Il genocidio annunciato
di Matteo Bortolon
“La deprivazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il genocidio è redenzione.” Questa stringata silloge di Chris Hedges, che echeggia gli slogan della distopia di Orwell posti a fondamento di tale società, è posta dall’autore come conclusione di un paragrafo che descrive l’abisso morale della società israeliana.
Compare nel mezzo dell’ottavo capitolo, dal titolo inequivocabile Il sionismo è razzismo, del suo testo Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza nella Palestina occupata (Fazi 2025). Si tratta di un passo che rappresenta il centro contenutistico del testo. Nei vari capitoli si alternano in maniera magistrale racconti e testimonianze con passi più analitici in merito all’oppressione dei palestinesi; ma, al di là di vari spunti, dalle atrocità più disgustose alla ricostruzione concettuale delle loro modalità e motivazioni, il punto focale è la consequenzialità. Tutti questi elementi sono visti come correlati e connessi in una logica unitaria, in un quadro organicamente coerente nei suoi passaggi essenziali: Israele nasce come progetto coloniale e suprematista volto a imporre un insediamento occidentale nel cuore del Medio Oriente, che implica la sottomissione degli arabi con ogni mezzo, dalla tecnosorveglianza alla tortura, dall’incarcerazione di massa fino all’eliminazione fisica. Il genocidio.
Hedges è un giornalista e reporter di guerra per il New York Times (come il suo omologo, scomparso da qualche anno, il grande John Pilger), che ha seguito sul campo diversi conflitti, dalla Bosnia degli anni Novanta all’Iraq dell’occupazione statunitense nel 2003.
Lessi una sua intervista nel 2007 in merito alla sua opera allora appena pubblicata, American Fascists. Si trattava di una denuncia, in piena era Bush II, di come i conservatori religiosi assediassero la democrazia. A differenza di altri critici, ha un solidissimo retroterra religioso e teologico, ma il suo sferzare i religiosi non ne è minimamente smorzato; anzi, va oltre, arrivando a denunciare la superficialità spirituale della destra religiosa e la sua postura antidemocratica, fino a bollarli come una nuova forma di fascismo. Si può considerare tale opera per capire il suo testo più recente, perché Hedges usa la sua esperienza sul campo di battaglia (in senso letterale) per capire le dinamiche interne al corpo sociale.
Il testo che leggiamo oggi, infatti, illustra vividamente la repressione contro i palestinesi, un nauseante corteo di vessazioni e crudeltà talvolta quasi incredibili: dall’assassinio di giornalisti e di sanitari all’intenzionale privazione di medicinali, cibo, acqua. Ma lo sguardo è rivolto alla società israeliana stessa come groviglio di dinamiche che partoriscono la politica attuale di Tel Aviv. In questo senso si tratta di un genocidio annunciato: non in riferimento a una pianificazione tipo la Conferenza di Wannsee, ma alle conseguenze di una temperie politico-morale nel paese. Una condizione collettiva che l’autore, nel capitolo quinto, descrive come una “psicosi da guerra permanente”. Con un’insistenza incredibile nel proprio ipocrita vittimismo, l’eredità del giudeocidio nazista è spesa per schermare Tel Aviv dal pagare le conseguenze dei suoi crimini, tacciando qualsiasi critico di antisemitismo.
Questo tema emerge con particolare forza in due capitoli: il secondo e il decimo – i capitoli sono fruibili tranquillamente in modo autonomo, come piccoli saggi indipendenti. In queste sezioni il focus si sposta sugli Stati Uniti, dove si sono svolte le più flagranti proteste anti-Israele, partecipate da un gran numero di ebrei.
La lobby pro-Israele è organizzata in modo impressionante, lavorando strettamente coi ministeri di Tel Aviv per colpire chiunque prenda posizione contro il genocidio dei palestinesi (anzi, chiunque critichi Israele o non sia sufficientemente ossequioso della sua politica), individuando i nominativi dei manifestanti, le organizzazioni di riferimento e cercando di tagliare loro le gambe contattando le istituzioni – per esempio quelle universitarie – per attuare forme di censura e ritorsione. Questi gruppi agiscono con modi pressoché mafiosi, non arretrando di fronte a tutti i mezzi per screditare i critici, dallo spionaggio fino alla diffamazione che arriva alla sfera personale – un docente sostenitore del boicottaggio di Israele è stato accusato da alcuni siti di molestie sessuali verso diverse studentesse, senza alcuna base di realtà. Non si tratta di schegge impazzite, ma di una strategia consolidata delle organizzazioni e lobby pro-Israele.
Il capitolo decimo parla delle proteste di diversi campus statunitensi contro il genocidio. Se anche da noi tali mobilitazioni hanno fatto rumore, è meno noto il grado di repressione da parte della polizia (ben prima dell’elezione di Trump, si badi bene) e delle autorità accademiche: degli studenti sono stati arrestati per aver montato una tenda ed espulsi dall’università in cui risiedevano, dovendo trovarsi letteralmente da un momento all’altro un posto in cui dormire, con una manciata di minuti per portare via le proprie cose. Scene da regimi autoritari.
Il sottotitolo del libro cita il termine resistenza. Non si parla di Hamas, o di altri gruppi che conducono un’opposizione armata a Israele. Il tema viene affrontato solo di sfuggita, ed in termini generali, facendo riferimento a vari contesti in cui un’oppressione intollerabile sbocca in una reazione violenta in cui vengono investiti anche civili. Possiamo noi giudicare la risposta all’oppressione? Viene citata una conversazione dell’autore col famoso studioso e saggista Norman Finkelstein, che ragiona sul fatto che una delle prime violente rivolte contro lo schiavismo negli Stati Uniti del XIX secolo aveva preso di mira anche civili, donne e bambini.
Il testo si pone però su un livello diverso, più etico-morale che politico, in cui gli interessi economici e geopolitici vanno in secondo piano. Lo sguardo si volge verso l’alto, fino a riattingere all’evento-chiave che ha portato a una ridefinizione concettuale della dignità umana: la Shoah. Ma, all’opposto delle narrative sioniste che giocano quest’ultima in chiave di legittimazione assoluta dello Stato ebraico, separandolo dai suoi oppositori con uno iato che divide il bene dal male (i cui primi rappresentanti sono ovviamente gli arabi) in termini assoluti e irreconciliabili, viene chiamato in causa Primo Levi, per il quale il mondo non è bianco o nero, ma “una vasta fascia di coscienze grigie che sta tra i grandi del male e le vittime pure”. Una visione che demolisce l’edificante narrativa sionista delle origini, il cui precipitato odierno è che “coloro che si oppongono al genocidio sono accusati di propugnarlo”. La narrativa ha inglobato la rivolta degli ebrei del ghetto di Varsavia negli anni del nazismo, trovando conveniente dimenticare che Marek Edelman, unico leader di essa sopravvissuto, considerava il sionismo un’idea o logica razzista usata per giustificare il furto di terra ai palestinesi; sostenendo invece che “essere un ebreo significa stare sempre con gli oppressi e mai con gli oppressori”. Una lezione che le comunità ebraiche attuali sembrano aver dimenticato.