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piccolenote

Trump-Putin: i Tomahawk e il vertice di Budapest

di Davide Malacaria

Trump spiazza tutti e, dopo tre settimane in cui i media hanno dato per scontato che avrebbe dato i Tomahawk all’Ucraina, chiama Putin e annuncia che lo incontrerà a breve. In Ungheria, cioè nella nazione europea che più ha frenato lo slancio della leadership Ue, soggiogata da Londra, per fare del conflitto per procura ucraino una guerra continentale (nella folle illusione che rimarrebbe tale, senza cioè evolvere, com’è invece inevitabile, in una guerra termonucleare globale – sul punto, ha posto una pietra tombale l’esercitazione Usa Proud Prophet, vedi New York Times).

Zelensky, sbarcato negli Usa stamane nella convinzione che avrebbe ottenuto l’ambito regalo dal presidente americano, è rimasto sorpreso dalla mossa di Trump, annota Axios, e probabilmente se ne tornerà con le pive nel sacco. Forse avrebbe dovuto prendere più seriamente le dichiarazioni di Trump che, alcuni giorni fa, interpellato sui Tomahawk, ha risposto “ne parlerò con la Russia“. Esattamente quel che ha fatto.

Peraltro, se è vero che la querelle dei missili ha innescato ovvie reazioni a Mosca, l’inattesa telefonata di ieri segnala che i rapporti sottotraccia tra le due potenze sono stati preservati.

Prima di incontrare il presidente americano Zelensky ha incontrato i produttori di armi statunitensi, abboccamento che la dice lunga sulla natura di questo conflitto che, oltre all’obiettivo, mancato, di fiaccare le risorse russe e quello, in parte raggiunto, di distoglierla dallo scacchiere globale (vedi Gaza), ha anche quello di rafforzare l’apparato militar-industriale Usa e le forze politiche-finanziarie connesse.

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labottegadelbarbieri

Perché la guerra alla Russia?

E la NATO vuole aiutare l'UE o suicidarla?

di Giorgio Monestarolo

 

1. Le cause della guerra

Da quando è arrivato Trump la gestione della guerra è mutata. Le notizie si rincorrono in un alternarsi di stop and go nella direzione, apparentemente, di una soluzione del conflitto, di un armistizio o di un suo rilancio.

In realtà, seguendo la cronaca giorno per giorno si percepisce un senso di smarrimento, non si capisce bene effettivamente dove si stia andando. Lo smarrimento è il frutto di una non comprensione delle ragioni, delle cause del conflitto. Il primo punto che vorrei chiarire è proprio questo. Lo faccio riferendomi a un articolo uscito recentemente sul New York Times, di cui si è parlato molto per un attimo e su cui è poi caduto il silenzio. Il titolo è già molto esplicativo: L’alleanza. Storia segreta della guerra in Ucraina. Il ruolo nascosto degli Usa nelle operazioni militari ucraine contro la Russia. Si tratta di un dossier frutto i di più di trecento interviste a uomini e donne della Nato a cura di Adam Entous e pubblicato il 29 marzo del 2025.

L’importanza dell’articolo è semplice: l’autore riconosce, con dovizia di particolari, la natura di guerra per procura dell’Ucraina alla Russia, guerra per conto degli USA. Una guerra preparata dalle amministrazioni democratiche e repubblicane negli ultimi trent’anni. Non è chiaramente una notizia bomba. Molti studiosi dal febbraio del 2022 hanno sostenuto questa tesi. La novità è il fatto che il giornale dell’amministrazione democratica, il giornale di sistema più prestigioso degli Usa lo abbia dichiarato senza infingimenti di sorta. Il motivo era chiaro: la guerra non è stata vinta anzi è stata proprio persa.

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sollevazione

Palestina: la lotta continua

di Fronte del Dissenso

La tregua in atto da qualche giorno a Gaza dà quantomeno respiro a una popolazione martoriata. E’ alla sofferenza, e all’incredibile capacità di resistenza del popolo palestinese, che va il nostro primo pensiero. E’ grazie a questa resistenza che lo sterminio genocida di Israele è stato almeno provvisoriamente fermato. A questo popolo e alle sue organizzazioni va la nostra piena solidarietà.

La tregua non è la pace. Non lo è non solo perché essa è precaria, non solo perché Israele viola da sempre ogni accordo (come vediamo in questi giorni in Libano), ma soprattutto perché essa è figlia di uno stallo militare, non di una svolta politica che riconosca finalmente i diritti del popolo palestinese.

La tregua è il frutto di un compromesso aperto a diversi possibili sviluppi. Un compromesso che, per ora, ha portato alla cessazione dei combattimenti e allo scambio dei prigionieri. Su tutto il resto il disaccordo permane. Hamas e le altre forze della Resistenza palestinese, che hanno agito in grande accordo tra loro, hanno accettato la tregua, non certo il pretenzioso piano neocolonialista di Trump.

Quel piano rappresenta la prosecuzione della politica dell’imperialismo americano in Medio Oriente. L’Occidente continua, infatti, a considerare l’entità sionista come il proprio decisivo avamposto in quella regione. Sta di fatto che Israele non avrebbe potuto reggere due anni di guerra – attaccando oltre che a Gaza e in Cisgiordania, il Libano, l’Iran, la Siria, l’Iraq, lo Yemen e il Qatar – senza le armi e la complicità statunitense ed europea.

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effimera

Il neocolonialismo della pace

di Andrea Fumagalli

La firma dell’accordo di pace tra Israele e Hamas ha giustamente suscitato molte speranze perché si possa arrivare a un definitivo “cessate il fuoco”. Tuttavia, dietro questo accordo si nascondano nuove forme di colonialismo e di depredazione/saccheggio a danno dei palestinesi e dei territori occupati. La guerra delle armi e delle macerie lascia così lo spazio a una nuova guerra: quella del business della ricostruzione, della speculazione e del profitto per pochi.

* * * *

Il vertice del 13 ottobre 2025 a Sharm el-Sheikh per la convalida a livello internazionale degli accordi di pace tra il governo israeliano e Hamas con la mediazione del Quatar, Egitto e Turchia viene descritto come una tappa storica nell’evoluzione dei rapporti tra Israele e i paesi del Medio Oriente e un esempio di pacificazione globale. Ma nel nome della fine (unilaterale) delle ostilità contro una popolazione civile inerme, si tratta invece di una delle pagine più ipocrite e meno gloriose nella storia del colonialismo occidentale. Perché di neo-colonialismo trattasi e gli interventi di Netanyahu e di Trump alla Knesset nella mattinata – a dir poco agghiaccianti –  lo hanno ben confermato.

Presenti al vertice ci sono in primo luogo i Paesi mediatori nella trattativa, a partire da Turchia e Qatar. Non c’è Benjamin Netanyahu e non ci sono rappresentanti di Hamas.

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machina

Ottobre, 2025: accade l'impossibile

di Pierandrea Amato

0e99dc mv2Di che cosa è nome la navigazione della Flotilla? Può avere il suo coraggio una consistenza filosofica? A un paio di settimana dalla sua impresa si possono cominciare a fare i conti con il significato di un gesto che probabilmente non si esaurisce esclusivamente con una straordinaria traversata. L’ipotesi è che Flotilla sia un atto di diserzione in grado di configurare un momento di resistenza capace di evocare un gesto di rivolta riuscendo a lacerare la desolazione e l’impotenza che il genocidio organizzato a Gaza da Israele aveva scatenato. È un’insurrezione disarmata impegnata a fare i conti con l’inaudito: il genocidio come progetto democratico di governo dell’esistenza. Per questa ragione è considerata qui un’esperienza impossibile, cioè, capace di schiudere uno spazio perché possa accadere un evento politico difficile solo da immaginare anche solo un momento prima della sua materializzazione.

* * * *

All’improvviso, come generalmente accade quando la politica si prende la scena, un’insurrezione disarmata invade l’Italia: frequenta luoghi imprevisti, concepisce gesti inattesi, è composta da una molteplicità misteriosa di ogni età. Ma non è tutto: le manifestazioni si susseguono anche di notte, esplorando orari inediti, facendo luce nell’oscurità (lo ricordava già Walter Benjamin: quando irrompe la politica chiamata a cambiare le cose, quando accade l’inimmaginabile, la prima cosa che accade è un’interruzione del tempo cronologico, del suo andamento normale: si colpiscono gli orologi; il tempo si ferma e si fa strada un altro tempo nel tempo). Occupazioni di porti, aeroporti, stazioni, di carreggiate autostradali: la marea non può essere fermata; la polizia desiste e il governo si polverizza. Assistiamo a un atto di resistenza che rovescia i rapporti di forza, che riesce a rendere goffe e grottesche – ma non per questo meno pericolose – le posizioni governative. Si tratta di una resistenza che scompagina il quadro, che tende a redimere due anni terribili: silenzi, impotenza, incredulità di fronte al genocidio.

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quodlibet

Sull’intelligenza artificiale e sulla stupidità naturale

di Giorgio Agamben

«Comincia un’epoca di barbarie e le scienze saranno al suo servizio». L’epoca di barbarie non è ancora finita e la diagnosi di Nietzsche è oggi puntualmente confermata. Le scienze sono così attente a esaudire e persino precorrere ogni esigenza dell’epoca, che quando questa ha deciso che non aveva voglia né capacità di pensare, le ha subito fornito un dispositivo battezzato “Intelligenza artificiale” (per brevità, con la sigla AI). Il nome non è trasparente, perché il problema dell’AI non è quello di essere artificiale (il pensiero, in quanto inseparabile dal linguaggio, implica sempre un’arte o una parte di artificio), ma di situarsi al di fuori della mente del soggetto che pensa o dovrebbe pensare. In questo essa assomiglia all’intelletto separato di Averroè, che secondo il geniale filosofo andaluso era unico per tutti gli uomini. Per Averroè il problema era conseguentemente quello del rapporto fra l’intelletto separato e il singolo uomo. Se l’intelligenza è separata dai singoli individui, in che modo questi potranno congiungersi ad essa per pensare? La risposta di Averroè è che i singoli comunicavano con l’intelletto separato attraverso l’immaginazione, che resta individuale. È certamente sintomo della barbarie dell’epoca, nonché della sua assoluta mancanza di immaginazione, che questo problema non venga posto per l’intelligenza artificiale. Se questa fosse semplicemente uno strumento, come i calcolatori meccanici, il problema in effetti non sussisterebbe.

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ottolinatv.png

La bolla sta per esplodere. Meloni impone agli italiani di metterci tutti i loro risparmi

di OttolinaTV

Sembra un film dell’orrore: la più grande bolla speculativa della storia del capitalismo globale è sull’orlo di esplodere; tutti si affannano per cercare delle alternative, e la Giorgiona nazionale cosa fa? Una serie di leggi che permettono ai grandi fondi di andare a prendere i risparmi dei poveri lavoratori italiani con la forza per buttarli nel calderone dei mercati finanziari USA sull’orlo del collasso. L’abbiamo sempre definita bonariamente la cameriera di Trump; eravamo stati ottimisti: è il più feroce degli esattori del tributo imperiale dei nostri giorni, un moderno sceriffo di Nottingham alla caccia dei nostri TFR. Ce lo siamo fatti spiegare dal nostro buon Alessandro Volpi.

* * * *

D’altronde, che vuoi discutere? Non è che uno, quando ti viene a rapinare, di solito chiede il consenso; e che, in questo caso, si tratti a tutti gli effetti di una vera e propria rapina è piuttosto plateale. Ancorare le aspettative dei lavoratori salariati ai capricci dei mercati finanziari è una porcata, sempre; ma almeno, in altre circostanze, si poteva far finta che tutto sommato convenisse anche a loro. Più che una rapina, insomma, era una specie di ricatto: non ti metto in condizioni di vivere una vita dignitosa, però, se il casinò della finanza continua a correre, qualche briciolina te la concediamo pure a te.

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comidad

Il premio nobel all'assistenzialismo per ricchi

di comidad

Mai sottovalutare le riscoperte dell’acqua calda. La prima ovvietà da considerare è l’assurdo di un premio Nobel per la pace assegnato da un organo politico di un paese che fa parte di un’alleanza militare. La Norvegia è un membro della NATO e ne persegue la politica “occidentalista” (eufemismo di suprematismo bianco) anche attraverso le pubbliche relazioni, nel cui ambito c’è da annoverare appunto il premio Nobel. Il premio è stato negato a Trump, ma non per voler fargli torto, bensì per istigarlo a proseguire sulla strada dell’aggressione economica e militare al Venezuela. Magari a qualcuno del Pentagono potrebbe sorgere il timore che gli USA si stiano sovraesponendo sul piano militare; meno male che arrivano gli europei a presentare il regime di Maduro come una minaccia intollerabile alla sopravvivenza dell’umanità. La signora insignita del Nobel, Maria Corina Machado, peraltro è entusiasta di Trump e ne appoggia gli obbiettivi e i metodi, quindi le stanno bene le sanzioni, i tentativi di colpo di Stato e di decapitazione del regime; e persino l’attività di calunniatore e assassino nei confronti di persone che navigano su piccole imbarcazioni a grande distanza dalle coste del Venezuela.

Era prevedibile e scontato anche il plauso di Roberto Saviano per il riconoscimento assegnato a una delle principali esponenti della cosiddetta “opposizione” (un altro eufemismo che sta per golpismo) al regime di Maduro, il quale sarebbe corruzione mascherata da socialismo. Magari un giorno Saviano ci rivelerà quale sia a questo mondo il regime non corrotto. Più realisticamente occorrerebbe dire che ci sono regimi della cui corruzione è lecito e conveniente parlare, e regimi della cui corruzione non è il caso di parlare troppo se non vuoi guai, visto che sono quelli che comandano dalle nostre parti.

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linterferenza

Altro che Hamas!

di Antonio Castronovi

Niente! Non c’è niente da fare! I pruriti anti-Hamas dell’esthablishment liberal democratico riemergono all’indomani della improbabile pacificazione trumpiana del genocidio del popolo di Gaza da parte dell’esercito più immorale del mondo. I cattivi non sono più gli israeliani che cecchinano i gazawi in fila per un tozzo di pane, ma i fondamentalisti di Hamas che hanno resistito con le armi all’occupazione di Gaza dove l’IDF ha armato e assoldato bande di arabi per contendere ad Hamas il controllo del territorio e provocare una guerra fratricida.

Ora Hamas, dopo il parziale ritiro dell’esercito israeliano, riprende giustamente il controllo di Gaza e disarma i traditori e collaborazionisti arabi, combattendo e giustiziando chi non lo fa. È suo diritto farlo. È un diritto della Resistenza armata disarmare e combattere i suoi oppositori e i suoi nemici. È sempre stato così anche nella resistenza antifascista e partigiana italiana. Dove sarebbe le scandalo?

In realtà lo “scandalo” sarebbe l’esistenza stessa di una resistenza armata in Palestina che non è rappresentata solo da Hamas. La resistenza all’occupazione e ai crimini dello Stato genocida sionista dovrebbe essere, per le anime belle, di sinistra e no, semplicemente disarmata. Da ciò la criminalizzazione del 7 ottobre come atto terroristico e non invece come atto di resistenza legittima anche secondo il diritto internazionale.

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contropiano2

Il doppio effetto del Piano Trump, in Medio Oriente e in casa nostra

di Forum Palestina

E’ ormai evidente che nel prossimo periodo dovremo fare i conti con gli effetti del Piano Trump, i cui primi cinque punti – cessate il fuoco, scambio di prigionieri, ripresa degli aiuti umanitari per la popolazione palestinese a Gaza – sono stati sottoscritti in una sorta di show a Sharm El Sheik.

Il Piano che è stato arbitrariamente salutato come piano di pace, in realtà accoglie molti degli interessi israeliani sulla questione palestinese e nella regione mediorientale.

In larga parte questi interessi coincidono con quelli statunitensi e della banda di Trump, ma il Piano cava di impaccio anche i governi europei inchiodati dalle manifestazioni di massa per la Palestina alle loro ambiguità/complicità con Israele. Non è invece affatto scontato che i paesi arabo/islamici siano soddisfatti del quadro che verrà fuori da questi accordi né da quello che li ha determinati.

Il bombardamento israeliano su Doha per cercare di uccidere i negoziatori di Hamas, si è rivelata una cesura nel rapporto tra Israele e le ricche petromonarchie del Golfo.

E questa cesura è arrivata in una fase in cui le varie anime del mondo arabo/islamico hanno trovato il modo di porre fine alle loro decennali rivalità interne tra Fratelli Musulmani, sauditi, sciiti. Quindi anche tra le loro potenze regionali di riferimento: Turchia e Qatar nel primo caso; Arabia Saudita ed Egitto nel secondo; Iran nel terzo.

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contropiano2

La notte di Stammheim

di Contromaelstrom

Le cosiddette “democrazie liberali” hanno sempre avuto un problema nel far corrispondere le dichiarazioni di principio sui “valori occidentali” e l’effettiva pratica di governo.

Oggi questa distanza appare netta e infinita. solare nelle evidenze quotidiane che riguardano la deferenza verso i genocidi all’opera a Gaza o in Cisgiordania oppure anche l’annunciato assalto al Venezuela (la “sovranità” di un paese va forse rispettata solo quando è asservita all’impero?), nelle torture piccole e grandi inflitte a tutti i detenuti (dalle carceri minorili all’inferno del “41 bis”).

Ma anche nel recente passato non sono certo mancate prove di gestione criminale del conflitto, soprattutto in quei paesi che più avevano faticato a emanciparsi – persino a parole dal nazifascismo. La notte di Stammheim, 1977, resta ancora oggi il punto di infamia più tenebroso in territorio europeo. Qui, nel “giardino”…

* * * *

II 17 ottobre 1977 verso la mezzanotte un commando delle truppe speciali tedesche, il GSG 9, assaltò un aereo che era stato dirottato per chiedere la liberazione di prigionieri politici, uccidendo tre dei quattro dirottatori e ferendo la quarta.

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lantidiplomatico

Nel “bunker” di Maduro

di Geraldina Colotti

Sulle piattaforme di opposizione, la domanda rimbalza: In quale bunker si nasconde il “dittatore” Maduro? Cubani, cinesi, russi (e chi più ne ha più ne metta) stanno scavando tunnel sotto il palazzo presidenziale “come quelli di Hamas sotto Gaza”?Segue una ridda di ipotesi sul tipo di attacco che sferrerà l'imperialismo Usa per “ripristinare la democrazia” e fare con il chavismo quel che Netanyahu e Trump hanno fatto con Gaza. D'altro canto, Machado ha chiesto pubblicamente al genocida sionista di “fare lo stesso lavoro” con i chavisti del suo paese...

E ora che Trump ha annunciato dapprima che le presunte operazioni contro il narcotraffico “potrebbero cominciare anche a terra”, e poi di aver dato mano libera alla Cia per compiere operazioni sotto copertura in Venezuela (onde riscuotere la taglia posta sulla testa del presidente e di altri dirigenti bolivariani), golpisti frustrati di tutte le risme si sentono già l'acquolina in gola. Dalla loro, sanno di avere il Segretario di stato Marco Rubio, rappresentante dell'anticomunismo più sfegatato di Miami, potente eminenza grigia dell'amministrazione nordamericana.

Già a maggio del 2025, quando il governo bolivariano lasciò andare negli Usa cinque oppositori che si erano volontariamente “autoesiliati” nell'ambasciata argentina a Caracas, Rubio dichiarò che era stata un'operazione della Cia a liberarli. E, allora, Machado aveva diffuso, enfatica, la falsa notizia, definendola come “un'operazione impeccabile ed epica” e annunciandone presto altre dello stesso tenore “per liberare gli eroi prigionieri”.

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altrenotizie

Gaza, la commedia della “pace”

di Mario Lombardo

Dopo la sbornia mediatica della giornata di lunedì, seguita al grottesco intervento di Trump al parlamento israeliano e alla firma a Sharm El-Sheikh del “piano di pace” per mettere fine al genocidio palestinese, la tenuta della fragile tregua in atto a Gaza resta minacciata da una lunga serie di incognite, quasi nessuna delle quali affrontata dal documento partorito dal presidente americano e dal primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Quello che è andato in scena in Egitto, alla presenza anche di svariati leader europei, è un tentativo di cancellare del tutto la realtà del genocidio e le responsabilità israeliane, occidentali e dei regimi arabi sunniti, proponendo un’immagine semplicemente assurda della “comunità internazionale” come forza di pace. Il tutto mentre si sta al contrario cercando di implementare l’ennesimo progetto neo-coloniale che calpesta i diritti della popolazione palestinese e cerca di rafforzare il controllo sull’intera regione degli Stati Uniti e dello stato ebraico.

 

Dal genocidio alla redenzione

Il processo che ha portato agli eventi dell’ultima settimana e allo stop dell’aggressione sionista nella striscia è stato studiato meticolosamente per allentare le pressioni dell’opinione pubblica di tutto il mondo sui governi complici dello sterminio palestinese.

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In occasione dell’uscita del libro “Contro le due destre” (Futura ed., 2025)

di Alberto Bradanini

Prima di entrare nel merito dei temi che concernono l’estrema ipotesi di essere chiamati a modellare una diversa politica estera per il paese, occorre procedere a un’operazione preliminare, decolonizzare la mente dalla macchina della menzogna che inquina la vita pubblica, nazionale e internazionale in ogni dove.

Una volta disintossicati, si può quindi percepire il disvelamento della struttura di potere, tra chi vive nel privilegio e chi arranca per sopravvivere, e provare a ricostruire la prospettiva di un mondo diverso.

Non potendo sopprimere del tutto la verità, chi siede in cima alla piramide cerca di soffocarla in un mare di menzogne, affinché il popolo non distingua più l’una dall’altra, e dunque nemmeno il bene dal male. Di quel popolo, poi, si può fare quel che si vuole.

Ma andiamo con ordine, l’impero in declino si scopre angosciato davanti all’emersione del Sud Globale, uscito finalmente dal letargo secolare nel quale era stato relegato da colonialismo e neocolonialismo, disponendo oggi di forza politica ed economica, e massa critica, per rivendicare sovranità e libertà di scelte in rappresentanza della stragrande maggioranza della popolazione del mondo (i Brics e la Sco sono entrambe guidate da Cina, Russia e India).

Alla luce della deriva politica, economica ed etica, l’Italia, ormai una nazione in via di sottosviluppo, proprio a quel mondo dovrebbe guardare, per scuotersi dalla condizione di vassallo di un impero (gli Stati Uniti) posseduto da una plutocrazia che pretende di dominare un pianeta di 8 mld di persone per conto del 4,1% della popolazione mondiale (in realtà – come sappiamo – nell’interesse dello 0,1%).

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contropiano2

Hamas

di Alfredo Facchini*

In apertura, una premessa: sono marxista, ateo e libertario. Tra me e Hamas c’è dunque un divario ideologico incolmabile. Non spetta a me ripulirne la reputazione e, in ogni caso, non ne avrei né il titolo né l’intenzione. Ma poiché attorno a questo movimento circolano leggende e bufale di ogni sorta, ho provato a scavare.

L’idea che “Israele abbia finanziato Hamas” o addirittura che sia una creatura del Mossad circola anche tra noi sostenitori della causa palestinese. Spesso come slogan, raramente con prove.

La storia. In pillole. Hamas nasce nel fuoco dell’Intifada. Gaza, dicembre 1987. La rabbia esplode contro l’occupazione israeliana. Nelle moschee e nei vicoli si muovono uomini dei Fratelli Musulmani. Da anni gestiscono scuole, ospedali, associazioni di carità. Tra loro c’è lo sceicco Ahmed Yassin: figura carismatica, corpo fragile, volontà ferrea.

Decide che è tempo di passare all’azione. Così nasce Harakat al-Muqawama al-Islamiyya – Movimento di Resistenza Islamica. Hamas. Nel 1988 pubblicano la Carta: religione e politica fusi in un unico progetto. Obiettivo dichiarato: liberare la Palestina storica, distruggere Israele, fondare uno Stato islamico. Orientamento: sunnita.

All’inizio Hamas non è un esercito. È una rete: prediche, assistenza, disciplina morale. Ma l’Intifada trasforma tutto. I giovani scendono in strada. Le pietre diventano simbolo. Hamas cresce nel fango, nei campi profughi, nei comitati popolari. Nel 1992 nasce l’ala armata: le Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām. La resistenza diventa organizzata, permanente.

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analisidifesa

Le contraddizioni di una narrazione surreale

di Gianandrea Gaiani

L’obiettivo sarà forse comune ma gli sforzi compiuti da UE e NATO per mobilitarci contro l’inevitabile invasione russa continuano a essere non coordinati, spesso contraddittori, in moltissimi casi sopra le righe e con contenuti in antitesi tra loro.

Solo nelle ultime 48 ore ne abbiamo sentite di tutti i colori.

Il 13 ottobre i servizi segreti tedeschi hanno ammonito che “a Mosca si ritiene di avere possibilità realistiche di espandere la propria zona di influenza verso ovest. (…) Per raggiungere questo obiettivo, la Russia non esiterà, se necessario, a entrare in conflitto militare diretto con la NATO”.

Lo ha detto Martin Jäger (nella foto sotto), direttore del Servizio federale di intelligence (BND), ascoltato dalla commissione di controllo parlamentare, al Bundestag. “Non dobbiamo riposare sugli allori pensando che un eventuale attacco russo non avrà luogo prima del 2029. Siamo già nel pieno dell’azione oggi”, ha aggiunto Jäger, che era ambasciatore in Ucraina prima di assumere la guida del BND il mese scorso.

“Dobbiamo prepararci a un nuovo aggravarsi della situazione”, ha aggiunto Jäger mentre Sinan Selen, presidente dei servizi segreti interni tedeschi BfV (l’Ufficio Federale per la protezione della Costituzione – Bundesamt für Verfassungsschutz), anch’egli ascoltato in audizione, ha concordato sottolineando che “la Russia persegue in modo aggressivo le sue ambizioni politiche contro la Germania, l’Ue e i suoi alleati occidentali utilizzando ”un’ampia gamma di attività di spionaggio, disinformazione, ingerenza, sabotaggio e attacchi informatici”.

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Coordinamenta2

Guerra di classe

di Elisabetta Teghil

Questa mattina all’alba in provincia di Verona due anziani fratelli e una altrettanto anziana sorella, agricoltori, hanno fatto saltare in aria con il gas di una bombola il casolare dove abitavano mentre era in corso una irruzione di svariate forze di polizia in relazione a una procedura di sfratto esecutivo. Tre carabinieri sono morti, uno dei fratelli e la sorella sono in gravi condizioni. Dino, Franco e Maria Luisa Ramponi, proprietari di un’azienda agricola storica di Castel d’Azzano, erano sul lastrico, su di loro pendeva uno sfratto esecutivo per un’ipoteca sulla proprietà. Strozzinaggio legale. Avevano già minacciato di far saltare tutto l’anno scorso ma la soluzione è stata piombare in forze nel casolare alle tre di notte. I vicini: “Erano disperati, vivevano come in una grotta” Erano oberati dai debiti e vivevano senza luce e gas.

Questo avvenimento me ne ha fatto venire in mente un altro successo qui a Roma anni fa in un quartiere popolare della periferia est. Una vecchietta di 82 anni, sfrattata dal suo appartamento lo aveva fatto saltare in aria e per nulla pentita aveva ribadito «Il Signore non vi farà godere la casa, siete dei ladri»

Se scorrete la cronaca, di queste storie ne troverete tante negli anni. Il dolore, la fatica di una vita che non vale la pena di essere vissuta si può trasformare in rassegnazione, disperazione oppure rabbia e rancore.

Ci sono quelli che si rassegnano e vengono ignorati, nessuno si occuperà di loro, nessuno si accorgerà di quello che è accaduto, saranno solo loro a pagarne il pesante prezzo.

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quodlibet

Gli ultimi giorni dell’umanità

di Giorgio Agamben

A partire dall’ottobre 1915, dopo la notizia dello scoppio della grande guerra, Karl Kraus cominciò a scrivere «per un teatro di Marte» il dramma Gli ultimi giorni dell’umanità, che non volle fosse messo in scena, perché «i frequentatori dei teatri di questo mondo non avrebbero retto allo spettacolo». Il dramma – o piuttosto, come si legge nel sottotitolo, «la tragedia in cinque atti» – era «sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». E nel Weltgericht pubblicato dopo la fine della guerra parlerà del suo «grande tempo», che aveva conosciuto «quando era così piccolo e che tornerà a essere piccolo, se gliene rimane ancora il tempo», come di un tempo «in cui succede ciò che non ci si poteva immaginare e in cui dovrà succedere ciò che non si può più immaginare e che, se immaginarlo si potesse, non succederebbe».
Come ogni discorso implacabilmente lucido, la diagnosi di Kraus si adatta perfettamente alla situazione che stiamo vivendo. Gli ultimi giorni dell’umanità sono i nostri giorni, se è vero che ogni giorno è l’ultimo, che l’escatologia è, per chi è in grado di comprenderla, la condizione storica per eccellenza.

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lafionda

Hegel e la guerra

di Salvatore Bianco

Screenshot.Hegel2023 900x445 1.pngPremessa

Per paradossale e contro intuitivo che possa sembrare lo sguardo esclusivamente illuministico sulla guerra e, più in generale, intorno al “negativo” espone la razionalità al più catastrofico dei suoi scacchi. Se ne erano accorti gli esponenti di punta della “teoria critica” della Scuola di Francoforte, M. Horkheimer e T. Adorno, che nel loro capolavoro Dialettica dell’Illuminismo (1947) provvedono a fissarne i passaggi argomentativi chiave.

 

Dialettica dell’illuminismo

Da un punto di osservazione non invidiabile, siamo tra il 1942 e il 1944, ma ricco di suggestioni teoriche, espongono in quel libro dai tratti profetici e visionari la tesi che il nazifascismo non era stata una «parentesi», come il mondo liberale da lì a poco si sarebbe affrettato a liquidare, piuttosto la scaturigine stessa della intera civiltà moderna, il suo esito più probabile, frutto avvelenato di quell’inevitabile rovesciamento dialettico dell’approccio solo formalistico e dunque debole della ragione illuministica. Il difetto strutturale di quel filone culturale è rintracciato in un eccesso di soggettivismo che impedisce all’io di entrare fino in fondo in relazione con l’oggetto. Con due conseguenze, se riferite al mondo storico e sociale, entrambe nefaste: che i rapporti di forza e di dominio in esso contenuti, a partire dal macro fenomeno della guerra, non vengono neppure scalfiti e meno che mai imbrigliati e che la soggettività, concepita da Kant in termini solo formalistici e astratta, è destinata all’inevitabile scacco conoscitivo e al conseguente rispecchiamento narcisistico. Esito nichilistico fra l’altro già precocemente annunciato nella riflessione del Marchese de Sade, ampiamente richiamato dagli autori, illuminista e contemporaneo di Kant, che non fa mistero nei suoi scritti di porsi come il suo “doppio”. Con chiarezza adamantina, così si esprimono: «Gli scrittori “neri” della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell’illuminismo con dottrine armoniose.

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linterferenza

Il Nobel capovolto

di Norberto Fragiacomo

“Per il suo instancabile lavoro nella promozione dei diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia”: con questa motivazione un gruppo ristretto di gentiluomini norvegesi ha insignito del Premio Nobel per la Pace 2025 un’esponente di punta dell’opposizione di destra venezuelana.

Cosa ci sia di veridico in questa formula è presto detto: niente di niente. Marìa Corina Machado proviene da un’altolocata famiglia di possidenti e, a differenza del “proletario” Maduro, ha studiato negli Stati Uniti d’America, ma anziché i “diritti democratici per il popolo venezuelano” ha instancabilmente promosso, nel corso degli anni, il ripristino di quei privilegi di casta che prima della rivoluzione chavista connotavano la realtà politico-sociale del Venezuela. È altresì grossolanamente falso che l’affascinante signora lottasse (e tuttora lotti, benché in semiclandestinità) per una “transizione giusta e pacifica”, visto che ha più volte invocato un intervento militare straniero (superfluo precisare: statunitense) per abbattere l’odiato regime plebeo di ispirazione socialista. Il colmo dell’impudenza e della malafede è però raggiunto nel passaggio “dalla dittatura alla democrazia”. Hugo Chavez e il successore Maduro hanno sempre vinto regolari elezioni, non perché siano (stati, nel caso del compianto Chavez) immuni da debolezze umani e difetti o perché le politiche da loro attuate abbiano trasformato il Venezuela nel paese di Bengodi: semplicemente perché l’unica alternativa stabilmente “offerta” dalla destra reazionaria contempla un ritorno all’ordinaria spaventosa disuguaglianza tra ceti privilegiati e classi popolari condannate all’indigenza, all’ignoranza e allo sfruttamento bestiale.

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lantidiplomatico

Premio Nobel per l'Economia o per il Nichilismo?

di Giuseppe Masala

Il premio Nobel per l'economia di quest'anno incentrato sugli studi relativi all'innovazione sembra nascondere un messaggio politico sullo sfondo del furibondo scontro "tecnologico" tra occidente e Cina: dovete accettare questo scontro con i disagi e i rischi che si possono verificare perché non vi è alternativa possibile a un mondo fondato sul dominio dell'uomo sull'uomo. Un mondo dunque dominato dalla Techné e dal Nichilismo

Puntuale come la malasorte arriva anche quest'anno un'assegnazione del premio Nobel per l'Economia che ha il sapore di non voler disturbare il manovratore. «Tutto procede per il meglio e le magnifiche sorti e progressive ci attendono» sembra volerci dire la Banca Nazionale di Svezia che assegna questo ambito premio. Eppure, a voler scavare a fondo, si tratta di un premio Nobel problematico. Pieno di trappole logiche che - paradossalmente - gli danno un valore intrinseco (inteso come presa di coscienza) al di là delle intenzioni conservatrici di chi lo assegna.

Ad averlo vinto sono tre economisti a me del tutto sconosciuti: Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt. Ma è la motivazione che li ha elevati a principi della Scienza triste a essere importante: «per aver spiegato la crescita economica guidata dall’innovazione» si legge. Più precisamente, sempre continuando a leggere le motivazioni, Joel Mokyr ha vinto il premio «per aver identificato i prerequisiti di una crescita economica duratura attraverso il progresso tecnologico» mentre Philippe Aghion e Peter Howitt lo hanno vinto «per la teoria della crescita sostenuta attraverso la distruzione creativa». Dunque, si tratta di un premio assegnato per gli studi su un tema – l'innovazione – ampiamente scandagliato dagli economisti fin dagli albori della nascita della disciplina.

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lafionda

Il nuovo antisemitismo come verità di Stato

di Alessandro Somma

Il prossimo numero de La fionda, il secondo del 2025 in uscita per fine anno e intitolato “La Terra promiscua. Israele, il Medioriente e la tragedia senza fine della Palestina”, conterrà una intervista-dialogo di Diego Melegari con Valentina Pisanty[1]. Lì si ricostruisce l’operazione messa in campo dalla destra israeliana per equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, ovvero per considerare la critica alla costruzione di Israele come Stato a fondamento etnico e religioso alla stessa stregua delle ostilità nei confronti degli ebrei. Si racconta poi di come la riduzione dell’identità ebraica all’identità sionista abbia portato a innovare la nozione di antisemitismo: non è più quello di matrice ottocentesca alimentato dai cliché antiebraici e dalla volontà di colpire gli ebrei in quanto tali, bensì quello che mira a condannare le critiche a Israele in quanto ebreo collettivo[2].

L’intervista documenta come il tutto abbia trovato una sintesi nella “definizione operativa” di nuovo antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance): organizzazione intergovernativa che comprende 35 Stati membri e 8 Stati osservatori[3]. Per questa definizione “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei”, mentre “manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”. Con la precisazione che “le manifestazioni possono avere come obiettivo lo Stato di Israele perché concepito come una collettività ebraica”[4].

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giubberosse

È iniziato il disaccoppiamento totale

di Hua Bin, huabinoliver.substack.com

Come se seguisse un copione prestabilito, la guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina ha raggiunto il culmine la scorsa settimana, quando la Cina ha lanciato una serie di dure contromisure contro gli Stati Uniti in rappresaglia per le sue provocazioni, tra cui severe restrizioni sui prodotti a base di terre rare.

Come prevedibile, Trump è andato su tutte le furie e ha aumentato del 100% le tariffe sulle importazioni di prodotti cinesi, minacciando al contempo di annullare un incontro con il presidente Xi, cosa che Pechino non ha mai confermato.

Trump ha lanciato una serie di tweet roboanti sul suo Truth Social, denunciando l’ostilità e l’ingiustizia della Cina.

Se non altro, questo dimostra che Pechino ha imparato a padroneggiare l’arte di premere il pulsante di Trump. Come un giocattolo, l’umore e il comportamento di Trump sono controllati a distanza dai tecnocrati di Pechino, che progettano le sue politiche per contrastare gli Stati Uniti.

Nonostante i progressi dimostrati e l’ottimismo dichiarato per una potenziale de-escalation nei colloqui commerciali di Madrid, gli Stati Uniti non hanno perso tempo e hanno subito lanciato una serie di sanzioni commerciali e tecnologiche contro la Cina, proprio come avevano lanciato l’attacco a sorpresa all’Iran subito dopo il quinto round di colloqui nucleari con Teheran.

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labottegadelbarbieri

Libertà per Marwan Barghouti, libertà per i prigionieri politici palestinesi, libertà per la Palestina

Un appello (in coda le indicazioni per aderire)

In Italia, come nel mondo intero, è vivo e forte un movimento che vuole la pace in Palestina e Israele per aprire la strada a un mondo multipolare, unica soluzione possibile contro il rischio di una catastrofica guerra generalizzata.

Ma nel coloniale “piano di pace” concordato tra Trump e Netanyahu è completamente assente il riferimento alla autodeterminazione del popolo palestinese e a una soluzione che riconosca i diritti politici dei palestinesi.

Al tavolo delle trattative mancano i palestinesi e soprattutto sono assenti le voci di coloro che potrebbero rappresentare con la loro storia l’intera comunità palestinese. Sono donne e uomini che giaccciono da più di vent’anni in galera, in condizioni disumane. Le voci che mancano di più sono quelle di Marwan Barghouti, già leader di Fatah, formazione laica e principale forza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), e di Amhad Sa’adat, presidente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione storica della sinistra palestinese. Barghouti, in particolare, è il leader più amato dai palestinesi e gode del rispetto di tutti i partiti, fazioni e movimenti della Resistenza.

Moltissime azioni possono promuovere la pace e inceppare i meccanismi del genocidio. La Sumud Flotilla, prima, e la Freedom Flotilla, ora, hanno mostrato al mondo che è possibile rallentare la macchina di morte israeliana e svergognare la complicità di tutti i paesi che ancora sostengono Israele, con armi e appoggio diplomatico.

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linterferenza

Alcune riflessioni sulle grandi mobilitazioni per la Palestina

di Fabrizio Marchi

Le grandi, talvolta oceaniche e molto spesso spontanee manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia in queste settimane in solidarietà con il popolo palestinese sono ovviamente da salutare molto positivamente. Il fatto che centinaia di migliaia, milioni di persone si riversino sulle piazze per testimoniare il loro sostegno a un popolo martirizzato da un regime razzista e genocida ci dice che c’è tanta gente ancora “viva”, che esiste ancora una potenzialità e una capacità di lotta non sopita. Soprattutto perché si tratta di un tema considerato tabù fino a pochi giorni fa. Criticare infatti le “politiche” criminali dello stato sionista significava e significa in larga parte tuttora essere tacciati di antisemitismo e questo impediva e impedisce a molte persone di pronunciarsi per paura di essere scomunicate, ostracizzate, bollate, appunto, come antisemite. Le mobilitazioni di questi giorni hanno quindi segnato un passaggio importante. Oggi in tanti definiscono apertamente Israele come uno stato terrorista, lo gridano nelle piazze e, addirittura, in televisione alcuni intellettuali ed esponenti del mondo della “sinistra” si sono espressi in modo esplicito in tal senso; fino a poco tempo fa non era possibile. Ma lo hanno potuto fare proprio perché consapevoli che dietro c’è un popolo (e non solo quello di sinistra) che la pensa in quel modo. Da sottolineare anche la grandissima partecipazione alle manifestazioni e ai cortei di giovani e giovanissimi che nonostante il rincoglionimento a cui sono sottoposti da un contesto mediatico e ideologico altamente pervasivo e astuto, confermano di avere ancora una sensibilità e una coscienza critica.

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bastaconeurocrisi

La finanziarizzazione non è invincibile

di Marco Cattaneo

Consiglio la lettura di un libro pubblicato da pochi mesi, “Prima che tutto crolli” di Luciano Balbo (Longanesi 2025). Contiene parecchie considerazioni illuminanti e centrate sulla finanziarizzazione delle economie, cioè sul predominio dell’establishment finanziario rispetto al sistema produttivo e al sistema economico, sugli effetti negativi che ha prodotto riguardo a diseguaglianze e concentrazione della ricchezza, sul rischio che prima o poi (più prima che poi) inneschi una crisi sistemica.

Consiglio la lettura ma siccome sono un noto rompiscatole (!) segnalo il suo principale (s’intende a mio parere) difetto. Una carenza di interpretazione di alcuni temi macroeconomici, che conduce l’autore a pensare che gli Stati dipendano necessariamente dai mercati finanziari per sostenere i deficit e i debiti pubblici e che la mobilità dei capitali sottragga ai singoli governi la capacità di contrastarli (“se no scappano altrove”).

Per la verità qualche sentore che le cose non stiano esattamente così Balbo ce l’ha: cita la MMT commentando grossomodo che sembrano degli eretici ma forse, probabilmente, hanno delle ragioni. Ma è solo un sentore.

I fatti che, rispetto all’interessante esposizione di Balbo, vanno meglio compresi sono IMHO i seguenti (ben noti ai lettori di questo blog…).

UNO: il deficit pubblico non è un impoverimento del paese che lo genera ma un normale strumento di immissione del potere d’acquisto finanziario, che deve crescere di pari passo con lo sviluppo del PIL nominale.

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Il piano di pace farsa di Trump

di Chris Hedges* - Scheerpost

Non mancano piani di pace falliti nella Palestina occupata, tutti caratterizzati da fasi e tempistiche dettagliate, risalenti alla presidenza di Jimmy Carter. Finiscono tutti allo stesso modo. Israele ottiene inizialmente ciò che vuole – nell'ultimo caso, il rilascio degli ostaggi israeliani rimasti – mentre ignora e viola ogni altra fase fino a quando non riprende gli attacchi contro il popolo palestinese.

È un gioco sadico. Una giostra di morte. Questo cessate il fuoco, come quelli del passato, è una pausa pubblicitaria. Un momento in cui al condannato è permesso fumare una sigaretta prima di essere ucciso a colpi di pistola.

Una volta liberati gli ostaggi israeliani, il genocidio continuerà. Non so quanto presto. Speriamo che il massacro di massa venga ritardato di almeno qualche settimana. Ma una pausa nel genocidio è il massimo che possiamo aspettarci. Israele è sul punto di svuotare Gaza, che è stata praticamente annientata da due anni di bombardamenti incessanti. Non ha intenzione di fermarsi. Questo è il culmine del sogno sionista. Gli Stati Uniti, che hanno fornito a Israele la sbalorditiva cifra di 22 miliardi di dollari in aiuti militari dal 7 ottobre 2023, non chiuderanno il loro oleodotto, l'unico strumento che potrebbe fermare il genocidio.

Israele, come sempre, darà la colpa ad Hamas e ai palestinesi per non aver rispettato l'accordo, con ogni probabilità un rifiuto – vero o falso – di disarmare, come previsto dalla proposta. Washington, condannando la presunta violazione di Hamas, darà a Israele il via libera per continuare il suo genocidio, realizzando la fantasia di Trump di una riviera di Gaza e di una "zona economica speciale", con il suo trasferimento "volontario" dei palestinesi in cambio di token digitali.

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lafionda

Segnali di insubordinazione da parte di Israele?

di Antonio Magariello

Quantunque la stampa nostrana – e, a onor del vero, anche quella straniera – sovrabbondi di articoli sulla sororale relazione tra Trump e Netanyahu, salutando con giubilo in questi giorni l‘avveramento della tanto agognata, e più volte differita, pace in Palestina, a ben vedere è stato eclissato un aspetto decisivo dell’evoluzione di questo rapporto: il progressivo sbilanciamento a vantaggio del secondo e a scapito del primo.

Diversi nodi problematici erano già vistosamente emersi con la precedente amministrazione a stelle e strisce. Basti pensare per esempio ai duri e accorati – rivelatisi poi del tutto inefficaci – ammonimenti che Biden aveva rivolto a Netanyahu, sperando di dissuaderlo dal varcare la “linea rossa” rappresentata da Rafah; oppure alla ridicola minaccia americana di non fornire bombe di grandi dimensioni, cui ha fatto seguito la replica secca del primo ministro: “se necessario combatteremo da soli e con le unghie”.

Con la vittoria presidenziale di Trump, il quale aveva proclamato durante la sua campagna elettorale di portare a termine tanto la guerra russo-ucraina quanto il massacro palestinese (da questi eufemisticamente definita guerra contro Hamas), pareva configurarsi uno spazio, sebbene difficile e con molti caveat, per la trattazione quanto meno di una tregua all’immane eccidio in Medioriente.

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La “Succession” parigina: Macron punta sul caos

di Barbara Spinelli

A prima vista sembra inspiegabile, la testardaggine capricciosa con cui Emmanuel Macron sforna un primo ministro dopo l’altro – l’ultimo è Sébastien Lecornu, fedelissimo, incaricato ben tre volte – pur di non ammettere l’evidenza: i partiti di centro che lo sostengono sono sempre più striminziti, la sua politica è stata sconfitta alle elezioni del giugno 2024, le ore del suo soggiorno all’Eliseo sono contate. Lunedì Lecornu spiegherà quel che l’Eliseo vuole e concede, ma presto cadrà anche lui, come i due premier (Michel Barnier, François Bayrou) che l’hanno preceduto. Invece la testardaggine e i capricci sono spiegabili. Se Macron resta abbarbicato al potere è perché non vuole in alcun modo che le proprie scelte neoliberiste vengano disfatte: in particolare la scelta di proteggere dal fisco le grandi ricchezze e la riforma delle pensioni che gli elettori di estrema destra e di sinistra respingono, chiedendone una più giusta.

Macron è “solo davanti alla crisi”, affermano giornali e reti tv, ma così solo non è. Lo appoggiano i grandi patrimoni, le multinazionali, le imprese raggruppate nella confindustria francese (Medef). È a loro che Macron promette regali fiscali da quando fu eletto nel 2017. Con loro si identifica, mentre la sua popolarità crolla al 13-14%.

Il dramma Succession è iniziato e nessun candidato presidente vuol essere contaminato dal macronismo, anche se sono rari quelli se ne discosteranno davvero.

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laboratorio

Il riarmo italiano impatterà sullla spesa sociale e sanitaria e sui salari pubblici

di Domenico Moro

Quando i paesi della Nato accettarono il diktat trumpiano di aumento della spesa militare dal 2% al 5% sul Pil e la Ue di conseguenza varò il piano Rearm Europe – Readiness 2030, Giorgia Meloni promise che gli aumenti della spesa militare non sarebbero stati compensati con la diminuzione di altre voci di spesa. La verità, però, è che la determinazione del governo italiano a perseguire gli obiettivi di riduzione del deficit e del debito pubblico, previsti dai trattati europei, non consente di mantenere quella promessa.

La conferma di questa situazione viene dalla recente audizione sul Documento programmatico di finanza pubblica 2025, davanti alla Commissioni Bilancio riunite della Camera e del Senato, di Lilia Cavallari, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), e di Andrea Brandolini, capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia.

In particolare, Cavallari ha affermato: “Un aumento permanente della spesa per la difesa dovrà necessariamente essere compensato da misure di riduzione della spesa in altri settori o di aumenti discrezionali delle entrate”.[i] Sulla stessa linea è Brandolini, che ricorda come la maggior parte delle risorse “andranno reperite attraverso aumenti di entrate e tagli alla spesa”.[ii] Dal momento che quello che si prospetta è un aumento permanente della spesa militare e che gli esponenti più importanti del governo, Meloni, Salvini e Tajani, hanno fatto della diminuzione dell’imposizione fiscale un punto decisivo del loro programma di governo, l’unica soluzione è la diminuzione della spesa sociale.