La resistenza dei piccoli passi
di Nevio Gambula
Ci sono frasi che ti avvolgono, quasi ti abbracciano, e ti costringono a guardare dove non vorresti. Ieri sera mi è successo con un libro dal titolo profetico. È stata un’esperienza viscerale, qualcosa che mi ha attraversato nel profondo del corpo. La frase era questa:
«Quando si sta normalizzando un genocidio, ogni deragliamento della normalità conta».
Quella frase ha acceso in me una strana inquietudine, una raffica di domande. Che cos’è, davvero, la normalità? Quali sono le sue coordinate invisibili? Come riconoscerla, come fissarla in un’immagine per poterla comprendere fino in fondo? E da cosa, o da chi, occorre prendere le distanze?
Ogni volta che credevo di aver trovato una risposta, quella frase sollecitava altre domande, tutte decisive.
Esiste un gesto, anche il più piccolo, un frammento di azione, una mossa azzardata, capace di incrinare la superficie liscia e terribile della normalità? E in che modo un atto di resistenza individuale può connettersi a qualcosa che trascende il singolo, trasformandosi in un impegno collettivo?
La frase mi ha colpito come una frusta, lasciandomi dolente e intrappolato in una consapevolezza agghiacciante. La volontà genocidaria appare troppo vasta, e la rete delle sue complicità troppo ramificata, per immaginare un cambiamento significativo. Da lì nasce un senso profondo di inutilità: la percezione di essere impotente, ridotto a mero spettatore.
Ma il libro ha compiuto un piccolo miracolo, dando linfa al mio bisogno di frapporre una barriera tra l’orrore del genocidio e me. Un’altra frase si è incastrata alla precedente:
«Rifiutarsi di partecipare, se partecipare significa abbassare la propria asticella morale, svendere la propria anima».
E mi sono detto che sì, anche un piccolo atto, o un singolo ragionamento, persino l’uso della parola “genocidio”, può rappresentare una forma di resistenza etica. Ma, al risveglio, questa convinzione si è incrinata. E che fosse, forse, solo una finzione per sentirsi con la coscienza in pace. È vero: certi piccoli gesti sono, in sé, atti di resistenza. Ma non possono bastare.
E dunque? Che fare?
Il libro indica una via: accanto alle resistenze individuali, è necessario dare vita a forme di «resistenza attiva» — protestare, prendere posizione, impegnarsi anche nei gesti più umili per favorire un cambiamento. Sono questi i semi autentici del mutamento; senza di essi, ogni atto isolato resta chiuso in se stesso e, inevitabilmente, destinato a spegnersi.
Un esempio straordinario arriva proprio in queste ore da Genova, dove ieri una grande manifestazione ha salutato la partenza della Global Sumud Flotilla diretta a Gaza. Le immagini di oltre cinquantamila persone che hanno raggiunto il porto come gesto di solidarietà concreta con il popolo palestinese sono impressionanti. La forza simbolica è enorme: di fronte all’inazione delle élite occidentali, si afferma una vitalità popolare capace di incrinare la normalità, esprimendosi tanto nella mobilitazione quanto nella volontà stessa di portare aiuti concreti alla popolazione di Gaza. Forse questo non basterà a fermare il genocidio, ma possiede una portata immensa per il tempo che viviamo.
È proprio questo il terreno su cui si gioca la partita: lo spazio in cui i gesti di resistenza individuale si intrecciano con quelli collettivi. Resta, tuttavia, la difficoltà dell’azione: dove fondarla, e come? Non ho risposte definitive. Solo tre parole che mi sembrano oggi capaci di aprire spiragli, di dare corpo a gesti — anche minimi — capaci di incrinare la normalità:
Sguardo. Responsabilità. Significato.
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La resistenza comincia dallo sguardo. Non è solo vedere, ma prestare un’attenzione vigile che orienta la percezione e fonda il giudizio morale. Ogni sguardo è situato: decide cosa mostrare e cosa occultare, cosa riconoscere e cosa raccontare.
Per questo va regolato sui fatti: Israele è riconosciuto dal diritto internazionale come “potenza occupante”, e i palestinesi sono le vittime di questa occupazione. Orientare lo sguardo a partire da questa verità significa collocare la distruzione sistematica, la morte e la pulizia etnica in un quadro chiaro che individua la “violenza originaria”. Significa riconoscere il popolo palestinese come vittima.
Dallo sguardo nasce la responsabilità. Ogni genocidio intreccia responsabilità a più livelli: quelle dirette dello stato e dei militari israeliani, quelle ideologiche di chi produce propaganda e disumanizzazione, e quelle etiche che coinvolgono ciascuno di noi, cittadini di un Occidente complice. Chi ha a cuore l’umanità non può nascondersi nel silenzio, negli eufemismi o nell’indifferenza. Assumersi una responsabilità etica significa resistere a tutto ciò, allestendo spazi di parola capaci di chiamare le cose col loro nome e di dare voce alle vittime senza sostituirsi a loro.
Infine, il terreno decisivo è quello del significato. Le parole non sono neutre: termini come “sicurezza”, “terrorismo”, “danno collaterale”, “diritto alla difesa” o “antisemitismo” disegnano i confini del discorso, giustificando la violenza e neutralizzando la coscienza. Accettarli senza critica equivale a sottomettersi. Per questo occorre custodire un lessico attivo e consapevole: occupazione, colonialismo, apartheid, genocidio. Difendere queste parole significa disinnescare l’inganno linguistico che maschera la realtà.
Resistere alla normalizzazione dell’orrore significa dunque tre cose: guardare con lucidità, assumersi la responsabilità, vigilare sui significati. Non basterà, da solo, a fermare il genocidio. Ma è così che si costruisce la resistenza dei piccoli passi: aprendo varchi nella normalità, uno sguardo, una parola, un gesto alla volta. E oggi, ogni singolo varco conta.
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Il libro in questione è “Un giorno diranno di essere stati contro” di Omar El Akkad. Sua la frase:
«Un giorno, quando sarà sicuro, quando non ci sarà alcun rischio personale nel chiamare le cose con il loro nome, quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro».