegnarsi la sinistra politica
Per prima cosa si rendono necessari alcuni puntini suglii. Smettiamola di dividere il mondo tra coloro che sono coscienti dei disastri che ha comportato l’euro per l’economia italiana e propongono un rimedio a portata di mano (la riappropriazione del cambio) e coloro che non vedono quei disastri, sono indifferenti allo sconquasso sociale, non se ne preoccupano o sono resi ciechi dalla scelta di campo, rifiutando di prendere in considerazione una leva così ovvia e a immediata disposizione.
Chi vive in modo più angoscioso la china dell’economia italiana è proprio chi pensa che un rimedio semplice non vi sia (e che quello proposto sia di gran lunga peggiore del male). Ma non vi è alcun dubbio che l’Italia non ha retto alla crisi mondiale del 2007 nell’ambito delle regole e dei vincoli dell’euro, finendo in un vicolo cieco, dal quale sarà difficile districarsi. Personalmente rinvio alla straordinaria tavola rotonda che, all’apparire del progetto di moneta unica (siamo nel 1989!), mostra che vi era una profonda consapevolezza di ciò che sarebbe successo1. Successivamente – all’epoca in cui l’ingresso fu deciso (nella prima metà degli anni Novanta) – sarebbe stato difficile per un Paese che nel 1992 aveva rischiato il default non prendere l’opportunità per porre fine alle varie spirali che in modo perverso percorrevano l’economia italiana (interressi-debito pubblico; prezzi-salari-cambio, ecc.).
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Se il capitale è l’avanguardia di se stesso
di Marco Dotti
Talvolta sottovalutato, talaltra sopravvalutato, al contributo di Walter Lippmann si deve, tra le tante cose, la nozione di pseudo-ambiente. Lo pseudo-environment è un concetto chiave, non solo per comprendere il “chi” e il “che cosa” di quell’opinione pubblica a cui l’autore americano dedicò nel 1922 un libro capitale per la formazione del pensiero e la strutturazione delle pratiche neoliberali.
Mitocrazia ambientale
La nozione di pseudo-ambiente appare, infatti, fondamentale soprattutto per comprendere il “come”, ossia con quali forze e attraverso quali coordinate, tra complessità vitali e semplificazioni cognitive, un’opinione si costituisca in forma pubblicamente rilevante e determinante, ma proprio in tal modo venga depotenziata e recuperata nel sistema.
È però vero che Lippmann faceva ancora in parte dipendere lo pseudo-ambiente informazionale da una selezione e, in definitiva, da una barriera. Oggi, al contrario, anziché a una barriera bisognerebbe pensare a un filtro o a una membrana porosa: un punto, come scriveva Yves Citton nel suo <>Mythocratie (2010), dove pratiche della narrazione e dispositivi di potere si incontrano, dando luogo a quella pratica di “scenarizzazione” che ha radicalmente esteso lo pseudo-ambiente informazionale.
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Integraciòn o muerte! Venceremos?
L'America Latina nel suo labirinto
Daniele Benzi
II. L'ombra degli Stati Uniti [Qui la prima parte]
Gli ultimi due secoli dell’America Latina sono stati profondamente segnati dalla costante ingerenza politica, economica e militare degli Stati Uniti. La pretesa egemonica di escludere l’influenza di altri paesi e di mantenere salda la propria è un fatto facilmente constatabile e determinante per l’evoluzione storica della regione. La dottrina Monroe e quella del Destino Manifesto rappresentano in questo senso il nucleo fondante attraverso cui gli USA hanno elaborato, messo in pratica e costantemente aggiornato la propria politica emisferica. In base ad esse, hanno lavorato assiduamente per frenare ogni tentativo di unificazione politica ed integrazione economica a Sud del Rio Bravo che ne minacciasse, fosse anche minimamente, gli interessi.
La singolarità di questo rapporto di dominazione, ritratto metaforicamente dall’immagine in qualche modo familiare e per questo ambigua del «cortile di casa», sempre in tensione fra una persistente interferenza e una indifferenza in mala fede, si spiega plausibilmente alla luce della storia nazionale degli Stati Uniti, espansionista per necessità forse, sicuramente per vocazione, e della loro progressiva scalata al potere mondiale. Panamericanismo, «Big stick diplomacy» o «Politica di buon vicinato», così come la «Diplomazia del dollaro», sono stati strumenti ricorrenti della politica estera statunitense verso l’America Latina. Non sorprende, quindi, dal punto di vista delle élite governanti latinoamericane, che le relazioni internazionali con il vicino del Nord siano state improntate a un atteggiamento costantemente oscillante, a seconda del momento storico e/o blocco o leader al potere, tra l’acquiescenza e imitazione o la ricerca di autonomia.
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Dossier Odessa*
di Nico Macce
Immaginatevi centinaia di squadristi che attaccano e incendiano la camera del lavoro della vostra città, immaginatevi che all’interno di questo edificio brucino vive decine di persone, che quelli che cercano di scappare fuori vengono assassinati all’esterno a colpi di mazza. E infine, immaginate gli squadristi entrare nella camera del lavoro ancora fumante, a finire i superstiti.
Questi fatti sono accaduti un anno fa, il 2 maggio, a Odessa. Non in Ruanda, ma in Ucraina, Europa.
Altro che qualche auto e banca bruciata in centro a Milano! Con l’assalto alla casa dei Sindacati di Odessa, mi riferisco a una strage, un orrendo eccidio, un crimine taciuto e minimizzato dai nostri media ufficiali (come nel resto dell’Occidente). Gli stessi così zelanti a stigmatizzare ogni cacata di cane che imbratti i salotti buoni dell’ennesima fiera del profitto e che in questi giorni ci ha fatto vedere le vetrine rotte milanesi da ogni angolo possibile e immaginabile. Media che però sono censori e falsi verso fatti macroscopici come i pogrom nazisti in Ucraina. Il che mi porta a dire che questo giornalismo dei grandi network e delle testate controllate dai gruppi finanziari non può rappresentare la coscienza democratica di un paese civile. Non ne ha più la cifra etica già da molto tempo.
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Le trattative tra Tsipras e Merkel dimostrano che l'Europa è già fallita
di Enrico Grazzini
In apparenza Tsipras e Merkel si stanno giocando il futuro dell'Europa. Ma in effetti, il sogno europeo è già morto e sepolto sotto i colpi dell'euro-marco. Comunque vadano le trattative tra la Grecia del socialista Alexis Tsipras e l'Unione Europea, guidata dal mastino Angela Merkel, il destino dell'Unione Europea è già segnato. Le illusioni di una Europa più forte e più giusta sono ormai del tutto ingiustificate. La UE è ormai apertamente nemica dei popoli. L'Europa è ormai solo l'alibi dei governi europei di tutti i colori per imporre le riforme strutturali neo-liberali volute dalla grande finanza: riduzione del costo del lavoro, disoccupazione, abbattimento selvaggio del welfare, privatizzazioni, compressione dei diritti sociali e politici, riduzione della democrazia a feticcio formale.
Le regole europee della moneta soffocano l'Europa, ma nessuna regola vincola invece la grande finanza. “Vi tolgo tutto in nome dell'Europa”. Questo è ormai lo slogan dei governi “europeisti” per perseguire drastiche politiche di destra, come quelle di Matteo Renzi. I governi europei e le elite dirigenti delle nazioni europee sono diventati dei semplici portavoce di interessi sovranazionali – istituzioni europee e grande finanza – che perseguono politiche di prolungamento della crisi.
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Grecia, la misura è colma
di Domenico Mario Nuti
Una domanda di uscita unilaterale della Grecia dall’Ue avrebbe effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per eventuali rinegoziazioni. Ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a più miti consigli Schäuble e gli altri falchi della troika che hanno traumatizzato il paese spingendola verso il default a tutti i costi
Nei panni di Alexis Tsipras farei domanda immediatamente perchè la Grecia lasciasse unilateralmente l'Unione europea, come previsto dall'art. 50 del TUE (versione consolidata del Trattato sull'Unione europea, Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, C 115/15, 9/5/2008).
Dall’inizio della crisi della Grecia nel 2010 la Troika (scusatemi, ora si deve dire “le istituzioni internazionali") ha impegnato nel suo salvataggio circa 245 miliardi di euro, ossia più di quanto sarebbe stato sufficiente a quell’epoca a estinguere l'intero debito greco. Tutti sanno che questi fondi non hanno beneficiato i greci ma sono andati quasi interamente a salvare le banche francesi, svizzere e tedesche dalla loro massiccia esposizione ai titoli di stato greci. E nel Financial Times del 21 aprile Martin Wolf demistifica la "mitologia" greca, tra cui il mito che "la Grecia non ha fatto nulla":
"La Grecia ha subìto un enorme aggiustamento dei saldi del suo bilancio pubblico e dei suoi conti con l’estero. Tra il 2009 e il 2014, il saldo primario di bilancio (al lordo degli interessi) si è ridotto del 12 per cento del PIL, il disavanzo di bilancio strutturale del 20 per cento del PIL e il saldo delle partite correnti del 12 per cento del PIL."
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Nietzsche, profezia o innocenza
di Mario Cassa
Tra i Frammenti postumi (nov. ’87 – marzo ’88) di Nietzsche si trova un testo, spesso citato, che porta il titolo di Prefazione (Vorrede).
Testo noto e citato, dicevo, quello di questo Vorrede, ma poche volte misurato nel suo significato di discorso estremo, decisivo; poche volte letto con quello stato d’animo che qui più che mai Nietzsche esige; così come lo dice in apertura del testo stesso: «Le cose grandi esigono che di loro si taccia o si parli con grandezza: con grandezza, cioè cinicamente e con innocenza». Ed ecco dunque, di seguito, il testo dei capoversi 2, 3 e 4:); una delle ultime prefazioni per quella Volontà di potenza che non prenderà mai forma definitiva. I frammenti prenderanno forma infine nell’ultima invenzione artistica, letteraria furente e fulminea: il Crepuscolo degli idoli e l’Anticristo.
Testo insuperabile quello dei frammenti postumi; perché gelidi, nudi d’ogni veste letteraria, d’ogni “menzogna” artistica, d’ogni “opera d’arte”.
– «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nihilismo. Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia dappertutto: tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro.
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Questioni di prospettiva
Un giudizio politico su Expo, Mayday e dintorni
∫connessioni precarie
Il primo maggio è passato, lasciando dietro di sé qualcosa di più delle macchine bruciate, delle vetrine rotte, degli abiti neri abbandonati per strada. Oltre all’Expo trionfalmente aperta, il primo maggio lascia dietro di sé l’immagine plastica di un movimento che, nonostante sia riuscito a mobilitare 30.000 persone per la Mayday, si scopre politicamente impotente.
Alla fine è successo quello che tutti prevedevano, anche se molti avevano detto di volerlo evitare: la logica dell’evento si è imposta su quella del processo, della costruzione, dell’accumulazione e della condivisione di forza. Ora scoprire che i media mainstream si comportano da media mainstream è quanto meno fuori luogo. Ora il botta e risposta contabile sui costi di Expo paragonati ai costi dei danneggiamenti lascia francamente il tempo che trova. Ora risolvere tutto facendo appello alle ragioni della spontaneità arrabbiata è quanto meno insufficiente. Ciò che è successo non può essere risolto grazie a un’estetica del riot che non riesce a coprire i limiti collettivi di progettualità politica, anche perché la definizione corrente di riot si avvicina sempre più pericolosamente a quella di una rivolta magari intensa, ma istantanea e destinata a essere riassorbita senza particolari problemi dall’oggettiva e dispotica supremazia militare e simbolica dello Stato. Se il riot esiste solo nel giorno in cui avviene, a cosa serve il riot?
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Le ragioni economiche della guerra prossima ventura
Militant
Riportiamo il nostro contributo ad una recente iniziativa della Rete dei Comunisti, “Guerra alla guerra”. La questione guerra sarà sempre più l’argomento politico all’ordine del giorno, motivo per cui prima ci attrezziamo, anche culturalmente, a capirne le radici e gli sbocchi, meglio ci troveremo rispetto a chi, come spesso nel corso della storia, si troverà la dura realtà davanti in tutta la sua forza tellurica.
Vorrei iniziare partendo da alcuni dati di uno studio commissionato dalla CIA ad alcuni economisti ed analisti finanziari. Si tratta di un lavoro consultabile online sul sito della Goldman Sachs e che nella sua organicità propone un quadro che, forse meglio di tante altre parole, anticipa il senso del nostro contributo. Secondo questo studio, nel decennio a cavallo del 2050 il PIL della Cina è destinato a superare sia quello della Ue che quello degli USA, mentre quello indiano sarebbe diretto verso un analogo risultato anche se con diversi anni di ritardo: stiamo parlando di due paesi che già oggi rappresentano insieme più del 40% della popolazione mondiale; per contro, la crescita prevista dei paesi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti non sarebbe superiore al 30% per ogni decade, pari a circa il 3% annuo. Si tratta ovviamente di proiezioni e non di premonizioni e come tali vanno considerate, eppure data “l’autorevolezza” della fonte è innegabile che questi dati facciamo emergere alcune questioni di fondo.
Ho voluto citare questo studio perché come collettivo crediamo che la crisi esplosa con il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 debba essere letta anche come crisi dell’egemonia dell’imperialismo statunitense, e che solo da questa prospettiva e dalla susseguente lotta per determinare i nuovi equilibri globali sia possibile provare ad interpretare e comprendere i conflitti in corso e le spinte neocolonialiste che gli fanno da corollario.
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I fondamenti storici e ideologici del razzismo "rispettabile" della "sinistra" francese
di Saïd Boumama
L’affrancamento della parola e dei passaggi all’atto islamofobico dopo gli attentati di gennaio 2015 rilevano l’ampiezza del “razzismo rispettabile” all'interno della sinistra francese. Questo ci porta a riproporre uno dei nostri testi pubblicato nell’aprile 2012 nella rivista Que faire.
Presa di posizione in favore di una legge sul velo a scuola nel 2004, sostegno più o meno dato e più o meno netto agli interventi imperialisti in Afghanistan, Iraq, Libia, tematica dell’integrazione per riflettere sulle questioni legate all’immigrazione, approccio dogmatico della laicità scissa dalle questioni sociali, etc.
Questi recenti esempi di posizioni prese da organizzazioni e da partiti che si definiscono di “sinistra” o di “estrema sinistra” fanno eco ad altri più lontani: assenza o denuncia ambigua della colonizzazione, assenza o ambiguità del sostegno alle lotte di liberazione nazionali negli anni Cinquanta, silenzio assordante protratto nei decenni circa i massacri coloniali dalla conquista del 17 ottobre 1961 passando per i crimini del Madagascar (1947), del Camerun (1955-1960), etc. Le costanti tra ieri ed oggi sono tali che ci sembra necessario ricercarne le cause ideologiche e materiali. Esistono dei retaggi ingombranti che conviene rendere visibili, altrimenti la riproduzione delle stesse trappole ideologiche ricondurrebbe alla stessa cecità ed agli stessi impasse politici.
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Contro La Buona Scuola
di Girolamo De Michele

Partiamo dalla fine: un ministro1 che, dopo aver degradato uomini e donne del mondo della scuola come «precari di seconda fascia, area Cobas, e molti studenti. Mi hanno detto [sic!] legati ai collettivi universitari, ai centri sociali di Bologna», li etichetta come «squadristi» (qui; ma leggi l’intervista a una delle insegnanti contestatrici, qui). Fatto sta che senza quei docenti insubordinati, non ci sarebbe stato alcuno ad ascoltare un ministro appena saltato da un partito all’altro senza render conto ai propri elettori attraverso le dimissioni2 e un’inutile suppellettile che risponde al nome di Francesca Puglisi, porcellata in parlamento (attraverso la quota garantita del Porcellum, per l’appunto) senza passare dalle primarie – una che quando va bene tace, e che purtroppo per il proprio partito in genere apre bocca rubando il lavoro ai figuranti dello Zelig Circus3.
A fronte di una «minoranza aggressiva che strilla», una «maggioranza di docenti abulica» e affetta da diffusa inerzia: che, detto nel contesto in cui queste parole sono state pronunciate, suona come una chiamata alle armi, un’ennesima esortazione alla mobilitazione di quei docenti affetti da servitù volontaria (che, con buona pace di Frédéric Lordon, esiste) dei quali si chiede adesso il sostegno attivo.
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BoT a zero, in attesa del grande botto
di Claudio Conti
In calce articoli di Plateroti dal Sole24Ore e di Martin Wolf dal Financial Times
La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l'altra faccia della medaglia.
Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell'Economia) ha collocato BoT a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta.
L'Italia non è l'unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell'euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%.
Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
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Axolotl
di Luciano Parinetto
«In certi laghi del Messico vive un animale dal nome impossibile fatto un po’ come una salamandra. Vive indisturbato non so da quanti milioni di anni come se niente fosse, eppure è il titolare e il responsabile di una specie di scandalo biologico: perché si riproduce allo stato larvale… Insomma, è come se un bruco, anzi una bruca, una femmina insomma, si accoppiasse con un altro bruco, venisse fecondata, e deponesse le uova prima di diventare farfalla. E dalle uova, naturalmente, nascessero altri bruchi. Allora a cosa serve diventare farfalla? A cosa serve diventare un insetto perfetto? Si può anche farne a meno. Infatti, l’axolotl ne fa a meno (così si chiama il mostriciattolo, avevo dimenticato di dirvelo). Ne fa a meno quasi sempre: solo un individuo ogni cento, o ogni mille forse particolarmente longevo, un bel po’ di tempo dopo essersi riprodotto, si trasforma in un animale diverso… Neotenia, ecco come si chiama questo imbroglio: quando un animale si riproduce allo stato di larva».[1]
Lasciamo andare il contesto della novella Angelica Farfalla di Primo Levi: resta il fatto che un letterato ha visto in questa “eccezione” biologica tale un sapore utopico, da costruirvi sopra la storia di una manipolazione genetica, che parte dal presupposto «che altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l’uomo, abbiano qualcosa in serbo, una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo. Che al di là di ogni sospetto, si trovino allo stato di abbozzi, di bruttecopie e possano diventare altri.. Che, insomma, neotenici siamo anche noi».[2]
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Le forze del lavoro
di Danilo Corradi
Recensione al libro Beverly J. Silver, Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 312*
Le forze del lavoro è un libro di straordinario interesse, frutto di un lavoro collettivo sulle trasformazioni del lavoro e sull’evoluzione del conflitto operaio letto da una prospettiva storico-mondiale.
È un tema cui da anni si interessa un’ampia letteratura, la quale muove dalla domanda cruciale sulle cause della crisi del movimento operaio degli ultimi 30 anni. Una domanda sul passato che interroga il futuro, che potremmo esporre così: è possibile considerare questa crisi come strutturale e dunque definitiva, o siamo di fronte a un’epoca di trasformazione e transizione che collocherà e rilancerà il conflitto operaio su una nuova dimensione?
Quello di Silver è uno di quei rari testi capace di segnare una discontinuità metodologica, prospettica e analitica di cui difficilmente si potrà non tenere conto in futuro.
La prima novità dello studio risiede nello stesso strumento empirico costruito appositamente per analizzare l’evoluzione dei conflitti del/sul lavoro: il World Labour Group. Il WLG è infatti una mappatura storica mondiale dei conflitti operai costruita sulla base della schedatura quantitativo-qualitativa sistematica delle “agitazioni operaie”, costruita attraverso gli articoli apparsi sul «New York Times» e sul «Times» di Londra dal 1870 a oggi.
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Podemos e la democratizzazione della democrazia
Jordi Borja
In Spagna, così come in altri paesi d’Europa, lo scenario politico si presenta vuoto, nonostante in esso si muovano fantasmi di un tempo passato, che – si spera – non potrà più tornare. I vecchi attori transitano per la scena, gesticolano senza grazia e senza senso, declamano una retorica antica che non interesserebbe e alla quale neppure crederebbe il pubblico, se vi fosse presente. In realtà, il teatro della politica è senza pubblico semplicemente perché manca l’opera. Gli attori rimangono in scena unicamente per sopravvivere, per contendersi quel che resta del naufragio. Sono i resti di una democrazia imperfetta e incompiuta, degenerata in un’oligarchia politica autistica, a volte corrotta, quasi sempre in preda all’ansia di sopravvivere: un’oligarchia economica speculativa e depredatrice senz’altro scopo che il lucro, culturalmente meschina e socialmente sfruttatrice. E la società? In fase di ricostruzione come “popolo”, l’opera che manca al teatro sta prendendo forma a partire dalla cultura e dai movimenti sociali, dalle molteplici forme del pensiero critico e delle rivendicazioni collettive, dalle organizzazioni storiche e, soprattutto, da forme organizzative del tutto nuove, anche nel linguaggio. E, ancora, dai nuovi processi di rappresentazione politica di questo popolo che inizia a emergere. Nello scenario politico spettrale compaiono nuovi attori. L’opera ancora non esiste, c’è solo una diversità nei gesti e nella grida, nelle pretese sparse e nelle necessità concrete.
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Le città fallite
Valeria Nicoletti
«Roma ha accumulato 22 miliardi di euro di deficit ed è una città praticamente fallita. Alessandria è stata dichiarata in default per un debito di 200 milioni. Parma ha un buco di bilancio di 850 milioni. Napoli è in stato di pre-dissesto. L’Aquila è ancora un cumulo di macerie, perché la ricostruzione non ha finanziamenti adeguati. Sono 180 i comuni italiani commissariati per fallimento economico». Basta un breve elenco per afferrare il perché del titolo dell’ultimo libro di Paolo Berdini, urbanista, ingegnere e scrittore, da tempo impegnato contro il consumo del suolo italiano, autore de Le città fallite, edito da Donzelli (2014).
«Le città, purtroppo e per fortuna, non sono equazioni matematiche, dove è sufficiente far quadrare una formula per risanare i bilanci. Le città sono, prima di tutto, luoghi ed esistenze». Così, attraverso un’accurata parabola storica, Berdini ricostruisce l'involuzione delle metropoli italiane, dall'avvento di Tangentopoli al recente Sblocca Italia fino allo scempio delle grandi opere contemporanee, raccontando come la città, vittima di una scellerata deregolamentazione, si sia trasformata gradualmente in un conto economico, o peggio, un’impresa, dove basta licenziare gli elementi disturbatori per risolvere il problema.
«Le città del neoliberismo diventano sempre più grandi e più ingiuste, perché l’economia dominante ha smesso di investire sulle città e sui territori» che, perdendo ogni connotazione sociale, si mutano in luoghi sempre più simili a campi neutrali dove far circolare flussi di denaro, «esclusivi oggetti economici dominati da flussi di investimento che prescindono dalle specificità dei luoghi e dai bisogni della popolazione».
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Crisi, quando a crescere è solo la stagnazione
di Marco Bertorello
Come un mantra il governo ripete che siamo in ripresa economica, in realtà – dati alla mano – la crescita è minima e sul tesoretto a disposizione si sta aprendo un gran dibattito mediatico e popolare su come utilizzarlo. Ma quello in corso è davvero un nuovo inizio oppure siamo ancora in fondo al tunnel, con la luce sempre lontana?
Quell'araba fenice della crescita
Non tutti si accodano al coro enfatico sul ritorno della ripresa1. Il Sole 24 Ore, ad esempio, commentando i recenti dati dell'Istat e del Centro studi di Confindustria sulla produzione (-0.2% a febbraio su base annua e +0,1% a marzo rispetto al mese precedente), scriveva che la ripresa «per l'economia italiana, assomiglia in modo preoccupante alla descrizione fatta dallo scrittore Edoardo Galeano a proposito dell'utopia: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là»2. Insomma i risicati decimali positivi o negativi non ci dicono un bel niente se non vengono contestualizzati in una serie di lungo periodo e soprattutto se non vengono incasellati nel quadro generale dell'economia mondiale.
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Slow Food, Coop e Eataly: la sinistra di facciata
Due chiacchiere con Wolf Bukowski*
Dopo la recente pubblicazione del suo ultimo libro, La danza delle mozzarelle (Consulenza editoriale Wu Ming 1, Edizioni Alegre), Wolf Bukowski è apparso sul Corriere, Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano, è stato ospite di Radio popolare e a Milano del Festival Statale Antifascista e Antirazzista insieme a Genuino Clandestino. Scrittore e guest blogger del sito dei Wu Ming, Giap, nel suo libro non lascia spazio a sottintesi: quello di Slow Food e Eataly è un sogno “tramutato in un incubo turbocapitalista fatto di ipermercati, gestione privatistica dei centri cittadini, precarietà per i lavoratori”.
In passato hai scritto di memoria, territorio e Grandi Opere. Com’è nata l’idea di questo libro? Qual è il messaggio che volevi veicolare e a chi è indirizzato?
L’idea nasce da una parte per un mio interesse verso le questioni del cibo – soprattutto per i suoi aspetti politici, sociali ed economici – e dall’altra per delle ricerche che avevo fatto sulla politica italiana negli anni ’80. La vicenda di cui parlo nel libro si interseca con quelle della sinistra italiana nelle sue varie accezioni. E infatti racconto la storia del Manifesto, del Gambero Rosso e i rapporti che si costruiscono tra associazioni che nascono a sinistra come Slow Food, con aziende che hanno un rapporto con la sinistra istituzionale come le Coop e infine con Eataly che adesso è quasi identificata con la sinistra del governo. Vedevo che alcune loro scelte erano sempre più orientate verso il mercato e la mistificazione.
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La Resistenza al nazi-fascismo
Una scelta che «non si poteva non fare»
Matteo Cavalleri
Gli anniversari a cifra tonda portano spesso con sé il rischio di nevrosi commemorative, i cui sintomi consistono nel manifestare con estrema intensità quelle tendenze celebrative museificanti e agiografiche – comunque sempre presenti – che comportano la corrosione del significato stesso che le date costudiscono. Questo settantesimo della Liberazione sembra non sfuggire alla diagnosi. Ecco perché può risultare politicamente decisivo pensare il 25 aprile dalla prospettiva dell’8 settembre 1943. Un gesto di strabismo teso a cogliere – nel tempo difficile, denso e sospeso del decidersi per la Resistenza – il portato di verità che ha innervato l’intera esperienza della lotta al nazi-fascismo. Che ha espresso una pratica d’azione e pensiero in grado di reggere il peso della scelta e della parte. E che ancora ci interpella.
Licenziando, nell’aprile del 1945, la prefazione al suo Un uomo, un partigiano lo storico – e poi militante politico – Roberto Battaglia si presenta al lettore con un rivelatore cameo biografico: «l’8 settembre 1943 ero un tranquillo studioso di storia dell’arte, chiuso in un cerchio limitato di interessi e di amicizie; l’anno dopo, l’8 agosto, ebbi il comando d’una divisione partigiana che ha dato più di un fastidio al tedesco».
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Di cosa parliamo quando parliamo di sinistra?
Edoardo Greblo*
Parafrasando Riggan Thomson, che in Birdman dirige e interpreta la celebre pièce di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, ci si potrebbe chiedere: di cosa parliamo quando parliamo di sinistra? L’universo della sinistra è infatti quanto di più pluralistico si possa immaginare, poiché al suo interno convivono uno spirito statalistico e uno individualistico, una vocazione libertaria e una autoritaria, una tendenza produttivistica e una ecologista, una inclinazione universalistica e una localistica, una inclinazione alla scientificità e una all’utopismo, una propensione rivoluzionaria e una riformista. Il che spiega come sia difficile, se non impossibile, individuare una qualche continuità organizzativa e ideologica tra le varie forze che si sono storicamente collocate a sinistra dello schieramento politico, oltre che il tasso altissimo di conflittualità tra le sue diverse anime, spintosi talvolta sino a divaricazioni laceranti.
Eppure, nonostante ciò, è possibile individuare una caratteristica definitoria in grado di unificare una costellazione di forze i cui ideali si presentano così radicalmente diversificati: si tratta dell’idea che la sinistra non sia solo una delle parti che alimentano la vita democratica, non sia solo, cioè, il luogo dello spazio politico contrapposto a quell’altro luogo dello spazio politico che è occupato dalla destra. E questo perché la vita della sinistra coincide con la vita della politica, nel senso che essa è la “parte” che attribuisce alla politica il compito di imporre regole e norme all’economia e al sistema sociale, mentre la destra, al contrario, ritiene che la politica sia un male necessario e che la sua funzione ordinativa vada ridotta allo stretto necessario.
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Cuba ha scelto il male minore
Nel caos mondiale il Sud America offre il quadro più saldo
F. Sebastiani intervista Luciano Vasapollo
Luciano Vasapollo, professore di Metodi di Analisi dei Sistemi Economici, Sapienza Università di Roma; Delegato del Rettore per i Rapporti Internazionali con l’ America Latina e i paesi dei Caraibi direttore Riviste PROTEO e NUESTRA AMERICA; direttore di CESTES centro studi dell’USB-Unione Sindacale di Base; Coordinatore, con Rita Martufi, del Capitolo Italiano della Rete Internazionale di Intellettuali, Artisti, Movimenti sociali in Difesa dell’ Umanità .
La nuova fase di relazioni diplomatiche tra USA e Cuba arrivano in uno scenario internazionale che dire caotico è davvero poco.
Il sistema capitalista utilizza tutti i metodi a sua disposizione per risolvere le crisi. Penso che questa sia una crisi di sistema, è la crisi del modello capitalista e non hanno ancora trovato il modo per risolverla. Dobbiamo dire che, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino ad oggi, ci sono state molte guerre di espansione imperialista in tutto il mondo. Il XXI secolo è caratterizzato da una forte competizione globale inter-imperialista nella quale gioca ancora un ruolo centrale quello degli USA, ma va rafforzandosi anche l'imperialismo europeo che oggi come oggi, per noi, ha un forte impatto economico, commerciale e sociale. Le cose non sono necessariamente quello che appaiono.
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L’ultima strage
∫connessioni precarie
L’ultima strage avvenuta nel canale di Sicilia impone di aprire un dibattito serio prima di tutto nei movimenti, esistenti o in via di organizzazione, che si pongono l’obiettivo di una trasformazione delle condizioni presenti. Così come sul piano del debito e delle politiche sociali il caso greco ha riaperto una discussione sul tema del rapporto tra movimenti e istituzioni e, di rimando, sul significato di una politica europea, ciò che avviene ormai regolarmente nel mar Mediterraneo deve essere assunto come punto di partenza per scuotere i discorsi, gli equilibri e i ragionamenti sulla posizione politica delle migrazioni e della mobilità. Muovendo da una constatazione: in questo caso a costituire i movimenti non sono le tranquillizzanti forme organizzate del dissenso sociale, ma sono le centinaia di migliaia di uomini e donne che fanno della mobilità il loro radicale e ingovernabile appello alla libertà. Da qui bisogna partire, e qui bisogna tornare, per costruire una prospettiva finalmente nuova. Bisogna però non farsi illusioni: non c’è, e non ci sarà, una soluzione né immediata né semplice. C’è però una grande differenza tra il convivere con questi disastri continuando a inseguire chimere consolatorie e comprendere che l’iniziativa politica deve fare i conti con la realtà materiale dei processi globali. In questo caso, la misura della tragedia non deve cancellare le aspirazioni e il coraggio di chi è disposto a sfidarla pur di raggiungere il proprio obiettivo di libertà. Non possiamo permettere a strutture criminali ben organizzate e perfettamente in grado di trarre vantaggio da un quadro normativo ugualmente responsabile di deviare il nostro sguardo dai veri protagonisti di queste vicende.
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