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Dal Greenwashing al Blackwashing, come distrarre da Gaza - Moni, No! - Quando esibire antifascismo serve a promuoverlo
di Fulvio Grimaldi
Introduzione al tema
Moni Ovadia, che ritengo prezioso per aiutare i propagandati a distinguere tra ebreo e israeliano, ebreo e genocida, ebreo e Netaniahu, l’ho visto ieri sera nella Tv dei correligionari Cairo e Mentana. E lì lo stimato intellettuale ha dato il suo importante, decisivo, contributo a un’operazione che è tutto fuorché limpida e che si presta a valutazioni fortemente negative.
Avrei dovuto incontrarmi con lui un paio di anni fa a Milano per un comizio di Francesco Toscano e Marco Rizzo sulla Palestina… Avevo sollecitato più volte la diarchia al comando di DSP di partecipare alle mille e mille manifestazioni grandi e piccole che andavano incendiando il paese. Mi si rispondeva che “DSP, non fa iniziativa con altri”. Eppoi che si trattava di non far innervosire la Comunità ebraica. Ci sono i testimoni.
A Milano avrei dovuto parlare anch’io. L’iniziativa era per la Palestina, ma la Palestina non c’era. C’era l’ebreo Moni Ovadia, non allineato con il regime di Netaniahu, in giusta evidenza. Non c’era un equivalente rappresentante della Palestina, tanto meno della Resistenza, figurarsi. Poi, resisi conto, all’ultimo momento rimediarono un ragazzo palestiinese di passaggio e lo misero sul palco. In assenza programmata del relatore palestinese rinunciai anch’io.
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Il genocidio annunciato
di Matteo Bortolon
“La deprivazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il genocidio è redenzione.” Questa stringata silloge di Chris Hedges, che echeggia gli slogan della distopia di Orwell posti a fondamento di tale società, è posta dall’autore come conclusione di un paragrafo che descrive l’abisso morale della società israeliana.
Compare nel mezzo dell’ottavo capitolo, dal titolo inequivocabile Il sionismo è razzismo, del suo testo Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza nella Palestina occupata (Fazi 2025). Si tratta di un passo che rappresenta il centro contenutistico del testo. Nei vari capitoli si alternano in maniera magistrale racconti e testimonianze con passi più analitici in merito all’oppressione dei palestinesi; ma, al di là di vari spunti, dalle atrocità più disgustose alla ricostruzione concettuale delle loro modalità e motivazioni, il punto focale è la consequenzialità. Tutti questi elementi sono visti come correlati e connessi in una logica unitaria, in un quadro organicamente coerente nei suoi passaggi essenziali: Israele nasce come progetto coloniale e suprematista volto a imporre un insediamento occidentale nel cuore del Medio Oriente, che implica la sottomissione degli arabi con ogni mezzo, dalla tecnosorveglianza alla tortura, dall’incarcerazione di massa fino all’eliminazione fisica. Il genocidio.
Hedges è un giornalista e reporter di guerra per il New York Times (come il suo omologo, scomparso da qualche anno, il grande John Pilger), che ha seguito sul campo diversi conflitti, dalla Bosnia degli anni Novanta all’Iraq dell’occupazione statunitense nel 2003.
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La debacle dell'Ue in Cina e il senso del "progetto europeo" oggi
di Andrea Zhok
Ieri una delegazione UE guidata da Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas era a Pechino a trattare con il Presidente cinese Xi Jinping.
Cosa poteva mai andare storto?
Infatti la delegazione è rientrata anzitempo in Europa, con un nulla di fatto, dopo aver irritato per l'ennesima volta i negoziatori cinesi con la pretesa di impartirgli lezioni sui diritti umani e di strappare condizioni commerciali di favore, pur partendo da una posizione di umiliante debolezza contrattuale.
Ma niente paura, nel frattempo l'UE ha anche accettato l'idea di subire dazi asimmetrici da parte degli USA (sembra con un differenziale del 15%).
Questo mentre non passa giorno che Trump trolli gli europei in diretta mondiale, spiegando come loro (USA) forniscano in Ucraina e altrove armi e servizi bellici, che però pagano gli europei (risatina dei giornalisti presenti).
Questo dopo che l'UE si è evirata dal punto di vista energetico (Libia, Russia, Iran) e acquista gas naturale liquefatto dagli USA, per un prezzo esorbitante, che mette l'industria europea fuori mercato.
Ecco, io ricordo le infinite discussioni sul senso del "progetto europeo".
Alla fine, a sostegno di tale progetto l'unico argomento che aveva qualche tenuta era che avrebbe permesso all'Europa di ottenere, attaverso l'unione economica, un maggiore potere contrattuale nei confronti dei suoi principali competitori (USA e Cina).
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Gli Usa all’assalto diplomatico della Confederazione degli Stati del Sahel
di Mario Colonna
Le batoste prese della Francia (ultima in ordine di tempo, il ritiro delle truppe dal Senegal) e dell’Unione europea devono aver fatto pensare a Washington che un ritorno statunitense nelle grazie dei Paesi del Sahel sia effettivamente possibile.
Sono diversi mesi che si registra infatti un incremento delle visite yankee ad alto livello verso quegli Stati dell’Africa subsahariana che stanno provando a scrivere una storia di riscatto ed emancipazione non solo della regione, ma del continente intero.
La Confederazione degli Stati del Sahel
Parliamo della Confederazione degli Stati del Sahel, organizzazione regionale istituita nel settembre 2023 da Mali, Burkina Faso e Niger per garantire la sicurezza e la stabilità dei suoi membri, contrastando il terrorismo – soprattutto di matrice islamica – e il neocolonialismo.
Tale cooperazione è stata poi estesa a settori come finanza, economia, infrastrutture, sanità e educazione, ponendosi così come un’alleanza strategica a tutto tondo e fornendo un esempio di reazione al colonialismo e all’imperialismo per il mondo intero.
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Voci dalla Palestina: una maratona di letture contro l’oblio del genocidio
di Vincenza Pellegrino, Martina Giuffrè e Jacopo Anderlini*
Dal primo all’11 luglio 2025, le piazze di Parma si sono trasformate in aule aperte dove studenti, docenti e cittadini hanno dato vita a una particolare forma di resistenza culturale: la maratona di letture “Stop al genocidio. Voci dalla Palestina”, promossa dall’Osservatorio Paritetico Studenti Docenti Contro la Normalizzazione della Guerra dell’Università di Parma.
L’iniziativa non aveva l’ambizione di essere una lezione accademica su dinamiche geopolitiche o storiche, né un attraversamento superficiale della questione palestinese. L’obiettivo era più radicale e insieme più intimo: creare un cerchio narrativo capace di evocare la vita quotidiana di chi vive il genocidio in corso, costruendo un ponte tra chi ascolta e chi resiste dall’altra parte del mondo. "Sediamoci e ascoltiamo a lungo la storia di qualcun altro”, questa la filosofia che ha guidato dieci giorni di letture continuative. La scelta metodologica richiama le pratiche della public sociology, problematizzando il punto di vista dominante per privilegiare quello della vita quotidiana, di coloro che sono lasciati fuori e invisibilizzati dalle grandi narrazioni mediatiche, dei soggetti che vivono sulla propria pelle l’orrore del genocidio. È la micro-sociologia applicata al contemporaneo, la scelta deliberata di dare voce alla “storia minima” contro le narrazioni egemoniche.
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Gli ultimi colpi di coda di USAID: nessun furto degli aiuti da parte di Hamas
di Alessandro Avvisato
L’agenzia statunitense USAID, braccio del soft power stelle-e-strisce che l’amministrazione Trump ha deciso di smantellare, in una revisione delle priorità di spesa e propendendo per l’uso diretto dell’hard power, ha smentito le ricostruzioni che accusavano Hamas di aver dirottato gli aiuti umanitari per ottenerne un guadagno.
Il Bureau for Humanitarian Assistance (BHA) dell’agenzia ha analizzato 156 casi segnalati da propri partner che hanno riguardato il furto o lo smarrimento di forniture finanziate dagli USA, tra l’ottobre 2023 e il maggio di quest’anno. Le cause dietro questi eventi sono varie, ma in nessun caso, dietro di essi, è stato riconosciuta la responsabilità di alcun gruppo designato come terroristico.
Anzi, lo studio, presentato con una serie di slides visionate dall’agenzia Reuters, indica che in ben 44 occasioni furti e smarrimenti sono stati dovuti all’azione diretta e indiretta delle forze armate israeliane. Tra le cause, sono segnalati attacchi aerei, ordini di evacuazione e consegne forzate di aiuti lungo rotte segnalate come insicure dalle ONG che operano a Gaza.
I risultati delle verifiche sono stati condivisi con alcuni funzionari del Dipartimento di Stato. Un suo portavoce ha respinto nettamente le conclusioni del rapporto, sostenendo che Hamas ha saccheggiato gli aiuti e accusando le organizzazioni umanitarie di aver insabbiato il tutto per la loro complicità con l’organizzazione. Tutto questo senza portare alcuna prova.
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L'uomo dell'MI6 a Damasco
di Kit Klarenberg* - The Cradle
Un agente dell'intelligence britannica ha mediato l'accesso al palazzo presidenziale siriano per il governo guidato da Julani, mentre agenti dell'era Blair guidano la politica estera del Regno Unito dall'ombra
Il 19 luglio, il Mail on Sunday ha rivelato che Inter-Mediate, una società poco nota fondata da Jonathan Powell(FOTO ndt), ora consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro britannico Keir Starmer, ha mediato il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Damasco e Londra.
Tra questi, un incontro ampiamente pubblicizzato tra il Ministro degli Esteri britannico David Lammy e l'autoproclamato Presidente siriano Ahmad al-Sharaa, avvenuto due settimane prima. Il giornale ha anche rivelato come l'agenzia di stampa britannica Inter-Mediate, finanziata dallo Stato, gestisca un ufficio dedicato nel Palazzo Presidenziale siriano.
Il partito conservatore dell'opposizione britannica ha chiesto un'indagine formale sull'uso di Inter-Mediate da parte di Powell "per fornire canali secondari a gruppi terroristici" e sul conflitto di interessi creato dal suo ruolo non eletto.
In qualità di consigliere per la sicurezza nazionale di Starmer – descritto come colui che esercita "più influenza sulla politica estera di chiunque altro al governo, dopo il primo ministro stesso" – Powell opera completamente al di fuori della responsabilità parlamentare. Una fonte di Whitehall ha dichiarato al Mail on Sunday:
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Gaza. I tanti misteri sul fallimento del negoziato
di Davide Malacaria
Fallisce l’ennesimo negoziato per Gaza, una rottura che allarma più delle precedenti a motivo delle dichiarazioni dell’inviato di Trump Steve Witkoff, che ha addossato tutte le colpe ad Hamas aggiungendo che, a questo punto, “cercheremo soluzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi e per creare un ambiente più stabile per la popolazione di Gaza”.
Al di là della tragica ironia della conclusione, che stride con l’allineamento Usa alle operazioni belliche israeliane a Gaza, compresa la nefasta gestione degli aiuti, l’accenno alle opzioni “alternative” inquieta, perché annuncia l’abbandono dei negoziati da parte degli States, così che saranno rimessi nelle mani dei duellanti nonostante sia risaputo che Netanyahu non abbia alcuna intenzione di trovare un accordo.
Peraltro, le accuse di Witkoff vanno a ribaltare quanto ormai assodato su quest’ultimo punto, aiutando Netanyahu a far fronte delle contestazioni esterne e interne sulla sua determinazione a proseguire nel genocidio.
Le dichiarazioni di Witkoff suscitano tante domande, con Hamas che si è detta “sorpresa” della sua reazione, aggettivo con cui ha voluto segnalare come l’accusa di non volere un accordo sia nuova, come peraltro dimostra il pregresso.
Peraltro, quando Hamas ha consegnato la risposta all’offerta di tregua israeliana (limata da Witkoff e i mediatori del Qatar), Bishara Bahbah, che lavora dietro le quinte per conto di Witkoff, ha scritto sui social: “Hamas stamattina ha risposto alla proposta israeliana in merito al ridispiegamento [dell’esercito israeliano] e allo scambio di prigionieri. La risposta è stata concreta e positiva.
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Sul collasso morale dell'occidente
di Andrea Zhok
L'Occidente è un concetto strano, recente e spurio.
Con "Occidente" si intende in effetti una configurazione culturale che emerge con l'unificazione mondiale dell'Europa politica e di quello che dal 1931 prenderà il nome di "Commonwealth" (parte dell'impero britannico).
Questa configurazione raggiunge la sua unità all'insegna del capitalismo finanziario, a partire dal suo emergere egemonico negli ultimi decenni del '900.
L'Occidente non c'entra nulla con l'Europa culturale, le cui radici sono greco-latine e cristiane.
L'Occidente è la realizzazione di una politica di potenza economico-militare, che nasce nell'Età degli Imperi, che sfocia nelle due guerre mondiali e che riprende il governo del mondo verso la metà degli anni '70 del '900.
Purtroppo anche in Europa l'idea che "siamo Occidente" è passata, divenendo parte del senso comune.
L'Europa storica, ad esempio, ha sempre avuto legami strutturali fondamentali con l'Oriente, vicino e remoto (Eurasia), mentre l'Occidente si percepisce come intrinsecamente avverso all'Oriente. Così l'Europa culturale è in ovvia continuità con la Russia, mentre per l'Occidente la Russia è totalmente altro da sé.
Questa premessa serve a illustrare una grave preoccupazione di lungo periodo, che non riesco a trattenere.
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L’origine imperialistica dell’assalto alla Russia. Verso l’allargamento del conflitto ucraino?
di Alex Marsaglia
Mentre la russofobia in Italia si estende ormai non solo alla caccia ai celebri autori, così era partita nel marzo 2022 alla Bicocca con la censura del Dostoevskij di Paolo Nori, ma all’aperta persecuzione di qualsiasi artista di etnia russa come è accaduto nelle ultime ore a Gergiev a Caserta e a Romanovsky a Bologna. Occorre ricostruire le motivazioni profonde di questo preciso indirizzamento d’odio. L’annullamento delle esibizioni sulla base di ragioni etniche rientra nell’etimologia di “razzismo”, fino a diventare vero e proprio progrom da parte degli ucraini che hanno promosso raccolte firme e iniziative per bloccare la libera manifestazione di pensiero garantita dalla Costituzione Italiana e da tutte le Convenzioni per i diritti umani vigenti sul nostro territorio nazionale. Ebbene, le radici di un simile odio provengono da precise motivazioni economico-sociali. La crescente accumulazione di capitale del centro capitalistico occidentale, che negli ultimi anni è sfociata in più crisi sistemiche, ha determinato un vorace bisogno di espropriazione di materie prime al fine di ostacolare con rendite crescenti una tale caduta economica. In sostanza, il capitalismo occidentale sta cercando una via d’uscita sicura, mettendo in gioco la vecchia accumulazione per espropriazione, contribuendo a militarizzare sempre più il pianeta al fine di salvarsi.
Ovviamente la localizzazione di questo scontro non è affatto casuale, poiché Russia, Cina e Iran non rappresentano solo territori ricchissimi di materie prime per le corporation occidentali, ma sono anche, nell’analisi concreta della situazione concreta come direbbe qualcuno, un modello politico-sociale alternativo.
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L’orizzonte strategico non è più a sinistra
di Raul Zibechi
Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza.
Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”.
La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci.
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Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
di Elena Basile
Le costituzioni democratiche del dopoguerra si fondavano su un postulato oggi messo in discussione dall’evoluzione sociopolitica dell’Europa: il potere del demos, del popolo, esercitato secondo la rule of law, il suffragio universale, le elezioni e la tutela delle minoranze. In tale cornice, il popolo eleggeva i propri rappresentanti, i quali, sintetizzando istanze, poteri e interessi plurali, avrebbero dovuto realizzare politiche economiche, sociali ed estere coerenti con i principi costituzionali e con gli interessi del Paese, della società civile e dei corpi intermedi.
Tuttavia, questo meccanismo si è inceppato. Oggi, la politica economica e quella estera non sono più appannaggio delle élite elette, ma sono subordinate a poteri extraparlamentari capaci di condizionare integralmente l’orientamento politico europeo. Occorre guardare questa realtà senza reticenze, se si vuole anche solo tentare di modificarla.
I riti della democrazia, anche grazie alla manipolazione propagandistica delle opinioni pubbliche, restano formalmente intatti: le elezioni si svolgono a scadenze regolari, e schieramenti apparentemente opposti si presentano al giudizio degli elettori. Viene così preservata l’illusione che i cittadini eleggano liberamente le élite cui affidare la gestione della cosa pubblica – in primis, la politica economica, sociale ed estera.
Eppure, tutto è cambiato. La propaganda – fenomeno antico – è divenuta, dopo la fine dell’Unione Sovietica, monopolio di un apparato mediatico occidentale strettamente intrecciato, per proprietà e incarichi, alla cosiddetta società dell’1% e alla sua classe di servizio: burocrazia, accademia, management.
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Il Caucaso secondo Washington
di Mario Lombardo
L’amministrazione Trump sembra avere rotto gli indugi nei giorni scorsi inserendosi apertamente negli intrighi strategici in corso nel Caucaso meridionale con una proposta in apparenza neutrale, ma che rivela finalmente le mire di Washington in quest’area del globo. L’ambasciatore americano in Turchia e plenipotenziario di Trump in Asia occidentale, Tom Barrack, ha infatti ipotizzato una concessione di 100 anni a una società o a un consorzio statunitense per la gestione della rotta, nota col nome di “Corridoio Zangezur”, che dovrebbe attraversare l’Armenia per collegare l’Azerbaigian con la sua exclave occidentale di Nakhchivan. Questo progetto è sul tavolo fin dalla stipula dell’accordo di pace del novembre 2020 che mise fine alla guerra tra Baku e Yerevan, ma da allora entrambi i governi – dietro pressioni esterne – ne hanno cambiato le condizioni di implementazione, al preciso scopo di ridurre drasticamente l’influenza nel Caucaso meridionale di Russia e Iran.
L’ultima guerra per il Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian si era conclusa con un sostanziale disastro per il primo paese, con la successiva perdita definitiva della regione a maggioranza armena ma internazionalmente riconosciuta come territorio azero. La Russia aveva giocato un ruolo determinante nella risoluzione del conflitto ed aveva visto confermare la propria posizione predominante nell’area. In uno dei punti più importanti, il trattato di pace prevedeva appunto lo “sblocco” di tutti i canali di collegamento della regione, incluso appunto quello tra l’Azerbaigian e la sua repubblica autonoma di Nakhchivan.
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Meloni a stelle e strisce
di Fabio Nobile
Le posizioni dell’Italia sulle questioni internazionali palesano la chiara scelta di campo del Governo di adesione acritica agli indirizzi portati avanti dagli Stati Uniti. Non parliamo di aderenza alle decisioni dell’attuale amministrazione americana ma proprio degli Usa. La Meloni è passata con invidiabile scioltezza da Biden a Trump. Probabilmente perché tutte le loro scelte, con diverse declinazioni, trovano nella volontà di ribadire il dominio del dollaro e della potenza americana il vero elemento di convergenza. La disdetta dell’accordo sulla “Via della Seta” del governo italiano del dicembre 2023 è un suggello simbolico di tale posizionamento. Dal dominio del dollaro dipende l’argine all’inarrestabile ascesa della Cina e delle potenze che con essa dialetticamente tendono a connettersi da un punto di vista strategico. Il filo atlantismo, inoltre, per il Governo Meloni ha anche la funzione di utilizzare l’alleato americano per provare a “contare” nella dialettica sempre più divergente tra i paesi europei.
I sovranisti in salsa amatriciana sono ispirati, quindi, nella difesa degli interessi nazionali dalla convinta collocazione dell’Italia in quel campo senza sé e senza ma. Quel campo, però, continua a scricchiolare sotto i colpi di una crisi generale su cui ogni potenza cerca di scaricare anche sugli “amici” i costi. I dazi al 30% e il dollaro
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Guerra tecnologica e manpower
di Enrico Tomaselli
Se guardiamo al conflitto in Ucraina – per molti versi una anticipazione di come saranno combattute le guerre nei prossimi due lustri almeno – il fattore tecnologico sembra essere predominante. Missili balistici e ipersonici, UAV da ricognizione e d’attacco, munizioni vaganti, droni FPV, sistemi di guerra elettronica e anti-missile… Nell’ambito di una guerra simmetrica, le capacità nelle tecnologie offensive e difensive – ricerca e sviluppo, velocità di adattamento, capacità industriale, rapporto costo-efficacia… – diventa sicuramente un elemento di grandissima rilevanza. Ciò nonostante, questo rischia di oscurare un fattore ancora decisivo, ovvero il manpower. Tutta la tecnologia del mondo può essere più o meno utile, che si tratti di infliggere danni al nemico o di ridurne l’efficacia offensiva, ma alla fine il territorio va preso – o difeso – dalla fanteria. E inoltre, in un esercito moderno, il numero di combattenti in prima linea è solo una parte, e nemmeno la più numerosa, del personale necessario. Tutta la filiera logistica, e gli operatori dei sistemi d’arma dislocati nelle retrovie, e il personale necessario per le rotazioni sulla linea di combattimento… Per ogni combattente al fronte, servono almeno altri tre uomini.
Per quanto poco sottolineato, questo è un problema per un esercito moderno che non può essere sottovalutato. Se guardiamo ad esempio al conflitto in Ucraina, ci possiamo rendere conto in maniera più chiara di quanto sia rilevante. La Russia, ad esempio, a parte una parziale mobilitazione successiva all’avvio della Operazione Speciale Militare, conta essenzialmente su un afflusso sinora abbastanza costante di volontari (circa 30.000 al mese), mentre il personale di leva viene utilizzato per il presidio del territorio e/o per la logistica, riservando le operazioni di combattimento ai militari a contratto.
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L’accordo sui dazi? Una schifezza. L’Europa si svende alle multinazionali Usa
di Paolo Ferrero
Il disavanzo economico reale tra Usa e Ue è di 5 miliardi. Avete letto bene: cinque! Per riequilibrare questo disavanzo l’Unione Europea accetta di beccarsi una mazzata colossale
Quello siglato tra Trump e Ursula von der Leyen non è un accordo ma una svendita che sancisce il ruolo per l’Unione Europea di colonia – o se volete di protettorato – degli Stati Uniti.
Innanzitutto vediamo le cifre. Nella retorica trumpiana, riprodotta e supportata dai media e dai governanti europei, i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea vengono descritti come completamente squilibrati e i dazi sono quindi legittimati per riequilibrare questa situazione ingiusta. Si tratta di una bugia colossale, priva di ogni fondamento. Nei rapporti tra Usa e Ue infatti gli Usa hanno un disavanzo di 213 miliardi per quanto riguarda le merci ma hanno un avanzo di 156 miliardi per quanto riguarda i servizi e di 52 miliardi per quanto riguarda i capitali.
In sostanza il disavanzo economico reale tra Usa e Ue è di 5 (cinque) miliardi. Avete letto bene: cinque! Per riequilibrare questi 5 miliardi di disavanzo l’Unione Europea accetta di beccarsi una mazzata colossale a partire dai dazi dal 15 al 50% per tutte le merci che esporta in Usa.
Che cosa succede invece per i servizi (Google, Microsoft, Amazon,etc etc.)? Succede che un mesetto fa, i paesi del G7, su pressione degli Usa, hanno deciso di non applicare la tassa minima globale sulle multinazionali.
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Cina: Canberra aggiusta il tiro?
di Michele Paris
La visita di sei giorni del primo ministro australiano Anthony Albanese in Cina si è conclusa qualche giorno fa con tutti i crismi del successo diplomatico, almeno secondo i suoi sostenitori che non hanno esitato a definirla un “capolavoro”. Ma dietro la facciata delle strette di mano cordiali e dei banchetti a porte chiuse con Xi Jinping si nasconde una realtà ben diversa: l'Australia si trova oggi schiacciata in una morsa geopolitica che rischia di stritolare le sue ambizioni di equilibrio tra Est e Ovest, ovvero tra il suo principale partner commerciale (Cina) e lo storico alleato militare-strategico (Stati Uniti) in un frangente storico segnato dalla competizione crescente tra le due potenze.
Il viaggio di Albanese a Pechino, Shanghai e Chengdu ha avuto infatti un sottotesto di quasi disperazione, volto a puntellare quei rapporti commerciali da cui Canberra dipende in maniera vitale, proprio mentre gli Stati Uniti di Trump alzano il tiro delle pressioni militari e strategiche in chiave anti-cinese. “Non esiste alcuna relazione tra la nostra forte dipendenza commerciale dalla Cina e la nostra alleanza militare-strategica con gli USA”, ha dichiarato Albanese ai giornalisti, continuando a invocare l'importanza del principio di “equilibrio”. Una posizione, quest’ultima, che suona tuttavia sempre più come una vera e propria illusione di fronte alle pressioni in aumento provenienti da Washington.
La prova più lampante di questo vicolo cieco è arrivata alla vigilia della partenza del primo ministro laburista, quando l'amministrazione Trump ha fatto trapelare alla stampa le sue richieste perentorie: Australia e Giappone devono impegnarsi in anticipo a mettere a disposizione i propri “asset” militari in caso di guerra USA-Cina per Taiwan.
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Dopo Sanchez cosa?
di Manolo Monereo
In Spagna il governo Sanchez traballa. Monereo osserva che “Siamo di fronte a un processo destituente e, nel frattempo, quel che resta della sinistra alza gli occhi al cielo e prega gli dei che Pedro Sánchez sopravviva. Non sembra un granché”.
Pensare al ritmo dei media, lasciarsi condizionare da una quotidianità sempre più volatile, mancare di criteri chiari davanti alla fase politica che stiamo vivendo, ciò porta dritti alla sconfitta. Non c’è alcuna strategia, si rimane indietro rispetto agli eventi, che, a loro volta, sono governati dai tribunali. Lo abbiamo già visto con il PSOE e il PP. Tempo, per cosa? Lo scenario europeo e internazionale non induce all’ottimismo. La parola chiave è la militarizzazione della politica e della società, il riarmo generale, l’aumento del debito pubblico e una profonda messa in discussione di ciò che resta dello Stato sociale. Putin come nemico funziona bene, anzi benissimo; le élite al potere continuano a credere che sia una buona copertura per legittimare una maggiore centralizzazione del potere in un’Unione Europea politicamente orientata dalla NATO, per riconvertire il vecchio apparato produttivo del nucleo centrale dominato dalla Germania e, soprattutto, per allinearsi più che mai con gli Stati Uniti che esigono urgentemente il pagamento immediato del costo della loro protezione passata, presente e futura. Niente è gratis.
Non molto tempo fa, Wolfgang Münchau ha parlato, in un altro contesto, dell’importanza di avere una strategia chiara e di mettere in atto tattiche appropriate per realizzarla, di non lasciarsi governare da un’agenda imposta dai vari partiti di opposizione.
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Israele ha il tocco di Mida all'incontrario
di comidad
Nel Sacro Occidente le reazioni al recente bombardamento israeliano su siti governativi di Damasco hanno ricalcato lo schema consueto in questi casi: mentre i media hanno sposato acriticamente la fiabesca narrazione israeliana sulla presunta necessità di difendere la minoranza drusa in Siria, i governi hanno preso timidamente le distanze dall’attacco. L’amministrazione Trump ha dovuto quantomeno ostentare del disappunto, dato che aveva ufficialmente investito sul nuovo governo filo-occidentale e filo-sionista della Siria, rimuovendo le pluridecennali sanzioni economiche, spingendo i ministri degli Esteri europei a correre a stringere la mano al tagliagole insediatosi al posto del vituperato Assad, e inducendo anche le petro-monarchie del Golfo a creare una rete di affari col nuovo regime. In realtà l’attacco su Damasco della settimana scorsa non può essere considerato una sorpresa, visto che arriva dopo centinaia di bombardamenti israeliani sulla Siria, effettuati con i più vari pretesti e intensificati dopo la caduta di Assad. La “mediazione” americana nella vicenda è poi consistita nel costringere il governo di Damasco a ritirare le sue truppe dal sud della Siria, esattamente come pretendeva Israele. Il “disappunto” di Trump non impedirà a Netanyahu di continuare ad auto-invitarsi alla Casa Bianca ogni volta che gli parrà. Come al solito, il comportamento di Israele viene condannato in via meramente retorica, e ciò consente ai sionisti di fare il proprio comodo atteggiandosi a vittime e incompresi.
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Israele chiede aiuto agli Usa per la pulizia etnica di Gaza
di Davide Malacaria
Il capo del Mossad David Barnea si è recato negli Stati Uniti per chiedere aiuto per lo sfollamento dei palestinesi da Gaza, in particolare perché diano incentivi ai Paesi che potrebbero ospitarli: Etiopia, Indonesia e Libia. Un trasferimento “volontario”, ovviamente, dichiarano gli israeliani, che avverrebbe in seguito alla costruzione della famigerata “città umanitaria” di Rafah, dove dovrebbero essere ammassati tutti i gazawi.
Il viaggio di Barnea è coinciso con l’avvio di nuova operazione militare nel centro della Striscia, finora relativamente risparmiato perché vi sono detenuti gli ostaggi israeliani. Per cominciare, Israele ha ordinato ai residenti della città di Deir al-Balah di evacuare verso un’area già sovraffollata di derelitti, mentre lo Stato Maggiore sta studiando un piano per isolare tutta l’area centrale, con tutti gli orrori che ciò comporta.
I due avvenimenti sembrano segnalare un’inversione di tendenza. La scorsa settimana era trapelata la notizia che nei negoziati si era superato l’ostacolo del corridoio di Morag, che Israele voleva conservare per delimitare, attraverso questo e il corridoio Filadelfia che corre parallelo più a Sud, l’area di Rafah, sulla quale edificare il campo di concentramento umanitario.
Il cedimento di Netanyahu sul Morag veniva interpretata come la fine di tale prospettiva, che l’amministrazione Trump, per bocca di Steve Witkoff, aveva bocciato. Il viaggio di Barnea e la nuova strategia israeliana segnalano che le cose sono cambiate.
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Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
di Gioacchino Toni
Antonio Santangelo, Alberto Sissa, Maurizio Borghi, Critica di ChatGPT, Prefazione di Juan Carlos De Martin, Postfazione di Marco Ricolfi, elèuthera, Milano 2025, pp. 160, € 15,00
Il nostro tentativo è di decostruire pezzo per pezzo le narrazioni troppo entusiastiche sul futuro che ci attende grazie a ChatGPT e all’intelligenza artificiale generativa nel suo complesso, mostrando quali sono le questioni più spinose che questi sistemi ci costringono ad affrontare oggi (p. 17).
Questa, in estrema sintesi, l’intenzione che ha mosso Antonio Santangelo, Alberto Sissa e Maurizio Borghi nella stesura del volume Critica di ChatGPT (elèuthera, 2025) «prendendo spunto dalle conversazioni tra una serie di studiosi ed esperti di IA generativa, all’interno della mailing list del Centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino, all’incirca dal febbraio del 2023 a oggi. Si tratta, dunque, di un lavoro che si basa sull’intelligenza collettiva di un gruppo di persone molto eterogeneo e interdisciplinare, che si occupa di intelligenza artificiale e desidera allo stesso tempo comprenderla e contribuire a realizzarla» (p. 12).
Come sintetizza Marco Ricolfi nella Postfazione del volume, questo «si compone di tre blocchi: uno fenomenologico (che cos’è Chatgpt), l’altro antropologico-politico (che impatto ha sulle nostre società), l’ultimo legal-istituzionale (quali sono i punti di crisi giuridici). Questi sono presentati con la tecnica della meta-narrazione e quindi attraverso un’esposizione polifonica delle diverse facce del dibattito in corso» (p. 141).
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Medioriente, dalla Via della Seta alla Via della Morte Siria, ma non finisce qui
di Fulvio Grimaldi
https://youtu.be/vj1vaL33BPc
Siria, non finisce qui (con Fulvio Grimaldi @MondocaneVideo )
Qui una sintesi del video
E le stelle (d’Europa) stanno a guardare, mentre la fine si avvicina. Quella dei palestinesi? No, quella dello Stato sionista. Non ci vuole Dante per vedere come, nella Storia, ogni criminale corre verso il contrappasso.
Con l’intervento in Siria, che del resto, bombarda impunito da 14 anni, lo Stato nato e formato e vissuto nell’illegalità e nel sopruso, ha aperto un altro fronte dei sette su cui imperversa, 7 di 16 paesi arabi più Iran (di cui tre dei maggiori già neutralizzati). Uno Stato illegittimo di 9 milioni di immigrati e una popolazione espropriata e ostile di quasi pari entità (senza calcolare 5 milioni di profughi che contano di tornare a casa), utilizza la massima parte delle sue risorse (di cui nessuna naturale e tutte assegnate) per sterminare autoctoni e popoli vicini ed espandere la lebbra delle occupazioni coloniche.
In Siria, Israele ha azzannato un boccone che rischia di andargli di traverso. Improvvisamente lo Stato degli Ebrei di cui le minoranze arabe musulmane e cristiane non sono ovviamente cittadine a pieno titolo, appare isolato. Lo squartamento del paese vicino, un tempo democraticamente unito nelle sue confessioni ed etnie, socialmente equo, di una resilienza tale da aver resistito a 14 anni di assalti della triade turco-israelo-atlantici (oggi al potere) e del suo mercenariato terrorista, presenta una prospettiva di scontro plurimo e di difficile esaurimento.
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Avete capito dove ci stanno portando?
di Carlo Lucchesi
Ho letto e ascoltato interventi di autorevoli esperti sempre più convinti che stiamo andando incontro a una guerra fra Europa, con o senza Nato, e Russia. E’ vero che una guerra di USA, Nato ed Europa contro la Russia è in corso da tre anni in Ucraina, ma adesso si parla della guerra diretta, quella con tutti gli eserciti schierati a combatterla. Questa previsione non mi convince e a mio parere rischia di farci perdere di vista i pericoli veri, uno che incombe sempre più minaccioso, l’altro che ha già preso la forma della realtà.
Quel tipo di guerra fra Russia ed Europa non può esserci. Nessuno può pensare che sia la Russia a promuoverla. Ci sono mille buone ragioni che escludono questa eventualità, la prima delle quali è che la Russia non ha il minimo interesse a farlo, anzi, ha l’interesse opposto, ovvero avere con l’Europa buoni rapporti e scambi commerciali reciprocamente utili. Possono dirlo, facendo finta di crederci e provando a convincere i rispettivi popoli, soltanto politici e giornalisti prezzolati o semplicemente proni a volontà e interessi che hanno deciso di servire, mestiere che non richiede intelligenza e neppure l’uso della ragione.
Ma è impossibile anche pensare che sia l’Europa ad avviare la guerra con la Russia. Non perché manchi una qualsiasi motivazione. L’Occidente ha fatto per secoli guerre, massacri e genocidi senza alcuna giustificazione.
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Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
di Mario Colonna
Migliaia di persone sono in piazza in diverse città dell’Ucraina, come Kiev, Leopoli, Odessa e Dnipro, per protestare contro il governo Zelensky.
A innescare la protesta delle piazze è stata l’approvazione in Parlamento di una legge che ha per oggetto l’indipendenza dei due maggiori organi dell’anticorruzione nel Paese.
La nuova legge sulle agenzie anticorruzione
La nuova norma prevede infatti che il Nabu (Ufficio nazionale anticorruzione) e la Sapo (Procura specializzata anticorruzione) debbano rispondere al Procuratore generale, ossia una figura politica nominata direttamente dal presidente, perdendo di fatto la necessaria autonomia rispetto all’esecutivo per lo svolgimento delle proprie funzioni.
La misura è stata voluta e sostenuta in maggioranza dal partito fondato dal presidente Zelensky nel 2017, Servitore del Popolo, ma è stata votata anche dal partito di Petro Porošhenko, Solidarietà europea.
Gli “oligarchi” votano con Zelensky
Porošhenko è un imprenditore, o un “oligarca” come amano dire i quotidiani italiani, di successo arricchitosi con lo smantellamento della Repubblica socialista sovietica ucraina negli anni Novanta e “sceso in campo” a cavallo del nuovo Millennio.
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L'eterno "Drang nach Osten" europeo
di Giuseppe Masala
Dietro il conflitto latente tra Europa e Russia si nasconde il vecchio concetto della "spinta verso Est" teorizzato dai tedeschi. Che nient'altro è che l'eterno desiderio europeo di sottomettere e depredare la Russia
In questo turbolento snodo della Storia è davvero straordinario accorgersi come si ripetano costantemente gli stessi movimenti di fondo; si tratta di trame e di intrecci ricorrenti che si verificano costantemente soprattutto nella storia europea.
Certamente uno dei più straordinari esempi è quello del cosiddetto "Drang nach Osten", la spinta verso Est delle popolazioni germaniche alla ricerca di migliori condizioni di vita. Un fenomeno noto sin dal Medioevo e che nei secoli portò alla conquista e alla germanizzazione di territori slavi e baltici.
Nel corso dell'Ottocento questo fenomeno fu denominato da pensatori tedeschi – appunto – cone "Drang nach Osten": la spinta verso Est. A questo concetto in qualche modo “geografico” peraltro si intreccia anche l'ideologia – sempre ottocentesca – del pangermanesimo che teorizzava l'esigenza di riunire tutte le popolazioni germaniche in un unico impero, oltre al fatto che giustificava l'espansionismo sulla scorta di una presunta superiorità culturale tedesco. Da qui alla teorizzazione del “Lebensraum" dello "spazio vitale" di matrice nazista – come si può intuire – lo spazio è stato breve. Una ricerca dello spazio vitale che sotto il nazismo maturò, in una spinta verso est sulla punta di lancia delle colonne corazzate della Wehrmacht giustificata dalla presunta superiorità razziale tedesca sulle popolazioni slave.
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Una notevole dichiarazione delle Brigate Al-Qassam
di Il Pungolo Rosso
La dichiarazione del portavoce delle Brigate Al-Qassam Abu Obaida, che qui riportiamo (*) è notevole almeno per due aspetti.
Anzitutto perché mostra che nonostante i terribili colpi ricevuti, la resistenza palestinese a Gaza si sta riorganizzando per una lunga guerra di logoramento contro l’esercito occupante. Un logoramento che ormai viene ammesso pubblicamente perfino in Israele, mentre non compare mai sui “nostri” giornali e nelle “nostre” tv.
1 soldato israeliano su 8 tra quelli che hanno agito a Gaza, è “mentalmente inidoneo” a tornare in servizio, ha accertato l’università di Tel Aviv, poiché soffre di sintomi gravi di disturbo post-traumatico (PTSD), ed è in crescita il numero dei suicidi – ufficialmente sono soltanto 42, ma nei primi giorni di luglio ne sono avvenuti almeno 5. Sui morti e i feriti la banda Netanyahu tace o mente; è certo – però – che sono in numero rilevante, tant’è che il suo governo è da tempo alla ricerca di mercenari. E, a rischio addirittura di cadere, vorrebbe – dato lo stato di necessità – reclutare anche gli ultra-ortodossi.
Nonostante decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti; nonostante la decimazione del quadro dirigente della resistenza; nonostante l’attività delle milizie traditrici di Shabab, Khanidek e Khalas al soldo di Fatah e di Israele; nonostante il sadismo dell’operazione Gaza Humanitarian Foundation con i massacri a ripetizione delle persone che cercano un po’ di cibo o di acqua; nonostante l’illimitata quantità di bombe, mezzi, munizioni, risorse energetiche e di spionaggio messi a disposizione dello stato sionista dai suoi grandi protettori (Stati Uniti e Unione europea) e dai suoi grandi e piccoli complici sparsi in tutto il mondo; la resistenza palestinese non alza bandiera bianca.
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Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
di Medea Benjamin
Il momento di fermare il piano distopico di Israele non è domani. È adesso. Alzatevi. Fate sentire la vostra voce. Inondate le strade. Bombardate il Congresso. Chiedete che venga fatta giustizia. Fermate il piano. Salvate Gaza. Prima che sia troppo tardi
È triste constatare che la stanchezza nei confronti del genocidio ha preso il sopravvento, poiché l’indignazione mondiale non ha smosso l’unico attore che potrebbe fermare il massacro di Israele, gli Stati Uniti. Le foto di bambini affamati hanno provocato un recente picco di condanne, ma non hanno fatto alcuna differenza. Gli Stati Uniti e Israele continuano ad accumulare il loro senso di estrema legittimità mentre aggiungono nuovi episodi al loro elenco di orrori, dalle sanzioni contro la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese al piano di formalizzare lo status di Gaza come campo di concentramento, che Israele chiama, in un insulto all’intelligenza, “città umanitaria”. Cavolo, come un campo estivo ma senza cibo, medicine o acqua pulita?
Se aveste prestato attenzione, Gaza prima del 7 ottobre veniva regolarmente descritta come un campo di concentramento a cielo aperto. Il post di Medea Benjamin qui sotto spiega che questo nuovo campo di concentramento è presentato come una tappa intermedia verso l’espulsione dei palestinesi, che è pulizia etnica e vietata dal diritto internazionale, non che Israele e gli Stati Uniti siano vincolati da tali sottigliezze. Tuttavia, come i lettori ben sanno, Israele e gli Stati Uniti stanno cercando di convincere altre nazioni ad accogliere i palestinesi che vengono allontanati con la forza.
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Lettere dal Sahel XIX
di Mauro Armanino
Patrie
Niamey, marzo 2025. Dimentichiamo troppo spesso che tutti, in questa terra, siamo stranieri. Arriviamo da clandestini, transitiamo come migranti, viviamo spesso da rifugiati e partiamo senza documenti di viaggio. Le frontiere che delimitano i Paesi, le Nazioni o le Patrie sono delle costruzioni politiche validate dalle consuetudini o come realtà riconosciuta dal diritto. Tutto è precario nell’assunzione dell’inevitabile fragilità che attraversa tutte le umane istituzioni. Eppure ci si ostina a rendere eterno, immortale, divino e dunque atto a richiedere sacrifici umani un’entità in balia di contingenze storiche.
Non casualmente, a l’occasione della festa che ricorda la nascita della nazione, si organizzano spesso sfilate militari che vorrebbero rassicurare i cittadini della protezione contro i nemici, interni e soprattutto esterni della patria. D’altronde il dizionario ricorda bene che... Il termine patria deriva dal latino pater «padre» e indica in generale la terra natale, la terra dei padri, vale a dire il Paese, il luogo e la collettività cui gli individui si sentono affettivamente legati per origine, storia, cultura e memorie. Si tratta di una paternità esclusiva dove l’identità del cittadino si lega a quella della patria.
Da questo termine derivano gli altri che conosciamo, patriota, patriottismo, combattente per la patria o traditore della patria. Naturalmente il significato dipende dal momento, dai rapporti di forza, dai condizionamenti culturali, ideologici o religiosi. Gli organizzatori delle guerre e cioè i fabbricanti di armi, di confini e di interessi legati al mutevole capitalismo globale, usano con dovizia gli accenti romantico- identitari che la patria offre ai migliori acquirenti.
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Provaci ancora, Stalin!
di Leo Essen
Quando, nel Novecento, diventa chiaro che l’uomo, oltre a essere stato assemblato a casaccio nella natura, pensa anch’egli a casaccio – dunque non secondo un piano, ma davvero sparando a caso – e che, di tutti i brillanti teoremi che vengono alla luce, non c’è un principio che li giustifichi, così come non c’è un piano divino dietro alla meraviglia del corpo umano, allora si iniziano a cercare teorie che spieghino il funzionamento dello spirito umano senza ricorrere all’intervento di un demiurgo, di un autore, di un soggetto: è qui che ha inizio la decostruzione del soggetto.
Sono prodotte montagne di studi che puntano a mostrare il funzionamento di sistemi complessi a-teleologici. La biologia è in prima linea, seguita dalla linguistica, dall’antropologia, dalla cibernetica, eccetera. Libri come La logica del vivente, Il caso e la necessità, La cibernetica: controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, Autopoiesi e cognizione, la realizzazione del vivente, Sistemi che osservano, Un’ecologia della mente, Saggi di linguistica generale, eccetera, diventano best sellers. Non mancano tentativi di estendere queste teorie ad altre discipline, persino al marxismo sovietico.
Se tutto si muove e tutto è collegato, come spiegare la stabilità relativa che sta alla base del riposo, e come strutturare l’interdipendenza universale se non è gerarchizzata? Se tutto, in primo luogo il pensiero, si organizza procedendo a casaccio, sparandole senza intenzione, come si arriva a una stazione di riposo e a un fermo immagine? Se il nuovo è emergente, il passato può veramente essere conservato nell’avvenire, o tutto è un deragliare continuo, un’erranza che non è nemmeno un errare o un errore?
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Padroni del mondo e servitù volontaria
di Marco Savelli
Cosa accomuna due autori come il filosofo della politica Mario Tronti e l’intellettuale keniota Ngugi wa Thiong’o? La convinzione che in questo allucinogeno ventunesimo secolo all’imposizione violenta della volontà dei più forti è subentrata la convinta sottomissione dei più deboli
«La servitù volontaria prende il posto della proibizione imposta» (Mario Tronti). E’ la tragica consapevolezza a cui arriva uno dei maggiori filosofi italiani ricordato come promotore negli anni ‘60 del secolo scorso del tanto discusso operaismo (Operai e capitale, 1966) e come spericolato incursore teorico armato di una volontà di ricerca mai quieta, mai pacificata, che lo porterà attraverso la cosiddetta autonomia del politico e il corpo a corpo con il grande pensiero conservatore novecentesco – Carl Schmitt in particolare – a un’ultima fase della sua vita in cui dopo aver ricoperto anche ruoli istituzionali – è stato Senatore della Repubblica – si sarebbe come fermato a riflettere sulla storia del secolo “grande e terribile” (il ‘900), fortemente intrecciata con la sua, in una condizione da lui stesso definita di monachesimo combattente lasciando il chiacchiericcio filosofico «ai tanti che fanno filosofia in piazza» [quasi tutti gli ospiti abituali degli insopportabili festival estivi…].
Il risultato di questa riflessione, inteso anche come lascito teorico della sua opera che attraversa sessant’anni di storia di questo Paese, è stato il testo postumo Il proprio tempo appreso col pensiero (Tronti è scomparso il 7 agosto 2023) che ho appena finito di leggere insieme a un altro volume all’apparenza appartenente a un altro mondo, un mondo completamente diverso, quello del Kenya, ex colonia britannica indipendente dal 1963: Decolonizzare la mente del grande intellettuale, scrittore e letterato africano Ngugi wa Thiong’o, scomparso anche lui poco tempo fa.
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