I dazi nella temporalità del modo di produzione capitalistico
di Algamica*
Se esaminiamo attraverso una analisi storica il fatto che l’amministrazione americana è costretta a fare e disfare al riguardo dei dazi commerciali, possiamo ricavare alcuni elementi inconfutabili sullo stato avanzato di decomposizione del modo di produzione capitalistico.
Quando le nazioni e certi mercati nazionali erano in crescita e conseguentemente cresceva la popolazione nazionale, i dazi potevano impulsare la produzione nazionale di merci favorendo il consumo delle merci prodotte localmente. Si combinava lo sviluppo sulla base di fattori economici essenziali, quali la crescita della popolazione e il volume della domanda. Così fu nella seconda metà dell’800 e oltre per le nazioni dell’Europa, Stati Uniti e Giappone.
Quando il moto unitario dell’ accumulazione giunse a una certa maturazione, il moto stesso dovette infrangere i dazi che rappresentavano un ostacolo alla accumulazione generale. Il principale elemento di strozzatura era costituito dall’insieme delle tariffe imposte dalla forma del mercato mondiale segmentato secondo i confini coloniali. Ci vollero due guerre mondiali per completare questo processo già determinato.
Oggi, dove il consumo di merce è finanziato attraverso l’indebitamento delle famiglie e delle aziende, i dazi non sono in grado di combinare l’incombinabile. Ovvero di limitare se non tagliare il consumo e l’import di merci estere per continuare a sviluppare la produzione manifatturiera nazionale. Una produzione nazionale rispetto alla quale non corrisponde più uno sviluppo della popolazione e di un volume della domanda virtuoso. Così come l’input delle singole economie nazionali è costituito da una complessa catena del valore interconnessa. Inoltre sviluppare l’economia di un dato paese richiede la sovrapproduzione di merce, perché non vi è accumulazione senza sovrapproduzione.
Quindi quanto viene prodotto da una economia nazionale dovrà trovare la realizzazione del profitto sui mercati esteri. Cioè dove si concentra la massa del volume della domanda. Mercati dove, stante la concorrenza, sarebbero costretti ad agire con contro dazi.
Questo preciso fattore del contesto storico d’oggi (fattore temporale) costringe USA e Cina ad accordarsi. L’elenco delle merci prodotte in Cina che fanno eccezione ai dazi americani è talmente lungo che potremmo dire che essi non sono di fatto applicati.
Allora perché le borse e i mercati finanziari registrano sfiducia nonostante dei dazi veri e propri minacciati da Trump non vi è traccia all’infuori di una versione sbiadita simile a una pagliacciata?
Finita la sbornia da economia fittizia e del denaro che autoproduce valore, i broker economici e i vari addetti ai lavori si trovano costretti a verificare che la moneta è merce, e in quanto tale è sottoposta alle leggi della materia spiegate dalla fisica. In sostanza le borse calano perché si trovano in balia di una sfiducia da fine corsa, insomma è finita la benzina, truccare i conti non è più possibile.
Senza farla troppo lunga diciamo che gli accordi di Bretton Woods del 1944 furono il risultato duplice di un unitario e combinato processo:
a) la fine dei dazi come impalcatura della protezione dei vari mercati per aree di dominio coloniale;
b) la verifica che l’oro come strumento della misura del valore accumulato nelle riserve delle varie banche era incomparabile con la massa generale della accumulazione del valore in termini di capitali e in termini di capacità produttiva generale delle merci.
Occorreva uno strumento di misura negli scambi internazionali capace di commisurare la massa del capitale accumulato e questo non poteva che essere il dollaro americano in virtù della straordinaria capacità produttiva degli Stati Uniti di esportare merci e macchinari. Ovvero di una valuta che comunque doveva avere un suo riferimento con una merce accumulabile in quanto riserva. Una riserva in valuta che solo apparentemente rimaneva legata alle riserve in oro della Federal Reserve e che applicava la convertibilità paritaria dollaro-oro. Questo il lato fenomenologico del nuovo sistema monetario internazionale che corrispondeva a una specifica sostanza: la riserva in valuta corrispondeva alla incredibile possibilità di export da parte degli USA di macchinari e di beni di consumo.
Gli accordi di Bretton Woods testimoniarono il posizionamento di privilegio dell’economia USA nel commercio internazionale derivante dal suo tumultuoso ciclo di sviluppo passato. Una nazione che si era forgiata e fondata sulla schiavitù e sulla immigrazione di poveracci proletari o contadini affamati dell’Europa, poi premiati dal privilegio della bianchezza. Da quell’Europa dove la rivoluzione industriale determinò un boom demografico e che a fine ’800 e fino alla fine della seconda guerra mondiale contava ¼ della popolazione mondiale. Quindi un serbatoio di popolazione extranazionale che rapidamente veniva assimilata nel sogno americano della nuova nazione che si proiettava con violenza attraverso due oceani in posizione avvantaggiata negli scambi con l’Oriente. Se gli accordi di Bretton Woods certificavano il predominio USA nel commercio mondiale, al tempo stesso obbligavano la nazione americana a un ruolo inevitabile all’interno degli scambi mondiale: il dover rifornire tutte le economie nazionali di una riserva in dollari necessaria per condurre i commerci internazionali. Non fu una scelta concertata, ma un passaggio obbligato determinato dai meccanismi impersonali del mercato.
Ma come si dà il rifornimento di valuta? La moneta è una merce essa stessa e non può che essere acquisita attraverso uno scambio tra valori equivalenti, quindi il rifornimento di valuta (dollari o titoli del tesoro americano) avveniva mediante controvalore di merci prodotte che gli Stati Uniti importavano. Di fatto gli stessi meccanismi del mercato che certificavano la supremazia USA, imponevano agli Stati Uniti di importare in via crescente merci dall’Europa e dal Giappone. Questo rapporto di reciprocità, per cui ogni nazione avanzata doveva dotarsi di riserve in valuta statunitense per finanziare le proprie produzioni e per acquistare le materie prime, conteneva gli elementi del futuro disequilibrio. Tanto più si sviluppava il commercio mondiale e aumentava il volume degli scambi, tanto più aumentava la domanda di valuta statunitense. Se da una lato ciò rafforzava finanziariamente gli Stati Uniti, al tempo stesso l’emissione di valuta non poteva che divenire in eccesso non solo rispetto alle riserve d’oro della Federal Reserve, ma anche nei confronti della capacità produttiva e di prodotto interno lordo. In sostanza, le leggi impersonali di un modo di produzione andavano a irrorare il seme della pianta del deficit commerciale degli Stati Uniti d’America.
Da ciò non si scappa, siamo all’abc delle leggi di un modo di produzione impersonale basato sulla produzione del valore, del suo valore aggiunto e sullo scambio anarchico dominato dal principio della concorrenza.
Sebbene gli USA sono il maggiore produttore mondiale di petrolio e idrocarburi, per i meccanismi di mercato appena menzionati, il saldo tra import ed export di greggio ha segnato un crescente e persistente deficit commerciale per tutta la seconda metà del secolo scorso. Un disavanzo interrotto e reinvertito in una brevissima finestrina temporale proprio durante la pandemia da coronavirus e sul finire della prima amministrazione Trump.
Dunque, qual’è il contro altare del risultato storico del processo unitario dell’accumulazione che ha posto gli USA al comando del modo di produzione capitalistico e nel commercio mondiale basato sul dollaro americano? Che la bilancia commerciale degli Stati Uniti, proprio per le leggi dello scambio e del valore, ha iniziato ad andare in deficit gradualmente, lentamente ma inesorabilmente. Una conseguenza di ciò non poteva che innescare una tendenza alla svalutazione del dollaro USA nei confronti delle altre valute nazionali.
La lunga guerra nel Vietnam fu un fattore di accelerazione della crescita del disavanzo USA. Oggi possiamo constatare che furono anche peggiori gli effetti delle due guerre all’Iraq e i venti anni di occupazione dell’Afghanistan. In questi primi mesi il neo presidente Trump ha a più riprese ribadito alla nazione che quelle avventure militari non avrebbero dovuto esserci e che furono fatali per l’economia americana. Altra cosa ovviamente è che l’America non poteva evitare di compiere quelle brutali aggressioni imperialiste ai popoli dell’Asia e del Medio Oriente.
Durante la guerra del Vietnam i paesi più industrializzati dell’Europa e del Giappone già dotati di incredibili riserve finanziarie in dollari, di fronte alla svalutazione della valuta statunitense chiesero di convertire i loro dollari con l’oro della Federal Reserve. Il disavanzo commerciale degli Stati Uniti aveva innescato una situazione apparentemente paradossale, andando a penalizzare negli scambi il prezzo delle materie prime. La conversione paritaria tra dollaro e oro, che è esso stesso una materia prima, iniziò a risultare a un tasso molto più conveniente rispetto al prezzo dell’oro sul mercato libero. Era il 4 febbraio 1965 quando il governo francese annunciò al mondo che le riserve finanziare della Francia in dollari sarebbero state convertite in oro. Poco prima il Segretario del Tesoro Douglas Dillon ammise pubblicamente che il deficit dei pagamenti degli Stati Uniti nel 1964 era più alto di quanto ci si aspettasse. Il totale era di circa 3 miliardi di dollari, che gli Stati Uniti si impegnavano legalmente a scambiare con oro americano su richiesta. Vagonate di carichi d’oro lasciarono Fort Knox della Federal Reserve degli Stati Uniti in quelle settimane. La Francia inviò due navi da guerra cariche di dollari fino a New York per ricevere in cambio l’oro. D'altronde erano gli anni in cui anche la Francia aveva consumato enormi risorse economiche per fronteggiare le rivoluzioni anti coloniali in Indocina e in particolare in Algeria dalle quali ne uscì fuori con le ossa rotte.
È evidente che tornare all’oro come strumento della misura del valore negli scambi mondiali era impossibile per l’incomparabilità tra i volumi dei due insiemi: la massa delle riserve auree e la massa generale del capitale e il volume degli scambi. L’insieme del movimento dell’accumulazione non poteva che chiudere definitivamente con la convertibilità del dollaro con l’oro, ovvero la fine inevitabile del rapporto di reciprocità di valore di scambio tra la riserva in valuta e la riserva aurea della Federal Reserve.
Allora a cosa agganciare indirettamente il potere di acquisto di una valuta, ovvero a quale merce? Perché per quanto la valuta assume una forma cartacea apparentemente immateriale e fittizia, essa non può non riflettere la produzione del valore mediante la produzione di una merce.
Deve per forza presentarsi come controvalore di una merce generalmente necessaria, che incorpora un valore determinato delle attività produttive e dalla forza lavoro sociale dell’uomo. A guardare bene le cose dappresso la fine della convertibilità oro dollaro stabilita da Nixon del 1971 non costituisce alcun fatto arbitrario e fittizio. Fu il risultato necessario degli scambi sul mercato mondiale e tra i produttori mondiali per il grado di sviluppo raggiunto.
Vogliamo ricordare che gli Stati Uniti erano già in disavanzo commerciale tra export e import di petrolio, che come ogni altra nazione imperialista si trovava costretta a rifornirsi di idrocarburi in misura crescente per soddisfare i ritmi della sua produttività raggiunta. L’amministrazione USA poco prima di rompere la covertibilità oro dollaro, strinse un accordo con l’Arabia Saudita: petrolio saudita in cambio di titoli del Tesoro americano che potevano essere spesi dai sauditi per rifornirsi di macchinari, tecnologie e in particolare tecnologie e armamenti militari. A tal fine l’Arabia Saudita iniziò a scambiare il proprio petrolio esclusivamente con un controvalore in dollari USA. Qualcuno potrebbe contestare che anche questo passaggio fu una imposizione arbitraria. Ma così non è. Il valore di una riserva finanziaria in valuta che prima era garantita dal valore di una merce accumulata in riserva, l’oro, doveva per forza trovare il proprio riferimento generale con un’altra merce altrettanto speciale, il petrolio.
Il petrolio è una merce volatile, non si può accumulare in una riserva in via assoluta anche se ciò viene fatto. Necessariamente viene consumata come base della produzione di beni e servizi. Ricordiamo, viceversa, che l’oro in quanto materia prima ha applicazioni limitate nella manifattura e di recente nello sviluppo di nuove tecnologie. Proprio perché la funzione del petrolio è quella di essere una materia prima indispensabile per ogni produzione, ciò rendeva il sistema monetario sempre più esposto ai venti di tempesta provenienti dal mondo della produzione reale di merci e in particolare di tutte le materie prime indispensabili.
Fintanto che il prezzo del petrolio era stabile e tanto più all’aumento della produttività corrispondeva l’aumento della domanda di petrolio, diveniva necessario dotarsi di riserve in valuta statunitense in varia forma. In questo modo, mentre il sistema monetario ritrovava un riferimento indiretto con una merce generalmente necessaria, gli Stati Uniti furono capaci di tenere a bada per ulteriori quaranta anni la crescita geometrica del proprio deficit commerciale nell’unico modo possibile: abbassando i costi della produzione finanziando la delocalizzazione delle produzioni in Asia e in particolare in Cina attraverso il formidabile potere di acquisto del petrodollaro.
La Cina aveva bisogno di capitali, era in vertiginosa crescita demografica e aveva una enorme massa di forza lavoro a basso costo. Un combinato di fattori all’interno di un processo unitario di un unico modo di produzione, che mentre riconfermava la supremazia degli USA andava a consolidare la massima interdipendenza.
Se la forza economica degli USA contribuì a sbriciolare l’Est Europeo, il mercato USA oggi è dipendente dall’import di merci cinesi sia come semilavorati, sia come componenti di macchinari tecnologici, sia come beni di consumo. Viceversa, la crescita della Cina non può non essere dipendente dalla domanda di merci dal Nord America e dall’Europa. Una crisi economica negli Stati Uniti non può che avere effetti a cascata anche in Cina. Mentre un rallentamento della produttività cinese nella catena di quei macchinari decisivi che sono i semiconduttori e i micro chip non può che comportare l’aumento dei costi di produzione per l’industria nord americana e dell’Europa e per l’insieme della logistica.
I dazi di Trump quindi appaiono in tutta la loro cruda realtà. Sono un tentativo di salvataggio disperato dell’economia americana, la cui aspettativa ultima è o riportare le produzioni negli Stati Uniti o abbattere il consumo di merci estere per allieviare il debito con l’estero. Un debito che a questo punto, se viene richiesto un risarcimento, non può più essere ripagato attraverso le riserve d’oro di Fort Knox. La contropartita in valore rischia di essere composta da interi pezzi di asset di capitale, rami di industria, aziende, banche. Ci troviamo a che fare con il risultato combinato di un intero processo unitario e interconnesso. Un processo che rende tutti gli attori del mercato schiavi delle leggi di un modo di produzione che ha esaurito la possibilità di riprodurre i fattori della sua riproduzione e del suo infinito sviluppo. Il ciclo stesso di vita dei moderni macchinari tecnologici – ovvero il loro consumo – è divenuto decisamente inferiore al tempo necessario per la loro riproduzione, quindi improduttiva e a costi di produzione antieconomici. Il che è alla base di una economia mondiale altamente tossica, fondata sull’indebitamento, che fa razzia della natura.
L’anarchia del mercato e della concorrenza all’interno di una catena altamente interconnessa e interdipendente è il cappio al collo per l’Occidente, gli Stati Uniti e la Cina. Per queste ragioni riteniamo altamente improbabile che gli Stati Uniti possano fare coerentemente quanto l’amministrazione Trump aveva dichiarato alla vigilia e sarà costretto a cercare un accordo con la Cina che non risolverà alcuno dei problemi fondamentali all’ordine del giorno.
Ciò renderà lo scenario a venire altamente infiammabile. Proprio per le ragioni suddette, se per gli Stati Uniti e l’Occidente è di vitale importanza sostenere il genocidio che Israele sta compiendo nei confronti del popolo palestinese e dei popoli arabi, è altrettanto vitale che ciò non incrini la stabilità tra dollaro e petrolio. Un combinato di fattori che rendono gli Stati Uniti d’America fragili nella loro coesione nazionale. Data l’impossibilità di rilanciare l’economia e la produzione del valore attraverso i dazi, rimane come tendenza obbligata per alleviare l’insostenibile debito pubblico americano, l’orizzonte del contenimento del consumo dei beni di prima necessità. Parliamo di fatto di cereali, frutta, verdura e proteine, il cui fabbisogno non è garantito dalla produzione nazionale. Con tutto ciò che questo potrà comportare in termini di fenomeni sociali esplosivi.
Comments
Il pensiero del Novecento, fino a tempi recentissimi e salvo rare eccezioni, ha sublimato con la parola Uomo l’idea mitica di un soggetto trascendentale. La tradizione minoritaria , quella che appunto possiamo far risalire fino a Marx, Nietzsche e anche Freud, ed è stata ereditata da autori quali Whitehead, Foucault, Deleuze, e molti altri, attraversando mille difficoltà e imboccando sicuramente parecchi vicoli ciechi, hanno cercato di mettere a tema un’esperienza di Uomo sganciata dal soggetto della coscienza. La coscienza, per tutti questi autori, non è che un sottoinsieme dell’esperienza umana, una sua piega. Questa linea di pensiero, quando tematizza l’esperienza, non la considera più nell’orizzonte della coscienza e del rapporto soggetto-oggetto. La più grande “bestemmia” del Novecento, in senso positivo, è stata proprio questa: l’affermazione di un’esperienza che non è di niente e di nessuno, acefala.
È in questo senso che, secondo me, Michele Castaldo innesta le sue considerazioni sul " determinismo storico".
Grazie
Un Abbraccio a Tutti
La logica del ragionamento è condivisibile in molti punti; M. Castaldo quando attenua un poco la sua ossessione teleologica fatalistica antimarxiana riesce a esprimere letture più originali e istruttive.
Tuttavia il provocante e didascalico scritto contiene alcune imprecisioni e semplificazioni che ne indeboliscono il carattere originale, il ragionamento e la coerenza logica, così da ridurlo alla convenzionalità.
Il concetto di impersonalità viene al solito impiegato impropriamente nel significato di provvidenziale e fatalistico, per ripetere l’equivoca tesi di fine del mondo.
Il concetto di valore di una riserva finanziaria in valuta garantito dal valore di una merce, oro e petrolio, è confuso: invero, come suggerito dagli stessi autori, fin dall’inizio la conversione del dollaro in oro fu fittizia e una astuta concessione per introdurre il dollar standard.
Siccome l’economia mondiale crebbe, ovviamente, a un ritmo molto superiore in rapporto alla quantità di oro, marxianamente, logicamente prima o poi la (psicologica) parità teorica sarebbe diventata insostenibile, specie in presenza di situazioni che stimolassero la speculazione.
Kissinger abilmente impose il forte aumento del prezzo del petrolio per eliminare il problema dell’eccesso di dollari e con i petroldollari consolidò definitivamente il ruolo dell’impero come banca del mondo e centro finanziario assoluto.
La fuoriuscita dal dollaro è ancora in gran parte una emotiva mitologia.
Il terrorismo sul debito conferma che le infarinature conducono anche involontariamente alla più triviale convenzione e propaganda. L’impero non ha nessun problema a ripagare i suoi debiti e sarebbe opportuno che la microscopica sinistra non fascista cessasse di ripetere gli slogan della dominante sinistra fascista.
L'imperialismo del dollaro e l’imperialismo finanziaro da alcuni decenni hanno mostrato alcuni limiti nel soggiogare Iran, Russia e Cina, pertanto a partire da Bush e poi soprattutto con Obama, è stata sanzionata la pratica di finanziare molto più robustamente il terrorismo e creare milizie di mercenari per radere al suolo interi paesi e regioni. Da ultimo, si è aggiunto, nella indifferenza, lo sterminio dei palestinesi, eccidio che meglio di tutto esprime i veri valori dell’occidente capitalista, a conferma delle riflessioni di Marx.
L'istintiva ossessione di Trump per i dazi, un personaggio dipinto da molti come volgare ignorante, imprevedibile opportunista e privo di scrupoli, (da non esitare a far assassinare il generale Soleimani), sembra collocarlo, per caso o razionalità storica, in un importante crocevia per l’impero, che per esigenze di sicurezza nazionale, sostegno al terrorismo e guerra deve ristrutturarsi. Le colonie pertanto devono essere indotte a comprendere che non possono ritenere la distribuzione di dollari e l’utilizzo dell’impero come banca mondiale un servizio gratuito, (tra parentesi la bilancia commerciale dell’impero nella sezione servizi è notevolmente in surplus) e a sentirsi obbligate a partecipare alla ristrutturazione imperiale, mentre contro Cina e Russia deve prevalere un atteggiamento di ostilità e sabotaggio, per lo meno nella misura in cui sia possibile evitare contraccolpi e danni interni maggiori.
Per quello che scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera: per eliminare un referente palestinese come punto di riferimento dei profughi e la necessità di gestire contro li Stati del Medio Oriente l'insieme delle risorse petrolifere, come unica possibilità per evitare il crollo.
Sennò perché Netanyahu ha distrutto Gaza, la sta invadendo e bombarda a destra e a manca i paesi limitrofi?
Noi esprimiamo un punto di vista analitico sulla differenza dei dazi nelle varie fasi della storia del modo di produzione capitalistico incentrato sullo scambio.
Tutto qua.
Michele Castaldo
L'articolo è significativo e con una visione culturale non dogmatica rara anche all'interno della sinistra non
"mainstream". Almeno così a me pare.
Certamente le implicite conseguenze non saranno una passeggiata.
Tenuto anche conto che , secondo me, le élites italiane stanno facendo di tutto per inimicarsi, appunto, sia gli Usa che i Russi.
Cordiali Saluti