Il volto interno del genocidio: la “mielizzazione” della ragione
di Lavinia Marchetti
Il genocidio non si compie solo con bombe e bulldozer. Richiede anche penne, tastiere, microfoni. Serve un lessico. Una narrazione. Un volto rassicurante che renda l’indicibile tollerabile.
Ogni genocidio ha bisogno di una lingua. Non solo per essere raccontato, ma per essere consentito. Per sedimentarsi nel senso comune, per aggirare l’indignazione, per sfuggire al giudizio. Serve una semantica della neutralizzazione, un codice di rimozione. Da più di un anno e mezzo lo occultano in ogni modo.
Solo ora la stampa e le persone aprono gli occhi. Perché?
Qui entra in gioco quello che chiamo il volto interno del genocidio: non i carnefici in divisa, ma gli editorialisti in giacca. Non i generali, ma i grammatici. Coloro che traducono la carne bruciata in “effetto collaterale”, i corpi dei bambini in “danni asimmetrici”, la distruzione sistematica di un popolo in “autodifesa”, insomma quelli che per giustificare omicidi di bambini smobilitano il terrorismo, trucchetto dall’11 settembre ha fatto milioni di morti con ben poche accuse no?
In questo post parlo di giornalismo, sul nostro amato governo farò un altro post, ma necessito di ricerche più approfondite (che sto facendo).
Ho scelto alcuni nomi. Non perché siano i soli, ma perché emblematici. Perché rappresentano, nella loro differenza di stile e intenzione, una rete epistemologica compatta, che sostiene, giustifica, occlude. Maurizio Molinari, Paolo Mieli, Daniele Capezzone, Giuliano Ferrara, Claudio Cerasa, Mario Giordano, Beppe Severgnini: volti diversi di uno stesso apparato discorsivo.
Se credessi nel male potrei dirlo, ma non ci credo, credo più all’ideologia, alla psicosi e al denaro. Alcuni mascherano, altri esibiscono, altri ancora ironizzano. Ma tutti partecipano, consapevolmente o no, a quella che in psicoterapia sistemica potremmo definire una co-costruzione del contesto di realtà.
Non sono semplici testimoni. Sono facilitatori narrativi del trauma. Prendo la sistemica come metodo d’analisi perché capace dell’analisi della punteggiatura di discorsi da doppio vincolo.
Luciano Molinari, caposervizio esteri de La Repubblica, è un esempio perfetto di ciò che Gregory Bateson avrebbe chiamato doppio vincolo semantico. Nei suoi articoli l’apparente oggettività si sgretola sotto la pressione della scelta lessicale. Quando scrive «Israele non ha scelta: deve eliminare Hamas» (Repubblica, 12/10/2023) o «L’offensiva israeliana è una risposta obbligata al massacro del 7 ottobre» (Repubblica, 27/10/2023), istituisce un frame epistemologico chiuso: ciò che accade non è azione, ma reazione. Non è violenza, ma necessità.
Ogni bombardamento su Gaza diventa così un gesto terapeutico, una risposta “inevitabile” a una ferita subita. L’asimmetria scompare: l’occupante diventa ‘paziente’, e il colonizzato sparisce.
Più recentemente, nel pieno della carneficina di Rafah, Molinari scrive: «Israele ha agito con precisione a Rafah, nonostante il tragico bilancio civile» (Repubblica, 12/06/2024). La parola “precisione” funziona qui come una scissione semantica: viene anteposta al “tragico bilancio” come una nota a margine, come un analgesico linguistico.
E ancora: «Come l’Occidente ha combattuto l’ISIS, Israele combatte Hamas: è guerra, non genocidio» (Repubblica, 28/06/2024). È in questa frase che la narrazione raggiunge la sua forma più patologica: la negazione è già nel titolo, la diagnosi è fatta. Non è genocidio, è ‘terapia militare’. L’intero popolo palestinese viene ridotto a “sintomo” da estirpare.
Paolo Mieli, invece, agisce in modo più sofisticato. Il suo non è il linguaggio del comando, ma quello dell’autorità culturale. Il suo strumento è la storia, ma piegata alla logica del potere.
In una recente puntata di Otto e Mezzo (21/05/2025), parlando della situazione a Gaza, afferma: «Se dopo un anno e sette mesi la situazione a Gaza è tale… dove li metti i palestinesi? Non s’è capito…».
Il problema non è l’espulsione, ma la logistica. Non l’etica, ma l’efficienza. Non il diritto al ritorno, ma la difficoltà a ricollocare l’eccesso umano.
Ancora prima, nel 2023, aveva già teorizzato che «La Nakba è stata una conseguenza della guerra, non un piano premeditato» (Corriere della Sera, 15/05/2023). Una frase che funziona come valvola ideologica: rimuove ogni responsabilità politica e storica del sionismo, rilegge l’espulsione forzata di 750.000 palestinesi come “danno collaterale”. È il revisionismo come anestetico.
Capezzone, al contrario, agisce come catalizzatore. Non nasconde il proprio orientamento: lo radicalizza. Scrive su Libero (23/05/2025): «Nel grande anatema collettivo… manca una parola di cinque lettere: Hamas». E ancora: «I palestinesi non esistono: sono arabi come gli altri» (Libero, 20/10/2023); «Gaza va rasa al suolo, come Dresda» (Twitter, 09/11/2023, poi cancellato); «Israele ha il diritto di difendersi, anche se significa migliaia di morti» (DiMartedì, 30/01/2024); «A Gaza non ci sono civili, solo terroristi e loro familiari» (Radio Radio, 14/06/2024).
Il suo linguaggio non è terapeutico, ma tossico. Serve a disumanizzare, a dissolvere l’identità dell’altro. I civili non sono più civili. Gaza non è più luogo, ma bersaglio.
Ferrara e Cerasa fanno il lavoro sporco con guanti di seta. Giuliano Ferrara scrive: «Un popolo che voglia sopravvivere… non si lascia ricattare da un esercito terrorista che si fa scudo di ostaggi» (Il Foglio, 23/05/2025); «Parlare di alternative alla guerra è moralmente ipocrita» (Il Foglio).
Claudio Cerasa rilancia: «La stabilità del Medio Oriente non dipende dal ridimensionamento di Israele, ma dalla capacità di disarmare Hamas» (Il Foglio, 18/01/2025); «La premessa per il cessate il fuoco non è la bandiera bianca di Israele ma la fine del regime di Hamas» (Il Foglio, 04/05/2025). Entrambi cancellano la possibilità stessa di pensare l’altro. Entrambi legittimano il massacro come sopravvivenza. Entrambi sostituiscono il linguaggio del diritto con quello della paura. Entrambi scrivono in punta di penna ciò che altri fanno con l’artiglieria.
Mario Giordano, invece, semplifica. Urla. Si commuove di fronte ai bambini israeliani, e poi torna a parlare di tunnel. Ripete come un rosario la formula: “Israele ha il diritto di difendersi”. Afferma che “certi bombardamenti sono oggettivamente indifendibili” (Fuori dal coro, Rete 4, 28/04/2025), ma subito dopo ne spiega le ragioni. È lo stesso meccanismo delle famiglie disfunzionali: riconoscere l’abuso, ma proteggere l’abusante. La psicoterapia sistemica lo chiamerebbe un vincolo triangolato.
Beppe Severgnini, infine, è il volto garbato della rimozione. Nel suo podcast Radio Italians (24/05/2025) invita alla moderazione, alla comprensione, all’equidistanza. Ma l’equidistanza in un genocidio è complicità passiva. È il silenzio dello spettatore che non vuole sporcarsi. Severgnini non urla, non offende, non giustifica. Ma neppure rompe la cornice. La mantiene intatta. E questo basta.
Il problema, però, non sono solo i nomi. Non è solo Molinari. Non è solo Mieli. Il problema è l’apparato intero. L’apparato mediatico che ha imparato a usare le virgole per interrompere la compassione, i punti per chiudere la memoria, le subordinate per giustificare l’ingiustificabile. È la punteggiatura come tecnologia del consenso. È la grammatica dell’oblio.
Il genocidio non accade solo a Gaza. Accade nella lingua. Nell’editing. Nella selezione delle fonti. Nell’ordine dei paragrafi. Accade quando il titolo dice “escalation” e non “massacro”. Quando si scrive “bambini morti” al passivo, senza dire chi li ha uccisi. Quando si evocano “scudi umani” per occultare i crateri.
È tempo di decostruire questo linguaggio. Di nominarne i portatori. Di archiviarli. Perché il giorno dopo, quando i corpi saranno polvere, anche i nostri, resteranno le parole. E bisognerà ricordare chi le ha scritte. Nomi, cognomi, dietro l’indecenza. Senz’altro bravi storici lo faranno meglio di me.
Ma mi sono promessa di tenere un diario. E lo sto riempiendo.
Anche Dipartimento di Stato e CIA hanno interesse che permanga una situazione di guerra, altrimenti perderebbero importanza.