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La “diplomafia” di Trump: i dazi

di Barbara Spinelli

Diplomafia: così viene chiamata dal giornale israeliano «Haaretz» l’offensiva globale che Donald Trump ha scatenato sui dazi.

A sorreggere la politica statunitense non ci sono ragionamenti commerciali, né economico-finanziari, e neanche geopolitici, contrariamente a quanto affermano alcuni esperti. La geo-politica presuppone una mente fredda, analitica, mentre quel che quotidianamente va in scena ai vertici degli Stati Uniti è uno spirito di vendetta ben conosciuto e praticato nel mondo dei gangster e dei mafiosi.

Contemporaneamente Trump è sempre più impelagato nelle losche vicende di Jeffrey Epstein, suscitando rancore in un elettorato cui aveva promesso la fine del connubio fra politica, affari, malavita e uso sessuale delle minorenni che lo Stato Profondo custodiva e copriva. Chi conosce la serie The Penguin avrà l’impressione di vedere Gotham City. Non è infranto solo il diritto internazionale e non sono esautorati solo gli organismi delle Nazioni Unite. Trump ostenta ammirazione per i Presidenti protezionisti ed espansionisti dell’Ottocento (William McKinley, James Polk, Andrew Jackson, famosi per la liquidazione dei nativi americani e per le annessioni delle Hawaii, della California, di parte del Messico). Ma essendo figlio del Novecento e delle sue guerre calde e fredde immagina che in quanto padrone della terra tutto gli sia permesso, e interferisce nei procedimenti giudiziari di Stati sovrani – amici e nemici– ergendosi a giudice supremo di un inesistente governo universale.

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contropiano2

Il Mainstream e l’omeopatia dell’orrore

di Giorgio Lonardi

Nelle ultime settimane, in concomitanza con l’accelerazione imposta da Israele al genocidio palestinese, si assiste a un analogo cambio di passo anche da parte dell’informazione embedded che, ormai, sembra lavorare al passo e al ritmo dei massacratori israeliani e dei loro complici (USA, UE, paesi arabi, con pochissime e lodevoli eccezioni).

La nuova strategia informativa dei Tg non è più quella della negazione, resa del tutto impossibile da una pletora di dati, video, studi e dichiarazioni pubbliche dello stesso governo israeliano, bensì quella dell’assopimento, della normalizzazione, della distrazione e dell’assuefazione dell’opinione pubblica all’orrore quotidiano.

Le vie seguite nella costruzione della nuova narrativa mainstream sono molteplici. Si va dalla manipolazione linguistica, alla concessione parziale, allo spostamento del focus, per giungere infine alla somministrazione dell’orrore a dosi omeopatiche e tollerabili. D’altronde ci troviamo in una fase storica complessa, nella quale il senso morale dell’opinione pubblica è distratto e debilitato da problemi quotidiani impellenti e, spesso, vitali. Le persone hanno sovente poco tempo, scarse risorse e strumenti limitati per informarsi a fondo mediante reali alternative alla narrazione dominante.

Lo strumento della manipolazione linguistica, in realtà, è stato utilizzato dal potere fin da i tempi più remoti, ma nei brevi Tg nostrani assume forme addirittura grottesche.

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lafionda

Il Vangelo secondo Meloni: indignarsi solo per i morti giusti

di Michele Agagliate

C’è un momento, nella liturgia dell’ipocrisia occidentale, che si ripete sempre uguale, con la puntualità di un’orazione scritta a tavolino: il momento in cui ci si indigna. Non per tutto. Non per tutti. Ma solo per qualcuno, e solo quando conviene. In Italia, questo rito ha trovato in Giorgia Meloni la sua sacerdotessa perfetta. Bastava attendere.

Quando le bombe israeliane hanno colpito la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza, ferendo il parroco italiano padre Gabriel Romanelli, le parole della Presidente del Consiglio sono arrivate leste, impomatate di indignazione: “Inaccettabile. Bisogna fermarsi. Bisogna trovare la pace.”

Parole che fino al giorno prima non avevano trovato spazio. Non per gli oltre 60.000 morti palestinesi. Non per i bambini spappolati sotto le macerie. Non per le scuole distrutte, gli ospedali ridotti in polvere, gli anziani lasciati morire di fame. Non per i bombardamenti quotidiani, le esecuzioni a sangue freddo, la fame come arma di guerra. No, per quelli nulla. Nessuna parola. Nessun monito. Nessuna richiesta di pace.

La voce di Meloni si è alzata solo ora, solo perché tra quei muri sventrati c’è un italiano. Un prete. Un cattolico. Una vita che vale, secondo il catechismo geopolitico di questo governo. Gli altri, quelli con il nome arabo, quelli senza cittadinanza europea, quelli che non votano, non contano.

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altrenotizie

Netanyahu e la Siria in pezzi

di Mario Lombardo

Lo scioccante bombardamento del palazzo presidenziale e di altri edifici governativi siriani da parte di Israele nella giornata di mercoledì ha dimostrato ancora una volta come non sia possibile intrattenere rapporti paritari con lo stato ebraico, il quale, per sua natura, comprende e accetta soltanto la dipendenza, quando a essa è collegata la sua stessa esistenza, ed è il caso delle relazioni con gli Stati Uniti, o la sottomissione, a cui cerca invece di sottoporre virtualmente tutti gli altri paesi. Il nuovo regime (ex) qaedista al potere a Damasco aveva infatti obbedito agli ordini di Washington per aprire un processo di normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv, ma questa disponibilità non lo ha risparmiato dalla violenza sionista.

Le drammatiche vicende siriane, in un quadro più ampio, sono la conseguenza di uno dei crimini più macroscopici degli ultimi decenni, vale a dire la distruzione di questo paese e del governo di Assad, orchestrata da Washington, dai suoi alleati in Europa e in Medio Oriente – Israele incluso – e messa materialmente in atto da una galassia di formazioni armate fondamentaliste. La “liberazione” della Siria è sfociata ora prevedibilmente nel caos più totale, con le minoranze etniche e religiose esposte a massacri indiscriminati e, sullo sfondo, una rivalità in prospettiva dai contorni esplosivi tra Turchia e Israele, di cui i fatti di questi giorni rappresentano probabilmente soltanto le prime avvisaglie.

Il bombardamento di Damasco è arrivato dopo una settimana di pesanti scontri armati nella provincia meridionale di Suwayda tra la minoranza drusa, che qui costituisce la maggioranza degli abitanti, da una parte e tribù beduine sunnite e forze del regime dall’altra.

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mondocane

Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi

E l’America sta a guardare

di Fulvio Grimaldi

Un sanguinoso parapiglia di mercenari in parte sfuggiti ai loro datori di lavoro pare portare a uno scompiglio imprevisto nella sistemazione della Siria che sembrava completata con l’installazione al Damasco del capo del terrorismo islamico – nominato indifferentemente e senza sostanziali differenze Al Qaida, Al Nusra, ISIS, Daesh, Tahrir al Sham, e delle sue bande di tagliagole. Bande che ho avuto il maledetto privilegio di vedere all’opera in una ininterrotta orgia di atrocità contro civili, durante 12 anni di guerra su mandato Nato alla Siria libera, democratica e socialista. Bande che hanno subito continuato l’opera con la mattanza di centinaia di civili per la grave colpa di essere alawiti, la religione del presidente Assad, o cristiani.

Oggi il mercenariato druso di Israele, storicamente inserito nelle forze di sterminio dei palestinesi, addirittura come reparti d’élite, è stato mandato a dar man forte ai drusi di Siria che, al momento dell’invasione israeliana, si sono immediatamente messi a disposizione di quello che è il vero obiettivo di Tel Aviv, l’estensione della Grande Israele alla regione meridionale della Siria.

Il ruolo di manovalanza e vivandiere che i mercenari curdi hanno svolto a favore della stabilizzazione coloniale statunitense nel nordest della Siria, regione dei giacimenti petroliferi e dei settori agricoli più produttivi, corrisponde esattamente al ruolo dei drusi a servizio della colonizzazione israeliana.

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volerelaluna

Una rapina chiamata libertà

di Carlo Rovelli

Nel corso della mia vita, ho visto la parola “libertà” subire una spettacolare traiettoria discendente. È passata da luminoso ideale universale, a ipocrita copertura della difesa di privilegi.

“Libertà” è stata la parola d’ordine della Rivoluzione Francese per liberarsi dal dominio dell’aristocrazia. Della Rivoluzione Americana per liberarsi dal dominio della corona inglese. Delle comunità religiose che volevano liberarsi dal potere corrotto delle gerarchie cattoliche. Delle polis greche che non volevano cadere nelle mani dell’impero persiano. Dei popoli che cercavano di liberarsi da secoli di feroce sfruttamento coloniale. È stata l’ideale della lotta contro fascismo e nazismo che avevano scatenato un’immensa aggressività distruttiva. Libertà è stata la parola magica che aleggiava sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sulla dichiarazione d’indipendenza, sulla Rivoluzione Russa e su quella Cinese. Era Galileo libero di difendere l’idea che la Terra gira. Era libertà dai dogmi, era l’idea che il pensiero non debba essere costretti in limiti. Gli esseri umani non debbano essere schiavi, non debbano essere in catene.

Libertà è stata la parola d’ordine della mia generazione, che rifiutava ipocrisie e imposizioni di un mondo dominato da minoranze, e voleva cercare la sua strada. Da ragazzo, percepivo attorno a me un mondo pieno di regole che volevano impormi modi di essere che mi sembravano ingiusti.

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lantidiplomatico

Gli errori strategici figli dell'arroganza USA sconvolgono la guerra

di Alastair Crooke - Strategic Culture

Il grande problema emerso dal raid degli Stati Uniti contro l'Iran del 22 giugno – secondo solo alla domanda "l'Iran soccombe?" – è se, nel calcolo di Trump, egli possa "imporre retoricamente" l'affermazione di aver "annientato" il programma nucleare iraniano abbastanza a lungo da dissuadere Israele dal colpire nuovamente l'Iran, pur consentendo a Trump di perseguire il suo titolo sensazionalistico: "ABBIAMO VINTO: Ora comando io e tutti faranno quello che dico".

Questi erano i principali contrasti da risolvere con Netanyahu durante la sua visita alla Casa Bianca questa settimana. Gli interessi di Netanyahu sono essenzialmente orientati a una "guerra più calda", divergendo quindi dalla strategia generale di cessate il fuoco di Trump.

Implicito nel suo approccio all'Iran "In-Boom-Out & Cessate il fuoco" è che Trump potrebbe credere di aver creato lo spazio per riprendere il suo obiettivo primario: istituire un ordine più ampio, centrato su Israele, in tutto il Medio Oriente, basato su accordi commerciali, legami economici, investimenti e connettività, per creare un'Asia occidentale guidata dagli affari, con epicentro a Tel Aviv (e Trump come suo de facto "Presidente").

E, attraverso questa "Superstrada degli Affari", spingersi ancora oltre – con gli Stati del Golfo che penetrano nel cuore sudasiatico dei BRICS per interromperne connettività e corridoi.

La condizione sine qua non per qualsiasi rilancio di un presunto "Abraham Accords 2.0" – come Trump comprende bene – è la fine della guerra a Gaza, il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia e la sua ricostruzione (nessuna delle quali sembra al momento realisticamente raggiungibile).

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lantidiplomatico

Il prezzo della fedeltà atlantista: dazi, guerra e isolamento economico

di Fabrizio Verde

Come il fanatismo russofobo ha ucciso il rapporto strategico con Mosca e penalizzato l’Italia

La domanda sorge spontanea: ma questo è davvero un alleato? A guardare le recenti mosse dell’amministrazione Trump – non solo nel contesto del conflitto ucraino, ma anche nell’ambito delle relazioni commerciali ed energetiche con l’Europa – viene da chiedersi se la parola “alleato” utilizzata dalla politica e dai media mainstream abbia un senso. O se, invece, non debba essere sostituita da un termine più preciso: vassallo, o meglio, semi-colonia. Così è possibile inquadrare con maggiore precisione la condizione di subalternità nei confronti degli Stati Uniti in cui si trova l’Italia e l’intera Europa. E non di certo da quando alla Casa Bianca è tornato Donald Trump.

 

Armi a spese europee

Il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti forniranno missili all’Ucraina – tra cui i tanto richiesti sistemi Patriot – ma con una precisazione: “Non pagheremo noi. Saranno gli europei a farlo”. Ecco dunque che Washington con una sola mossa mossa ottiene due obiettivi: alimentare ancora il conflitto in Ucraina e allo stesso tempo realizzando profitti a scapito dei già spolpati “alleati” europei.

Trump non ha neppure nascosto che il pacchetto militare varato con l’Europa ammonta a “migliaia di miliardi di dollari”, con l’obiettivo di rifornire l’esercito ucraino di equipaggiamenti sempre più sofisticati. Equipaggiamenti che, però, finiscono per arricchire le industrie belliche statunitensi, mentre i contribuenti europei fanno cassa per il Pentagono.

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laboratorio

La prospettiva di default del debito USA e l'imperialismo valutario

di Domenico Moro

Recentemente sulla prima pagina del Sole24ore è stata messa in dubbio la sostenibilità del debito pubblico statunitense, ossia la capacità del governo di onorare i pagamenti dei titoli di debito emessi dal Tesoro[i]. La notizia viene da una indagine rivolta a 40 Banche centrali di tutto il mondo, la UBS Asset Management’s Reserve Manager Survey. Più precisamente, il 47% dei rispondenti ritiene possibile, in futuro, uno scenario di ristrutturazione del debito pubblico americano. Per ristrutturazione si intende la più o meno ampia insolvenza sul debito pubblico.

Non si tratta di una notizia da poco. Secondo le parole del Sole24ore sarebbe “un evento catastrofico, senza precedenti, che avrebbe ripercussioni devastanti per il mondo intero”[ii]. Perché sarebbe così grave? Per rispondere dobbiamo ricordare che il dollaro è la valuta di scambio commerciale e soprattutto di riserva mondiale. Il debito pubblico statunitense, essendo in dollari, assume un ruolo centrale nell’economia mondiale, dal momento che è usato come riserva da organismi ufficiali, come le banche centrali di tutto il mondo, ma anche da organismi quasi e non ufficiali. Se il debito non venisse onorato, anche solo in parte, verrebbe meno la fiducia negli Usa e quindi verrebbe minato lo status di riserva del dollaro. Questo creerebbe una grave instabilità a livello finanziario mondiale e finanche una grave crisi generale.

Il debito americano, cioè i suoi titoli di stato, è da lungo tempo considerato un investimento sicuro, anzi l’investimento sicuro per eccellenza, specie nei periodi di crisi. Sulla capacità degli Usa di onorare il loro debito si fonda non solo la stabilità finanziaria mondiale, ma anche il dominio economico e soprattutto valutario degli Usa. Grazie al fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale gli Usa fino a oggi hanno potuto finanziare un sempre più grande debito pubblico.

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lantidiplomatico

Cosa spaventa veramente del rapporto di Francesca Albanese

di Agata Iacono

La solidarietà a Francesca Albanese si può esprimere anche con le tantissime petizioni, ma è fondamentale evidenziare che, se il suo report è oggetto di attacco (mai visto prima per un diplomatico dell'ONU), il motivo va ricercato proprio nell'elenco di aziende legate allo Stato genocida di Israele.

Ha toccato, come si suol dire, il portafoglio ed è questo che non le viene perdonato.

Come possiamo quindi noi, oltre le foto, i meme, le petizioni, gli hashtag, i proclami, dare concretamente seguito alla denuncia di Francesca Albanese?

Cosa spaventa veramente?

Il boicottaggio economico e commerciale.

Nel ricordare tutte le campagne BDS di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, raccomandiamo anche l'uso di App come NoTanks e Boycat per sapere se ogni singolo prodotto nei nostri supermercati è legato al colonialismo e al genocidio perpetrato da Israele, nei dettagli.

Qui di seguito ecco l'elenco delle aziende occidentali citate nel rapporto ONU di Francesca Albanese ("From economy of occupation to economy of genocide"), suddivise per settore di attività e con indicazione delle responsabilità specifiche:

1. Industria Bellica e Tecnologica

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lafionda

Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war

di Alessio Mannino

Il problema non è Michele Serra. Il problema è chi si beve i brodini tossici di Michele Serra. E potremmo dire più o meno lo stesso per Maurizio Molinari, Conchita De Gregorio, Adriano Sofri, Francesco Merlo e le altre firme di Repubblica. La polemica contro il “serrapiattismo” guerrafondaio è diventato un genere di maniera, e perciò ci interessa poco o punto. Interessa molto di più capire cosa si muove nella testa dei 97 mila lettori totali (di copie cartacee più digitali, dati Ads maggio 2025) che acquistano ancora un quotidiano che, come il resto della stampa stampata, rappresenta lo zero virgola della popolazione e tuttavia influenza, quota parte, l’agenda mainstream del Paese attraverso la grancassa deformante dei talk show televisivi. Perché, nonostante l’avanzata dei media sul web, è ancora la tv generalista a militarizzare le priorità del dibattito politico, almeno per quella minoranza di italiani che costituiscono la cosiddetta “opinione pubblica”. Nella selva di canali su internet si è lasciati liberi di ruzzolare (fino ad algoritmo contrario, s’intende), ma è sul piccolo schermo che il regime del consenso può continuare il balletto di idee ammesse e allineate, sfruttando la potenza d’attrazione di un numero limitato di emittenti nelle mani di pochi gruppi editoriali nazionali e internazionali (Rai semper fidelis al governo di turno, Mediaset copia conforme sia pur sotto spirito berlusconiano, La 7 di Urbano Cairo, l’americana Discovery-Warner Bros, e stendiamo un velo pietoso sull’editoria locale, che con il suo provincialismo non fa fare di certo una bella figura alla “provincia” del Belpaese).

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lantidiplomatico

Abituare gli italiani alla guerra

di Fabrizio Poggi

L'opera di propaganda del Corriere della Sera è senza sosta: abituare gli italiani al conflitto e all'idea che i tagli ai diritti sociali siano necessari

 Se si va in cerca di florilegi euroraccapriccianti su quel corvino foglio che è il Corriere della Sera, raramente si rimane delusi. L'importante è premunirsi, assumendo degli efficaci gastroprotettori; dopo di che si possono affrontare, con relativa tranquillità, le lacrime di quegli eurosanfedisti per il fatto che, vedete un po', le persone comuni, in Italia, quelle che devono affrontare quotidianamente i sacrifici imposti da ogni governo liberal-reazionario in fatto di lavoro, sanità, pensioni, «dicono sì agli investimenti per la difesa ma temono sacrifici per sanità e assistenza sociale».

La prendono alla lontana, i professori Maurizio Ferrera e Stefano Sacchi, sul Corriere della Sera del 12 luglio, raccontando dell'arcivescovo di Canterbury e del suo “welfare”, contrapposto al «warfare state» nazista, per difendere il quale era indispensabile «lo sforzo militare contro Hitler». Terminato il conflitto e «Grazie all’ombrello militare americano, dal dopoguerra in avanti la spesa sociale in Europa ha superato di dieci volte o più la spesa per la difesa». Poi sono stati «Settant’anni di pace», ci raccontano, omettendo, dio ce ne scampi, degli interventi militari contro paesi stranieri, dei bombardamenti su vicini “sgraditi”, a est e a sud nel Mediterraneo; insomma: «I Paesi europei sono diventati “democrazie del benessere”».

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comidad

Sono gli israeliani a spiegarci come manipolano Trump

di comidad

Ci sono luoghi comuni che resistono a qualsiasi smentita da parte dell’esperienza. In particolare sopravvive la falsa convinzione che gli Stati regolino la loro politica per mezzo di processi decisionali, che potranno essere trasparenti oppure oscuri a seconda dei casi. Fortunatamente però ogni tanto qualcuno ci viene a raccontare come funzionano veramente le cose. Sul quotidiano “Times of Israel” del 18 maggio scorso un tale Lazar Berman intratteneva i lettori sulla questione della apparente impasse determinatasi per Israele a causa di alcuni comportamenti di Trump, che sembrava intenzionato a privilegiare gli affari multimiliardari con le monarchie del Golfo invece che i desiderata di Netanyahu, che per gli USA rappresenta un costo pesante. L’articolo perveniva però a una conclusione rassicurante per il lettore sionista; in quanto, al di là dei personali desideri di Trump, alla fine Israele potrebbe far valere ugualmente il suo punto di vista semplicemente tenendo in mano l’iniziativa, ovvero mettendo tutti davanti al fatto compiuto. Come a dire che gli Stati non sono veri soggetti politici, e tutto funziona come in un gruppazzo di adolescenti, nel quale comanda il più bullo e tutti gli altri cercano di salire nella gerarchia facendo a gara a compiacerlo.

L’articolo di Berman infatti si è rivelato fondato e persino preveggente, nel senso che meno di un mese dopo Israele ha potuto far saltare il tavolo negoziale tra USA e Iran procedendo ad un attacco ed ad un tentativo di decapitazione del regime di Teheran.

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linterferenza

Come i dazi di Trump mettono a rischio l’Unione europea

di Alessandro Volpi

Trump punta a usare i dazi per dividere l’Unione europea e rafforzare la dipendenza economica e politica degli Stati europei dagli Stati Uniti

Esiste nel mondo una chiara volontà di distruggere l’Europa e di farne una colonia. E questa volontà parte dall’altra sponda dell’Atlantico. È sempre più evidente, infatti, che gli Stati Uniti intendono smembrare l’Unione europea e sostituirla con la Nato. O con qualcosa di simile. I dazi al 30% (conservando peraltro quelli già esistenti al 50%) sono lo strumento che Trump intende utilizzare per convincere i singoli Paesi europei a trattare, uno a uno, con il governo americano nella speranza di strappare condizioni di favore.

Ecco la strategia trumpiana. Le imposizioni dei dazi si basano sull’idea, tutt’altro che peregrina, che le economie dei vari Paesi europei non possano fare a meno della loro quota di esportazioni verso il mercato statunitense. A cui va aggiunta la pervicace chiusura verso la Cina da parte dei gruppi dirigenti dei diversi Stati del vecchio continente. Per questo diventa molto probabile che ogni singolo Paese arriverà a mettere in discussione la tenuta complessiva dell’Unione, e dell’Eurozona, provando a ottenere deroghe solo per le proprie produzioni. In estrema sintesi, Trump ha capito la profonda dipendenza degli europei dagli Stati Uniti, e il loro servilismo. E vuole utilizzare i dazi per porre fine a qualsiasi esperienza di Europa condivisa.

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effimera

La NATO in guerra

di Gianni Giovannelli

Aut si inaniter timemus certe vel timor ipse malum est
quo incassum stimulatur et excruciatur cor
et tanto gravius malum quanto non est
quod timeamus et timemus
(anche se abbiamo paura senza motivo il male è la paura stessa
che punge e disturba invano il cuore: un male tanto
più grave in quanto ciò che temiamo non esiste davvero
eppure ci spaventa lo stesso).
Agostino
(Confessioni, VII, 5.7)

Il generale Fabio Mini è nato nel 1942; quando, nel 1963, dopo l’Accademia Militare a Modena, è entrato stabilmente nelle file dell’esercito italiano, erano gli anni del c.d. boom economico e della guerra fredda fra i due blocchi. Il primo esperimento di un governo di destra (quello di Tambroni) era fallito dopo soli tre mesi di vita, travolto dalle manifestazioni popolari che avevano riempito le piazze di tutto il paese, da nord a sud; a Genova quasi ci fu un’insurrezione per impedire il congresso del MSI, a Reggio Emilia in cinque caddero il 7 luglio sotto i colpi della polizia di stato, entrando stabilmente nella leggenda.

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eticaeconomia

La crisi distruttiva dell'ordine internazionale

di Alessandro Colombo

Alessandro Colombo illustra la tesi che quella attuale non è già più, ormai, l’epoca della crisi dell’ordine internazionale liberale, bensì l’epoca della sua fine. Che significa, tanto per cominciare, fine dell’ordine come tale, con tutto ciò che comporta sempre la fine di un ordine internazionale: la crisi del controllo, la tendenza alla militarizzazione, il collasso delle regole. E, in più, significa ripiegamento del contenuto liberale di quell’ordine, che si manifesta tra le altre cose nella crisi del multilateralismo e nello smontaggio della globalizzazione

Nonostante i richiami sempre più irrealistici alla sua resilienza, l’ordine internazionale liberale concepito alla fine della Seconda guerra mondiale e apparentemente “liberato” dalla scomparsa dell’Unione sovietica è ormai definitivamente crollato. E lo ha fatto, sarà bene ricordarlo, dopo una parabola sorprendentemente breve di ascesa e declino. La condizione di superiorità senza precedenti della quale avevano goduto gli Stati Uniti e i loro alleati all’indomani della scomparsa dell’Unione sovietica non aveva impedito infatti al Nuovo Ordine Mondiale di entrare in crisi già pochi anni più tardi, grossomodo alla metà del primo decennio del XXI secolo, sotto i colpi di due fallimenti maturati pienamente al proprio interno: la guerra in Iraq a partire dal 2003 e, ancora di più, la crisi economico-finanziaria del 2007-08. Nel decennio successivo, lo smottamento dell’edificio aveva aperto lo spazio al riemergere di competitori sia su scala regionale (come la Russia) sia, almeno potenzialmente, su scala globale (come la Cina), mentre ciò non aveva tardato a reinnescare proprio ciò che dieci anni prima era stato precipitosamente escluso, una nuova competizione tra grandi potenze.

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metis

Sulla situazione in Ucraina

di Enrico Tomaselli

Secondo quanto scrive il giornale svizzero Neue Zürcher Zeitung, Kiev ha solo due opzioni per impedire lo sfondamento delle truppe russe. La prima è una significativa ritirata operativa, che richiede però innanzitutto una decisione politica – difficile da attendersi da Zelensky – e soprattutto una grande capacità organizzativa e logistica. E, ovviamente, una linea fortificata su cui attestarsi, significativamente arretrata rispetto all’attuale linea di combattimento. La seconda, ancora più radicale, è un completo ridispiegamento oltre il Dnepr, sulla riva destra del fiume, facendone quindi una sorta di confine de facto tra quel che resta dell’Ucraina e i territori sotto controllo russo. Questo, naturalmente, è un punto di vista occidentale, per quanto razionalizzante.

Va innanzi tutto detto che questa seconda ipotesi deve chiaramente intendersi non in senso letterale, ma limitatamente all’area del Donbass; in pratica, le forze ucraine dovrebbero arretrare verso ovest, attestandosi al di là del fiume nel tratto che va sostanzialmente da Dnipro a Zaporizhia. Si tratta del braccio di fiume che scende quasi verticalmente da nord a sud, mentre più su di Dnipro piega decisamente a nord-ovest, arrivando sino a Kiev, mentre oltre Zaporizhia piega a sud-ovest arrivando a Kherson. Per dare un idea, tra il tratto Dnipro-Zaporizhia e la linea difensiva Sloviansk-Kramatorsk, che si trova ormai a ridosso della linea di contatto, ci sono circa 180 km. Una ritirata di questa portata, anche in condizioni migliori di quelle in cui si trovano attualmente le forze armate ucraine, significherebbe rischiare un massacro.

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contropiano2

Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele

di BankTrack - PAX - Profundo*

 

Un’indagine condotta dal gruppo di ricerca finanziaria olandese Profundo e pubblicata dalle ONG olandesi BankTrack e PAX ha rilevato che un piccolo numero di banche d’investimento ha svolto un ruolo cruciale nell’aiutare Israele a soddisfare le “significative esigenze di finanziamento” derivanti dalla sua guerra a Gaza, fornendo significativi servizi di sottoscrizione allo Stato israeliano. (1)

La ricerca rileva che Israele ha emesso obbligazioni sovrane tra il 7 ottobre 2023 e il gennaio 2025 per un valore totale di 19,4 miliardi di dollari e rivela le sette banche che hanno sottoscritto queste obbligazioni per lo Stato israeliano. (2)

Goldman Sachs è di gran lunga la più grande istituzione quotata, avendo sottoscritto più di 7 miliardi di dollari in “obbligazioni di guerra” israeliane dall’inizio della guerra tra Israele e Gaza. Le altre istituzioni finanziarie individuate dall’indagine sono Bank of America, Deutsche Bank, BNP Paribas, Citi, Barclays e JPMorgan Chase.

 

Finanziare la guerra a Gaza

Dal 7 ottobre 2023, quando i militanti guidati da Hamas hanno lanciato una serie di attacchi e massacri nel sud di Israele, uccidendo quasi 1.200 persone e prendendo in ostaggio 252 cittadini israeliani. Da allora, il bilancio militare di Israele è aumentato a dismisura mentre perseguiva un assalto su vasta scala alla Striscia di Gaza, che ha ucciso almeno 46.600 palestinesi e sfollato quasi l’intera popolazione palestinese nella regione prima dell’accordo di un fragile cessate il fuoco nel gennaio 2025. (3)

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analisidifesa

Il Piano Marshall si fa a guerra finita

di Gianandrea Gaiani

La Conferenza per la Ricostruzione dell’Ucraina (Ukraine Recovery Conference – URC 2025) ha visto riunirsi a Roma 100 delegazioni ufficiali, 15 Capi di Stato e di Governo, 40 organizzazioni internazionali, una quarantina di ministri inclusi tutti gli italiani e 8.351 persone accreditate inclusi 2.000 esponenti di aziende (per un quarto 500 italiani), con 120 stand espositivi.

I lavori, seguiti da 647 giornalisti, hanno visto la firma di 200 accordi di cooperazione, di cui 40 firmati da imprese italiane (tra cui Webuild, Ansaldo Energia, Leonardo, Eni, Ferrovie dello Stato, Enel, Prysmian e numerose PMI) per oltre 10 miliardi di euro (per il 25% stanziati dalla Ue) che verranno messi a disposizione per sostenere l’Ucraina e la sua ricostruzione.

Fondi peraltro del tutto insufficienti considerando che, secondo le stime della Banca Mondiale, i danni materiali inflitti all’Ucraina dall’inizio della guerra ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari: valutazione probabilmente stimata per difetto se si tiene conto che un simile ammontare era già stato stimato nel 2024.

Inoltre questa cifra non include le spese per la ricostruzione complessiva del Paese mentre l’agenzia di stampa Euractiv ha valutato le necessità infrastrutturali più urgenti in Ucraina nei settori dell’edilizia abitativa (danni stimati per 57 miliardi di dollari), dei trasporti (36 miliardi) ed energia e settore minerario (20 miliardi).

Ci sarebbero molte buone ragioni per guardare con prudenza a massicci investimenti in Ucraina (anche alla luce del fatto che Kiev vuole continuare la guerra) da parte di un’Europa già in ginocchio sul piano finanziario, economico ed energetico.

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lafionda

Un piccolo omaggio a Mark Fisher

di Paolo Giuliodori

L’11 luglio 1968 nasceva Mark Fisher, scrittore, filosofo e teorico politico. Uno dei pochi autori che ha lucidamente inquadrato i principali fenomeni economico-politici della nostra epoca. Il più famoso dei suoi lavori è “Realismo capitalista”, dove porta alla luce l’onnipresenza dell’ideologia capitalista. Con “realismo capitalista” Fisher intende “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”1.

La “cultura” dominante cavalca proprio questa onda, la quasi totalità dei contenuti che ci vengono proposti descrivono e immaginano un mondo consumistico e consumato. Dai notiziari, ai talk-show passando per serie tv, film e libri. Persino, quasi tutti i movimenti contro il capitalismo, si inseriscono in una dialettica sul capitale-lavoro e non vanno oltre, e, come dice Fisher, questa contrapposizione (apparente) è funzionale al sistema stesso.

Siamo immersi nella frenesia (e disperazione) più totale, siamo alienati da un mondo in costante accelerazione. Hartmut Rosa in “Accelerazione e alienazione”2 ce lo spiega: siamo in competizione sotto ogni aspetto, non solo sotto quello economico-professionale, ma anche personale e affettivo. Alla gara ora si è aggiunta anche “l’intelligenza artificiale”, è molto difficile, se non impossibile, stare al suo livello di “produttività”. Più cerchiamo di rimanere al passo, più ci trasformiamo in macchine. Più siamo affannati e di corsa, più perdiamo la capacità di immaginare che è proprio una di quelle caratteristiche che ci rende umani.

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Cos’è rimasto di umano?

di Sonia Savioli

In Canada sono già bruciati quattro milioni e trecentomila di ettari di foreste, intanto Israele bombardava l’Iran, dopo quasi due anni di bombardamenti sulla striscia di Gaza e qualche colpetto anche al Libano, e l’Ucraina prova a far fallire qualsiasi accordo di pace provocando anche deragliamenti di treni passeggeri. Il Canada brucia grazie al cambiamento climatico, che aumenta la siccità e il calore, grazie a umani idioti e criminali che accendono fuochi per rosolare salsicce, magari mentre tagliano alberi, e grazie al capitalismo. Non solo perché è il sistema maggiormente colpevole del cambiamento climatico ma anche perché il capitalismo del terzo millennio, affetto ormai da insania furiosa e perniciosa, e i suoi spregevoli e criminali servi politici dell’Occidente dominatore stanno svuotando le casse degli Stati a favore delle multinazionali, e non tollerano più che detti soldi vengano utilizzati per le loro funzioni naturali, cioè a favore delle nazioni e dei loro popoli. E’ questo il motivo per cui in Canada mancano i pompieri. Sono pochi e mal pagati, i vigili del fuoco canadesi, dotati di scarsi mezzi e anche in gran parte stagionali, vengono cioè assunti per la sola stagione estiva. E, com’è ovvio, quando trovano un lavoro a tempo pieno, smettono di fare i vigili del fuoco.

Gli Stati ridotti ormai a cassaforti svaligiate da chi dovrebbe custodirle. A cittadelle saccheggiate senza pietà dalle multinazionali con la complicità attiva e interessata dei loro governanti. Che un tempo, almeno, se poi il popolo ce la faceva a riprendersi ciò che era suo, venivano decapitati sulla pubblica piazza come traditori.

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metis

Sulla situazione in Medio Oriente

di Enrico Tomaselli

A ennesima conferma di come si tratti di una delle situazioni più complesse da dirimere, perché porta in nuce tutti i danni provocati dal colonialismo europeo ottocentesco, a cui si aggiunge l’esistenza di Israele, stiamo assistendo ancora una volta a una serie di sommovimenti che, sommandosi, tessono una trama intricatissima.

Messa in pausa la guerra con l’Iran, adesso l’obiettivo USA è porre fine a quella di Gaza. Il disegno strategico statunitense è sempre lo stesso, gli Accordi di Abramo, ma con alcune significative variazioni nel quadro generale. Come riferisce Axios – pubblicazione USA assai vicina ai servizi segreti – nel corso del lungo viaggio di Netanyahu a Washington (stavolta, come si è visto, senza grandi onori pubblici), si starebbero stabilendo le condizioni per arrivare al cessate il fuoco. In particolare, si riferisce di incontri serrati tra Ron Dermer, stretto consigliere di Netanyahu, Steve Witkoff e un funzionario del Qatar, paese che sta mediando tra le parti e che ha riferito le richieste della Resistenza palestinese. Il punto cruciale rimasto da risolvere sembra essere l’entità del ritiro israeliano; Tel Aviv insiste per mantenere il controllo del corridoio Morag, che serve a enucleare una vasta zona nel sud della Striscia, destinata – nel disegno israeliano, delineato nel piano Smotrich – a diventare un gigantesco campo di concentramento. Mentre sia la Resistenza che l’amministrazione USA sono, per ragioni ovviamente diverse, contrarie. Naturalmente, trattandosi di Israele (e in questo gli USA non sono granché differente), l’affidabilità di eventuali accordi sottoscritti è estremamente labile, e potrebbero essere stracciati non appena lo ritenessero utile o possibile.

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Compagno Fofi. Morte di un maestro

di Marco Gatto

È difficile dire in poche battute cosa rappresenti la scomparsa di Goffredo Fofi per chi ha condiviso, grazie al suo esempio, un’idea di cultura e di pratica politica fondate sull’irrequietezza e sulla non-accettazione. “Non accetto”: questa formula capitiniana era, del resto, alla base della lezione che Goffredo, maestro involontario di disobbedienza civile, ha impartito nel tempo e ha ripetuto in modo sempre più vigoroso negli ultimi anni, rendendosi sempre disponibile e garantendo il suo generoso supporto alle nuove avventure editoriali, alle nuove riviste, ai nuovi gruppi di intervento sociale, alle iniziative di minoranza che, lungo tutto il Paese, gli sembrava giusto sostenere perché capaci di “dire no” alla calma normalizzata.

Abbiamo imparato tutti da Goffredo a pensare il “culturale” e il “sociale” in termini meno astratti, anche perché la sua biografia metteva, a partire dall’esperienza siciliana con Danilo Dolci, l’uno e l’altro insieme. Qualsivoglia tentativo di separare le manifestazioni culturali dalle determinazioni sociali appariva ai suoi occhi come un sintomo di regresso e di stordimento collettivi. Ma quel che gli provocava più rabbia – perché aveva visto, nell’Italia degli anni Cinquanta e della sua formazione, un modo diverso di intendere le pratiche culturali, poi disatteso – era, nella cultura contemporanea, l’assuefazione al “particulare” e il venir meno di un’attitudine autocritica. Per evocare uno dei suoi libri più sentiti, la viltà, insieme al servilismo e all’egoismo, costituiva una zona grigia da esplorare per comprendere i percorsi della società attuale: la cultura ridotta a spettacolo e a sedativo generalizzato ne era un riflesso.

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marxdialectical

Questioni correnti*

di Roberto Fineschi

Gli "amici" di instagram mi propongono massicciamente interviste del giornalista inglese Pierce Morgan, in genere celebre per le sue posizioni assai moderate, accompagnate da un atteggiamento aggressivo che mira a mettere in difficoltà - in genere riuscendoci - l'interlocutore.

Ciecamente pro-Israel per anni, negli ultimi mesi prende letteralmente a pesci in faccia i rappresentanti del governo genocidario. Lo fa in una maniera così spietata e senza possibilità di appello che è un piacere ascoltarlo, perché ammutolisce gli interlocutori mettendoli di fronte alla loro ipocrisia (loro che si illudevano di trovare il solito lecchino).

In realtà anche questo rischia (se non lo è intenzionalmente) di risolversi in propaganda. Il godimento nel vedere questi loschi figuri messi alla berlina non sortisce alcun effetto pratico, se non quello di dare uno sfogo innocuo alla rabbia degli indignati.

Infatti, i personaggi da intervistare e prendere a pesci in faccia dovrebbero essere i vari governanti occidentali che non solo fanno finta di niente, ma avallano, se non addirittura lucrano, sul massacro. Loro potrebbero essere spinti a fare qualcosa (embargo, cessazione delle forniture e milla altre cose). E il pubblico potrebbe essere spinto (ma non lo è) a fare pressione in questo senso.

Alla fine è un anestetico per chi è arrabbiato e anche una autogiustificazione a cose fatte ("noi ci siamo opposti, dicendolo direttamente al governo israeliano", mentre il governo nostro è pappa e ciccia con il loro).

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lantidiplomatico

Salari: gli ultimi dati OSCE annientano la propaganda di Draghi e Meloni

di Alex Marsaglia

Dagli ultimi dati dell’Employment Outlook 2025 OCSE (vedi qui: https://www.oecd.org/en/publications/oecd-employment-outlook-2025_194a947b-en/full-report.html) emerge come l’Italia abbia registrato il maggior calo dei salari reali, che restano ancora inferiori del 7,5% rispetto al 2021.

Sembrerebbe una notizia come le altre, alle quali siamo ormai abituati, se non fosse che confrontando la dinamica salariale dell’OCSE stessa nella fase precedente, cioè dal 1990 al 2020, troviamo sempre l’Italia come fanalino di coda nelle dinamiche salariali all’interno dei Paesi UE (vedi grafico). In sostanza, in termini di salari reali siamo stabilmente piantati nella posizione di ultimo Paese dell’UE dal 1990, cioè dal primo anno post caduta del Muro di Berlino ad oggi. Indubbiamente ha pesato la deflazione salariale, la perdita di sovranità, la delocalizzazione e tutte le dinamiche analizzate negli scorsi anni, ma di fronte a dati di un tale impatto storico occorrerebbe rilanciare l’analisi e la discussione, quantomeno per tentare di far ripartire delle politiche pubbliche che prendano in considerazione il problema. Infatti, senza investimenti statali, dalla deflazione salariale non è naturalmente scaturita alcuna forma di attrazione delle imprese multinazionali sul territorio. Così come senza un adeguato intervento di politiche pubbliche volte alla creazione di contesti attrattivi non vi è stato altro che desertificazione industriale.

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officinaprimomaggio

L’assedio alle scuole, ai nostri cervelli

di Sergio Fontegher Bologna

L’articolo di Marco Veruggio che abbiamo ripreso da Micropolis ha, tra l’altro, il grande pregio di stimolare riflessioni su temi di carattere fondamentale come “scuola”, “riarmo”, “impresa pubblica” ecc… A questi l’estroverso europarlamentare leghista Roberto Vannacci, già generale dell’esercito, ne aggiunge un altro, sintetizzato nel termine “Patria”. Sappiamo che Patria non è un vocabolo qualsiasi, è un sistema di valori, quei valori che qualcuno pensa si debbano rilanciare, perché rischiano di essere dimenticati e quindi anche lui, l‘onorevole, come i portavoce di Leonardo, vorrebbe andare nelle scuole – dicono i media – per parlarne coi giovani.

Non vorrei trovarmi nei panni di una/un preside messi di fronte alle richieste di una grande azienda come Leonardo e di un personaggio come Vannacci di poter parlare agli iscritti durante le ore di lezione. Scelta imbarazzante se far parlare l’uno o l’altro o ambedue. Confesso che se mi trovassi al posto di quei presidi risponderei “No, grazie” ma, se fossi costretto da circolare ministeriale a scegliere, preferirei Leonardo perché l’idea che qualcuno ricominci a voler instillare nei giovani l’amor di patria mi provoca una reazione istintiva. Il termine “Patria” mi evoca immediatamente l’immagine di cimiteri di guerra, quelle distese di croci che abbiamo visto tante volte, tombe d’infelici che sono andati ad ammazzare e sono stati ammazzati in nome della Patria. Mi evoca l’immagine dell’Ossario dei Caduti d’Oltremare di Bari, dove giacciono i poveri resti del fratello di mia madre, caduto negli ultimi giorni della campagna d’Africa, a El Ghennadi, 9 maggio 1943. Aveva 21 anni. In quei cimiteri di guerra raramente trovi sepolti dei generali. Quelli, chissà perché, dalle guerre tornano quasi sempre vivi.

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linterferenza

Le tre grandi cose uscite dal vertice dei Brics di Rio de Janeiro

di Alessandro Volpi

Dal rispetto delle regole fondamentali del diritto internazionale alla tenuta delle istituzioni finanziarie globali, fino alla progressiva sostituzione del dollaro e a un sistema di pagamenti autonomo, in grado di resistere a sanzioni unilaterali. Il summit del 6 e 7 luglio ha prefigurato nuovi scenari che l’Occidente fa finta di non vedere.

Rappresentano il 50% della popolazione mondiale e poco meno del 45% della ricchezza prodotta a livello planetario. Si sono riuniti a Rio de Janeiro il 6 e il 7 luglio ma sui media italiani, salvo eccezioni (il manifesto ad esempio vi ha dedicato la prima pagina), quasi non ne compare traccia. Si tratta del vertice dei Brics che ha riunito tutto ciò che, semplificando, si può definire “non occidentale”. Il sostanziale silenzio dei media è quindi davvero incredibile anche perché da quel vertice sono uscite almeno tre cose di grande rilievo.

La prima, davvero sorprendente, è costituita dal fatto che proprio i Brics stanno invocando il rispetto del diritto internazionale e del multilateralismo, arrivando persino a “difendere” le istituzioni di Bretton Woods, le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In altre parole, le principali realtà produttive del Pianeta, che non hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, contribuito né alla definizione degli assetti successivi alla Seconda guerra mondiale, né alla stesura delle regole fondamentali del diritto internazionale e tantomeno alle istituzioni finanziarie globali, chiedono, ora, di fronte al disastro dell’Occidente, di rispettare quelle norme di convivenza collettiva e quelle istituzioni per evitare il collasso dell’umanità.

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lantidiplomatico

La pace in Ucraina non porrà fine alla guerra ibrida dell'Occidente contro la Russia

di Andrew Korybko

Il loro raffinato modello di guerra ibrida comporterà sforzi per vincere la “corsa tecnologica”, una nuova divisione del lavoro occidentale per contenere la Russia in Europa e guerre informative anti-russe generate dall'intelligenza artificiale

La ricchezza di risorse naturali della Russia e il suo nuovo ruolo nell'accelerare i processi multipolari incentivano l'Occidente a continuare la sua guerra ibrida contro la Russia anche in caso di pace in Ucraina. La fazione neoconservatrice degli Stati Uniti e i globalisti liberali dell'Unione Europea (che al momento sono sostanzialmente la stessa cosa) continuano a percepire la Russia come un rivale da contenere e, idealmente, da smembrare. Per questo motivo, si prevede che nel prossimo futuro affineranno la loro guerra ibrida contro la Russia attraverso i seguenti tre mezzi.

Il primo riguarda i loro sforzi per vincere la “corsa tecnologica”, in particolare in termini di intelligenza artificiale e Internet delle cose, che secondo loro gli consentirà di guidare la “Quarta rivoluzione industriale” (4IR). Il conseguente vantaggio economico e militare che prevedono dovrebbe, secondo loro, “lasciare la Russia in ginocchio”. Credono che alla Russia seguirà inevitabilmente l'instabilità economica e poi politica. Ciò potrebbe assumere la forma di rivoluzioni colorate, rinnovate insurrezioni terroristiche e/o lotte intestine incontrollabili tra le élite.

Il secondo aspetto riguarda la divisione dei compiti dell'Occidente nel contenere la Russia. Gli Stati Uniti “guideranno da dietro” fornendo supporto back-end ai loro partner europei junior, poiché danno la priorità al contenimento della Cina.

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«L’Iran non è una minaccia per l’Occidente»

di Hans Blix

L’ex ispettore capo dell’Onu in Irak nel 2003 mette in guardia: l’Occidente rischia di ripetere gli stessi errori del passato

 Dopo l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, Hans Blix lancia un allarme all’Occidente attraverso Krisis. L’ispettore capo dell’Onu in Irak fra il 2000 e il 2003 spiega che l’Iran non ha violato il Trattato di non proliferazione e che non ci sono prove di un programma militare iraniano in corso. E colpire Teheran rischia di produrre effetti opposti a quelli desiderati. L’ambasciatore svedese propone una soluzione diplomatica: istituire una zona denuclearizzata in Medio Oriente, alla quale dovrebbe aderire anche Israele.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non pare avere dubbi: l’Iran sta per «trasformare l’uranio arricchito in arma nucleare» e «se non fermato, potrebbe produrre un’arma nucleare nel giro di poco tempo». Parole che riecheggiano quelle pronunciate prima dell’invasione dell’Irak nel 2003, che peraltro Netanyahu sostenne con forza. Una delle voci più autorevoli che si oppose all’invasione, basata su accuse infondate per cui l’Irak sarebbe stato in possesso di armi distruzione di massa, era quella di Hans Blix.

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piccolenote

Gaza: l'incontro segreto che potrebbe portare alla tregua

di Davide Malacaria

Barak Ravid su Axios, sito americano ben informato e con solidi rapporti con l’intelligence israeliana, di cui di è quasi un’emanazione, ha riferito di una riunione riservata, tenuta in parallelo agli incontri tra Trump e Netanyahu alla Casa Bianca, nella quale sono stati fatti significativi passi avanti per raggiungere un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.

All’incontro erano presenti Ron Dermer, il più stretto consigliere di Netanyahu, Steve Witkoff, l’uomo al quale Trump ha affidato la missione di sciogliere i nodi più intricati della politica estera, e un alto funzionario del Qatar, Paese che sta mediando tra Tel Aviv, Washington e Hamas, il quale ha riferito le richieste della milizia palestinese.

Il report di Axios è significativo non solo perché dà conto dell’apertura di una finestra reale di opportunità, ma anche perché dà la misura di quanto Trump stia spingendo per costringere Israele a deporre le armi.

D’altronde, tale pressione è evidente anche dalle modalità con cui si sta svolgendo la visita in America di Netanyahu che, più che una visita, ha tutto l’aspetto di una convocazione da parte del potente alleato per imporgli il rispetto dei patti.

Infatti, Trump ha salvato Israele da una sconfitta devastante nella guerra intrapresa contro l’Iran, trasformandola in un’apparente vittoria (ci torneremo), ma il patto segreto stipulato tra i due era che l’intervento americano doveva essere ripagato con il cessate il fuoco a Gaza (vedi Piccolenote).

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui un estratto del volume

Qui comunicato stampa

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Qui una recensione del volume

Qui una slide del volume

 

2025 03 05 A.V. Sul compagno Stalin

Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF

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Qui quarta di copertina

Qui un intervento di Gustavo Esteva attinente ai temi del volume

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Qui una scheda del libro

 

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Qui la premessa e l'indice del volume

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Qui la seconda di copertina

Qui l'introduzione al volume

 

 

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Qui il volume in formato PDF

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Qui l'indice e la quarta di copertina

 

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Copertina Danna Covidismo.pdf

Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui una anteprima del libro

Copertina Ucraina Europa mondo PER STAMPA.pdf

Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Terry Silvestrini

Qui una recensione di Diego Giachetti

 

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Qui una presentazione del libro

 

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

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Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Ciro Schember

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

Qui l'introduzione

 

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Qui l'introduzione al volume

 

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Qui una recensione del libro

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

Qui una presentazione

 

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Qui una recensione di Luigi Pandolfi

 
Enrico Grazzini è giornalista economico, autore di saggi di economia, già consulente strategico di impresa. Collabora e ha collaborato per molti anni a diverse testate, tra cui il Corriere della Sera, MicroMega, il Fatto Quotidiano, Social Europe, le newsletter del Financial Times sulle comunicazioni, il Mondo, Prima Comunicazione. Come consulente aziendale ha operato con primarie società internazionali e nazionali.
Ha pubblicato con Fazi Editore "Il fallimento della Moneta. Banche, Debito e Crisi. Perché bisogna emettere una Moneta Pubblica libera dal debito" (2023). Ha curato ed è co-autore dell'eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro" ” , 2015. Ha scritto "Manifesto per la Democrazia Economica", Castelvecchi Editore, 2014; “Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori Riuniti, 2011; e “L'economia della conoscenza oltre il capitalismo". Codice Edizione, 2008

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Qui l'indice del libro e l'introduzione in pdf.

 

Mattick.pdf

Qui la quarta di copertina

Ancora leggero

Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

La Democrazia sospesa Copertina

Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Giuseppe Melillo

 

 

cocuzza sottile cover

Qui l'introduzione di Giuseppe Sottile

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