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Industria 4.0, una lettura controcorrente
Roberto Romano
Il processo indotto dalla trasformazione di Industria 4.0 è bidirezionale e non unidirezionale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. E la politica economica e industriale giocheranno un ruolo fondamentale
Industria 4.0 e la Storia
Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx[1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.
Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata[3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico.
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L’illusione di essere élite
di Anna Momigliano
Ritratto della classe aspirazionale, tra meccanismi di compensazione, negazione e lotta di classe anagrafica
Quando mia figlia ha finito la prima elementare, un genitore della classe ha proposto di fare la cena di fine anno in un all you can eat: che bella idea, ho risposto, non avendo io mai messo piedi in un all you can eat. Poi, però, giunta al ristorante, mi sono bastati pochi minuti per sentirmi fuori posto: tutto mi sembrava triste e pacchiano e insensato. Abbiamo mangiato del pessimo sushi e ogni adulto ha sborsato trenta euro, più o meno la stessa cifra che spendo per mangiare decentemente. Prima, quando uscivamo con qualche compagno di classe, andavamo in qualche hamburgheria nobilitata (nella nostra zona ce ne sono tre, di cui due in aree pedonali dove si possono sguinzagliare i bambini) oppure a farci un brunch domenicale, tutte operazioni altrettanto economiche e meno alienanti. Il fatto è che nell’ultimo anno abbiamo cambiato scuola, spostandoci molto più lontano dal centro di Milano, ed è stato un cambiamento antropologico prima ancora che geografico.
Nella materna all’interno della cerchia dei navigli che frequentavamo, le mamme giovani vestivano Muji e Petit Bateau, le tate dispensavano gallette di riso e frutta biologica, e all’uscita si affollavano curatissime nonne in bicicletta. Nella nuova scuola il tasso di babysitter è calato, i bambini fanno merenda con le Camille del Mulino Bianco, le mamme più curate sfoggiano fondotinta opachi e bauletti firmati. È cambiato il contesto socio-economico, ma non è soltanto una questione di reddito: certo, le famiglie del centro tendono a essere più benestanti, però non è sempre così.
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Capitalismo concreto, femonazionalismo, femocrazia
George Souvlis intervista Sara R. Farris*
George Souvlis: Potresti presentarti descrivendo le esperienze formative (accademiche e politiche) che più ti hanno influenzato?
Sara Farris: Sono cresciuta in un piccolo paese di 12.000 persone in Sardegna. Lì mi sono politicizzata ed è sicuramente in quel periodo – tra i 12 e i 18 anni di età – che ho vissuto alcune delle più importanti esperienze politiche ed accademiche della mia vita. Vengo da una famiglia di operai; come molti della loro generazione, i miei genitori hanno investito molto nell’educazione per assicurare mobilità sociale alle loro figlie. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia in cui il dibattito politico – o meglio – i monologhi di mio padre su avvenimenti di politica interna ed internazionale erano di routine durante la cena. Mio padre era in qualche modo socialista, credeva fermamente nella giustizia sociale ma era molto scettico circa la possibilità che i lavoratori – per come li conosceva lui – sarebbero stati in grado di apportare qualche tipo di cambiamento sociale.
Ad ogni modo, quel che cerco di dire è che l’ambiente familiare mi ha sicuramente esposto all’importanza dello studio e alle idee di sinistra. Successivamente ho frequentato il liceo classico nel mio paese.
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Filosofia della precarietà del filosofo odierno
Recensione di ‘Filosofia precaria’ di G. Stamboulis
di Francesco Brusori*
Giorgio Stamboulis, Filosofia precaria, il Vicolo, Cesena 2017
Il saggio di Giorgio Stamboulis introduce subito un quesito stringente, che richiede un ingresso ex abrupto del cogito:«cos’è oggi la filosofia?» (p. 13). E altrettanto violentemente si scarica la risposta: «una grande assenza» (ibid.). Infatti sembra che eminentemente ‘contemporaneo’ sia il problema della filosofia, ovvero il fatto che la filosofia stessa costituisca una grande problematica.
Seguendo l’autore, è evidente che lo status proprio della filosofia versi in una condizione critica. Essa, oggigiorno, si presenterebbe quasi del tutto schiacciata dall’immane peso del suo aulico passato e pronta a soccombere dinnanzi all’orizzonte futuro. Forse perché d’altronde un sapere troppo vasto annienta con la stessa naturalità con cui una tradizione troppo venerabile finisce per immobilizzare ogni intento. In una tale situazione non resta che il naufragio. O meglio: di fronte alla grandezza vincolante del trascorso, risulta – per parafrasare un celebre verso di G. Leopardi – «dolce il naufragar» nel mare magnum dell’avvenire, nel quale però si penetra senza alcuna guida capace di indicare la via nel nuovo stato di cose. E la perdizione della coscienza filosofica non può che avvenire nella persona del filosofo.
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“Prima bisogna vincere nel senso comune della gente”
Pablo Iglesias intervista Alvaro Garcia Linera
Pubblichiamo questa lunga intervista di Pablo Iglesias, portavoce di Podemos, con il Vicepresidente della Bolivia, Alvaro García Linera nella nota trasmissione “Otra vuelta de tuerka”. Un’intervista con molte idee e contributi per chi osa guardare, vedere e modificare la realtà. Un viaggio tra esperienze rivoluzionarie concrete e formazione delle idee necessarie per cambiare le cose, senza schematismi ma tenendo la barra dritta sul progetto rivoluzionario. Una intervista-conversazione che aiuta a comprendere come si sono formati i gruppi dirigenti rivoluzionari in America Latina negli anni ’90 e che oggi, in Bolivia come in Venezuela, sono uomini alla guida di governi popolari.
* * * *
Pablo Iglesias: Il nostro ospite di oggi è matematico, è stato guerrigliero, è stato in carcere ed è uno dei pensatori marxisti più dotati dell’America Latina. È anche vicepresidente della Bolivia. A “Otra Vuelta de Tuerka” : Álvaro García Linera. Álvaro García Linera, grazie per essere venuto a “Otra Vuelta de Tuerka”, compagno.
Álvaro García Linera: Pablo, grazie per l’invito. Per me è un gran piacere partecipare al tuo programma.
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Paradossi del mondo attuale: l’impraticabilità dei trattati globali nell’era della mondializzazione
di Gianfranco Greco
“Immagino l’economia mondiale come qualcosa
di simile a un’auto in corsa senza
conducente e bloccata su una corsia lenta.”
(David Stockton, ex burocrate della FED)
Stando alle considerazioni di Stockton è giocoforza ritenere come la narrazione propinata a suo tempo al mondo tutto non abbia retto alla verifica dei fatti; dal che consegue che la mitica spinta propulsiva della globalizzazione pare essersi già esaurita. Destino infame quello delle “spinte propulsive” destinate – come ogni cosa terrena, d’altronde – all’usura del tempo.
Erano di tutt’altro avviso tuttavia, a suo tempo, gli apologeti della New Economy per i quali la progressiva abolizione delle barriere commerciali, la crescente mobilità internazionale dei capitali, la liberalizzazione del mercato del lavoro, in una: le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione si sarebbero tradotte in una progressiva integrazione economica tra paesi, unitamente all’ineludibile corollario di una crescita senza fine a livello globale . Una visione ottimistica e semplificante prendeva il posto della complessità irriducibile delle cose.
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Le cronache del nostro scontento II
2013, il bis di “re Giorgio” e quell’austerità “che fa male”
di Giorgio Gattei
Qui la prima parte
1. Le elezioni politiche del 2013 non hanno fatto vincere il PD che, pur risultando il primo partito, per formare un nuovo governo in sostituzione di quello dimissionario di Mario Monti si dovrebbe accordare col PdL oppure col Movimento5Stelle. Ma con quale dei due? E’ una situazione inedita che Jim O’Neill della Goldman Sachs si azzarda ad interpretare a pro’ del “partito” di Grillo, il che potrebbe anche essere «l’inizio di qualcosa di nuovo» (R., 2.3.2013). Però, a gelar subito l’entusiasmo, provvede Mediobanca in un rapporto ai suoi investitori, dal titolo esemplare La tempesta perfetta, invitandoli a non trasformare «la commedia all’italiana in una tragedia greca». Forse è meglio stare alla finestra in attesa che se la sbrogliasse il Capo dello Stato, dando una probabilità del 15% all’accordo PD-M5S, del 10% al ritorno alle urne e del 70% all’alleanza PD-PdL (R., 27.2.2013).
Contemporaneamente va in scadenza il settennato di Giorgio Napolitano e si apre un vuoto di presenza al Quirinale. Si decide che dapprima si sostituisca il Presidente della Repubblica e poi sia lui a indicare il successore di Monti, il cui governo nel frattempo viene congelato. Però non è una cosa facile far salire al Colle il candidato prescelto dal PD se il primo, Franco Marini, viene “impallinato” il 18 aprile al primo scrutinio dal suo stesso partito.
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Una scuola militante
di Girolamo De Michele
Nei giorni scorsi, Alberto Asor Rosa ha scritto un breve, ma denso elzeviro sullo stato presente del sistema scolastico, il cui titolo è inequivoco: “La scuola nelle mani dei barbari”.
Dopo aver stigmatizzato nel merito e nelle motivazioni la sperimentazione del “liceo breve” che prende l’avvio in questi giorni – «la riprova che siamo nelle mani dei barbari. Anzi, più esattamente, di barbari incolti» –, ricordato che «la spesa d’investimento nella cultura e nella formazione è drammaticamente sempre più bassa in Italia», e sottolineato come sia incongruo il presupposto che l’accorciamento del percorso scolastico troverebbe giustificazione in un raccordo col mercato del lavoro, Asor Rosa va al cuore del problema, chiedendosi a cosa serve la scuola media superiore.
Dopo anni nei quali prima si ridimensionava la scuola, e poi la si accusava di non riuscire a svolgere il proprio compito – ragione per ulteriori ridimensionamenti punitivi, in un circolo vizioso nel quale non distingui più ministro e governo “di destra” e “di sinistra” – è rinfrescante, quantomeno per la mente, vedere che qualcuno è ancora capace di rimettere il problema sui propri piedi, e questi su un suolo saldo.
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La ragione neoliberista e i suoi critici
Al tempo della Globalizzazione
di Giorgio Mele
La fine del compromesso socialdemocratico e il mercato globalizzato mettono in discussione uguaglianza e democrazia. La crisi aperta dal 2008 svela i limiti del modello, ma non emerge ancora un'alternativa di sistema. Le diverse analisi critiche e le proposte di intervento elaborate da Picketty, Stiglitz, Rosanvallon, Streeck, Dardot e Laval
Quali sono gli elementi che caratterizzano questa epoca detta della globalizzazione neoliberista?[1].
A me sembra che si possano riassumere in questo modo: a) il dominio del mercato; b) l'eclissi della uguaglianza; c) la crisi della democrazia; d) la scomparsa di un disegno alternativo allo stato di cose presente.
Come evidente i quattro elementi non possono essere presi singolarmente, ma sono profondamente intrecciati fra loro e tutti concorrono al dominio del neoliberismo che si presenta non solo come la potenza, dominante, ma come la struttura naturale del mondo, o meglio, la ragione[2] del mondo.
Marx nella Ideologia tedesca nel 1845 scrive con qualche capacità previsionale e come se parlasse a questo secolo: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto Spirito del mondo, Weltgeist, etc.) a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale".[3]
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Il referendum catalano svela le ambiguità di Podemos e Colau
di Marco Santopadre
Dopo aver incubato per alcuni anni, nei giorni scorsi la maggioranza indipendentista del Parlament – i liberal-conservatori del PDeCat, i socialdemocratici di Erc e la sinistra radicale della Cup – ha dato avvio ad un processo di ‘disconnessione’ politica ed istituzionale da Madrid e dalla sua legalità attraverso l’approvazione di due importanti leggi.
La prima convoca il Referendum per il 1 Ottobre, istituisce una commissione elettorale catalana, formula il quesito (che sarà in tre lingue: catalano, castigliano e aranese) e chiarisce i criteri di selezione degli aventi diritto al voto. Il secondo provvedimento stabilisce invece i caratteri e le forme della fase di transizione che seguirebbe ad una eventuale affermazione dei Sì: la proclamazione di una Repubblica Catalana e poi l’entrata in vigore di una Costituzione provvisoria improntata ad una sostanziale continuità con quanto stabilito dall’attuale Statuto di Autonomia, prima che un’Assemblea Costituente ne approvi una versione definitiva.
Ovviamente i partiti nazionalisti spagnoli – popolari, socialisti e Ciudadanos – e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani il diritto all’autodeterminazione.
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Norman Bethune
di Eros Barone
La fusione organica tra medicina e comunismo nel crogiuolo ardente della passione internazionalista
1. Una vita breve e straordinariamente intensa
Norman Bethune: chi era costui? L’‘incipit’ di carattere interrogativo e di sapore manzoniano non è fuori luogo quando un nome ricompare dopo tanto tempo. La risposta è la seguente: Norman Bethune ha un posto nella storia per il contributo che ha dato, in qualità di medico, oltre che alla ricerca scientifica, alla causa dell’emancipazione dei popoli oppressi.Eppure, quando il Nostro nasce il 4 marzo 1890, figlio di un pastore protestante presbiteriano e nipote di un nonno medico, a Gravenhurst, tranquilla cittadina sulle rive di un bel lago a nord di Toronto, nulla fa presagire la sua futura carriera. Sennonché ciò che affascina il giovane Norman è la medicina come ricerca scientifica e impegno sociale: un binomio che è la chiave di lettura della sua personalità e di tutta la sua attività. Nel 1915 Bethune interrompe gli studi all’università di Toronto per partire volontario come portantino infermiere nella prima guerra mondiale. Nel 1917, a causa di una ferita, viene trasferito in Inghilterra; qui presterà servizio nella marina britannica come tenente medico sino al completamento degli studi e al conseguimento della laurea in medicina (1919).
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Dall’ideologia politicamente corretta al populismo di destra. Che fare?
Fabrizio Marchi
Come ho già avuto modo di spiegare in diverse occasioni, dopo il crollo del muro di Berlino il sistema capitalista a trazione americana ed europea ha messo in panchina il vecchio apparato valoriale ideologico sostanzialmente fondato sul matrimonio con la Chiesa e la religione per assumere l’ideologia politicamente corretta come sua ideologia di riferimento.
Ho già ampiamente trattato le ragioni che hanno determinato questo processo e non ci torno.
Ora, cosa sta accadendo da alcuni anni a questa parte? Sta accadendo ciò che era inevitabile accadesse. E cioè che il bombardamento ideologico-mediatico sistematico politicamente corretto ha prodotto il suo (falso) “antagonista” o meglio la sua contraddizione, e cioè il neopopulismo di destra.
Che cos’è il neopopulismo di destra e perché è un falso antagonista del sistema capitalista? Facciamo un passo indietro, o meglio una premessa.
Il processo di globalizzazione capitalista ha visto prevalere il grande capitale, in particolare finanziario ma non solo, multi e transnazionale, rispetto ad alcuni settori delle vecchie borghesie nazionali, che hanno gradualmente perso la loro egemonia politica che si fondava sul controllo e appunto sulla capacità di essere egemoni all’interno dei vecchi “stati-nazione”.
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Michael Hardt e Toni Negri. Assembly
Pietro Bianchi
A Greensboro, in North Carolina, l’1 febbraio 1960, quattro studenti del primo anno della North Carolina A&T State University – Joseph McNeil, Franklin McCain, Ezell Blair Jr., e David Richmond – entrano in un cosiddetto five and dime store di Woolworth (un’azienda che oggi conosciamo con il nome di Footlocker), uno di quei negozi che vendevano vari prodotti per la casa scontati a pochi centesimi. Comprano un dentifricio e altre piccole cose, vanno alla cassa, li pagano e poi si avvicinano al lunch counter del negozio per ordinare un caffè. Quel caffè però non gli verrà mai servito perché contrariamente al resto del negozio, i lunch counter di Woolworth, così come accadeva in molti altri negozi nel Sud degli Stati Uniti, erano “white only”, rifiutavano cioè il servizio alle persone di colore. Il manager chiede allora ai quattro ragazzi di andarsene ma quelli che poi verranno soprannominati come gli A&T Four decidono invece di fare un’azione eclatante: rimangono nel negozio fino alla chiusura. Il giorno dopo accade lo stesso, questa volta però ai quattro ragazzi si uniscono decine di altri studenti di colore di altre università della zona che danno vita a quella che diventò una delle più importanti iniziative politiche del Civil Rights Movement.
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Samir Amin, “Lo sviluppo ineguale”
di Alessandro Visalli
Premessa: gli studi regionali
Il libro di Samir Amin è del 1973, e si inquadra come frutto maturo nel contesto di quei dibattiti sullo sviluppo che si sono dispiegati in tutti gli anni sessanta come reazione alle tradizionali teorie quantitative neoclassiche, imperniate su una nozione di spazio economico completamente astratto e formale. Già Francois Perroux aveva smosso gli approcci che tentavano di spiegare gli assetti spaziali a partire dalla nozione di equilibrio grazie alla semplice osservazione che di fatto l’assetto spaziale economico è caratterizzato da squilibrio. Cioè è conformato dalla presenza di ‘centri’ e ‘periferie’ (come vedremo nozioni centrali nell’analisi di Amin). Le relazioni tra ‘centri’ e ‘periferie’, è il punto, sono definite da scambi di equilibrio in linea di principio eguali, o suppongono relazioni ineguali di sfruttamento? La questione che pone questa domanda è al centro delle cosiddette “scienze regionali”, avviate negli anni quaranta da Alfred Loesch, ma profondamente rinnovate negli anni sessanta sulla base di una rilettura che fa uso anche di categorie marxiste.
Al centro l’idea che lo sviluppo economico, a tutte le scale, non sia un processo lineare nel quale spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si producono diseguaglianze, e quindi potere.
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La critica di Pareto a Marx: una abborracciatura
di Andrea Vitale
Sono passati 150 anni dalla pubblicazione della prima edizione de Il Capitale di Marx, ma ancora quest’opera crea problemi e preoccupazioni ai padroni di tutto il mondo, che in tutti i modi cercano vanamente di dimostrarne l’inutilità e la fallacia. Un ultimo esempio di questo vero e proprio loro chiodo fisso è la recente pubblicazione da parte dell’editore Aragno dello scritto di Vilfredo Pareto sull’opera di Marx, intitolato anch’esso Il Capitale. In realtà si tratta della ristampa dell’Introduzione che il Pareto fece in francese alla raccolta di brani del Libro I de Il Capitale curata dal genero di Marx, Paul Lafargue e pubblicata dall’editore Guillaumin di Parigi nel 1893 [1], opera che fu tradotta per intero e pubblicata un anno dopo in Italia dalla casa editrice Remo Sandron di Palermo [2]. Ma, addirittura prima di questa edizione, questa Introduzione di Pareto fu pubblicata in italiano in sei puntate sulla rivista L’Idea liberale dal titolo Studio critico della teoria marxista, dal giugno al settembre 1893 [3].
Contro l’attualità di Marx nella crisi i borghesi rispolverano il vecchio Pareto
La scelta dell’editore Aragno di ripubblicare questo scritto di Pareto[4] è chiaramente dettata da motivi ideologici, visto che è lo stesso Pareto a definirlo “un lavoretto che non ha nessuna importanza economica”[5], ma naturalmente ha destato l’immediato e compiaciuto entusiasmo della stampa.
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Computer umani
di Domenico Gallo
Computer umani e il problema della computazione. Note attorno My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles
“I discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo
sensibile, e non sopra un mondo di carta”.
Galileo Galilei
Il saggio When Computer Were Human di David Alan Grier è probabilmente la fonte più esaustiva sulla nascita e l’uso del termine “computer”. “Prima che i computer fossero delle macchine, essi erano delle persone. Erano uomini e donne, giovani e vecchi, istruiti e gente comune. Il contributo di questi lavoratori convinse gli scienziati dell’importanza che poteva avere la capacità di eseguire calcoli molto lunghi e complessi. Molto tempo prima che Presper Eckert e John Mauchly costruissero alla Moore School of Electronics il calcolatore ENIAC e Maurice Wilkes progettasse EDSAC alla Manchester University, i computer umani avevano già creato la disciplina della computazione. Si trattava di un sistema di metodologie numeriche che avevano testato su problemi pratici. I computer umani non erano degli eruditi o dei geni matematici, molti di loro conoscevano poco più che i fondamenti della matematica. Solo alcuni potevano essere avvicinati agli scienziati per cui lavoravano, e in diverse epoche e situazioni avrebbero potuto diventare essi stessi degli scienziati se la carriera scientifica non gli fosse stata preclusa per motivi di classe, educazione, genere o etnia” (Grier, 2001).
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Oltre la crisi del Comunismo
Giovanni Mazzetti
Quando, sul finire degli anni ottanta, la crisi del movimento comunista divenne palese, il gruppo di studio che poi si sarebbe trasformato nell’Associazione per la Redistribuzione del Lavoro decise di confrontarsi criticamente con quanto stava succedendo. Ne scaturì un testo, poi pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1993, col titolo Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario.
In quella ricerca si approfondirono le ragioni della crisi, cioè il processo negativo che era sfociato nella dissoluzione di quel movimento. Ma si gettarono anche le basi per avviare una riflessione su quello che avrebbe potuto essere il processo positivo in grado di garantire il superamento della crisi. Una riflessione che ovviamente richiese molti anni di lavoro. Riproponiamo qui, con aggiustamenti marginali, l’introduzione a quel testo, come preambolo alla prossima pubblicazione a puntate, nei prossimi quaderni, di un testo non ancora stampato, intitolato Alla scoperta della libertà che manca. Una bussola per orientarsi nella crisi e dar vita ad una politica alternativa.
Crediamo che quest’ultimo lavoro contenga un coerente svolgimento del progetto che ci eravamo dati nell’ormai lontano 1993, anche se le condizioni affinché esso trovi una rispondenza nella cultura contemporanea – anche in quella critica – sembrano ancora mancare.
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I trattati e l’euro producono il nuovo nazionalismo degli stati
di Domenico Moro
Relazione all’incontro del 9 settembre a Roma “Unione europea, lavoro, democrazia, Contributi per il programma dell’alternativa”
Spesso le critiche all’Europa e le proposte di uscita dall’euro sono accusate, prima ancora di essere economicamente irrealizzabili, di favorire lo sviluppo del nazionalismo. Eppure, sono proprio i trattati europei e il sistema dell’euro ad aver contribuito in modo determinante allo sviluppo del nazionalismo e della xenofobia a livello di massa per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale.
Quando parliamo di nazionalismo, però, non bisogna intendere esclusivamente il senso comune diffuso o l’ideologia nazionalistica dei partiti di estrema destra bensì un comportamento concreto – a livello politico e economico - dei singoli stati e dei singoli governi nazionali, che viene poco percepito, perché nascosto dietro una dichiarata ideologia cosmopolita e neoliberista.
Il nazionalismo è il prodotto dei vincoli alla spesa pubblica, dei cambi fissi, e dell’autonomia della banca centrale europea, che hanno non solo accentuato gli effetti negativi della crisi sistemica capitalistica, ma hanno soprattutto creato o aumentato i divari tra stati e economie nazionali. Si è creata una forbice, sempre più larga, tra la Germania, favorita dall’introduzione dell’euro, e la maggior parte dei Paesi Uem, compresi Italia, Spagna e Francia. A essere messi in difficoltà dall’euro sono stati anche paesi che non hanno aderito all’euro, tra i quali in primo luogo il Regno Unito.
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Il popolo introvabile e la tradizione del PCI
di Claudio Bazzocchi
... Ora, il consumo sfrenato e il godimento permettono invece la costituzione di un soggetto intero, compatto, non diviso, che prova a coincidere con se stesso nel divertimento continuo e nelle connessione virtuale senza sosta. Allora, non può che riscuotere successo una politica e dei politici anti-politici che affermano che non c'è più bisogno della mediazione - indicata anzi come il luogo della corruzione e della mancanza di trasparenza (o dell'inciucio per dirla in gergo giornalistico) - e dell'elaborazione di un'autorità simbolica, tanto che ogni istanza deve arrivare direttamente in Parlamento
Negli anni passati mi sono occupato del rapporto tra intellettuali e popolo, tema che non poteva mancare nella riflessione di uno studioso formatosi nella tradizione del comunismo italiano. Ho ripensato a quei lavori in questi giorni, nel momento in cui una parte della sinistra sta cominciando a teorizzare l'idea che la crisi della stessa sinistra si supera ascoltando il popolo, dal momento che dietro ogni populismo ci sarebbe un popolo.
Provo qui a dare un piccolo contributo per dire cosa non mi convince della teoria che dietro ogni populismo ci sia un popolo e per ricordare che il PCI, nella sua storia, fu popolare e "immoralista" ma mai plebeo e sempre teso a pensare a un rapporto dialettico tra intellettuali e popolo, rimandando a due lavori degli anni scorsi: "Riconoscimento, libertà e Stato" (ETS 2012), "L'umanità ovunque" (Ediesse 2013).
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La sinistra fra vincoli economici autoimposti e vincoli veri
Intervento al convegno su UE, lavoro, democrazia
di Sergio Cesaratto
Pubblichiamo il mio intervento all'incontro di cui ai due post precedenti qui e qui. La registrazione è qui (gli interventi sono distinti per nome, h/t a Radio radicale). Tutte le relazioni sono state interessanti, di grande livello, e convergenti; discussant e soprattutto dibattito piuttosto deludenti (tranne Domenico Moro); i due politici (a parte Fassina) molto deludenti (a parte la presenza fuggitiva). Ciò che mi colpisce è che fra il popolo della sinistra del 2% e i politici che esprime da un lato, e l'intellighenzia di sinistra dall'altro vi sia ora uno iato, come testimonia per esempio questa intervista a Streeck. Anna Falcone ha fatto affermazioni del tipo: «Il capitalismo globale non si può contrastare se non con un'operazione di grande democratizzazione globale» e poi «Tutto il mondo deve essere aiutato a vivere laddove le popolazioni decidono liberamente di vivere». Pippo Civati che dopo la costituente italiana (della sinistra) faremo la costituente europea. Dove si va con questo cosmopolitismo? Alcuni interventi hanno sollevato il problema ambientale, che è certamente un'emergenza più che seria. Tuttavia, affermazioni del tipo "torniamo a una economia di sussistenza" o "blocchiamo gli investimenti" non aiutano certo. Così come dare contro lo Stato nazionale in nome di un globalismo astratto. Certamente il problema ambientale è globale, ma è al riguardo necessaria un'analisi geopolitica sugli interessi che si muovono in campo ambientale. Lo Stato nazionale democratico è strumento di azione per costruire la cooperazione azione e internazionale sulla base del consenso del proprio popolo. La denuncia non basta, serve più analisi, anche da parte degli economisti naturalmente.
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Cile. I nodi non sciolti di quell’11 settembre
di Riccardo Rinaldi
Questa storia non si chiude come dovrebbe. L’11 marzo del 1990 il dittatore cileno Pinochet lascia la carica presidenziale dopo 17 anni da quell’11 settembre del 1973 in cui con un violento colpo di stato militare aveva rovesciato il governo di Allende, la prima esperienza di socialismo democratico. Al contrario del suo inizio, la fine della dittatura avvenne in maniera pacifica e istituzionale, con un referendum tenuto nel 1988, in cui l’opposizione democratica impose il proprio NO alla continuazione del regime militare con il 55% dei voti; non propriamente una vittoria schiacciante della democrazia sulla dittatura. Ma il lungo regime di Pinochet è in qualche modo sopravvissuta alla sua forma contingente di dittatura, riuscendo grazie a questa uscita di scena “graduale” a mantenersi viva nell’orizzonte politico ed economico cileno. E non solo.
L’eredità che Pinochet ha lasciato al suo paese è il sistema economico lasciato grossomodo invariato. La fine della dittatura e le prime elezioni libere infatti non coincisero con una nuova fase repubblicana, né tantomeno con una fase costituente, ma venne trattate come un semplice cambio di governo all’interno di uno stato di diritto che non era necessario mettere in discussione.
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La questione Lenin in Italia anni ‘70
di Toni Negri
Fratello,
siamo qui,
per darti il cambio,
noi vinceremo,
ma da un altro
lato
Majakowskij, Lenin
Venivamo da una tradizione comunista e rivoluzionaria, rinnovatasi nella Resistenza antifascista, che ci era stata trasmessa dal Partito Comunista Italiano. Il culto di Lenin stava al centro di questa tradizione. Quando cominciammo a criticare o a rifiutare senz’altro la politica del PCI, non significò, negli anni ’60 e ’70, dimenticare Lenin. Anzi, se in quegli anni il marxismo resta l’asse di ogni presa di posizione critica dello stalinismo, il leninismo rimaneva centrale nella figura di un «autentico» marxismo nell’organizzazione operaia. E questo anche nel dibattito dei gruppi legati alle esperienze di intervento diretto sulle fabbriche – a quei gruppi operaisti che egemonizzano il movimento nel decennio successivo.
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Dalla cattedrale ai non-luoghi
di Antonio Martone
I cambiamenti che hanno scosso l'età moderna sono stati anzitutto antropologici, e poi economici e giuridico-politici. Oggi siamo di fronte a un altro snodo storico, che sta producendo una nuova mutazione del senso. Per interrogare quest'ultima bisogna osservare ancora una volta la traiettoria della modernità
In questo intervento, cercherò di focalizzare genealogicamente l’attenzione su alcuni punti di snodo fondamentali della storia della modernità, al fine di focalizzare meglio le dinamiche antropologico-politiche del contemporaneo. Cercherò di evocare tali trasformazioni attraverso l’uso di simboli che racchiudano il senso complessivo della presenza storica degli uomini nel passaggio fra “pre-moderno” e “moderno” e fra il “moderno” e l’“attuale”.
La tesi che accompagna il mio lavoro consiste nell’idea secondo cui il percorso dell’Occidente che giunge fino a noi, incomprensibile se non si considera l’enorme peso che in esso ha assunto la tecnica, abbia comportato vere e proprie mutazioni antropologiche: cercherò di concentrarmi su tali mutazioni e di delinearne il senso nella convinzione che comprenderle significhi illuminare lo scenario attuale e le sue profonde contraddizioni.
L’Evo moderno – come è noto – si caratterizza per esser andato progressivamente tras-mutando l’idea medioevale (aristotelico-tomistica) di legame sociale in una realtà accelerata in senso “progressivo”:
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Regeni, New York Times, “dittatori”
Caro Alessandro Di Battista, guarda meglio
di Fulvio Grimaldi
Questa è una lettera che avevo indirizzato ad Alessandro Di Battista in merito al suo intervento alla Camera sul caso Regeni-NYT e, per conoscenza, ad alcuni parlamentari 5Stelle di mia conoscenza. Non ho ricevuto risposta e questa lettera diventa pubblica, anche perché contiene considerazioni che possono essere indirizzate a molte altre persone
Questa che è una critica all’intervento del deputato 5Stelle e un invito a riconsiderare certe sue posizioni, non mette minimamente in questione la stima e la solidarietà che ho nei confronti di tante ottime battaglie condotte da Di Battista, alcune delle quali sono state anche da me condivise sul campo
Caro Alessandro Di Battista,
faccio il giornalista da oltre mezzo secolo, oggi indipendente ma vengo da organi come la BBC, Paese Sera, Panorama (pre-Berlusconi), L’Espresso, The Middle East, Giorni Vie Nuove, Astrolabio, Rai-TG3. Ho sostenuto molte attività del M5S e con il MoVimento e suoi illustro sostenitori ho organizzato nella mia zona pubbliche iniziative (con Morra, Ruocco, Imposimato, Lanutti, Scibona, Bertorotta...) Ho intervistato deputati e senatori del MoVimento, compreso te, sono amico della senatrice Ornella Bertorotta e ho partecipato a numerose vostre iniziative alla Camera e al Senato. Miei documentari sono stati presentati al Senato. Ho lavorato con militanti 5Stelle sul territorio per i miei documentari e articoli No Tav, No Muos, No Triv, No Basi, terremotati. Spero che tutto questo mi dia un po’ di credibilità.
Conosco la tua esperienza in America Latina e nel Sud del mondo e quindi presumo una tua conoscenza del modus operandi di certe grandi potenze dagli insopprimibili appetiti coloniali in quelle parti del mondo.
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Il sapere come metodo
Sulla riduzione del percorso liceale a soli quattro anni
Giovanni Carosotti
È un luogo comune affermare che i docenti italiani godano di ben due mesi di ferie consecutive[1]. Non è così; ma se anche fosse, il mese di agosto non è stato mai poco significativo per il loro lavoro. È prassi consueta quella di far passare provvedimenti importanti durante il periodo estivo, quando gli insegnanti hanno poche possibilità di organizzare e rendere noto il loro eventuale dissenso. Ciò conferma quanto da lungo tempo in molti hanno fatto notare; e cioè che, al di là della retorica, gli insegnanti non sono oggetto di particolare considerazione né consultati in maniera significativa quando si decidono provvedimenti rilevanti per la qualità della loro professione. In coerenza con un assunto teorico continuamente ribadito dai diversi documenti ministeriali: i docenti, dalla scuola primaria alla secondaria superiore, non sono più considerati depositari di positive capacità professionali, sulle quali la comunità deve investire per la formazione culturale e civile delle nuove generazioni; bensì lavoratori la cui preparazione risulta ormai inadeguata rispetto alle grandiose trasformazioni epocali verificatesi negli ultimi decenni. Essi devono dunque accettare il principio di dover rimettere totalmente in discussione la propria professionalità[2] .
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