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prismo

Fatti non foste, ma solo interpretazioni

di Flavio Pintarelli

La crisi della verità nelle società occidentali è ormai conclamata: ma è possibile ripensare la società a partire da queste basi?

pinocchiettiQual è il filo conduttore che lega tra loro Brexit, Donald Trump e i 35 euro che migranti e rifugiati riceverebbero ogni giorno dal governo italiano? La risposta sta in un’espressione inglese di due parole: post truth. Un’idea, quella che la nostra società stia attraversando un’epoca di “postverità”, elaborata per la prima volta nel 2004 dallo scrittore e saggista americano Ralph Keyes in un libro intitolato The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life. Ma di che cosa parliamo, precisamente, quando parliamo di postverità?

Dire che la postverità sia semplicemente una menzogna è riduttivo, anche perché la bugia è sempre esistita e ha da sempre fatto parte dell’armamentario retorico dei politici. Semmai, in questo caso siamo di fronte a qualcosa di diverso: perché la postverità non è una semplice falsificazione della realtà, bensì un ordine del discorso che si appella all’emotività per superare i fatti e dare così consistenza a una credenza. Esempio: affermare che i migranti accolti nel nostro paese “ricevono” 35 euro al giorno, tecnicamente non è una menzogna; piuttosto, è un’affermazione che ignora deliberatamente che quella cifra rappresenta il costo medio giornaliero pro capite speso per la gestione di una persona immigrata nel nostro paese. Oltrepassare questo particolare, permette quindi di costruire una narrativa in cui gli italiani vengono rappresentati come vittime di un’ingiustizia, che viene sfruttata per portare avanti una precisa agenda politica.

L’uso politico della postverità sancisce così un predominio della soggettività sul dato oggettivo. Il suo affermarsi come uno degli ordini del discorso contemporaneo – forse l’ordine del discorso per eccellenza dell’epoca che stiamo vivendo – apre a un ulteriore oltrepassamento; quello dei fatti, appunto. All’epoca della postverità fa insomma da corollario una società post-fattuale, in cui le tradizionali istituzioni deputate all’accertamento della verità perdono progressivamente ogni autorità e sono costrette a rinegoziarla su un piano che appare oggi completamente mutato.

Rispondendo “sono felice di non avere nessuna di queste organizzazioni dalla mia parte, perché penso che la gente di questo paese ne abbia abbastanza degli esperti” a un giornalista che lo sfidava a nominare una singola istituzione economica indipendente a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il Brexiter Michael Gove ha forse fornito la certificazione più cristallina di questo stato di cose. Nel suo caso il giudizio degli esperti, coloro a cui la società ha delegato il compito di aiutarla a stabilire cosa è vero e cosa non lo è, cessa di essere così la pietra angolare sulla quale vengono prese le decisioni, per diventare un’opzione disponibile tra tutte le altre, negoziabile anche con quelle opinioni che non si basano su un metodo di valutazione condiviso (o che addirittura lo rifiutano). Ma in che modo si è prodotto questo oltrepassamento dei fatti, nonché della nozione di “verità” basata su di essi?

 

Dal volere divino alla società dei dati: breve storia del giudizio

Reso celebre da una battuta pronunciata due volte in sei stagioni di Game of Thrones da Tyrion Lannister, il processo per combattimento, così come quello per calvario, è un metodo di accertamento della verità basato sul giudizio divino. Ovvero un retaggio atavico per cui la verità discende sulla terra per volere di Dio. Perciò se sei abbastanza resistente, cazzuto o ricco hai sempre la possibilità di far valere il tuo punto di vista sugli altri; non importa che tu sia colpevole o innocente: se vinci il combattimento o resisti alla tortura, il volere di Dio è con te e certifica che la verità è dalla tua parte.

La pubblicazione della Magna Carta e la conseguente abolizione del processo per calvario misero fine a questo sistema di giudizio nel 1215 d.C. Il principio per cui un uomo non poteva essere imprigionato, arrestato o giudicato se non in base al giudizio dei suoi pari o alle leggi del paese introdusse quindi un nuovo genere di processo: quello condotto da una giuria. Fu grazie a questo cambiamento che nacque una vera e propria “cultura del fatto”. Ovvero l’idea che solo quanto poteva essere osservato e testimoniato dovesse costituire la base della verità, nonché l’unica forma di prova ammissibile non soltanto in tribunale ma in ogni ambito in cui a essere in discussione fosse la verità di qualcosa.

La nozione di verità basata su fatti osservabili e testimoniabili ha caratterizzato la nostra società da allora più o meno fino alla metà del ventesimo secolo, quando il postmodernismo da una parte e il fondamentalismo dall’altra hanno cominciato a metterla in discussione. Il primo lo ha fatto diciamo così “da sinistra”, decostruendo i rapporti di potere che soggiacevano all’idea di verità per mostrare come questa fosse una nozione culturalmente costruita da cui derivavano una serie di conseguenze in termini di dominio, sfruttamento e normalizzazione dei rapporti e delle forme di vita. Il secondo lo ha fatto “da destra”, reintroducendo nel concetto di verità la variabile divina, all’esterno della quale non si dà alcuna verità.

Alla base di questo indebolimento c’è anche e soprattutto la progressiva sostituzione dei fatti coi dati, ovvero la sostituzione dei fenomeni osservabili con quelli quantificabili.

Se le origini del superamento dei fatti come base per la verità vanno ricercate in queste due correnti di pensiero, l’evento scatenante che apre a una società post-fattuale è tuttavia l’avvenuta transizione digitale della nostra cultura. Come nota Katharine Viner in un saggio pubblicato sul Guardian lo scorso luglio, la tecnologia ha disintermediato la verità. Ovverosia l’ha fatta deragliare dai binari in cui eravamo abituati a collocarla, per farle assumere una fisionomia del tutto nuova e, forse, oggi non ancora chiaramente definita. L’avvento di internet e delle tecnologie digitali ha infatti avuto come conseguenza un aumento esponenziale della quantità di informazione che produciamo e a cui siamo esposti. Non soltanto per la facilità e l’economicità con cui abbiamo accesso agli strumenti di produzione e distribuzione di informazione (blog e social network su tutti), ma anche perché il semplice collegarci a internet da un pc o da uno smartphone significa trasformare noi stessi in produttori di (meta)dati.

L’indebolimento dell’autorevolezza dei tradizionali istituti (giornali, università, centri di ricerca) a cui era delegato il compito di analizzare i fatti, e stabilire in base a essi la verità, è perciò da una parte conseguenza dell’aumento del numero di possibili fonti di informazione a cui attingere, e della ridefinizione della gerarchia del sapere che la rete ha determinato, favorendo l’orizzontalità di un rapporto basato sul numero di legami tra una fonte e le altre (l’ecosistema dei link), piuttosto che la verticalità di un rapporto basato sulla mutua autovalutazione di una fonte sull’altra, all’interno di un gruppo chiuso (la pratica della peer review).

Dall’altra parte, alla base di questo indebolimento c’è anche e soprattutto la progressiva sostituzione dei fatti coi dati, ovvero la sostituzione dei fenomeni osservabili con quelli quantificabili. Un esempio ce lo fornisce il concetto di Signals Intelligence, ovvero il controspionaggio basato sull’analisi di segnali elettromagnetici: come appare dalla lettura dei Drone Papers, nello scenario della guerra al terrorismo molte delle decisioni sulle esecuzioni a distanza portate a termine dalle agenzie di intelligence americane attraverso l’uso di droni vengono prese esclusivamente sulla base dell’analisi di dati digitali. L’accensione di un determinato telefono satellitare in una certa zona e a un’ora definita, sono segnali considerati sufficienti per far scattare un’operazione. Il tutto senza dover disporre di alcuna conferma o testimonianza diretta dell’attività in cui il bersaglio è impegnato al momento in cui si producono le condizioni per l’inizio dell’attacco.

Com’è facile sospettare (e come emerge dai leak pubblicati da The Intercept) questa pratica finisce per ridursi spesso e volentieri nel semplice sparare alla cieca, dimostrandosi di gran lunga più dannosa che efficace. Eppure l’idea che sia possibile sostituire all’accertamento della verità tramite fatti osservabili e testimoniabili un accertamento della verità basato sulla raccolta e l’analisi dei dati digitali, non risulta per nulla scalfita dall’inefficacia di strategie del genere. E questo accade proprio perché la nostra società è in piena transizione verso un modello in cui saranno i dati a rappresentare la base del nostro giudizio e delle nostre pratiche di accertamento della verità: una società post-fattuale, appunto.

 

Ciò a cui credi dà forma alla tua realtà

Ma in una simile società, in che modo potremo accedere ai dati e, di conseguenza, come potremo accedere alla verità? Secondo la celebre tesi di Lev Manocivh, ci sono due modi per accedere all’esperienza tramite i linguaggi digitali: lo spazio virtuale 3D da una parte, e il database informatico dall’altra.

Seppure esistano forme pure di queste due modalità di accesso digitale all’esperienza, la maggior parte del tempo che trascorriamo connessi a un dispositivo digitale lo facciamo attraverso interfacce che le ibridano. Si tratta prevalentemente dei social network e dei motori di ricerca, ovvero di spazi virtuali al cui interno possiamo compiere una serie di operazioni sui dati presenti nei loro database. In questo senso, è quindi cruciale capire che forma di accesso all’esperienza e al mondo configurano per noi i social network.

Facebook, Twitter e gli altri sono in primo luogo uno spazio entro cui definiamo la nostra identità. La scelta di un avatar, la compilazione di una scheda con le nostre informazioni e la pubblicazione di contenuti all’interno della piattaforma, sono tutti atti e momenti che servono a costruire la nostra identità dentro quello specifico spazio. Tuttavia, diversamente da quanto accadeva un tempo, oggi le piattaforme di social networking tendono proprio a far coincidere la nostra identità virtuale con quella reale. È la diretta conseguenza del modello di business prevalente per le piattaforme: un modello che si basa sulla vendita di spazi pubblicitari a inserzionisti interessati a poter disporre di raffinati strumenti di targeting per le loro campagne di comunicazione. Perciò, più l’identità virtuale degli utenti coincide con la loro identità reale, e più questi dati saranno attendibili e dunque di valore per gli inserzionisti interessati ad acquistarli. 

Esiste un mondo di contenuti e informazioni potenzialmente differente per ogni singolo utente di ogni singola piattaforma. Questa continua e pervasiva personalizzazione delle esperienze tende a isolare gli utenti, impermeabilizzandoli nelle loro credenze.

Ovviamente la questione non si esaurisce qui. Perché più informazioni sull’utente la piattaforma ha a disposizione, e più questa può migliorare l’esperienza d’utilizzo, portando quindi a una fidelizzazione dell’utente. La raccolta e l’analisi dei dati è infatti alla base della personalizzazione delle nostre esperienze all’interno degli spazi digitali: processati da potenti algoritmi, questi dati vengono elaborati per fornirci contenuti basati sulle nostre precedenti esperienze di navigazione e quindi ritenuti potenzialmente “interessanti”. Di fatto, esiste un mondo di contenuti e informazioni potenzialmente differente per ogni singolo utente di ogni singola piattaforma. Questa continua e pervasiva personalizzazione delle esperienze tende a isolare gli utenti, impermeabilizzandoli nelle loro credenze e favorendo la creazione di reti e cluster di utenti estremamente polarizzati intorno a singole idee, contenuti, fonti di informazione.

Non bisogna però credere che noi utenti assumiamo una postura passiva di fronte a questa situazione. Le interfacce con cui accediamo alla rete sono infatti disegnate per garantirci un certo grado di interattività attraverso quelle funzioni dette call to action. Di conseguenza le piattaforme sono pensate per permetterci di agire e influire sull’esperienza del mondo che queste apparecchiano per noi.

Il carattere di queste interazioni è, prevalentemente, imperativo: “pubblica”, “retwitta”, “condividi”, “posta”, non sono – come potrebbe sembrare – delle semplici possibilità, ma un orizzonte chiuso di azioni che possiamo scegliere di eseguire o meno, ma a cui di fatto non possiamo sottrarci.

Il realismo è la soluzione?

L’esito del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ha mostrato quali siano i rischi che si corrono vivendo in una società post-fattuale e agendo in un’era di postverità. La mancata assunzione di responsabilità da parte dei leader sostenitori della Brexit ha sottolineato in modo doloroso quanto una politica basata esclusivamente sulle emozioni possa nuocere al processo democratico di un paese. Ma come possiamo affrontare questa transizione da una società che per secoli ha basato sui fatti l’accertamento della verità, a una che sta sostituendo i fatti coi dati?

La ricerca di una soluzione tecnologica, come quella che Facebook rincorre da anni, per limitare la diffusione di bufale e notizie false in rete non sembra aver portato i risultati sperati. Facebook non è riuscita a limitare l’incidenza delle notizie fake all’interno del proprio network né appoggiandosi agli utenti attraverso meccanismi di segnalazione, né affidandosi in toto agli algoritmi. Giova inoltre ricordare che la piattaforma continua a non volersi considerare una media company, dovendosi così confrontare con gli standard deontologici che questa definizione porta con sé.

Diventa però a questo punto urgente cominciare a ripensare radicalmente il concetto di verità in base alla transizione tra il mondo dei fatti e quello dei dati che stiamo vivendo. Se non altro, un tale cambiamento di paradigma ci aiuterebbe a ricostruire la nozione di “realtà” sulla base delle trasformazioni che stanno interessando la nostra società.

Già qualche anno fa, il filosofo Maurizio Ferraris ha proposto un ormai celebre Manifesto del New Realism che a un primo sguardo parrebbe proprio andare in questa direzione. Il dibattito sul “nuovo realismo” che ne è seguito di certo è seducente, eppure continua a non sembrarmi la prospettiva più corretta. Perché la proposta di Ferraris non pare tenere conto dello spostamento di paradigma che abbiamo provato ad analizzare nei paragrafi precedenti: il realismo, da solo, non basta a ricostruire il nostro rapporto con la realtà, perché esso non è altro che una configurazione discorsiva culturalmente influenzata. Arrivati a questo punto, a essere in gioco qui è semmai la possibilità di un giudizio di verità basato sull’analisi dei dati, attorno al quale ricostruire un sistema di istituzioni che permetta di stabilire cosa è vero e cosa non lo è. La sfida è farlo prima che venga presa una qualche decisione irreparabile, senza che ci sia nessuno disposto ad assumersene la responsabilità.

Comments

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Spartaco
Monday, 10 October 2016 13:33
Perdonate alcuni refusi presenti nel mio lungo commento, fortunatamente sono circoscritti (in particolare in un solo paragrafo).
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Spartaco
Monday, 10 October 2016 03:37
Tutto l'articolo in fin dei conti è il contorno di un presa di posizione politica inargomentata: l'attacco all'uscita degli inglesi dall'Unione Europea.
Non si capisce affatto perché mai la decisione, assunta con lo strumento principe della democrazia diretta, il referendum popolare, dovrebbe nuocere al "processo democratico" del Regno Unito, ma tant’è.

Il tutto dedotto dal sillogismo per cui: la Brexit è una decisione presa secondo canoni non ortodossi di giudizio, ciò che è deciso secondo canoni eterodossi di giudizio è nocivo al processo democratico, allora la Brexit è...
Le premesse del ragionamento non appaiono postulati di per sè evidenti, anche se l'articolista così vorrebbe far credere implicitamente.
Come se ciò non bastasse ci troviamo di fronte ad una conclusione che si scontra altresì con quella che si trae da un altro sillogismo, e quest’ultilmo con fondamenta ben più solide del primo: la Brexit è l'effetto della decisione democraticamente espressa dai cittadini britannici, ciò che è democraticamente espresso non può nuocere al "processo democratico" (in quanto ne è sua in intrinseca manifestazione; vi è una inscindibilità ontologica tra di essi, l'uno contiene l'altro), allora la Brexit non può certo nuocere al "processo democratico".

Delle due l’una: è nociva al “processo democratico”? sì o no?

Allo stato degli argomenti che vengono opposti, ai sensi del principio logico di non contraddizone e p.q.m., la risposta razionale può essere solo “no”.

La rinascita della possibilità (in primo luogo giuridica - la condicio sine qua non) di implementare politiche di sinistra passa per la rottura delle catene capitaliste e neolibarli che costituiscono il profilo genetico dei trattati UE.
La guerra alla plebe condotta dalle élites è passata, e passa, nel presente frangente storico, in primis per lo slittamento verso l'alto curva della domanda di lavoro, essenzialmente mediante tre tecniche:
l'automazione e la delocalizzazione dei processi produttivi e l'afflusso sproporzionato di immigrati (principalmente nei Paesi c.d. benestanti).
L’ afflusso nefasto di forza lavoro a basso costo verso l'Europa è stato chirurgicamente causato dall'Occidente stesso a partire dagli anni delle guerre in Medioriente e nei Balcani. Esse hanno in tal modo compiuto molteplici funzioni coerenti con gli interessi del capitale, dall'influenza filo-occidentale sulla produzione di petrolio alla creazione dell'humus idoneo all'incremento della produzione di stupefacenti (caso eblematico l'Afghanistan), dalla distrazione delle masse - con la forgiazione ad hoc nell’immaginario collettivo di un nuovo (ma poi mica tanto nuovo) nemico dell'Occidente (l'Islam) dopo la caduta dell'URSS - fino all’integrazione della guerra ai lavoratori grazie all’incremento sproporzionato della domanda di lavoro (uno tra i tanti metodi utilizzati nella crociata contro il lavoro, eppure: la sua avulsione dal settore giuridico disciplinante il lavoro - per cui, la sua insidiosa qualità di passare inosservata, come ogni trappola che si rispetti - la sua portata enorme in termini di efficacia nello sbilanciare a favore dei padroni i rapporti di produzione e ad ulltimo, ma non ultimo, il tradimento totale su un tema tano cruciale da parte degli intellettuali sedicenti di sinistra, dei partiti sedicenti di sinistra e del mondo accademico - senza il cui supporto l’offensiva conservatrice del Capitale non potrebbe avere successo - tutti gli elementi appena elencati, impongono la necessità, per ogni socialista, di non finir mai di sottolinearne l’insidiarietà.).

Larghissima parte della sinistra, anche di quella sedicente radicale, è una pedina necessaria al servizio Capitale, che può con essa - essa! L’ahimé vile attrice - realizzare il suo pregetto antisociale.

Nell’attuale contesto sociale, un Governo che applicasse politiche fortemente d sinistra potrebbe, suppongo, farsi comunque carico dell’afflusso migratorio di massa nei confronti del proprio territorio.
Tuttavia, la portata sbilanciatrice a favore del capitale di tale fenomeno dei rapporti di forza, in particolare nel presente metodo di produzione, richiederebbe politiche talmente di sinistra di una tale intensità che fin ora pare nessun partito abbia mai potuto realmente realizzare sulla Terra.
Paradossalmente, nonostante il faro del socialismo sia anche l’abbattimento dei confini nazionali, nel presente momento storico, la misura di Governo più conforme agli interessi della lotta di classe appare passare per lo stralcio dei trattati UE ed il blocco del flusso immigratorio (il che richiederebbe anche un intervento di revisione costituzionale per quegli articoli della carta che assurgono il diritto consuetudinaio internazionale a fonte surprimaria)


Non un partito di sinistra che partecipi alle elezioni sostiene posizioni fermamente anti-immigrazioniste di massa. Ergo nessuno di tali partiti di sedicente sinistra sostiene la difesa dei lavoratori, anzi, tali parititi sono la prima minaccia ai diritti dei lavoratori, erosi sempre più dallo slittamento sfavorevole della curva della domanda di lavoro.
Un'atroce strategia di presevazione e inasprimento di uno status quo di sfruttamento di massa. Un sistema le cui vittime sono tutte le persone comuni: cittadini occidentali e immigrati indistintamente.

Un vero programma di sinistra, nella nostra congiuntura storica, passa con preponderante evidenza per l'anti-militarismo (dunque per la radicale opposizione alla vendita all'estero di armi da guerra come a quasivoglia intervento in scenari di guerra in territorio straniero - "missioni di pace" comprese s'intende, vedasi neolingua di orwelliana, sic!) e per l'anti-immigrazionismo, al fine di ricondurre progressivamente la curva di domanda di lavoro in una posizione favorevole ai lavoratori e contribuire incisivamente a porre fine alla guerra nei Paesi meno sviluppati.

Cito per primi questi due temi, nel presente intervento, perché ben enucleano il fulcro del dibattito immediatamente sucitabile dall’articolo. Inoltre, va considerato che il favore incondizionato - fideisticamete dogmatico, assurdamente acritico - all’immigrazionismo di massa è il principale cavallo di Troia che i padroni hanno introdotto nella narrazione che la sinistra allo sbando fa della realtà di fronte all’elettorato proletario, il quale viene in tal modo disorientato, ma avverte, come intuitivamente, che si tratta di un buonismo meschinamente complice degli interessi borghesi. Il dramma è che il proletario, che per pressoché ogni altra materia politica vorrebbe - a buon giudizio - affidarsi ai programmi dell’attuale sinistra radicale che concorre alle elezioni, si trova impossibilitato a scegliere un programma completamente (e quindi geniuamente) di sinistra poiché, per ora, l’anti-immigrazionismo è appannaggio dei soli partiti populisti o di destra radicale. Con i voti della sinistra vinta dalla propaganda, i parlamentari c.d. di sinistra (da quella più blariana - o renziana, se preferite - a quella più genuinamente rivoluzionaria nel resto del suo programma politico) fungono da capsitelli per il sostegno alle più che mai attuali politiche di assalto alla curva della domanda di lavoro e i cui effetti a catena consistono altresì nella creazione delle condizioni sociali idonee alla conduzione di attacchi anche diretti - cioè non mediati e non più nemmeno dissimulati grazie all’apparente diversità di materia incisa dalle alinee novellatrici - alla normativa di tutela del lavoro, come, ad ultimo, in Italia, è stata la progressiva riforma della materia compiuta dal Governo Renzi. Si tratta invero di un processo in atto almeno da trent’anni, che assume proporzioni sempre più vistose e che produce effetti devastanti sulla società, sembrando allontanarla sempre più dalla via per socialismo. Una lotta di classe (antitetica all’omonima evocata da Marx) condotta con coordinazione dall’alta borghesia infranazionale, che sembra aver maturato una rinnovata coscienza classista e aver mobilitato le sue incommisurabili ricchezze - per ironia della sorte, frutto del furto legale ai danni di coloro che le hanno prodotte e contro cui vengo ora usate; infelici, ahimé, coloro che sono, a onor del vero, per diritto di natura, i soli veri e unici proprietari collettivi delle stesse - per rilanciare la sua battaglia (in quanto classe attualmente omogenea in un’ampio ventaglio interessi comuni da contrapporre ai popoli) nell’ancora lunga competizione-conflittuale intraspecie che ha da tempo conquistato la primazia nella contemporanea lista delle priorità dell’homo sapiens sapiens.
Il socialismo, se mai vi sarà il socialismo, segnerà la convenzionale fine della primitiva forma di interazione umana di cui sopra, per un atto di sussulto ed illuminazione di ragione dei popoli. Una buona maggioranza di reali proletari, uomini della polis - non sotto-proletari privi di coscienza di classe - solo una maggioranza di uomini che possieda gli strumenti intellettuali per declinare autonomamente un reale programma di sinistra potrà instaurare il socialismo. L’elitismo intellettuale tende a preservare solo se stesso. Una classe antagonista che ormai coincide col 99% della popolazione mondiale, la proiezione ideale della base costitutiva del proletariato non è più circoscritta, come nel secolo decimonono, alla mera categoria degli operai e dei contadini. La categoria individuata a suo tempo da Marx sembra dover essere aggiornata al mutamento radicale dell’assetto produttivo, quindi sociale e culturale.

Il filo conduttore che deve legare il movimento anti-1%, anti-capitalista, è la riappropriazione collettiva della ricchezza rubata.

Stabilire un tetto massimo alla divergenza delle retribuzioni per qualsivoglia lavoro umano (del tipo molto ridotto, ad es. 1:2, e comunque mai superiore ad 1:4), stabilire l’obbiettivo primario dell’economia nella completa offerta di occupazione a tutti i consociati abili al lavoro.

L’obbiettivo della realizzazione di una società socialista potrà realizzarsi nella sua forma forma più piena unicamente su scala globale. Ecco perché l’anti-immigrazionismo è solo una strategia che il proletario oppone nella presente congiuntura storica alla classae dei padroni. Congiuntura che si spera duro il meno posiibile: in un quanto l’obbiettivo socialista è l’abbattimento di tutti gli altari, di tutti i troni (monarchici o capitalisti che siano) e di di tutti I confini. Solo in tal modo, invero, potrà dirsi superata la fase di lunga fase di competizione-conflittuale intraspecie di cui la nostra società attuale altro non è che l’incarnazione. Il capitalismo è uno dei vari modi in cui storicamente si manifesta la competizione-conflittuale intraspecie. Il socialismo, ossia il superamento di tale fase - se mai avverrà - comporterà necessariamente la rimodulazione della competione.
La competizione, tratto innegabile dell’agire umano, in una società socialista dunque non scopare affatto, ma semplicemente assume le qualità della competizione-collavorativa, in quanto è incanalata in tal senso dalle norme dell’ordinamento.

Il merito potrà dunque essere premiato con una maggiore retribuzione, con un posto di lavoro di maggior prestigio, con più potere decisionale nello stretto ambito del proprio impiego, ma non potrà mai creare un divario tra i membri della società tale da permettere l’esistenza di benestanti ed indingenti (il che genererebbe inevitabilmente classi e quindi conflitto), in ragione degli stretti limiti alla diseguaglianza retibutiva che dovrebbero necessariamente vigere in una società socialista. Tutti sono fondamentalmente - per davvero - sulla stessa barca, volendo usare un’incisiva evocazione marinara.

Per quanto ancora il Popolo (leggi il 99%) assisterà ipnotizzato e immobile a questo teatro dell'assurdo?
Dov'è quel 99% che è ora la base da cui dovrebbe partire una rivoluzione soverchiante (e pertanto pacifica) informata a radicali princìpi di libertà ed eguaglianza?

Per quanto ancora il Popolo potrà essere illuso dai prestigiatori dell'ortodossia?

Per quanto ancora la libertà radicale verrà ritenuta, dall’ortodissia della dottrina dei partiti partecipanti alle elezioni, inconiugabile con l'eguaglianza radicale?

Per quanto a lungo il capitale e i suoi vassalli traditori nasconderanno ancora all'intelletto delle genti che tali sublimi princìpi, dichiarati tra loro opposti, sono in realtà una endiadi?

Per quanto ancora, sulla base di verità rivelate - presentate con grossolana retorica - gli articolisti sedicenti di sinistra, attaccheranno politiche di sinistra come non possono che essere quelle che svincolano i parlamenti dai tentacoli dell'imprescindibile liberismo pseudo-economico e popolicida di Bruxelles?
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Francesco Zucconi
Sunday, 09 October 2016 00:09
Ottimo articolo!
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