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ilsimplicissimus

L’Alaska gela i guerrafondai

di Il Simplicissimus

Come si poteva immaginare l’incontro in Alaska fra Trump e Putin non ha sortito effetti miracolosi, è stato solo il primo dei vertici in cui verrà discusso l’insieme delle relazioni fra Russia e America e di conseguenza tra i Brics e l’Occidente. Questo risultato era ampiamente prevedibile ma è stato comunque un disastro per il partito della guerra che si attendeva o un consenso della Russia a un cessate il fuoco incondizionato, tale da dare un po’ di respiro e rifornimento all’esercito ucraino ormai esausto, oppure un inasprimento delle relazioni che portasse di nuovo fiumi di armi verso il regime di Kiev e l’ometto che recita la parte di gestore della strage in conto terzi. Per i signori e per gli straccioni della guerra, il vertice nelle remote vicinanze dell’Artico, ha sortito l’effetto peggiore possibile, ovvero quello di mettere tra parentesi il conflitto ucraino per ristabilire relazioni con la Russia che Obama, il nobel per la pace, aveva a suo tempo chiuso. Per giunta il dipartimento di Stato ha annunciato la prossima uscita di un rapporto sulle violazioni dei diritti umani da parte di Zelensky. Magari qualcuno a Londra, Berlino o Parigi comincia a tremare riguardo alle varie stragi organizzate ad arte per dare la colpa ai russi.

È ovviamente impossibile in questo momento sapere cosa nel complesso si siano detti Trump e Putin, quali siano stati gli argomenti affrontati, ma quando il leader russo è comparso serio e rilassato a fare le sue dichiarazioni senza citare il cessate il fuoco e quando nemmeno The Donald ne ha parlato, il mondo di cartapesta dei media mainstream accorso come un fiume di salmoni alle acque natie, si è accartocciato su se stesso come una foglia morta.

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lantidiplomatico

Il Summit Putin-Trump in Alaska certifica le gerarchie mondiali

di Giuseppe Masala

Probabilmente il vertice russo-americano al quale abbiamo assistito ieri ad Anchorage in Alaska è uno dei più spettacolari e significativi dell'ultimo mezzo secolo.

Certamente il più importante dal 2000 in avanti.

Un summit quello tra Putin e Trump che segnerà la storia dei prossimi anni e questo lo si intuisce anche dall'enorme portato simbolico che è stato racchiuso nel cerimoniale. I simboli sono sostanza, soprattutto quando si parla di vertici internazionali di questa portata.

Oltre ai simboli, naturalmente, ad Anchorage si sono verificate una serie di eventi e situazioni che chiariscono benissimo l'attuale stato dei rapporti internazionali, non solo tra i leader di Russia e USA, ma anche tra gli “stati profondi” dei due paesi e, più in generale, sulla base di quanto accaduto, possono essere visti in controluce anche i reali rapporti tra i due grandi blocchi esistenti in questa fase storica: quello “occidentale” e quello del cosiddetto “sud globale”. Al lettore una importante avvertenza: non tutto ciò che è appare e non tutto ciò che appare è.

 

*Cerimoniale e aspetto simbolico del Summit*

Raramente nella storia, come è avvenuto in questo vertice l'aspetto cerimoniale e simbolico ha assunto una valenza fondamentale per chiarire lo stato dell'arte delle relazioni internazionali, non solo tra le due superpotenze, ma più in generale tra i due blocchi fondamentali che stanno emergendo in questa fase storica, quello dei BRICS e quello occidentale.

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giubberosse

Vertice in Alaska: Mosca e Washington ridisegnano i confini senza Bruxelles e Londra

di Mohamed Lamine Kaba - journal-neo.su

Sotto l’aurora boreale dell’Alaska, Russia e Stati Uniti hanno delineato i contorni di un mondo riorganizzato, senza l’Europa al tavolo delle trattative, posizionando la Russia come un attore importante nella sicurezza europea

Il 15 agosto 2025, Donald Trump e Vladimir Putin si sono incontrati presso la base aerea di Elmendorf-Richardson in Alaska per uno storico vertice sulla guerra in Ucraina. Questo incontro, il primo di persona tra i due leader dal 2019, si è svolto in un contesto diplomatico meticolosamente preparato, dimostrando la volontà della Russia di partecipare pienamente a un dialogo strategico di alto livello, con compostezza e responsabilità, in un contesto geopolitico complesso e polarizzato. Le richieste russe hanno strutturato l’agenda: il riconoscimento delle realtà territoriali in Ucraina, la neutralità di Kiev nei confronti della NATO, la riduzione degli schieramenti militari occidentali ai confini russi e garanzie per le popolazioni russofone. A ciò si sono aggiunte chiare richieste economiche, come la reintegrazione nel sistema SWIFT e la revoca delle sanzioni. Putin, definendo i colloqui “costruttivi”, ha sottolineato l’urgenza di risolvere una crisi che ha descritto come un “profondo dolore” per la Russia, avvertendo al contempo che la pace dipenderà dalla flessibilità di Kiev e dei suoi sostenitori.

I punti chiave della conferenza stampa al vertice russo-americano in Alaska

Il presidente russo ha elogiato il clima “costruttivo e rispettoso” dei negoziati, sottolineando la qualità degli scambi diretti con Donald Trump.

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barbaraspinelli.png

Alaska, i due sogni e l’incubo Nato

di Barbara Spinelli

“Dormono nello stesso letto ma hanno sogni diversi”: l’antico proverbio cinese sembra adattarsi perfettamente al vertice fra Putin e Trump, oggi in Alaska.

Si adatta anche alle consultazioni preparatorie che il Presidente ha avuto mercoledì in video-conferenza con Zelensky e i Volonterosi europei (Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Polonia, Finlandia, Commissione Ue). Trump sogna di essere beatificato come costruttore di pace. Gli europei e Zelensky sognano una tregua seguita da ritirata russa, e soldati occidentali in Ucraina che mantengano la pace. Putin sogna la fine dell’aggressività Nato ai propri confini. Dietro questo guazzabuglio di sogni la dura realtà dei fatti, indigesta per gli Occidentali: la Nato ha perduto questa guerra europea, e ora tocca gestire la disfatta fingendo che non sia tale.

Fino all’ultimo i governi europei hanno provato a sabotare l’incontro, anche se ieri si sono detti molto soddisfatti e rassicurati da Trump. Ma le idee che si fanno della fine della guerra sono incoerenti e non coincidono con le realtà militari. Nel comunicato del 9 agosto, la Coalizione dei Volonterosi afferma che il negoziato dovrà svolgersi “a partire dalla linea di contatto” fra i due eserciti. Dunque dovrà tener conto dell’avanzata russa nel Sud-Est ucraino, e del controllo di Mosca sulle quattro province annesse dalla Federazione russa.

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contropiano2

Dall’Alaska a piccoli passi

di Redazione Contropiano

Difficile dare un quadro realistico del vertice in Alaska quando i protagonisti restano blindati sul merito della discussione e chi dovrebbe resocontare – i media occidentali in genere, quelli europei in particolare – è impegnato in modo visibilissimo nell’avvolgere “l’evento” in impasto di allusioni, pettegolezzi, mistificazioni.

Se dovessimo stare alle cronache in stile “pensiero unico” – non ci sono differenze tra tv e media di estrema destra e tutti quelli che si dicono liberal o “democratici” – dovremmo parlare di un fallimento o quasi. Ma questa prognosi ha senso solo se si accettava, prima dell’incontro, uno schema bipolare secondo cui o si arrivava a un accordo completo e dettagliato subito, oppure se ne usciva con una corsa alla guerra più generale.

La linea guerrafondaia seguita dall’”Europa unita” ha conquistato facilmente le menti servili degli operatori della disinformazione mainstream, al punto da non lasciare più alcuno spazio neanche all’esperienza storica più disincantata.

E la storia dovrebbe insegnare che ogni decisione di pace – o di guerra – è arrivata al termine di un percorso né breve né semplice, in cui si cerca di stabilire un nuovo equilibrio accettabile insistendo su molti dettagli ma a partire da un quadro condiviso. Ci si possono mettere anni, se va bene diversi mesi, ma mai giorni o addirittura poche ore.

Come dovrebbe essere noto, se non altro perché i vertici russi lo ripetono da anni senza cambiare una virgola, “il quadro” per una pace duratura con l’area euro-atlantica deve fondarsi sulla cessazione dell’espansione a est della Nato (l’unica espansione reale che c’è stata negli ultimi 35 anni), sulla smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina, la riscrittura di una serie di trattati che sono scaduti, stanno per scadere o sono stati disdettati dagli Stati Uniti.

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mondocane

Gaza, ultimi 6 giornalisti ammazzati, 150.000 morti almeno…

Come la mettiamo tra Israele, Netanyahu, ebrei, sionisti, antisemitismo? E Hamas?

di Fulvio Grimaldi

https://www.youtube.com/watch?v=LwnygIhyC8I

https://youtu.be/LwnygIhyC8I

Sul Fatto Quotidiano, di cui mi sono occupato poco fa, ci sono due corrispondenti sulla questione Israele-Palestina, una da Tel Aviv, Manuela Dviri, e una, Aya Ashour, che era a Gaza e oggi è in Italia, ospite dell’Università di Siena.

Tutte e due brave e tuttavia, per me, discutibili in quanto emblema della società israelo-ebraica e di come questa vive tempi di vera e propria apocalisse sotto casa. Poi c’è Anas Al-Sharif, il giornalista di Al Jazeera trucidato insieme a cinque colleghi da un missile israeliano mirato alla tenda dove si sapeva lavorare la redazione dell’emittente qatariota. Nessuno più illustrerà cosa Israele fa a Gaza. Allo Stato sionista è costato già troppo. Forse tutto.

Manuela Dviri è la classica interprete dello spirito travagliano sulla questione Israele-Palestina. Nelle sue corrispondenze, animate da forte polemica anti-Netaniahu, si illustra con grande evidenza la protesta dei famigliari dei prigionieri israeliani in mano ad Hamas e si deplora l’atteggiamento rinunciatario del regime nei loro confronti. Ultimamente, alla denuncia della sorte degli “ostaggi”, si sono aggiunte quelle delle difficili, a volte disperate, condizioni dei soldati di un IDF, caduti, mutilati piscologicamente, suicidi, negli incessanti tentativi di conquista di Gaza. Su questo tema, trattato di fretta, gli approfondimenti migliori, però, sono quelli di Haaretz e di altri quotidiani israeliani.

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clarissa

Scienza & Libertà

di Gaetano Colonna

Che la fede nella scienza sia oggi diventata tanto o addirittura più popolare di quella nella religione, è un fatto abbastanza evidente. Purtroppo però la scienza sta oggi assumendo due delle peggiori tendenze che le religioni hanno spesso manifestato, quelle che in epoca moderna hanno causato la loro perdita di credibilità: imporre dogmi e diventare centri di potere.

L’ultimo episodio che conferma lo sviluppo di queste due tendenze verso una vera e propria dittatura scientifica, con tutto ciò che questo comporta in tema di libertà di opinione e di scelta, è dimostrato dalla levata di scudi contro la nomina da parte governativa di due scienziati reputati no-vax nell’ambito del Nitag (National immunization technical advisory group), il “Gruppo consultivo nazionale sulle vaccinazioni”, istituito nel 2021 allo scopo di «supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il Ministero della Salute nella formulazione di raccomandazioni evidence-based1 sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche».

A chiedere la revoca dell’incarico al prof. Paolo Bellavite ed al pediatra dott. Eugenio Serravalle, sono stati alcuni organismi associativi, espressione politica della categoria medica e sanitaria: per “espressione politica” intendiamo, a scanso di equivoci, il fatto che questi organismi dichiarano di tutelare gli interessi di tali categorie, al tempo stesso definendo le regole cui i professionisti stessi devono a loro avviso attenersi.

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antropocenejpg

L’alternativa al ponte sullo Stretto esiste

di Domenico Gattuso

Il ponte sullo Stretto torna alla ribalta a seguito dell’approvazione del Progetto Definitivo da parte di un CIPESS telecomandato. E spopola sui media un ministro che è una caricatura, fiero di sé e della sua mediocre cultura politica. Sotto i riflettori di una stampa di servizio, egli si propone a suon di slogan da bar, di assicurare che ormai è fatta, che lui ha raggiunto il suo scopo, che ora tocca ai tecnici passare alla fase esecutiva.

In realtà l’omino è solo uno strumento nelle mani di potenti lobby finanziarie e del cemento che impongono ancora oggi strategie e politiche finalizzate a grandi opere di ingegneria, senza guardare troppo alle reali esigenze della collettività. Attraverso mirate campagne promozionali su gran parte dei giornali, delle Tv e dei social addomesticati, le lobby vogliono far passare l’idea che solo con tali opere sia possibile garantire progresso e sviluppo. Tali opere purtroppo fagocitano ingenti risorse finanziarie a scapito di infrastrutture e servizi diffusi che dovrebbero avere la priorità, provocano impatti negativi notevoli sui territori, offrono benefici solo per frange di privilegiati. Spesso si tratta di opere impegnative che comportano grandi rischi, senza imprimere reali forme di sviluppo nelle aree in cui sono collocate.

Ciò che impressiona è la visione miope delle classi dirigenti in questa fase storica; una visione liberista e affarista, scevra di attenzione all’equità sociale e territoriale, direi anche spendacciona e sprecona. Da tempo ormai si vanno affermando in molte regioni del mondo delle politiche di mobilità alternative improntate alla sostenibilità e al bene comune.

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manifesto

Il neo imperialismo dell’Unione creditrice

di Emiliano Brancaccio

Dall’inizio della guerra, i paesi europei hanno speso più degli Stati uniti in appalti per la difesa militare dell’Ucraina. Fornito dall’Istituto Kiel, il dato stravolge la narrazione di Trump e dei suoi accoliti

Dall’inizio della guerra, i paesi europei hanno speso più degli Stati uniti in appalti per la difesa militare dell’Ucraina. Fornito dall’Istituto Kiel, il dato stravolge la narrazione di Trump e dei suoi accoliti. Questi avevano pubblicamente insultato l’Ue con vari epiteti.

«Vigliacca, scroccona, parassita, profittatrice della generosità militare americana». Ora scopriamo che le cose stanno diversamente. L’Europa è diventata leader mondiale nel finanziamento della guerra in Ucraina.

Gli stranamore nostrani accolgono la notizia con maschio entusiasmo. L’Europa comincia a mostrare quelli che il Corsera ha definito «gli attributi» della sovranità. Per adesso sotto forma di denaro, ma poi bisognerà aggiungere difesa integrata, ombrello atomico comune, tecnologia bellica di avanguardia, e soprattutto «una proiezione militare credibile». In breve: la scatola degli attrezzi di un inedito imperialismo europeo, intenzionato a farsi rispettare nel mondo.

A ben vedere, il nuovo dato risolve anche una vecchia contraddizione dell’Europa unita: la pretesa di dominare i rapporti commerciali evitando però di puntare direttamente le armi in faccia alla controparte.

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lantidiplomatico

La vera posta in gioco del Vertice in Alaska 

di Clara Statello

 Il Summit cruciale in Alaska: partita a due tra Russia e USA. Ucraina e UE restano a guardare 

Le trattative per la pace in Ucraina si rivelano essere una partita due tra gli Stati Uniti e la Federazione Russa, che venerdì 15 agosto in Alaska decideranno le sorti dei territori sotto controllo russo, oltre a questioni di cooperazione strategica e divisione delle zone di influenza. Unione Europea e Ucraina resteranno a guardare.

Mentre in Europa cresce la preoccupazione che la Casa Bianca e il Cremlino possano accordarsi per porre fine alla guerra prolungata, bypassando Kiev, Zelensky rifiuta il piano di Trump del riconoscimento del Donbass russo.

Accetta un cessate il fuoco con il congelamento dell'attuale linea del fronte, nell’ambito del piano europeo, che prevede il cessate il fuoco prima di ogni altra mossa, il ritiro delle truppe secondo il principio “territorio per territorio” e garanzie di sicurezza, inclusa l’adesione alla NATO.

Dunque Kiev dice no a un riconoscimento de iure ma apre a un riconoscimento de facto.

È pur sempre un progresso nei negoziati, un «ammorbidimento della posizione» ucraina scrive il Telegraph. Zelensky incassa il sostegno dei partner europei e della NATO, attraverso cui l’Ucraina acquisirà potere negoziale.

Intanto, tra la stampa occidentale, inizia ad affermarsi l’idea che la posizione di Kiev di rifiutare concessioni territoriali sia irrealistica. Secondo il commentatore del The Financial Times, Gideon Rachman, il riconoscimento de facto dei territori sotto controllo russo potrebbe necessario se garantirà che “l’Ucraina riuscirà a mantenere la propria indipendenza e democrazia”.

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giubberosse

L’incontro tra Putin e Trump: il trionfo dell'illusione sulla realtà

di Paul Craig Roberts -  paulcraigroberts.org

Un paio di giorni fa Trump ha affermato che non valeva la pena incontrare Putin, ma improvvisamente ha ordinato ai suoi collaboratori di organizzare entro una settimana un incontro con Putin. La spiegazione che ci è stata fornita è che Putin ha affermato che il negoziatore di Trump, Witcoff, aveva fatto una proposta  accettabile. Il negoziatore di Putin, Kirill Dmitriev, ha dichiarato “un incontro storico in cui prevarrà il dialogo”. Un sognatore ha proclamato che Putin e Trump “potrebbero riconfigurare l’ordine mondiale”.

Queste premature dichiarazioni di accordo e successo hanno dato origine a ulteriori teorie romantiche. Un commentatore russo ha dichiarato che l’Alaska è stata scelta per lo storico incontro perché “incarna così chiaramente lo spirito di vicinato e di cooperazione reciprocamente vantaggiosa, perduto durante la Guerra Fredda”. Gli atlantisti-integrazionisti russi, i cui cuori e interessi sono rivolti all’Occidente, sperano che le loro dichiarazioni di felicità, anche se implicano la resa russa, prevalgano sul nazionalismo russo.

Ad esempio, il negoziatore di Putin è Kirill Dmitriev, nominalmente russo, ma in realtà laureato alla Stanford University e alla Harvard Business School – due porte d’ingresso nell’establishment americano – che ha iniziato la sua carriera presso Goldman Sachs, un membro dell’establishment.

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mondocane

Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio

di Fulvio Grimaldi

Caro Direttore,

A scopo di chiarezza e di onestà d’intenti premetto: meno male che esistono il Fatto Quotidiano, il suo direttore, e sue punte di diamante della categoria, quali Luttazzi, Ranieri, Robecchi, Basile, Palombi, Barbacetto e quasi tutti gli altri.

Ti rinnovo la stima e la riconoscenza per quello che tu e il tuo giornale fate per contrastare e battere il pianificato degrado dell’informazione nella nostra parte di mondo. Questo mio apprezzamento è condiviso dalla maggioranza dei miei interlocutori. Per evitare il rischio, umanamente comprensibile, dell’accettazione acritica di una tua clamorosa, ma non inedita, deviazione da quella che è una riconosciuta correttezza storico-professionale, tanto sorprendente quanto gravida di deformazioni cognitive, mi premetto di diffondere questa lettera. Serve per rimediare, con una divergenza dettata dalla realtà storica e attuale, alla sua eventuale mancata pubblicazione.

Nel tuo editoriale e in una tua risposta al lettore Giovanni Marini del 9 agosto, vanno rilevati errori e falsità di una portata inconciliabile con la precisione e onestà con la quale sei solito affrontare questioni politiche e storiche. E’ sorprendente come, in un giornalista di eccezionale correttezza e competenza, possa aver prevalso sulla realtà lapidaria dei fatti un approccio preconcetto, antiscientifico, determinato forse da trasporto sentimentale.

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officinaprimomaggio

Milano dall’elettronica alle aragoste

di Sergio Fontegher Bologna

Adesso che ho cominciato a dire la mia come faccio a tirarmi indietro?

L’altro giorno il “Corriere” ha intervistato mons. Delpini. Tra le tante cose sacrosante che ha detto, una mi è piaciuta particolarmente. Tanti dicono che Milano avrà la forza di risollevarsi dopo questa batosta. “Se queste persone ci sono, si facciano avanti!” dice Delpini.

Ma all’orizzonte non si vede anima viva, non si fa avanti nessuno. Qui l’aria che tira è: “ha da passà ‘a nuttata!”

I giornali poi sull’intervista di Delpini hanno chiesto il parere di Elena Buscemi, Presidente del Consiglio Comunale. Quando si occupava di città metropolitana ha dato una mano a noi di ACTA, perché potessimo avere più spazio nella tutela delle Partite Iva. La ricordo quindi con gratitudine. Oggi si trova in un’altra posizione e immagino che la poltrona che occupa non sia il massimo della comodità. Ovviamente non fa una difesa d’ufficio della Giunta, però dice una cosa che mi lascia perplesso: la bella Milano che tanti rimpiangono contrapponendola a quella di oggi, che tanti non sopportano, in realtà non è mai esistita, è il prodotto della fantasia di chi oggi critica la politica urbanistica.

Boh, sarà. Posso anche essere d’accordo: nella sequenza Mediobanca-Ligresti-Berlusconi- Catella-Sala-Tancredi c’è effettivamente una certa continuità, anzi mettiamoci dentro anche la “Milano da bere”, e abbiamo una storia che dura da quarant’anni (1985-2025). Elena ne ha 43 e capisco che non ha visto altro nella vita, quindi ha ragione a dire che “l’altra Milano” sta solo nella testa di anime belle.

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rete dei com

No al summit della guerra! L’11 settembre mobilitiamoci a Roma

di Coordinamento Disarmiamoli

È stato annunciato dal Sole 24 Ore il primo “Defence Summit”, appuntamento programmato dal giornale di Confindustria per l’11 settembre a Roma. La sala scelta è nelle disponibilità del Comune capitolino e della Regione Lazio, dimostrando ancora una volta come gli enti territoriali, amministrati da questo o da quello schieramento politico, si riempiono la bocca della parola “pace” per poi essere pienamente coinvolti nella promozione di iniziative che vanno in direzione opposta. Era già accaduto lo scorso 15 marzo, in occasione della piazza chiamata da Michele Serra e sostenuta con 270 mila euro di fondi pubblici tramite Zétema – società in house del Campidoglio che si dovrebbe occupare di eventi culturali – così come si verificò nuovamente ad aprile con l’iniziativa analoga promossa a Bologna dal sindaco felsineo e dalla collega fiorentina, e a maggio quando Comune di Napoli e Governo hanno ben pensato di sfruttare la cornice offerta dalle celebrazioni dell’anniversario dei natali della città partenopea per ospitare un vertice NATO.

L’evento in calendario per l’11 settembre, dal nome roboante, cade in un periodo in cui i venti di guerra soffiano sempre più forte. Lo sanno i palestinesi, il cui genocidio continua con il consenso statunitense e il silenzio complice degli apparati europei, e di fronte al quale risultano quantomeno tardive le prime contromisure indicate da alcune cancellerie continentali, mentre lo stato terrorista di Israele si prepara all’invasione di Gaza dopo aver portato il quadrante sull’orlo di una crisi generale con i recenti attacchi all’Iran.

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insideover

Lo scacco a BlackRock a Panama è una sconfitta anche per Donald Trump

di Giuseppe Gagliano

 

Il progetto di BlackRock di acquisire porti strategici a Panama si è concluso con un nulla di fatto. Il veto di Pechino, che ha rifiutato qualsiasi accordo senza la partecipazione di capitali cinesi, ha messo fine a mesi di trattative e speranze a stelle e strisce. È un episodio simbolico, ma potentissimo: dimostra come gli Stati Uniti, anche nella loro dimensione finanziaria e commerciale più aggressiva, non siano più in grado di imporsi da soli in zone che un tempo consideravano cortile di casa.

 

Il ritorno di Trump e il mito del “piccolo impero”

Alla vigilia del secondo mandato, Donald Trump ha rilanciato il suo disegno geopolitico: un’America meno globale ma più coesa, che rinuncia all’universalismo interventista per consolidare un nucleo imperiale compatto. Da qui l’ambizione di rimettere le mani sul Canale di Panama, nodo strategico per il commercio mondiale, già al centro delle tensioni USA-Cina da oltre un decennio. Lo stesso Trump, nel suo stile provocatorio, aveva persino evocato l’annessione del Canada e del Groenlandia, segnando un ritorno a un imperialismo esplicito ma selettivo.

 

BlackRock, un braccio armato troppo fragile

Nel tentativo di realizzare questa visione, Washington si è affidata a uno dei suoi attori più potenti: BlackRock.

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sinistra

Il tabù della lotta aperta e il genocidio inarrestabile dei palestinesi

di Davide Gatto

L’esperienza più significativa che noi elaboriamo del mondo è mediata dal linguaggio: parole che definiscono le cose, legami sintattici che le mettono in relazione. Sono di conseguenza ben radicate nel linguaggio anche le nostre azioni, persino quelle più istintive: una “guerra” – come quella che per i media occidentali Israele combatte a Gaza – non può che protrarsi fino a che non siamo venute meno le ragioni che l’hanno innescata, e pazienza per le vittime civili e le distruzioni che - si sa - sono effetti collaterali e necessari di qualunque conflitto.

Credo che vada ricercato anche in quest’ambito il motivo per cui il mondo non riesce a fermare il genocidio dei palestinesi di Gaza. Se è vero infatti che dall’ottobre 2023 si sono via via moltiplicati gli appelli, le raccolte firma, le manifestazioni di piazza, fino all’attuale ondata di indignazione che vediamo montare sui social, pure si avverte in queste prese di posizione finalmente larghe una sorta di vischiosità che non consente loro di affrancarsi dalla consueta inerzia: come se la nuova consapevolezza e la protesta restassero tuttavia chiuse entro un recinto che le rende inoffensive, inefficaci.

È fatto delle parole con cui siamo abituati a sentire raccontare e a raccontarci il mondo questo recinto, è fatto della trama di un linguaggio che reca ben impresse le impronte di chi detiene il potere, di un linguaggio che disegna nella mente di chi lo usa reti concettuali che possono essere vere e proprie gabbie, di un linguaggio al cui successo contribuiscono fortemente la pigrizia mentale e il vile opportunismo dell’uomo qualunque.

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contropiano2

Non c’è posto in Alaska per le follie “europeiste”

di Redazione Contropiano

Non c’è nulla di più complicato delle trattative per metter fine a una guerra, a meno che una delle due parti non abbia raggiunto una situazione schiacciante sul campo. Il che sicuramente non è, nel caso del conflitto in Ucraina, per l’alleanza occidentale che supporta Kiev, ma neanche per Mosca, che pure appare in vantaggio strategico molto consistente.

L’ormai prossimo vertice in Alaska tra Putin e Trump, come abbiamo già detto, può avvenire solo perché – senza che siano emersi contenuti concreti sul possibile accordo – le due diplomazie principali hanno evidentemente raggiunto risultati sufficienti a garantire che l’incontro tra i due presidenti possa essere rivenduto come un “successo”. Altrimenti non si farebbe neanche…

Le ulteriori complicazioni arrivano dalla qualità non eccelsa dei negoziatori statunitensi – l’incaricato principale, Witkoff, è un immobiliarista miliardario a digiuno di diplomazia istituzionale – e quindi dalla possibilità che da quel lato non si comprendano a fondo le conseguenze concrete di quel che si discute.

E’ l’ipotesi avanzata ad esempio dalla tedesca Bild, molto “governativa”, secondo cui Witkoff avrebbe scambiato la proposta di “ritiro pacifico” delle truppe ucraine dalle porzioni degli oblast di Kherson e Zaporizha ancora sotto il loro controllo (circa un quarto dei due territori) per il ritiro unilaterale dell’Armata russa dalle due regioni, costate sicuramente molto in termini di mezzi, uomini e investimenti.

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mondocane

Il 7 ottobre come l’11 settembre. E c’è chi ancora ci casca --- Terrorista a chi?

di Fulvio Grimaldi

https://www.youtube.com/watch?v=t_ZqRFMFsbk&t=58s

https://youtu.be/t_ZqRFMFsbk

Dove ci si chiede, ma il pesce puzza dalla testa, come tutto sta a dimostrare, o dal corpo, come ci vogliono far credere?

Allora in primis: demattarelliziamoci. In secundis defascistizziamo lo Stato. Naturalmente si tratta di procedimenti politico-culturali, non essendoci a disposizione brigate Garibaldi, ma che intanto rafforzano un elemento indispensabile: la consapevolezza dalla quale fiorisce l’autonomia di giudizio. E, magari, l’azione

La prima consapevolezza è che questo Capo dello Stato, con la disponibilità a firmare qualsiasi provvedimento di una banda di malfattori, dilettanti allo sbaraglio, scappati di casa, è un “rappresentante di tutti gli italiani” che non ne rappresenta due terzi, i quali drasticamente lo disconoscono quanto a giudizi sul Rearm Europe e su quanto è giusto o sbagliato in Ucraina. La seconda è che questo governo di reggicoda delle tirannie politico-economiche del complesso atlantico-sionista vale, forse, il 25% degli elettori italiani. Sono appunto coloro che, tenendo conto degli astenuti bipartisan disgustati, lo hanno votato.

Poi c’è la questione, di più arduo superamento, della misura in cui coloro che queste consapevolezze le hanno raggiunte, restano tuttavia imbrigliati nelle megatruffe fondate sulla distorsione di una realtà fatta passare per verità, giustizia, morale.

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contropiano2

“Per mezzo dell’inganno”: la doppiezza del Mossad e la complicità di Washington

di Rima Najjar*

Nonostante miliardi di aiuti militari, un supporto tecnologico all’avanguardia e un’incrollabile protezione diplomatica, gli Stati Uniti sono regolarmente sorvegliati dallo stesso alleato che sostengono. Attraverso il Mossad, Israele ricambia non con lealtà, ma con uno spionaggio stratificato, descritto dall’ex agente della CIA Andrew Bustamante come doni intrisi di programmi spia e una collaborazione intrisa di sfiducia. Per molti americani, questa imparità morale contrasta il legame intuitivo tra generosità e fedeltà.

In un segmento del programma radio podcast #224 di Julian Dorey, ormai virale, Bustamante racconta come il Mossad offrisse alla CIA dei “regali”, solitamente strumenti tecnologici o di rilevamento, sistematicamente dotati di programmi spia. L’aneddoto non è eccezionale; è emblematico. L’etica del Mossad, plasmata da una politica Sionista che privilegia il dominio sulla responsabilità, è impenitente: l’inganno sulla trasparenza, la sopravvivenza sulla solidarietà, gli interessi sulle alleanze. Il suo credo guida, “Con l’inganno, farai la guerra”, non è un vezzo retorico. È una dottrina tattica in cui la manipolazione è sacra, i confini etici sacrificabili e il tradimento strategico, persino dei benefattori, pienamente normalizzato.

Mentre la CIA si destreggia tra vincoli diplomatici e supervisione esecutiva, il Mossad opera con autonomia dottrinale. L’imparità è sia operativa che filosofica, e si ripercuote negativamente sui palestinesi attraverso l’elaborazione delle politiche, le regole di spionaggio e il linguaggio morale dell’alleanza.

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sinistra

La battaglia di Gaza

di Enrico Tomaselli

Tutti - spero - ricordano il film "La battaglia di Algeri", di Gillo Pontecorvo. Per chi non sa di cosa si parla, o volesse semplicemente rivederlo, in questi giorni è disponibile su Rai Play.

Il film racconta sostanzialmente un pezzo della guerra di liberazione algerina, e precisamente una fase acuta della battaglia svoltasi ad Algeri tra gli uomini (e le donne) del FLN e i paracadutisti francesi. Quello che pochi sanno, è che questo film viene spesso proiettato nelle scuole di guerra, in tutto il mondo. La ragione è che il film, oltre a essere un capolavoro della cinematografia, illustra perfettamente un fatto storico, ovvero come l'esercito di Parigi riuscì ad avere ragione dei combattenti algerini nella più importante città dell'allora colonia francese. Le tecniche contro-insurrezionali descritte nel film, non soltanto sono quelle effettivamente usate contro l'FLN, ma saranno poi prese a modello, soprattutto dagli eserciti occidentali, su come affrontare una guerriglia.

La cosa più interessante, in tutto ciò, è che ovviamente l'esercito francese vinse la battaglia di Algeri, ma perse la guerra, e l'Algeria ottenne la sua liberazione. Anche se la narrazione al riguardo tende a raccontare le cose come una sorta di tradimento da parte di De Gaulle - e infatti i militari francesi che operavano nella colonia diedero vita all'OAS, una organizzazione terroristica di estrema destra, che cercò più volte di assassinarlo - la realtà è che l'FLN rese semplicemente troppo oneroso il mantenimento del dominio coloniale. E solo qualche anno prima la Francia aveva perduto l'Indocina, dopo la sanguinosa sconfitta di Dien Bien Phu (anche su questa battaglia trovate un buon film, su Netflix).

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lafionda

Variabili di potere e sovranità: le guerre per procura dell’Occidente

di Elena Basile

Attualmente, ancora più che in passato, è essenziale, per condurre un’analisi corretta delle dinamiche internazionali, comprendere la differenza tra variabili indipendenti e non, che operano in un contesto complesso e fortemente strutturato.

Nel corso delle primavere arabe, il malcontento popolare albergava nei Paesi del Nord Africa da tempo, ma ha costituito un fattore in grado di destabilizzare le società soltanto quando la politica neoconservatrice statunitense ha deciso, con finanziamenti e organizzazione, di puntare sui Fratelli Musulmani per una forma di dominio più solida rispetto ai dittatori tradizionali.

La defenestrazione di Moubarak, l’elezione di Morsi — in seguito abbandonato da Washington a vantaggio dell’odierno Presidente dell’Egitto, Al Sisi — è la rappresentazione evidente della strategia ondivaga che ha sede a Washington.

Ugualmente, la guerra civile in Siria non sarebbe scoppiata, seminando lutti e dolore nel popolo siriano per circa un decennio, se Obama, nel 2015, non avesse deciso, con l’operazione Sycamore e d’accordo con i servizi segreti sauditi, di utilizzare le fisiologiche proteste anti-Assad quale fattore di destabilizzazione della società siriana.

Ricordo che all’epoca ero in Svezia e restavo allibita nell’osservare la bella intellighenzia del Paese che aveva d’obbligo un libro in tasca contro il pericolosissimo dittatore Assad. Sicuramente gli Assad, soprattutto il padre, avevano commesso crimini e favorito il loro potere alaudita con la repressione. Non diversamente da come molti dittatori, nostri alleati, hanno sempre fatto.

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piccolenote

Putin da Trump, Modi da Xi: prove tecniche di nuovo mondo

di Piccole Note

Nell’incontro tra Vladimir Putin e l’inviato Usa Steve Witkoff è stato concordato un incontro tra il presidente russo e Trump, che dovrebbe tenersi la prossima settimana. Di seguito, lo scriviamo come parentesi di relativo interesse, Trump dovrebbe incontrare Zelensky, incontro al quale potrebbe prendere parte anche Putin, aggiunta che lo renderebbe di grande interesse, ma che ad oggi è solo un’ipotesi e che l’assistente di Putin, Yuri Ushakov, ha attribuito a “speculazioni”, dal momento di tale ipotesi si è solo “accennato” nell’incontro con Witkoff, anche perché, ha aggiunto, garantire che l’incontro tra i due presidenti “sia un successo e produca risultati tangibili è ciò che più conta”.

Trump ha detto al suo team di procedere rapidamente per organizzare l’incontro col suo omologo russo, dimostrando quanto sia galvanizzato alla prospettiva. Sarebbe storico.

Arduo pensare che tale summit ponga fine alla guerra ucraina subito, ma dovrebbe avviare una nuova fase di negoziati, più incisiva (Ushakov ha affermato che gli Usa hanno presentato “un’offerta accettabile”) oltre che produrre, forse, un cessate il fuoco temporaneo o altre limitazioni delle ostilità dal significato simbolico.

A facilitare il summit la rivelazione del complotto per istruire il Russiagate, la Fake news sull’aiuto che avrebbe ottenuto Trump per vincere le elezioni del 2016, che rischiò di costargli la Casa Bianca e produsse un procedimento di impeachement contro di lui una volta conquistata.

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megachip

Il Ponte sullo Stretto è una truffa tecnico-politica da smontare bullone per bullone

di Pino Cabras

Altro che “grande opera”. Il Ponte di Salvini è una gigantesca messinscena da 15 miliardi. Con fondamenta nell’inganno, piloni nella propaganda, e un’impalcatura che non regge nemmeno sulla carta. Ingegneria? Semmai fantascienza prepotente con i soldi pubblici

🤡 Un progetto del 2011 venduto come “rivoluzionario”

Il governo lo chiama “progetto aggiornato”. Ma in realtà è lo stesso identico del 2011, truccato qua e là con una relazione in cui si promettono modifiche “nella fase esecutiva”. Tradotto: prima vi vendono il sogno, poi (forse) capiscono come realizzarlo. È come mettere all’asta un’auto dicendo che il motore lo monteremo dopo. Magari mentre il trabiccolo è in movimento lungo una discesa.

 

🔩 “Cambiamo l’acciaio”: parole che fanno ridere gli ingegneri (e piangere i contribuenti)

Nel nuovo progetto si propone di usare un acciaio con il 20% in più di resistenza. Peccato che questo cambia tutto: sezioni, cavi, masse, ancoraggi. Quindi buttano nel cestino tutti i calcoli statici e sismici fatti finora. Ma va bene così, dicono: “lo correggeremo più avanti”. Come no.

 

💥 Sismica e aerodinamica? Alla cieca, grazie

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contropiano2

Genocidio e linguaggio: la semantica dell’ impero

di Vincenzo Morvillo

Come sosteneva Gramsci nei “Quaderni“, il linguaggio è potere e ideologia. Non è mai asettico o impersonale.

Ogni parola che pronunciamo è già attraversata da rapporti di forza, carica di significati storicamente determinati e ideologicamente costruiti.

La lingua non è semplicemente un mezzo per comunicare. È il terreno stesso su cui si gioca la lotta per l’egemonia.

In questo senso l’analisi del rapporto tra linguaggio e potere non può che essere condotta a partire da una prospettiva marxista, che riconosca nella produzione simbolica una dimensione altrettanto determinante quanto quella economica.

Ai tempi del capitalismo crepuscolare e tardo-imperialista infatti, il linguaggio è evoluto come sofisticato strumento sofisticato di governo, gestione del dissenso, cancellazione del conflitto.

Il controllo significante di concetti fondamentali – come “terrorismo”, “pace”, “difesa”, “resistenza”, ma soprattutto “genocidio”– rivela l’intreccio profondo tra dominio politico-militare e dominio ideologico.

Ed è su questo crinale che si colloca la censura sistematica del termine genocidio, appunto in relazione alle politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese.

Nel contesto dell’occupazione sionista della Palestina, il termine genocidio è diventato dunque un campo di battaglia semantico.

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comidad

Non sono russofobi, semmai italofobi

di comidad

Si può comprendere la fretta degli Elkann di liberarsi di Iveco, dato che la loro priorità in questo momento è la costituzione di Stellantis Bank USA. Ufficialmente questa nuova creatura rientrerebbe nella categoria degli istituti di credito specializzati nel finanziamento a chi compra auto del gruppo; in realtà si tratta di banche a tutti gli effetti, che possono accettare depositi ed emettere carte di credito. Il finanziamento all’acquisto di auto è quindi un alibi che serve a legittimare la riconversione di imprese industriali in imprese finanziarie.

Molte critiche sono piovute sul governo Meloni e sul ministro Urso per aver avallato questa ennesima deindustrializzazione ed esportazione di capitali da parte degli Elkann. In realtà nella vicenda il governo era incapace di intendere e di volere, infatti la copertura a John Elkann è arrivata direttamente dal Quirinale. Gli organi di informazione ci hanno fatto sapere che Elkann avrebbe dato alla Meloni e a Mattarella ampie “garanzie”. Nessuno si è chiesto cosa c’entrasse Mattarella in una questione che sarebbe di stretta competenza del governo; forse non ci si è posta la domanda perché la risposta è ovvia, dato che Stellantis è una multinazionale e perciò tutto ciò che fa riguarda direttamente la gerarchia dei rapporti imperialistici. In Italia il garante di questi rapporti imperialistici è il presidente della repubblica, che è colui che, in base alla Costituzione, presiede il Consiglio Supremo di Difesa; quindi il vero referente istituzionale della NATO e degli USA è Mattarella. Del resto è noto che non si viene eletti presidenti della repubblica senza il pieno gradimento da parte degli USA.

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mondocane

Gaza, Valsusa, antifascismi fascisti e chi ci sta

di Fulvio Grimaldi

https://www.youtube.com/watch?v=cfi1OGKY3pg

https://youtu.be/cfi1OGKY3pg

Cosa hanno in comune, fatte le debite proporzioni, Gaza e la Val di Susa? Una lotta, per gli uni, quasi secolare, per gli altri, trentennale. In entrambi i casi mai abbandonata, per quanto costasse. Pagata con la vita e la devastazione, o con la devastazione e il carcere. In entrambi i casi una guerra, imposta, accettata, combattuta. In entrambi i casi una guerra di lunga durata, combattuta da avanguardie legittimate dal consenso e dal sostegno del loro popolo.

E se vogliamo insistere con i paralleli, che, a dispetto della gigantesca disparità tra le dimensioni, hanno una loro evidenza, ci ritroviamo davanti a un dato ontologico: la guerra dei pochi contro i tanti, padroni e lavoratori, feudatari e servi della gleba, colonizzatori e colonizzati, inoculatori e inoculati, èlite e il resto. Un aggregato di ricchi e potenti, cresciuti sull’esproprio di altri. I valsusini e chi si affianca a loro, come i palestinesi e chi ne condivide condizione, diritto, sofferenza, intento e obiettivi, sono epitome, compendio e simbolo della lotta per liberazione dell’essere umano. Costi quel che costi, in chiave speculare e contraria al whatever it takes del noto portavoce di chi, per rubare, arriva ad ammazzare.

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volerelaluna

Il pregiudizio democratico

di Piero Bevilacqua

Ci sono pochi dubbi sul fatto che analisti, esponenti politici, giornalisti del mondo occidentale fondano la propria scelta di campo (o coprono la loro malafede), sovrapponendo il proprio giudizio sul regime interno dei paesi alle loro posizioni di politica estera. Se gli stati non sono democratici – secondo gli standard decisi in occidente – qualunque sia il loro comportamento, in qualunque controversia, hanno torto in partenza, sono dalla parte sbagliata della storia. Il caso più recente di applicazione di tale criterio l’abbiamo osservato in occasione della cosiddetta “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran. Il fatto che il governo iraniano abbia sottoscritto il trattato di non proliferazione, si sia sottoposto per anni ai controlli degli ispettori dell’AIEA, abbia trattato da ultimo con l’amministrazione Trump non è stato sufficiente a evitare il bombardamento da parte di Israele e degli USA. Poiché l’Iran è uno stato teocratico (anche se la sua realtà effettiva non corrisponde alla caricatura che ne fanno i media occidentali) gran parte dei governanti e dei commentatori europei si è sentita autorizzata ad affermare, senza alcuna vergogna, che Israele – il quale possiede un arsenale nucleare e non si sottopone ad alcun controllo – “ha il diritto di difendersi” e dunque di bombardare chi crede.

Ma il doppio standard degli esponenti democratici non è solo fallace nel giudicare la politica estera degli stati sulla base dei loro ordinamenti interni. Alla luce dell’analisi storica esso appare ingiusto e infondato anche nel giudizio di merito sulla democrazia che si sceglie come criterio di valore.

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contropiano2

L’IA può sostituire i mercati? Una risposta socialista di mercato a Carlo L. Cordasco

di Andrea Genovese

Il mio amico Carlo Ludovico Cordasco ha recentemente pubblicato due articoli ricchi e stimolanti sull’IA e il problema della conoscenza. Il suo argomento ha il merito di andare oltre dicotomie semplicistiche, esplorando in modo intellettualmente onesto se e come l’IA possa replicare, o addirittura sostituire, le funzioni economiche tradizionalmente svolte dai mercati.

In particolare, si concentra sul ruolo dei mercati nella scoperta della conoscenza e nella correzione degli errori, sollevando dubbi sulla capacità dell’IA di eguagliarli in queste aree cruciali.

Ciò che colpisce della sua analisi è quanto si avvicini a una prospettiva socialista di mercato, che vede i mercati non come sacri, ma come strumenti istituzionali contingenti, che possono essere integrati, simulati o parzialmente sostituiti se e quando emergono meccanismi migliori.

Molte delle sfide che Carlo solleva, così come le soluzioni ibride che immagina, si inseriscono bene nel quadro proposto da Oskar Lange e altri che cercavano una sintesi tra pianificazione e feedback decentralizzato.

 

Separare la normatività dal meccanismo

Uno dei punti chiave di Carlo è che qualsiasi criterio normativo di allocazione ottimale deve essere indipendente dai mercati stessi.

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La Palestina non ha bisogno di parole

di Barbara Spinelli

Ogni tanto i giornali occidentali annunciano nuovi fremiti e ripensamenti nei governi europei, nuove iniziative per fermare Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

L’ultimo fremito viene chiamato addirittura tsunami: un’ondata di riconoscimenti dello Stato palestinese, apparentemente iniziata da Macron in Francia e Keir Starmer in Gran Bretagna (il 75% dei Paesi Onu ha già da tempo riconosciuto). Singolarmente perfida la mossa britannica: il laburista Starmer riconoscerà lo Stato palestinese “a meno che Israele non consenta a una tregua”. Se Netanyahu consente, niente riconoscimento. Gideon Levy, commentatore di «Haaretz», chiede: “Se riconoscere la Palestina può favorire una soluzione, perché presentarla come una penalità?”.

Il fatto è che il riconoscimento non mette fine a quello che vediamo: i bambini e gli adulti ridotti a scheletri come gli scampati di Auschwitz, la Fondazione Umanitaria di Gaza gestita da contractors americani e militari israeliani, incaricata di uccidere ogni giorno decine di affamati.

Poi c’è l’idea inane di paracadutare cibo e qualche medicina. Ma i medici che lavorano a Gaza testimoniano quel che accade quando stai morendo di fame. Se dai pane alle persone che vediamo smagrite e agonizzanti le ammazzi, nemmeno servono più le flebo di acqua e sale.

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La Conferenza Ebraica Antisionista di Vienna chiede l’espulsione di Israele dalle Nazioni Unite

di Enrico Vigna*

Un incontro di oltre 1.000 antisionisti ebrei e non ebrei a Vienna, in Austria, ha rivolto un fermo appello a tutti gli Stati e le comunità ad adempiere ai loro obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per fermare il genocidio in corso a Gaza, comprese le sanzioni.

Questo primo evento del suo genere in Europa, ha già gettato le basi per la pianificazione di una seconda conferenza nel 2026. La dichiarazione finale adottata dalla conferenza (13-15 giugno) ha dichiarato: “Noi, relatori e organizzatori della conferenza, rilasciamo questo appello generale, che riflette le posizioni collettive raggiunte durante i tre giorni di deliberazioni”.

La conferenza era stata organizzata da un piccolo comitato direttivo con sede a Vienna, è stato un incontro appassionato di attivisti per la solidarietà alla Palestina da tutto il mondo. C’era anche una delegazione dall’Indonesia. Il suo successo ha sorpreso gli stessi organizzatori, con centinaia di persone che hanno dovuto essere respinte. Persone ebraiche e non ebree di tutte le fedi o di nessuna, si sono unite nella determinazione di vedere la fine della velenosa ideologia del sionismo che ha motivato la creazione dello stato israeliano.

Tra i tantissimi oratori, hanno parlato Ilan Pappe, Ghada Karmi Francesca Albanese, Rahma Zein, Rima Hassan.