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Per l’Ue ogni passo verso la pace minaccia l’industria bellica
di Pasquale Pugliese
L’incontro tra Trump e Putin in Alaska ha coinciso con il quarto anniversario della precipitosa fuga dell’esercito Usa da Kabul dopo vent’anni di occupazione: un quarto di secolo di guerre, iniziato nell’ottobre del 2001, come vendetta e punizione collettiva – modello futuro per Netanyahu – per l’attacco terroristico subìto l’11 settembre.
L’invasione dell’Ucraina ne è stata anche l’estremo effetto, un effetto farfalla nel tempo e nello spazio secondo l’intuizione di Edward Lorenz, che impregna di sé anche le complesse relazioni internazionali: il battito d’ali di una farfalla in una parte del mondo genera un uragano dall’altra. Ossia il diritto internazionale vale per tutti ovunque – dall’Afghanistan all’Iraq, dall’Ucraina alla Palestina – oppure è impossibile farlo valere solo per qualcuno.
L’Europa si è stracciata le vesti per la sua esclusione dall’incontro di Anchorage, insieme a quella di Zelensky, ma la sua assenza – recuperata solo quattro giorni dopo con l’anticamera dei “volenterosi” alla Casa Bianca, nell’incontro tra Trump e il presidente ucraino – è frutto della rinuncia sdegnosa a essere, fin dall’inizio, terzo rispetto alla guerra russo-ucraina. L’Ue, scegliendo la cobelligeranza con una parte “fino alla vittoria”, attraverso la reiterata fornitura di armi all’Ucraina “per tutto il tempo che sarà necessario”, e imponendo 18 ondate di sanzioni economiche all’altra (ma zero ad Israele), anziché essere attivamente neutrale come chiedevano i movimenti pacifisti, è esattamente il Terzo assente secondo la formula usata da Norberto Bobbio nel 1989: il terzo mancante nel conflitto.
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Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua
di Diego Giachetti
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
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Metti la cera, leva la cera: NITAG e teatro d'agosto
di Il Chimico Scettico
Schillaci fa il NITAG, Schillaci sfa il NITAG.
In mezzo e dopo, il teatro.
Un teatro costruito su una vicenda marginale, come spesso capita in agosto.
La comunità scientifica
Una settimana di ferragosto in cui, come palline da ping pong, rimbalzavano su tutti i media italiani "scienza" e i suoi derivati: io scienzio, tu scienzi, egli antiscienza, essi comunità scientifica.
Bellavite protestava: non sono un no-vax, ma uno scienziato (si, ok...). Poi FNOMCeO (Associazione di ordini professionali), comunità scientifica, Società Italiana di Pediatria (associazione medica), comunità scientifica. Parisi, premio Nobel per la Fisica, comunità scientifica, anche se parla di sanità o medicina - ma quando si accetta il ruolo di uomo immagine dell'iperrealtà scientifica questo è. E poi i grandi classici: la lettera o la corrispondenza su una rivista internazionale, e anche questa volta chi scrive è italiano - i precedenti in tempi di COVID (BMJ) e all'epoca dell'obbligo vaccinale pediatrico (tante se ne videro tra 2017 e 2018). Lo schema è sempre lo stesso, lettera a Lancet o a Nature in inglese, sì, ma per parlare al dibattito italiano, anche perché per gli anglofoni la cosa non è che in generale sia quella più interessante del mondo. Tutto armamentario già usato per questioni di ben altro spessore.
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“L’ora delle decisioni irrevocabili”, ovvero fatela finita
di Francesco Piccioni
La situazione dell’Unione Europea davanti alla guerra in Ucraina è molto simile a quella di un investitore di piccolo taglio davanti al calo di prezzo dei titoli azionari su cui ha puntato: vendere (fare la pace) accettando di formalizzare perdite sostanziose oppure “tenere” (continuare la guerra) sperando che i prezzi risalgano?
A guardare l’ostinazione acefala con cui si insiste – anche dopo il maltrattamento subito a Washington dal loro “alleato-padrone” – a ripetere sempre le stesse richieste (cessate il fuoco prima di trattare, nessuna cessione di territorio, altre sanzioni contro Mosca, ecc) effettivamente si ha l’impressione di vedere in azione degli idioti irrimediabili.
Ovviamente, nonostante la loro infima “statura da statisti”, non sono affatto degli idioti, ma se non altro dei furbastri che sono stati capaci di arrivare al vertice dei rispettivi paesi sfruttando meglio dei concorrenti le opportunità fornite da “donatori importanti”.
Il problema nasce dal fatto che anche tutti insieme continuano a contare come se ognuno fosse comunque “da solo”, ovvero dal fatto che il progetto europeo era sostanzialmente sbagliato (facciamo prima l’unità economica – peraltro basata sulla competizione interna – poi quella monetaria ma non quella fiscale e bancaria, poi quella politica e militare, anzi no, ci si arma ognuno per conto suo).
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La fine del mito della statualità
di comidad
In molti hanno notato che “Ferragosto in Alaska” era un titolo che si adattava più a un film con Christian De Sica e Massimo Boldi che a un evento storico. C’è inoltre un diffuso scetticismo sulla possibilità che Trump riesca a mantenere i canali di trattativa eventualmente aperti con la Russia sui dossier comuni, compresi l’Artico e il controllo nucleare. Pare che lo stesso Putin non creda alla possibilità degli USA di mantenere accordi, cioè di esprimere una continuità istituzionale. Nella conferenza stampa finale Putin ha accettato di compiacere l’ego di Trump avallando il suo mantra, secondo il quale se ci fosse stato lui alla presidenza al posto di Biden, la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Putin non è il grande statista che molti hanno vagheggiato, ma è comunque un vero professionista della politica e della diplomazia, perciò da parte sua appare strana una deroga così smaccata dal codice di comportamento istituzionale, in base al quale occorrerebbe evitare di esprimere giudizi e fare confronti sui capi di Stato degli altri paesi. Secondo il luogo comune, la politica russa sarebbe molto legata a certi formalismi giuridici, invece Putin stavolta li ha tranquillamente ignorati. Certe sbracate ce le si poteva aspettare da un lobbista e dilettante della politica come Mario Draghi, il quale nel 2021 non si limitò a elogiare il presunto europeismo di Biden, ma si lasciò andare a critiche sul suo predecessore Trump.
A fondamento dei rapporti istituzionali dovrebbe esserci la funzione, che prevale sulle persone che la esercitano di volta in volta. Questo filo di continuità nella funzione, al di là e al di sopra della caducità delle persone, sarebbe appunto lo Stato.
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Trump non riesce ancora a capire le ragioni fondamentali dell'operazione militare speciale della Russia, però ci sta provando
di Larry C. Johnson - sonar21.com
Nonostante le affermazioni dell’amministrazione Trump sul successo dell’incontro di lunedì con Zelensky e la delegazione europea dei papponi, le prospettive di un negoziato di successo per porre fine alla guerra in Ucraina sono pari a zero. Trump continua a credere erroneamente di dover semplicemente riunire Putin e Zelensky, che poi troveranno un accordo. Trump si basa sulla falsa convinzione che la guerra in Ucraina sia stata causata in parte da uno scontro personale tra Putin e Zelensky. Putin è stato molto chiaro sul fatto che incontrerà Zelensky solo una volta concordati i dettagli della resa ucraina. Trump ritiene inoltre che si tratti solo di una disputa territoriale e che lo scambio di territori sia fondamentale per raggiungere un accordo di pace. Anche in questo caso, Trump dimostra una profonda ignoranza riguardo allo status giuridico delle repubbliche di Zaporizhia e Kherson secondo la Costituzione russa. Putin non può concedere nulla di quel territorio all’Ucraina, così come Trump non può restituire l’Alaska alla Russia.
Ma c’è una buona notizia: nonostante Trump ignori le ragioni per cui la Russia ha avviato l’Operazione Militare Speciale (SMO) nel febbraio 2022, è sincero nel voler ristabilire il dialogo e le normali relazioni diplomatiche con la Russia… almeno questo è ciò che credono i russi. Durante il mandato di Biden, le comunicazioni con la Russia si sono interrotte nel gennaio 2022. Ora hanno qualcuno con cui parlare… in realtà diverse persone, tra cui Trump, Rubio, Ratcliffe e Witkoff.
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Trump piega Zelensky e Ue: l'agenda Alaska tiene
di Piccole Note
L’incontro tra Trump e Zelensky e quello successivo nel quale al presidente ucraino si sono uniti i leader europei, che si sono precipitati a Washington per evitare che il presidente ucraino cedesse alle richieste dell’ospite e per far vedere che contano ancora qualcosa (in realtà, di per sé contano nulla) è andato bene, nel senso che segna un punto di partenza per un accordo tra Russia e Ucraina.
Lo dice l’imbarazzo successivo degli ospiti della Casa Bianca, lo dicono i media mainstream che a stento trattengono la rabbia per l’ingerenza indebita dell’inquilino della Casa Bianca, determinato a rompere un gioco sanguinario che dura da oltre tre anni e che ha garantito un lucro crescente a tanti.
Su quanto accaduto a Washington l’analisi più convincente arriva da Strana. Secondo il media ucraino, in Alaska Trump e Putin avevano raggiunto degli accordi di massima su tre punti. Anzitutto che fosse abbandonata l’idea del cessate il fuoco come avvio necessitato dei negoziati per negoziare, invece, subito un’intesa globale e duratura. Inoltre, che Kiev ricevesse garanzie di sicurezza e che i russi mantengano il controllo su parte del territorio ucraino.
Quando Trump aveva riferito agli europei e a Zelensky l’esito dell’incontro con Putin, continua Strana, la loro reazione “sui primi due punti è stata nettamente negativa. Mentre sul terzo […] hanno proposto di stanziare truppe europee in Ucraina, cosa che Mosca aveva già respinto come del tutto inaccettabile”.
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Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua
di Diego Giachetti
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
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Bolivia, il padre della patria uccide sua figlia
Evo Morales, fattosi caudillo, fa vincere la destra
di Fulvio Grimaldi
Nell’articolo per l’Antidiplomatico “Una Latinoamerica a fisarmonica”, passando rapidamente in rassegna il subcontinente tra resistenze e arretramenti, ho provato a spiegare la tragica involuzione di uno dei protagonisti del riscatto latinoamericano, la Bolivia di Evo Morales. L’esito, in questi giorni, del primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari decreta la fine di una delle esperienze più riuscite e trainanti per il resto della regione e del Sud Globale. Di questo pesantissimo arretramento di una nazione che si era proclamata binazionale, aveva assicurato l’alfabetizzazione, il ricupero delle risorse predate, l’istruzione, l’equità sociale, è complicato specificare le varie responsabilità. Resta quella più in vista, e ahinoi innegabile, dell’indio cocalero Evo Morales.
Lo incontrai, venuto in Bolivia per raccontare la vittoriosa “Guerra del agua”, con cui una battaglia di popolo sottrasse l’elemento ai monopolisti USA di Bechtel, alla vigilia del suo primo trionfo elettorale- Un risultato favorito dal nuovo vento che la rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez aveva fatto spirare per l’America Latina e che avrebbe rafforzato o favorito l’avvento di leadership progressiste come quelle dei Kirchner in Argentina, di Rafael Correa in Ecuador, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Lopez Obrador in Messico.
Per tre lustri la Bolivia percorse la via dell’emancipazione, della sovranità, dell’antimperialismo internazionalista, anche se, nella seconda decade del secolo, il vigore e la determinazione del passo s’erano andati affievolendo, frenati da divergenze interne alle organizzazioni sociali e da un crescente peso della burocrazia.
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A Washington “l’Europa” esce di scena, ma non vuole ammetterlo
di Dante Barontini
Arretrare facendo finta di avanzare. La più antica delle tecniche retoriche straborda da tutte le dichiarazioni dei “guerrafondai con la carne degli altri”, dopo una serie di schiaffi presi davanti alle telecamere e dietro le quinte.
Il maxi-vertice di Washington – da una parte Trump e gli Usa, dall’altra Zelenskij per l’Ucraina e ben sette nanerottoli per “l’Europa” – si è svolto in più atti. Alcuni importanti, altri decisamente di contorno.
Il vertice vero è stato quello con il solo Zelenskij, accolto con una mappa della situazione sul terreno a oggi, bene in vista a ricordare che di lì si parte, se si vuol discutere di pace. E non per “fare un favore a Putin”, ma perché nessuno sano di mente può ancora credere che si possa tornare alla mappa del 2013 – come da tre anni e mezzo ripetono la junta ucraina e i “partner europei” – senza scatenare una guerra nucleare.
Il secondo punto fermo, prima ancora di cominciare, è stato che l’Ucraina non entrerà nella Nato. E quindi che di schierare truppe e missili occidentali da quelle parti non se ne parla neanche.
Il terzo ostacolo è stato eliminato prima ancora di essere nominato: nessun “cessate il fuoco” è indispensabile (era la prima delle proposte avanzate dagli europei e da Kiev), secondo Trump, perché “ho fermato fin qui sei guerre senza alcun cessate il fuoco prima”.
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Il genocidio di Gaza non è brandito solo dalla destra israeliana
di Piccole Note
“Per ogni vittima del 7 ottobre, 50 palestinesi dovevano morire. Non importa se si trattava di bambini. Non per vendetta, ma per lanciare un messaggio alle generazioni future: non c’è niente che potete fare. Hanno bisogno di una Nakba di tanto in tanto, per sentirne il prezzo” della ribellione. Così il generale Aharon Haliva, che il 7 ottobre guidava l’intelligence militare e si è dimesso dopo quel disastro, in un’intervista a un media israeliano.
“È proprio Haliva – commenta Gideon Levy su Haaretz – che è in un certo senso un eroe del centro-sinistra, a delineare il ritratto di un generale genocida. Si dissocia da Bezalel Smotrich, deride Itamar Ben-Gvir e attacca Netanyahu senza riserve, da generale illuminato e progressista qual è. Ma pensa e parla esattamente come loro”.
“In definitiva, sono tutti sostenitori del genocidio. La differenza sta solo tra chi lo ammette e chi lo nega. Nel campo degli illuminati dediti all’auto-adulazione a cui appartiene, Haliva si è rivelato uno dei pochi ad ammettere: abbiamo bisogno di un genocidio ogni pochi anni; assassinare il popolo palestinese è legittimo, persino essenziale”.
“È così che parla un generale ‘moderato’ dell’IDF. Non è come altri [graduati] estremisti” che in questi anni sono balzati agli onori della cronaca per gli orrori disseminati a Gaza.
Haliva, infatti, è “un bravo ragazzo di Haifa e del quartiere residenziale di Tzahala a Tel Aviv”.
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Anchorage, la nuova Yalta?
di Gerardo Lisco
Messaggio chiarissimo di Trump all’UE, ai volenterosi e a Zelensky: “Non vi mettete di traverso per impedire il processo avviato”. Più chiaro di così non poteva essere. Se questa dichiarazione l’avesse fatta Putin avrebbe sortito effetti diversi. Scorrendo le notizie e i commenti prendo atto che siamo in presenza di pura e semplice propaganda: i media nazionali hanno avuto l’ordine di far passare l’idea che l’incontro è stato un fallimento. Far passare quest’idea serve alle oligarchie, alle tecnocrazie e ai governi che sono ancora in gioco, solo così si capisce la dichiarazione congiunta dei capi di governo riportata sul sito web dell’Unione Europea, che ha come unico scopo quello di negare l’evidenza dei fatti. È fin troppo chiaro che una fase è terminata e che il nuovo corso, pur essendo ancora in embrione, non vuole essere abortito. L’Unione Europea dopo aver perso, non una ma ben due occasioni storiche, adesso rincorre l’emergenza, cercando di bloccare il processo avviato ad Anchorage da Trump e Putin. Lo fa attraverso opinionisti e giornalisti che definiscono i due dittatori, autocrati, psicopatici e altro ancora. Leggendo queste definizioni mi vengono in mente personaggi che hanno fatto la Storia, oggi celebrati, che molto probabilmente, ai loro tempi sono stati appellati più o meno allo stesso modo. Ne cito alcuni: Cesare, Ottaviano Augusto, Costantino, Federico II di Svevia, Federico II di Prussia, Elisabetta I Tudor, Isabella di Castiglia, Napoleone Bonaparte, l’elenco è lungo.
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Eurosinistrati
di Leonardo Mazzei
I peggiori di tutti…
Il vento d’Alaska fa male all’Europa guerrafondaia. Fa male alla sua stampa, ai suoi governi, ai suoi partiti. Ma fa ancora più male agli eurosinistrati.
Tutti i giornaloni del Vecchio continente hanno raccontato la favola di “un vertice fallito”, di un “Trump sottoposto a Putin”, di una “intesa tra autocrati”, che però non avrebbe “prodotto nulla” visto che “non c’è la tregua”. Ma come! Non avevano forse detto, proprio loro, che le scelte spettavano al suonatore di piano di base a Kiev? Bene, di cosa si lamentano adesso?
Proprio insieme a lui, alcuni caporioni europei oggi andranno a Washington a implorare il loro principale: che la guerra continui a tutti i costi! Ecco l’Europa reale chiamata Ue, quella che dicevano esser venuta al mondo per porre fine alle guerre…
* * * *
Da vent’anni non leggiamo più il Manifesto, superfluo spiegare il perché. Ma oggi abbiamo deciso di fare un’eccezione, certi di trovare in quelle pagine l’allineamento con i giornaloni di cui sopra. La conferma, cioè, di una deriva senza fine. Da questo punto di vista la spesa una tantum di 2 euri è stata ampiamente compensata dalla lettura delle prime quattro pagine.
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Tra guerra e pace, con poche scelte
di Francesco Piccioni
Cercare un ordine nel caos, di solito, è un’impresa per premi Nobel… E se dovessimo prendere per egualmente buone tutte le “voci” o le dichiarazioni in chiaro dei vari protagonisti, il secondo vertice “per la pace” – quello di oggi a Washington, dopo l’Alaska e prima di un eventuale “trilaterale” che comprenda gli ucraini – andrebbe descritto come “un racconto narrato da un idiota, pieno di rumore e furia, che non significa nulla”.
Partiamo dal poco che sembra sicuro. I vertici di oggi saranno almeno due: il primo sarà – salvo sorprese – quello tra Trump e Zelenskij. Subito dopo saranno ammessi al briefing anche i nanerottoli europei (i leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, più von der Leyen come presidente della Commissione, il finlandese Stubb come presidente di turno, il pupazzo Rutte come segretario della Nato).
Abbastanza chiara anche l’intenzione Usa di tener distinte le posizione di Kiev e degli europei, per il banale fatto che se l’Ucraina si dovesse mostrare disponibile a un certo tipo di compromesso allora le obiezioni UE conterebbero meno di zero.
Altrettanto chiara la speranza europea, opposta, di impedire che il già periclitante “percorso di pace” faccia passi avanti verso una soluzione diversa dal sogno di una “sconfitta russa”. Ci si interroga sullo stato di salute mentale di questa armata brancaleone che non riesce neanche a vedere la realtà sul campo, ma persiste nel vaniloquio del wishful thinking.
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Da Gaza allo zoo, al vertice Trump-Putin, a Schillaci-No Vax, a Pippo Baudo santo subito. Cose raccapriccianti
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=hGnegwFO6xA&t=160s
https://youtu.be/hGnegwFO6xA
NON SI UCCIDONO COSI’ ANCHE GLI ANIMALI?
Correggo subito un errore. Nel video riferendomi a una recente trasmissione RAI ho sbagliato il titolo: è “Evviva”, non “Vivere”. Scusate.
Nel video, ci si muove, costernati e incazzati, tra una serie di fatti raccapriccianti, capitati tutti uno addosso all’altro e strettamente imparentati, poi coronati dalle fastose celebrazioni di alcuni gatekeeper fatti “padri della patria”.
Raccapricciante 1
Gli psicopatici onanisti suicidi europei, assetati di sangue da far versare a tutti noi per far tracimare i forzieri dei loro mandanti armaioli, si accontentavano di far fuori Putin, ma ora si illudono di poter far fuori anche Trump. Che se lo merita, ma non per i motivi per i quali è odiato da questi imbecilli. L’idea di pace, che il sangue di ucraini non possa continuare a farsi alluvione e quello dei russi non continuare a irrorare la loro terra in nome di libertà e giustizia, con ciò seccando le loro economie capitaliste stupide e malate e bloccando l’ultima Thule della riproduzione dell’accumulazione, li manda fuori di testa. Gli prospetta la fine e si dibattono nelle spire di fetori di morte. Sanno che è la loro.
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Imbecillità imperante
di Nico Maccentelli
I casi sono due: o gli inviati ad Anchorage Rosalba Castelletti e Paolo Mastrolilli per La Repubblica non hanno capito nulla, oppure hanno confezionato una versione fake propagandistica per la percezione stereotipata che hanno dell’opinione pubblica. Infatti il titolo del loro pezzo già si commenta da solo: Fallisce il vertice Putin-Trump.
In pratica hanno visto un altro film… eppure non sono stati in una multisala, ma l’unico proiettore da cui poter vedere l’unico schermo che passava il convento ha fatto vedere l’incontro con tutti gli onori e riconoscimenti tra gli esponenti di due grandi potenze. Un riconoscimento alla Russia conquistato sul campo della guerra e delle relazioni internazionali, delle alleanze che ha ratificato ciò che è di fatto oggettivamente reale: essere potenza globale nell scacchiere internazionale.
Ovviamente questa narrazione oggi dominante nel 90% del pianeta, non poteva non essere riconosciuta dall’amministrazione USA che cerca di sganciarsi dal bellicismo esasperato di una UE-NATO sempre più alle corde e svenata da una guerra e da sanzioni che sono più un rastrello nei denti dopo averlo volutamente pestato. Al declino dell’impero americano la Casa Bianca non ci sta e tenta un comprensibile per un paese imperialista riposizionamento geopolitico. Questa è la sostanza, che ha il sapore tutt’altro che quello di un fallimento.
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Zelensky all'atto finale?
di Vincenzo Brandi
I commenti provenienti da ambienti europei che fanno capo alla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” – quelli che vogliono continuare la guerra alla Russia a ogni costo – e dal codazzo di giornalisti e commentatori che sono da loro stipendiati, per farsi coraggio parlano di “fallimento” del vertice tenuto in Alaska perché non sarebbe stato raggiunto il presunto obiettivo del vertice, quello di imporre alla Russia una tregua senza condizioni.
In realtà il vertice Putin-Trump ha riguardato obiettivi ben più importanti e globali di quelli auspicati dai “volenterosi” e dal loro pupillo Zelensky.
Il vertice si è interessato delle condizioni fondamentali per una pace duratura in Ucraina, e non di una semplice tregua che sarebbe solo servita a cercare di riarmare e rilanciare le azioni dell’esercito ucraino, in chiara difficoltà e a corto di uomini per l’esplodere della renitenza alla leva e le fughe continue all’estero di giovani, e meno giovani, per non essere arruolati.
Il vertice, più in generale, ha riguardato le condizioni necessarie per ottenere una situazione di reciproca sicurezza a livello mondiale. Il presidente Trump, rinunciando agli atteggiamenti da bullo che lo avevano portato a minacciare gravissime sanzioni contro la Russia se non avesse accettato una tregua immediata e incondizionata (un “bluff” in cui gli esperti dirigenti russi non sono minimamente caduti), ha alla fine saggiamente accettato l’agenda proposta dai Russi che consisteva nell’affrontare problemi ben più vasti e significativi di una semplice tregua, che riguardano l’avvenire del dialogo tra USA e Federazione russa.
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Le guerre di Israele sono (anche) guerre per procura
di Antiper
La difesa compatta del genocidio israeliano a Gaza e delle operazioni militari dell’entità sionista e terrorista da parte delle “cancellerie” di tutti i paesi dell’impero americano viene spesso letta come la manifestazione evidente di una sudditanza nei confronti di Israele. Questa idea degli ebrei che dominano il mondo sembra però la semplice riproposizione della vecchia teoria della “cospirazione giudaica” e non spiega efficacemente il reciproco e dialettico interesse che nutrono Israele (assieme a larga parte della comunità ebraica internazionale) e i gruppi dominanti del blocco imperialista a guida USA.
Certo, all’interno di questo blocco, Israele non è un semplice stato-vassallo come lo sono l’Italia o la Lituania o (ancora per poco) l’Ucraina. Israele è un paese che ha un grande peso politico che si mostra platealmente nelle standing ovation che il Congresso americano, senza alcuna forma di pudore, tributa a un criminale genocida le cui azioni non hanno nulla da invidiare a quelle di Adolf Hitler.
Dopo la Seconda guerra mondiale (e per diversi aspetti anche in precedenza, visto che la dichiarazione di Balfour avviene durante la Prima guerra mondiale) gli ebrei stipulano un patto con le potenze imperialiste e colonialiste vincenti (gli USA e soprattutto la Gran Bretagna, a cui era stato assegnato il protettorato della Palestina dopo il crollo dell’Impero Ottomano alla fine della Grande guerra):
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Per la Cina, la guerra in Ucraina è un laboratorio
di Alessandro Visalli
L’ex generale David Petraeus, ex comandante in Iraq e Afghanistan ed ex Direttore della CIA, in questo articolo per The National Interest, rende abbastanza chiaro perché l’amministrazione americana stia cercando di far finire la guerra in Ucraina. La dimensione strategica generale dello scontro è il ruolo di “laboratorio” per la Cina. Come mostra l’autorevole osservatore la Cina è il principale “facilitatore economico e industriale” della Russia, ma anche il fornitore di sistemi militari dei quali valuta in questo modo l’efficacia in una guerra ad alta intensità contro tattiche e materiali Nato. In tal modo può acquisire, senza perdere un uomo o un mezzo (anzi, vendendoli), cruciali informazioni e, in tal modo, con le sue parole “perfezionare i concetti che utilizzerà per guidare lo sviluppo delle proprie armi, l’addestramento militare e le strutture organizzative”. A parere dello scrittore ormai Pechino “funge da spina dorsale logistica del complesso militare-industriale russo”. Microelettronica, macchine utensili ed esplosivi per i proiettili, Con il supporto cinese i russi si apprestano a produrre entro l’anno in corso l’incredibile cifra di due milioni di droni di attacco avanzati a FPV (controllo immersivo in prima persona). Il punto è che queste forniture messe alla prova delle capacità avanzate di difesa, fisica ed elettronica, fornite dall’occidente all’Ucraina, consentiranno di produrre nuove generazioni di armi.Petraeus aggiunge che tutte le informazioni convergono in un sistema centralizzato di gestione che è in grado di “rispondere molto più rapidamente della burocrazia degli appalti dell’era industriale degli Stati Uniti”.
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Chiarimenti sull’effetto espansivo del deficit pubblico
di Marco Cattaneo
Conversando con Giovanni Piva, mi sono reso conto della necessità di chiarire alcune cose in merito all’effetto espansivo del deficit pubblico e a come questo effetto (non) vari in funzione di come viene “finanziato”.
Deficit pubblico significa che lo Stato spende più di quanto preleva con le tasse. Quindi immette moneta nell’economia. Questo è (dovrebbe essere ?) chiaro a chiunque.
Tuttavia, se contestualmente lo Stato emette titoli per “finanziare il deficit”, la moneta immessa viene ritirata e quindi l’effetto espansivo sparisce. Giusto ?
NO.
Lo Stato quando spende, spende MONETA. Quella entra nell’economia.
E se lo Stato spende per stipendi pubblici o per investimenti, IMMEDIATAMENTE genera PIL. La moneta passa di mano (arrivando al dipendente pubblico o al fornitore delle opere pubbliche) che si ritrovano con un incremento del loro risparmio finanziario.
Se viene loro offerta una forma di impiego sotto forma di titoli di Stato, sono di solito interessati ad utilizzarla. Ma l’effetto espansivo sul PIL SI E’ COMUNQUE GIA’ VERIFICATO.
NON è affatto vero che “l’effetto espansivo svanisce perché la moneta precedentemente emessa viene ritirata”.
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Cento parole al giorno
di Tiziana Miano
USA 2018, mentre la cosiddetta “dottrina Trump” s’imponeva, dentro e fuori casa, all’attenzione dei tanti, nelle stesse terre del melting pot vedeva la luce un ennesimo romanzo che, qualora ve ne fosse stato bisogno, andava ad aggiungersi al Sancta Sanctorum del già nutrito filone distopico di ordine femminista di successo. L’opera letteraria in questione, porta per titolo Vox, prodotto d’esordio di Cristina Dalcher edito da Nord.
Con una scrittura priva di orpelli semantici, l’uso di un linguaggio diretto, asciutto, a tratti forse troppo e a discapito di una maggiore profondità e articolazione di pensiero, l’autrice centra comunque il bersaglio toccando la sensibilità di superficie del lettore medio che, da subito, diviene empatico complice dei bisogni, degli intimi desideri, dei sussulti d’odio, di libidine e soprattutto, delle ragioni di ribellione e tradimento della protagonista, Jeane. Non potrebbe essere altrimenti. Di fatto, il gran numero di elementi (ammiccamenti?) tipici di un prodotto letterario che soddisfi precisi comparti socioculturali, precise sensibilità (che siano quelli di una sinistra radical chic o alla comunità LGBTQIA+ e altri), ci sono tutti. Troviamo, infatti, l’amica politicizzata, attivista rampante, e la ricercatrice geniale, rigorosamente entrambe lesbiche; il conciliatore, dialogante col potere che, a sorpresa, rivela un salvifico sprazzo d’eroismo e via così.
Lo scenario di futuro immaginato dall’autrice, che in vero non osa discostarsi da soluzioni già battute ben più sapientemente da altri è quello di un regime totalitario bianco giunto a sovvertire l’ordine costituito e cambiare, ovviamente in peggio, le sorti delle donne.
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Trump-Putin, l’accordo c’è anche se non si vede
di Barbara Spinelli
Dicono i media statunitensi, compresi quelli vicini a Trump, che il vertice con Putin in Alaska non ha prodotto il successo immaginato dalla Casa Bianca, anche se l’evento è stato spettacolare: era la prima volta che le due potenze nucleari si parlavano, dall’inizio della guerra per procura in Ucraina che Joe Biden e Boris Johnson vollero proseguisse anche quando Kiev accettò una bozza d’intesa con Mosca, poche settimane dopo l’invasione del febbraio 2022. In realtà l’accordo fra i due presidenti c’è, anche se entrambi non intendono per ora formalizzarlo. “Nessun accordo fino a quando l’accordo c’è”, riepiloga Trump. Adesso tocca a Zelensky prendere la decisione che metta fine alla guerra, o almeno produca una tregua duratura. Zelensky recalcitra, ma dovrà valutare prestissimo: Trump l’ha convocato a Washington fin da domani. E tocca decidere agli Stati europei, che per tutto questo tempo hanno boicottato i tentativi di Washington, senza mai provare vie diplomatiche alternative e limitandosi a insistere sugli aiuti militari a Kiev, sulle sanzioni a Mosca e sul proseguimento della guerra. I cosiddetti “europei volenterosi” si dicono convinti che entro un decennio Mosca aggredirà il resto del continente. Quanto agli ucraini, la maggioranza chiede “pace subito”: ma che importa, sono loro a morire, mica noi. Infine la decisione spetta alla Nato, che dovrà ammettere una disfatta monumentale. Se Kiev e i volenterosi capiranno che la palla è nel loro campo, e che la sconfitta è ingiusta ma ineludibile, l’accordo potrebbe culminare in un incontro fra Putin, Trump e Zelensky.
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Gli spot interattivi per vendere assistenzialismo per ricchi
di comidad
Il famoso apocrifo keynesiano afferma che sul lungo periodo saremo tutti morti; però ancora più certo è che sul “lungo periodo” si può speculare e ipotizzare all’infinito, con un ovvio effetto di distrazione dai dati di fatto immediati. Ad esempio, vari illustri commentatori predicono che la politica dei dazi di Trump determinerà un effetto protezionistico e a lungo termine una conseguente reindustrializzazione degli Stati Uniti. Come no? Tutto può essere. Intanto però i dazi sono una tassa sui beni importati che viene pagata dal consumatore finale, e ciò in un paese dove la gran parte dei beni di consumo viene importata. Si può discutere se i dazi provocheranno o meno inflazione, visto che i dati ufficiali sull’occupazione sembrano indicare una recessione, tanto che Trump ha licenziato la responsabile delle statistiche. Quel che risulta certo è chi paga i dazi, cioè il contribuente più povero, quello che non può rivalersi su nessuno. All’opinione pubblica i dazi possono essere “venduti” in molti modi: ai più come rivalsa nazionale e, per coloro che hanno orecchiato qualcosa di economia, li si può persino spacciare come presunto contrappeso all’IVA degli europei.
I dazi li avevano imposti anche i predecessori di Trump, con meno clamore ma con motivazioni analoghe. Oggi Trump li ripropone in grande stile e con tariffe abbastanza irrealistiche e, nel contempo, ha prorogato e ampliato i tagli fiscali a favore delle imprese. Il carico fiscale è stato quindi trasferito sul contribuente povero, al quale tutto ciò è stato venduto come un progetto di grandeur nazionale dilazionato nel futuro.
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Iene e sciacalli sui martiri di Gaza
di Patrizia Cecconi
In tutta Italia, nonostante le complicità sudice e corrotte di alcuni mezzi di comunicazione grandi e piccoli che senza vergogna coprono Israele, ormai la solidarietà verso il popolo di Gaza si muove in mille diverse forme, anche soltanto umanitarie.
Questo perché è ormai evidente che il popolo gazawi è martoriato con tecniche sempre più simili a quelle usate dal nazi-fascismo contro gli oppositori politici e le minoranze religiose ed etniche. A tal punto simili che chi ha studiato le peculiarità del Terzo Reich e le tecniche praticate contro i 17 milioni di internati nei campi di sterminio, ritrova nelle azioni dell’ IDF la stessa crudeltà "gratuita" dei militari nazisti addetti ai lager e lo stesso sadismo e l’identica vigliaccheria delle famigerate einsatzgruppen che si accanivano contro i civili inermi, in particolare donne e bambini.
Non ci sono croci uncinate sulle divise dei carnefici ma stelle di David, e lo Stato cui appartengono gode ancora, impropriamente, dell’appellativo di Stato democratico come ci ricordano servitori e valletti delegati a formare la pubblica opinione tra cui, tanto per fare un esempio, la graziosa Adriana Bellini che in un TG de La7, dando asetticamente notizia dell’uccisione quotidiana da parte di Israele di qualche decina di civili palestinesi (inermi e affamati) precisa però, che “come sappiamo tutti, Israele naturalmente è un paese democratico mentre Hamas è un’organizzazione terrorista”, come a dire che se hai l’etichetta giusta sulla divisa puoi trucidare impunemente decine di migliaia di esseri umani, tanto resti democratico!
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Stati Uniti: ambiente e terre pubbliche sotto attacco
di Ezio Boero
La storia dell’umanità è stata anche caratterizzata da una ricorrente espropriazione, da parte di una minoranza della popolazione, dei beni comuni che appartengono a tutti. Negli ultimi secoli ciò è stato funzionale all’accumulazione capitalistica, a cominciare dalla privatizzazione delle terre. Gli Stati Uniti, nati dalla violenta appropriazione delle terre accudite collettivamente dai nativi, ne sono un esempio estremo. Ma anche in quella nazione ci sono ancora luoghi comuni, non interamente aggrediti dalla logica del profitto e preservati per il loro valore naturalistico. E anche, alcuni di essi e in tempi più recenti, per il significato che i nativi annettevano loro. Dal 1872, con la creazione del parco di Yellowstone, i territori protetti, diffusi in in 50 Stati degli USA, sono oggi più di 400, per un totale di 340.000 chilometri quadrati (più del territorio dell’Italia, che è di 302.000 chilometri quadrati). Ma non solo da oggi, e non solo col Partito Repubblicano al governo nazionale o dei singoli Stati dell’Unione, queste terre pubbliche hanno solleticato l’appetito del profitto privato. Innumerevoli sono state le lotte dei nativi, degli ecologisti, del popolo consapevole per difenderle da ripetuti tentativi di utilizzarle per il passaggio di oleodotti o per lo scavo alla ricerca di gas e petrolio.
Tali attacchi si sono drasticamente rafforzati col ritorno di Trump al governo e l’immediata nuova fuoriuscita degli USA dai già insufficienti accordi di Parigi contro l’emergenza climatica.
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Cosa ci dice l’incontro Putin Trump
di Nico Maccentelli
Come comunista, se devo analizzare gli esiti dell’incontro in Alaska tra Trump e Putin, ovviamente parto da due dati di fatto.
Un dato è sovrastrutturale: entrambi sono rappresentanti di oligarchie capitalistiche dentro un quadro di democrazia parlamentare borghese.
Un altro è politico, poiché tra potenze capitalistiche c’è differenza. Mentre Trump esprime gli interessi di un imperialismo unipolare in declino e per questo più aggressivo nelle sua frazioni di potere (oggi concentrate come deep state nella roccaforte europea, e ciò pone contraddizioni interne col MAGA non da poco…), Putin, ossia la Federazione Russa è di fatto il braccio militare delle potenze emergenti che si sono coagulate attorno ai BRICS e che hanno attratto altre potenze regionali che sono ancora oggi alleate dell’atlantismo a dominanza USA.
In questo incontro aleggia la presenza della Cina, mentre è out la cordata di volonterosi UE e GB in testa, il che dimostra una frattura non da poco nel fronte atlantista stesso e dall’altra una coesione attorno all’asse Russia-Cina.
Non sappiamo cosa si siano dette le due delegazioni in Alaska e certamente la questione ucraina è ancora lontana dal risolversi. Tuttavia si può pensare a due aspetti: uno tattico e uno strategico.
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L'”Europa” deve ora decidere come perdere
di Dante Barontini
Zelenskij si prepara al viaggio per Washington dove dovrà scegliere tra due sconfitte: aderire al canovaccio individuato in Alaska tra Trump e Putin (fare un accordo accettando molte, se non tutte, delle condizioni poste da Mosca), oppure rifiutare la proposta e restare in guerra con il solo appoggio dell’Unione Europea, manifestamente non in grado di “compensare” l’apporto statunitense (copertura satellitare, comunicazioni, droni, missili a medio raggio, ecc).
Scavando un po’ tra le indiscrezioni lasciate trapelare a valle del vertice, si può dire con una certa sicurezza che il principale risultato sia stata la convergenza tra due superpotenze nucleari – ma ce ne sono oggi anche altre… – nel definire un quadro di relazioni non apertamente conflittuale.
Detto in parole semplici, gli Usa di Trump vogliono svincolarsi dal conflitto in Ucraina per una lunga serie di ragioni.
Si sono impegnati in una guerra dei dazi con tutto il mondo, senza distinguere troppo tra avversari storici e “alleati-vassalli”, allo scopo esplicito di scaricare il costo del proprio debito (sia pubblico che commerciale) sugli altri.
Devono provare a favorire la re-industrializzazione del proprio paese, desertificato da 30 e più anni di delocalizzazioni produttive che hanno creato nuovi e potenti concorrenti. Ma è un obiettivo che appare praticamente impossibile, nonostante gli investimenti imposti ai vassalli nippo-europei, e proprio mentre le preoccupazioni per l’occupazione sono al livello della crisi del 1929, accompagnate da quelle per l’inflazione che dovrebbe scaturire dal peso dei dazi sulle importazioni.
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L’incontro di Ferragosto disegna un mondo nuovo?
di Paolo Arigotti
Negli ultimi anni ci hanno riempito la testa (o provato a farlo), con la parola, scritto e ogni altro mezzo di diffusione, con una serie di slogan all’insegna di una “Russia isolata”, di un “Putin malato”, di una “sconfitta strategica di Mosca”, e vi risparmiamo, per carità di patria, quelli riferiti alle sanzioni. Ora come allora, per lo meno nel cosiddetto Occidente libero, chiunque si azzardasseanche solo a esprimere dubbi o riserve riguardo a questa narrazione si trovavaimmediatamente esposto al pubblico ludibrio, vedendosi attribuite etichette, inventate di sana pianta, di “filo russo” o “filo putiniano”.
Il vertice di Ferragosto fra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, fortemente voluto e promosso dal primo, potrebbe spazzare via, in tempi assai rapidi, questo clima da caccia alle streghe, che ha spadroneggiato nel mondo dei conformisti i quali per convinzione o per interesse, hanno sposato una versione quantomeno parziale delle origini e fattori scatenanti del conflitto in Ucraina, cancellando proditoriamente tutto quel che aveva preceduto la data del 24 febbraio 2022.
L’incontro ha avuto come cornice la base militare di Elmendorf-Richardson, organizzato in tempi molto rapidi, ma preceduto da diversi contatti preliminari, a cominciare dalla prima telefonata tra i due presidenti del novembre scorso: il suo significato, per ora, risiede forse più negli aspetti formali, che sostanziali.
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Anchorage: accordi di Pace in arrivo sulla testa degli europei
di Alex Marsaglia
Da Anchorage ripartono le relazioni bilaterali tra Russia e Stati Uniti dopo 4 lunghi anni di interruzione forzata. La presidenza Biden si era sempre rifiutata di incontrare ufficialmente Vladimir Putin dopo l'inizio dell’Operazione militare speciale, in quanto nell’attribuzione unilaterale dell'etichetta di legittimo presidente di qualsiasi altro paese estero, veniva considerato come un dittatore non riconosciuto dal popolo russo e invasore di uno Stato straniero, l’Ucraina, con un Presidente in quel caso considerato perfettamente legittimo dagli Stati Uniti.
Le relazioni ripartono dunque con un Trump che tenterà, come in passato, di sganciarsi dal caos globale creato dalla strategia del Partito Democratico statunitense portata avanti prima da Obama e poi dal suo ex vice.
Non bisogna però nutrire particolari illusioni, l’impresa è molto ardua per le resistenze che l’Occidente continua a esercitare verso la Russia da ben prima del 2022. È dai referendum per l'indipendenza della Crimea del 2014 che la Russia è stata cacciata dal G7 e in Occidente è stato solo Trump nel 2018 a cercare di farla reintegrare nel gruppo, senza alcun successo. Parlare di Russia nei principali summit internazionali dell'Occidente equivale a evocare Belzebù in persona ed è evidente dalle varie ondate di russofobia come la razionalità sia stata messa al bando in merito.
Il dato di fatto che per ora sembra emergere dal vertice in Alaska è la volontà reciproca di Stati Uniti e Russia di considerarsi buoni vicini di casa, proprio prendendo in considerazione la loro prossimità territoriale sullo stretto di Bering che li separa per soli 83km di oceano.
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Anchorage: avviato il disgelo Usa-Russia
di Piccole Note
Ad Anchorage non si è tenuto solo un incontro tra Trump e Putin, che certo è stato il momento più simbolico, ma tra la Russia e l’America. Infatti, insieme a Putin sono sbarcati in Alaska il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, il Ceo del fondo sovrano russo Kirill Dmitriev, il Consigliere di Putin Jurij Ušakov, il ministro della Difesa Andrei Belousov e il ministro delle finanze Anton Siluanov.
Ad accoglierli, oltre a Trump, il Segretario di Stato Marco Rubio, l’inviato di Trump Steve Witkoff, il Segretario del Commercio Howard Lutnick, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il Segretario della Difesa Pete Hegseth, il direttore della CIA John Ratcliffe.
Se si tiene presente questo, si comprende bene che il summit aveva un respiro ben più ampio del conflitto ucraino, tema comunque necessitato, ed era diretto più che a chiudere nell’immediato quello, cosa impossibile a meno di un miracolo, a ripristinare le relazioni tra le due potenze, collassate definitivamente dal 2022.
Abbiamo usato l’avverbio definitivamente perché i rapporti tra Mosca e Washington non si sono rotti all’inizio della guerra ucraina, ma da prima dell’invasione russa. Incrinati dal golpe di Maidan, che ha innescato la prima e seconda guerra ucraina, sono affondati a seguito di due campagne mediatico-politiche travolgenti: il russiagate e l’ucrainagate.
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