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Elezioni in un paese occupato

di Francesco Mazzuoli

Non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità. Siamo un paese occupato

Era il 1908 quando Gilbert K. Chesterton osservava acutamente: “Stiamo procedendo nella direzione che porterà a creare una razza di persone troppo modesta intellettualmente per credere nella tavola pitagorica.” Più di un secolo dopo, possiamo dire che era un ottimista. É questa la ragione per cui non ho dubbi che questo mio pezzo non circolerà quanto dovrebbe.

Tuttavia, considerando la faccenda con il distacco dello studioso di propaganda, non si può fare a meno di notare come anche all’interno del cosiddetto “anti-sistema” il frame, la cornice interpretativa, all’interno della quale le elezioni italiane sono presentate, manchi del dato fondamentale: le elezioni avvengono in un Paese occupato militarmente da più di settanta anni.

Secondo il sito della Treccani – noto covo di rivoltosi e di cospiratori- le basi americane ufficiali in Italia sono 59 e, secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve.

La cosa non deve destare meraviglia, il servilismo da noi è ereditario come le palle degli stemmi nobiliari, e ha largamente ispirato la nostra letteratura, dalla famosa invettiva dantesca “Ahi serva Italia, di dolore ostello… non donna di province, ma bordello!”, ad “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni.

Non bisogna, poi, mai dimenticare che il nostro Paese uscì sconfitto dalla seconda guerra mondiale e come tale fu considerato nel trattato di pace del 1947.

Lo storico Gioacchino Volpe, a guerra non ancora conclusa, scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un Paese irrilevante, una grande Grecia, e sognava un futuro in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini (Gioacchino Volpe, Lettere dall’Italia perduta, Sellerio). Parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori.

Il mito della “liberazione” già imperversava, in un Paese bombardato, di straccioni in ginocchio con il piattino dell’elemosina in bocca in cui venivano gettate caramelle e chewing gum, indebitato con la carta straccia delle AM lire, e comprato a saldo stralcio con i soldi del piano Marshall: come non avere davanti agli occhi lo squallido spettacolo di De Gasperi, ritornato dal viaggio in USA sventolando il nostro nuovo vessillo, l’assegno con il quale era stata appena comprata la fedeltà italiana?

In Africa si sarebbe chiamata corruzione, in Europa si cominciò a chiamarli aiuti.

Basterebbe dare un’occhiata al libro che Cossiga licenziò nei suoi ultimi anni, dal titolo emblematico, Fotti il potere, per comprendere che in Italia non si è mai mossa foglia che zio Sam non voglia, a partire dal condizionamento delle elezioni del 1948, operazione che costituisce uno dei primi grandi successi della CIA, creata soltanto un anno prima.

Venne poi il “miracolo italiano”, all’interno della più generale prosperità dell’Europa occidentale, benessere – si badi bene – voluto dai padroni americani per disporre di nuovi mercati e allontanare le sirene della propaganda social-comunista.

Quando tale benessere diffuso non fu più così necessario (nel 1979 un rapporto del KGB già annunciava la futura implosione del sistema sovietico), e mentre negli Stati Uniti la componente finanziaria acquisiva sempre più rilevanza e spingeva per un diverso modello di sfruttamento economico dei paesi occupati, cominciò a stringersi il cappio insaponato dell’europeismo.

Infatti – in modo assai diverso da quanto viene raccontato, per cui sarebbe il parto spontaneo di pacifisti ispirati da alti valori umani di collaborazione tra i popoli – il progetto europeista, come mostrato indubitabilmente dallo storico Joshua Paul, altro non è che un progetto americano, teso a tenere sotto il proprio tallone l’Europa occidentale e impedire che una potenza antagonista possa mai ergersi a minacciare la supremazia americana in quest’area geopolitica cruciale.

Non occorrevano troppi documenti desecretati per capirlo: invito chi abbia tempo (con la disoccupazione quello non manca, bisogna vedere, però, se è possibile ancora pagarsi una connessione internet) a vedere o rivedere il famoso film Vacanze Romane, con il quale Hollywood riuscì a trasformare una commediola sentimentale in un pretesto per parlare della bontà e necessità della cooperazione tra i popoli europei. Siamo nei primi anni cinquanta, anni in cui si intensificarono gli sforzi americani in questa direzione, e non a caso il film fu girato proprio a Roma, sede nel 1957 di uno storico trattato istitutivo della CEE. (Per altro – cari amici incantati dai film e serie tv americane, sorbite assieme a bevande zuccherate che fanno la gioia dei dietologi – Hollywood funziona a tutt’ oggi, così, con i suoi divi di Stato cui potreste assomigliare se il chiururgo plastico fosse un filantropo: ecco, per gli scettici, una Angelina Jolie in una conferenza congiunta con il Segretario Generale della NATO.

Il crollo della Unione Sovietica, fornì dunque l’occasione per dare una vertiginosa accelerazione al progetto europeista, con la riunificazione tedesca (Andreotti, con finezza, ebbe a dire: “La Germania mi piace così tanto che ne preferivo addirittura due…”), e il famigerato trattato di Maastricht, che ci avviava, nel silenzio dei media, verso le nostre magnifiche sorti e regressive.

Il progetto è stato costruito dagli strateghi americani per ruotare intorno al ruolo predominante (precisamente di sub-dominio rispetto agli USA) della Germania, conferendo ad essa un esorbitante vantaggio al fine di tenerla saldamente legata al carro atlantico e di distoglierla da tentazioni di liaisons con la Russia, esiziali per gli interessi geopolitici a stelle e strisce.

In questo quadro, l’euro nasce appositamente per conferire alla Germania uno straordinario vantaggio economico ed è per questa ragione che non può essere smantellato.

Alla luce di quanto sopra, si comprende, ora, perché, se non spiegato nei suoi reali termini, che varchino l’ottuso semplicismo dominante, l’appello no euro è soltanto un argomento demagogico per raccogliere consenso?

E se non foste ancora convinti, avete notato la casuale coincidenza per la quale, avvicinandosi le elezioni, l’uscita dalla moneta unica sia sparita magicamente e all’unisono da tutti i programmi partitici? Come Salvini abbia dichiarato che la NATO non si discute e Di Maio si sia recato addirittura a Washington a giurare fedeltà al padrone? Dopo anni di propaganda convegni e il libriccino Basta euro, al momento di fare sul serio e di proporsi come potenziale forza di governo, la Lega ci presenta come soluzione alla morte del Paese, l’emissione dei “mini bot”, perché – udite – “non violano i trattati”. Ci rendiamo conto di quale dichiarazione di sudditanza, di impotenza, di servilismo e di mancanza di coraggio è contenuta in questa proposta da piattino in bocca? Di quali statisti in pectore si tratti?

Eh sì, nonostante il potere – quello vero, che detta l’agenda europeista e dei media – metta in scena la commedia degli opposti estremismi, sono lontani i tempi del sangue contro l’oro, e ancora più lontani quelli del sangue contro l’euro…

C’è, infatti, una tragica verità, che nessun politico vi dirà mai (anche se qualcuno ha suggerito qualche indizio ): l’unificazione europea prevede il sacrificio dell’Italia, la colonia più servile, la più indifesa, per motivi storici e antropologici.

Chi si opponeva a questo progetto di marginalizzazione del Paese: Moro, Craxi, parte della Dc, è stato eliminato con Tangentopoli e il Paese è stato immolato agli interessi americani e dei loro alleati privilegiati (in primis la Germania e subito dopo la Francia), che lo divorano a brani, grazie allo zelante collaborazionismo della nostra classe dirigente, che quando non è venduta è perché non trova acquirenti.

Nel nostro letto di Procuste, attendiamo adesso fiduciosi l’ultima aggressione al succulento boccone del nostro risparmio, che ancora tiene in piedi, assieme alle pensioni e alle case di proprietà (i soprammobili sono già al Monte dei pegni), un territorio – non è mai stata una nazione e non è più nemmeno uno Stato – con oltre il trenta per cento di disoccupazione effettiva.

Questa è, in estrema sintesi, la storia; il resto è propaganda. E non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità.

Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa.

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