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Difendere il canone (senza trasformarsi in Harold Bloom)

di Mimmo Cangiano

MountrushmoreUn canone, quando giunto a stabilizzazione, è l’espressione culturale di un insieme di relazioni sociali che vogliono surrettiziamente veicolarsi come eterne; vogliono presentare come atemporali, mediante il loro riflesso culturale, i nessi storici (le lotte storiche) che le hanno prodotte. In seconda battuta, visto che la relazione fra reale e culturale è inevitabilmente dialettica, lo stesso canone ha il compito di stabilizzare la forma raggiunta da quelle medesime relazioni. Tale stabilizzazione è cioè un elemento di lotta politica dove il canone ha il compito di ribadire, si perdoni il pleonasmo, la vittoria dei vincitori, e di presentarla come storicamente insuperabile.

È un principio semplice, utile perché permette di separare con chiarezza due schieramenti politici. Marxismo, post-colonialismo, cultural studies, decostruzionismo, benché riferiscano ad elementi diversi per ciò che concerne la formazione del suddetto canone, si ritrovano d’accordo circa le ragioni e modalità della sua formazione. Sinistra e Destra sono qua divisibili cioè con relativa semplicità.

Harold Bloom può rappresentare la Sinistra unita mentre crea la sua “scuola del risentimento” (ed è a ben guardare proprio il “risentimento” di chi ha per il momento perso la battaglia politica)[1]. Bloom può tacciare l’attacco al canone come relativismo culturale e ribadire la persistenza di elementi di supremazia estetico-culturale che separano il grano dal loglio. Ciò che Harold Bloom può fare è, voglio dire, immaginare come non-conclusa una determinata fase storica, presentare come tutt’ora operanti (ed è in fondo difficile dargli torto) le sovrastrutture ideologiche a quella fase – che è poi la fase universalistica della classe borghese, la fase in cui la classe borghese poteva/può presentare come universali i suoi valori[2] – collegate. Il canone in tal senso è espressione del doppio movimento connaturato ad ogni ideologia borghese: da un lato la necessità di presentare i propri approdi culturali come in divenire, come espressione vale a dire delle modificazioni storiche che hanno condotto alla sua rivoluzione e al suo trionfo (e dunque anche, ed è fondamentale, come elementi ristrutturabili dinnanzi a nuove crisi storiche), dall’altro come elementi “naturali”, vale a dire come elementi immobili che la proteggono ora contro quella stessa capacità trasformativa della Storia su cui la sua vittoria si era fondata.

Ora il discorso però si complica: Bloom ha ragione nel presentare quelle sovrastrutture come ancora operanti (parliamo tutt’ora di classici del resto), ma al livello del dibattitto culturale ha decisamente perso la partita, l’ha perduta per sua stessa ammissione[3], auto-esiliandosi infine nella posizione dello “spostato” (è quella che potremmo chiamare la funzione “de Maistre” dell’intellettuale di destra) che preserva, col suo gruppetto di sodali veneranti, un patrimonio valoriale che sa non potersi dissolvere del tutto. I valori che il canone prospetta restano cioè a galleggiare nel dibattito come residuo valoriale: non si può giungere alla loro completa eliminazione, tanto perché il fittizio universalismo che esprimono è parte di una storia di trionfo che la narrazione ideologica borghese non potrà mai abbandonare del tutto, tanto perché espressione di una “carta di riserva” da giocare in caso di crisi, tanto perché gli anti-canoni – non potendo presentarsi con le movenze di un nuovo canone (vista la pregiudiziale di finzionalità ad ogni canone assegnata[4]) – hanno inevitabilmente bisogno di riferirsi al canone tradizionale come contraltare alla loro formazione.

La sconfitta di Bloom significa anzitutto che un certo tipo di difesa del canone (quello che si basa sull’idea di persistenza estetico-valoriale di determinati nuclei tematici e su una precisa idea dell’Arte – il “difendere la Letteratura” – come veicolo di trasmissione di questi) è ormai inattuabile. Non crolla perché la sua difesa non sia valida (le analisi stilistico-tematiche di Bloom sono quasi sempre infinitamente superiori a quelle dei suoi avversari), crolla perché è venuta meno la funzione egemonica dell’ideologia ad essa sottesa: è venuta mena la capacità di quella sovrastruttura ideologica di acquisire consenso intellettuale nel suo rivestimento del reale. Quell’ideologia ha cioè perso i suoi chierici. D’altra parte, però, in un tempo in cui gli intellettuali hanno perduto grandissima parte della loro funzione gramsciana, e più che costruttori di ideologie si sono trasformati in sintomi di ideologie formate altrove, la sconfitta accademica di Bloom non significa necessariamente la disfatta del suo posizionamento al livello della socializzazione delle idee correnti, ma significa certo un ridimensionamento di quella posizione, che sarà tesa, da ora in avanti, a rappresentare solo un certo settore ideologico (minoritario). Questo soddisferà le necessità ideologiche di una certa destra (sono i difensivi “Centers for Western Culture” che stanno nascendo in molte università americane, spesso grazie a donazione esterne) e fornirà a chi invece vuole attaccare il canone un comodo bersaglio, contribuendo così a rinforzare l’annosa confusione fra egemonia culturale ed egemonia reale. Tale confusione contribuirà, voglio dire, a non-porre il superamento del canone in quello che è il superamento della funzione ideologica (“falsa coscienza”) tout court: la funzione ideologico-culturale continuerà ad essere intesa come centro (unico) del conflitto medesimo, a venire meno sarà appunto la sua relazione con la prassi esterna. Tale atteggiamento darà ironicamente ragione proprio a quei posizionamenti culturali (come quello di Bloom) che possono permettersi di ignorare – o di occultare se si vuole – il rapporto dialettico fra teoria e prassi. Bloom perderà la sua partita, ma il fondamento del suo metodo risulterà vincente. La battaglia resterà solo una battaglia intellettuale proprio nel momento storico in cui gli intellettuali registrano (o non-registrano) un decadimento delle loro funzioni tradizionali. E ciò contribuirà inevitabilmente alla già annosa separazione fra dibattitto accademico/culturale e dibattito socializzato.

Qui si apre la frattura a sinistra. Benché gli ideologhi di destra (specialmente americani) pongano tutto insieme nel calderone da qualche anno definito “cultural marxism” (e quel “cultural” dovrebbe davvero far riflettere: è il consueto problema di una teoria che spera di essere direttamente prassi[5]) – vale a dire il tentativo di una progressiva demistificazione intellettuale dei nuclei ideologico-culturali tradizionali – i marxisti tout court provano un certo disagio in tale accorpamento.[6] Tale disagio (veicolato da un’effettiva minorità sul piano della lotta per l’egemonia all’interno dello schieramento di sinistra, minorità recentemente esemplificata nella drammatica accusa di “class reductionist”[7]) ha dato luogo a reazioni di carattere scomposto in cui il discorso ha sussunto a tratti il tono idealistico-bloomiano di difesa dei valori umanistici, del canone a questi collegato e, in definitiva, del sogno oppiaceo di un ritorno a più semplici contrapposizioni novecentesche.[8] La critica al relativismo (l’inevitabile relativismo dei canoni di Kermode, il canone come dialogismo bachtiniano) come massima espressione culturale del tardo-capitalismo ha condotto cioè ad una pericolosissima – pericolosissima perché inevitabilmente perdente – sovrapposizione. La reazione di tale marxismo si origina su un punto reale che abbiamo già toccato: la distanza fra l’egemonia culturale e l’egemonia sociale, lo scollamento fra l’inarrestabile avanzare del Capitalismo e il trionfalismo culturale degli intellettuali di sinistra non-marxisti, qui equiparati a “mosche cocchiere” di trasformazioni sociali che avvengono al di fuori delle aule universitarie. Ma come spesso accade i problemi reali (storici e dialettici) che la realtà pone agli intellettuali – anche marxisti – rischiano di trovare soluzioni distorte, cioè risposte a-dialettiche (è un problema già individuato da Lukács: il problema di un pensiero che nasce in contrapposizione alla prassi della realtà in cui opera). La difesa del canone à la Bloom, quando avviene da parte marxista, è pigrizia intellettuale. Una coerente posizione dialettica non deve difendere quel canone, ma deve attaccarlo ribadendone la vittoria, la vittoria storica, senza però considerare tale canone quale infinita riattualizzazione di battaglie già combattute.

Il canone è assimilabile a quella visione dall’alto dell’epistemologia borghese che Lukács definiva quale “unitarietà indifferenziata”, portato ideologico teso ad occultare le numerose linee relazionali che hanno attraversato e attraversano i conflitti storici. Essendo l’egemonia reale ancora saldamente nelle mani di chi ha dominato quei conflitti, l’opposizione sociale (e dunque culturale) a tale “unitarietà” non può essere presentata semplicemente come riscatto dell’Altro che ha vissuto i conflitti che al canone hanno condotto come elemento reattivo dei conflitti stessi. La visione ‘selettiva’ che il canone rappresenta andrà infatti superata dialetticamente, opponendo all’unità indifferenziata dell’ideologia borghese la prospettiva della totalità, vale a dire il movimento congiunto di teoria-prassi ad uno con l’analisi dell’intero del processo storico. In questa, il presupposto e l’obiettivo fondante dell’analisi di qualsiasi prodotto culturale conduce a trattare i materiali in gioco “in un rapporto dialettico-dinamico” dove questi stessi materiali, sempre nelle parole di Lukács “vengono perciò concepiti come momenti dialettico-dinamici di un intero, che è esso stesso dialettico-dinamico”.

Ciò significa che in tale prospettiva i dati immediati, essendo integrati quali momenti dello sviluppo storico e delle relazioni sociali (di produzione, consumo, ecc.) che li determinano, diventano i momenti concreti (e dinamici) di un’interpretazione del reale che riporta i dati stessi – oltre ogni “unità indifferenziata” – al loro essere dati relazionali e significanti tanto sul piano spaziale (es. la lotta di classe in un determinato momento storico, es. la lotta di classe al tempo di Rabelais) quanto su quello temporale (i prodromi e gli effetti dei dati in gioco).

Non si tratta né di attualizzare i conflitti storici che hanno condotto al canone, né di limitarsi all’analisi del contesto storico in cui quel conflitto si è espresso. Il contesto storico di quel conflitto è infatti ancora operante, ma non come attualizzazione di quello, bensì come punto dialettico dello stesso divenire storico, cioè delle lotte tutt’ora in corso. Si tratta di cogliere il fatto storico (e il fatto culturale che lo “ripete” e lo stabilizza) nella sua funzione reale nell’unità dialettica del processo storico. È tale unità, fondata sull’avanzare congiunto di teoria e prassi, a scavalcare dialetticamente l’unità indifferenziata che il canone rappresenta. Non si tratta di giustapporre carnefici e vittime mediante l’attualizzazione continua del conflitto – ciò porta infatti al declino della capacità di contestualizzazione storica (es. farsesco ma reale: non si darà da leggere Huckleberry Finn perché l’uso di alcune parole verrà astoricamente trasposto sul piano delle lotte correnti[9]). E neppure, ovviamente, può trattarsi di limitarsi alla cartografia delle lotte già avvenute. Quelle lotte sono effettivamente ancora operanti, ma si dispiegano ora su binari reali e concettuali che ne stravolgono i dati di partenza e ne modificano i rapporti di potere all’interno delle relazioni sociali.[10] Si tratta di leggere i fatti storici (anche quelli culturali) nella lunga durata dei loro effetti reali e ideologici, e di una lunga durata che quei dati può aver modificato. In tale visione il canone non esprime solo la finzionalità di un’ideologia culturale, ma anche esprime la prassi storica che a quell’ideologia è collegata, e può dunque individuare anche le modificazioni storiche di tale teoria-prassi. Da qui, che vuol dire poi dall’idea di un canone da conquistare, e da conquistare anche sul piano della prassi, si potranno porre a critica le modalità anti-canone come opzioni di stampo – diciamo per intenderci – liberista, non certo dalla difesa del canone di Bloom.

È la diversa lettura dei sintomi che il canone rappresenta (non l’attacco o la difesa del canone) a creare un solco fra il marxismo e le altre posizioni di sinistra. Il canone non esprime solo un dominio, esprime anche la storia di quel dominio, e dunque anche la sua crisi – visto che non è seguita da una crisi sociale di chi di quel canone beneficiava – esprime un dominio, vale a dire una trasformazione delle modalità in cui i rapporti di potere si esplicano. Il dominio che non si basa più sulla fedeltà alla certezza di valori atemporali (questa è una visione di comodo di ciò che il pensiero borghese ora rappresenterebbe), ma sulla lotta per il consenso fra differenti centri ideologici che permettono al pensiero borghese una continua modificazione, una continua ristrutturazione storica. Se l’attacco al canone si trasforma nella perdita del punto di vista o nell’irrigidimento identitario che provoca l’attualizzazione sul presente, l’anti-canone finirà inevitabilmente per assumere le movenze della stessa “unità indifferenziata”, cioè per trasformarsi in uno di quei centri dottrinali che lottano per la supremazia ideologica all’interno dell’orizzonte del pensiero borghese, cioè fuori dalla prassi per l’abbattimento delle relazioni sociali determinate da ciò che è concretamente alle spalle di quel pensiero.

Qui, sì, può allora partire la critica storica alle posizioni identitarie e a quelle decostruttive; su tali basi può innestarsi la critica del marxismo al “marxismo culturale” come inutile attacco, è un esempio fra tanti, alle roccaforti (ormai indifese) del Platonismo lato sensu. E sempre qui può incastrarsi tanto la critica alla disseminazione degli anti-canoni quale riflesso non dell’anti-normatività, ma dell’atomizzazione sociale su cui una normatività strumentale si fonda, quanto l’analisi della proliferazione di micro-canoni come proliferazione di punti di vista “specializzati” incapaci a fornire un’antagonistica visione d’insieme, ma soggiogati invece nel modus operandi dello stesso pensiero borghese, che è al tramonto, per ora, della sua volontà universalistica, ma non certo della sua forza d’attrazione che quell’universalismo ristabilisce come “consenso”. Lo sfaldamento del rapporto dialettico fra teoria e prassi è una delle armi di quello stesso “consenso”.


Note
[1] Nella parola “risentimento” vi è fra l’altro un ben udibile hint nietzschiano che serve a Bloom nel tentativo di antropologizzare la reazione della Scuola da lui delineata; serve ad immaginare la reazione di questa Scuola come backlash antropologico, invece che storico, in ciò perfettamente in linea con le posizioni (politiche e estetiche) da Bloom sostenute.
[2] Estendendo inoltre questi alla fase storica precedente il suo trionfo.
[3] http://www.huffingtonpost.com/michael-skafidas/harold-bloom-preposterous_b_7546334.html
[4] http://yaledailynews.com/blog/2016/04/14/miele-leave-the-fourth-floor/
[5] Si veda il notevole Marxismo culturale di Marco Gatto.
[6] https://www.jacobinmag.com/2013/04/how-does-the-subaltern-speak/
[7] https://www.jacobinmag.com/2015/08/bernie-sanders-black-lives-matter-civil-rights-movement/
Si può certo obiettare che il mio discorso sia in gran parte incentrato sul caso statunitense. Ma il punto è gli Stati Uniti “predicono il futuro”, perché i modelli delle relazioni sociali dettati dal loro capitalismo si propagano tanto sul piano reale delle azioni del capitalismo medesimo, quanto su quello ideologico, disponendo esse di una incredibile forza di attrazione egemonica.
[8] È in fondo la controparte culturale delle tentazioni rosse-brune che, a livello politico, da un po’ attraversano l’area marxista. In un tempo come questo, così privo di coesione sociale e di sbocchi progressivi, sono tentazioni molto forti.
[9] https://www.theguardian.com/books/2015/dec/14/school-stops-teaching-huckleberry-finn-community-costs-n-word
[10] Molto spesso questo tipo di attualizzazione serve per altro, a destra, a porre una distanza fra le cose terribili accadute nel “passato” e noi illuminati abitanti di un Capitalismo liberale e aperto ai diritti dei singoli.

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