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micromega

Perché Varoufakis non è la soluzione ma parte del problema

di Paolo Gerbaudo

Dopo aver incontrato Corbyn, il leader di Diem25 si appresta a vedere Sanders per lanciare un'internazionale progressista che si contrapponga ai populismi di destra. L'iniziativa, che a prima vista sembra condivisibile, è velleitaria, senza radici e controproducente. Impossibile riformare l'esistente su base cosmopolita, meglio la proposta di rottura con l'UE teorizzata da Melenchon

varoufakis diem25Una grande internazionale progressista, dagli Stati Uniti all’India, passando per la Gran Bretagna e l’Italia. Questa la proposta altisonante lanciata nelle ultime settimane dall’ex ministro delle finanze greco durante il governo Tsipras Yanis Varoufakis. Una proposta che vuole controbattere a quell’Internazionale Nazionalista che Steve Bannon, l’ideologo di Donald Trump, ha messo in moto negli ultimi mesi e che si potrebbe concretizzare alle elezioni europee con un trionfo dell’estrema destra: da Marine Le Pen, e Viktor Orban alla Lega di Matteo Salvini. Quella di Varoufakis è un’iniziativa che a prima vista sembra condivisibile, anche visti gli indubbi meriti del carismatico politico greco nel costruirsi una nicchia nel dibattito mediatico, e nello svelare i meccanismi perversi della governance europea in diversi suoi libri di successo. Tuttavia questa proposta è la manifestazione più lampante dei limiti di Varoufakis e della sua avventura politica: un vero e proprio condensato di quello che la sinistra non dovrebbe fare per rispondere all’avanzata dei Trump di tutto il mondo.

L’appello lanciato dalle pagine del quotidiano britannico di area liberal The Guardian e poi diffuso da varie testate internazionali, tra cui il manifesto in Italia, vuol inserirsi in una fase storica che sembra incupirsi giorno dopo giorno, con l’ondata del populismo di destra che sta trionfando in diversi paesi, per ultimo in Brasile, con l’elezione del neofascista Jair Bolsonaro, che promette minacciosamente di “fare pulizia” della sinistra e dei movimenti popolari. Contro questi macabri figuri che approfittano della crisi della globalizzazione per dare linfa ad una agenda smaccatamente reazionaria, l’idea di Varoufakis è chiara: prendere la direzione opposta e rivendicare un internazionalismo cosmopolita, che vada all’attacco della xenofobia e dello sciovinismo che sembrano dominare il discorso politico.

È pur vero che nel suo appello Varoufakis annovera tra i nemici non solo i “fascisti”, ma pure i “globalisti”. Usando quest’espressione, il fondatore del movimento Diem 25, per la democrazia in Europa, intende chiarire che non ci sono alleanze possibili con persone come Hillary Clinton e Tony Blair. Tuttavia il suo discorso in fine dei conti propone un altro tipo di globalismo. Un globalismo certo più votato a politiche socialdemocratiche, come espresso nei continui riferimenti al New Deal roosveltiano; ma comunque convinto che la soluzione ai problemi attuali vada ricercata a livello globale, attraverso una riforma dell’esistente. Perché secondo Varoufakis lo spazio globale, a partire dal livello europeo, per passare al livello intercontinentale è l’unico luogo in cui si possono cambiare veramente le regole e di conseguenza la politica. “L'unico modo in cui i molti possono riprendere il controllo delle nostre vite, delle nostre comunità, delle nostre città e dei nostri paesi è coordinando le nostre lotte lungo l'asse di un New Deal internazionalista.” Quello che si suggerisce dietro le righe è che bisogna riformare l’esistente, invece che farlo saltare e costruire qualcosa di completamente nuovo, come proposto ad esempio da Melenchon con il piano B che prevede l’opzione di un’uscita dai trattati dell’Unione Europea, qualora non si riesca a cambiarli in maniera progressista.

Sicuramente c’è del giusto nella proposta di Varoufakis. È vero che la collaborazione internazionale è importante: per fare circolare capacità politiche e idee; proprio come sta facendo Bannon sul lato opposto dell’agone politico. Ma anche per avere alleanze utili una volta che eventualmente si sia conquistato il potere e che tocchi fare i conti con interessi delle oligarchie che niente cambi veramente: proprio quegli interessi che si sono palesati in maniera plateale durante la crisi greca del 2015 di cui Varoufakis è stato l’eroe mediatico. Certo quell’“eventualmente” non è cosa da poco. Ed è proprio quello il punto su cui casca l’asino dell’impresa di Varoufakis.

In linea con tante delle sue iniziative promosse da Varoufakis negli ultimi anni, a partire dal movimento Diem25, questa internazionale sembrata marchiata a fuoco con l’atteggiamento velleitario della sinistra postmoderna e l’insistenza della classe creativa, quella che una volta si sarebbe chiamata la “classe media contemplativa” che è la sua base sociale, rispetto alla bontà della globalizzazione. Si tratta di una visione che gode di un certo sostegno presso ampie fasce dell’opinione pubblica internazionale di stampo progressista. Ma pure di una visione che fino ad oggi pare essere stata alquanto funzionale alla vittoria di Salvini e soci, capaci ad ogni buona occasione i loro avversari come radical chic o “champagne socialist”: un personale politico privilegiato e autoreferenziale, senza comprensione delle difficoltà vissute da una popolazione massacrata dalla crisi. E inviperita con le élite non solo economiche ma anche intellettuali e culturali che Varoufakis rappresenta.

La presenza mediatica che ha già costruito Varoufakis negli ultimi anni, come scrittore di successo, ospite televisivo e leader politico sicuramente gode di grande simpatia presso le persone di credo progressista e di attitudine liberal, che ammirano l’intelligenza e carisma del politico greco. Ma lo stesso non vale necessariamente per un pubblico che tende ad accogliere con freddezza e un po’ di fastidio chiunque venga percepito come portavoce delle elite globali. Pensiamo ad esempio all’effetto che sortisce sul telespettatore medio vedere Varoufakis che critica la finanziaria italiana su Rai News 24, dicendo che l’Italia “sta facendo il bimbo viziato” e dicendolo in lingua inglese, quindi ponendosi automaticamente come altro rispeto alla cultura del pubblico di riferimento. O ricordiamoci ancora come Varoufakis non è uscito troppo bene da scontri con politici di destra in Italia e altri paesi, come successo ad esempio nel duello televisivo con Matteo Salvini a diMartedì su La7 nel maggio 2017.

Problemi simili di mancanza di radicamento sociale che fa il paio con una percezione di distacco dalla realtà sono visibili pure nel movimento Diem guidato da Varoufakis. Diem si è contraddistinto per eventi patinati, con presentazioni in stile Ted Talk tenute in piccoli teatri alternativi dei grandi centri metropolitani, da Berlino, a Barcellona, da Amsterdam a Milano, e con i palchi affollati da eroi dell’intellighenzia radical come Slavoj Žižek, Brian Eno e Julian Assange in diretta Skype. Con questo parterre e scenario questo movimento si appella a un pubblico ben preciso la classe media creativa, giornalisti, ricercatori, designer, persone impegnate nel mondo dell’associazionismo e dello sviluppo internazionale, ma con scarso appeal oltre questi settori.

Insomma più che l’associazione internazionale dei lavoratori, come quella di Karl Marx, quella di Varoufakis sembra l‘internazionale della società dello spettacolo; un’internazionale alla disperata ricerca di riflettori e celebrities, ma incapace - anche a causa della sua insistenza che l’unico vero cambiamento può avvenire a livello europeo - di radicarsi a livello nazionale o locale in movimenti capaci di vincere le elezioni.

Tali contraddizioni si rivelano ulteriormente quando muoviamo lo sguardo alle alleanze e i grandi preparativi in vista delle elezioni europee. Se Varoufakis va in giro per il mondo a proporsi come il nuovo leader dell’internazionale progressista, un Karl Marx redivivo, senza barba e con la giacca di pelle da motociclista, in Europa si trova molto isolato e piuttosto malvisto. La sua ambizione con Diem 25 era costruire il “primo partito transnazionale” europeao. Ma è probabile che non riuscirà a presentarsi come partito indipendente in nessun paese. Fatta eccezione forse per la Grecia dove sta cercando di creare un movimento chiamato MeRA25, fino ad ora con una eco piuttosto limitata stando agli ultimi sondaggi.

Inoltre è in cattivi rapporti con molti altri movimenti di sinistra europei e in particolare il cosiddetto patto di Lisbona, l’alleanza siglata da Podemos di Pablo Iglesias, da France Insoumise di Jean-Luc Melenchon, e dal Bloco de Esquerda portoghese di Catarina Martins. Stiamo parlando di forze che hanno ottenuto tra il 10 e il 20% nelle ultime elezioni, mica bruscolini, che contano nel loro paese, in un solo paese da 3 a 8 volte i membri che Diem ha in 28 paesi europei, e che godono di una presenza parlamentare significativa.

Invece di cercare di trovare un’intesa con questa alleanza, lo scorso maggio Varoufakis, ha chiesto a queste forze che esse entrassero in discussione con l’alleanza alternativa che lui propone, chiamata Primavera Europea. Si tratta di un’alleanza che esiste solo sulla carta visto che fino ad oggi comprende il movimento Generations del socialista François Hamon, massacrato alle ultime presidenziali francesi, i polacci di Razem, e poco altro. Non c’è quindi da sorprendersi se Podemos, France Insoumise, e Bloco de Esquerda hanno risposto a Varoufakis dandogli forfait.

Questa situazione ha conseguenze dirette anche per la politica italiana, visto il protagonismo di Varoufakis negli ultimi mesi nel nostro paese e le sue frequenti apparizioni a eventi, dibattiti, e collegamenti negli studi televisivi. In Italia Diem si appresta a entrare nella nuova “lista unitaria” per le elezioni europee, la quale dovrebbe riunire vari pezzetti della sinistra reduce da un ciclo infinito di scissioni e ricomposizioni temporanee a cui seguono immancabilmente nuove scissioni. Questa lista dovrebbe comprendere movimento DemA di de Magistris, Sinistra Italia e Possibile che sono appena dileguate da Liberi e Uguali, Rifondazione Comunista, da poco uscita da Potere al Popolo, e l’Altra Europa con Tsipras, la cui presenza servirebbe fondamentalmente ad evitare di dover raccogliere firme.

C’è già chi chiama questo listone unitario “L’Altra Europa Un’Altra Volta”, viste le similarità con la lista capitanata simbolicamente da Alexis Tsipras che riuscí a malapena a superare la barriera del 4% nel 2014. Una somiglianza che rischia di essere resa più evidente dal protagonismo di Varoufakis, che va a sostituire Tsipras nella parte del principe straniero progressista venuto a salvare la sinistra italiana incapace di farcela da sola. Questo tipo di presentazione potrebbe avere effetti molto negativi per la nuova lista unitaria di sinistra. Dando tanto risalto al ruolo di Varoufakis si rischia di darsi la zappa sui piedi dal punto di vista comunicativo. Invece di neutralizzare Salvini e company, evitando di fornire appigli alla loro narrazione. Persone come Varoufakis costituiscono un perfetto bersaglio per la rappresentazione salviniana della sinistra come una “buonista”, cosmopolita e fighetta, priva di alcun contatto con la realtà.

Piuttosto che costruire le internazionali delle celebrità Twitter dell’attivismo e intellettualismo progressista sarebbe forse meglio pensare a radicarsi nella società, cominciando a costruire forze coerenti a livello nazionale, che vengano riconosciute dai cittadini come portatrici legittime delle loro istanze e che possano poi al momento al giusto di crescita allearsi con altre forze a livello internazionale. Ma facendo calare la cosa dall’alto come una trovata dell’intellighenzia della sinistra globalista si rischia di fare solamente torto a queste forze e alla loro legittimità di fronte agli occhi dei cittadini. Le internazionali, come quella dei lavoratori di Marx sono per definizione alleanze tra forze radicate su base nazionale. Quindi forse sarebbe meglio concentrarsi nel costruire queste forze, come è giá stato fatto in molti altri paesi in cui sono fioriti nuovi partiti dopo la crisi da Podemos in Spagna, a France Insoumise, al nuovo Labour di Corbyn. Solo quando queste forze saranno giunte a maturazione sarà il momento compiuto per cristallizzare un’alleanza a livello globale. Per il momento la battaglia per costruire una nuova sinistra post-crisi si deve fare soprattutto paese per paese. Perché volenti e nolenti lo spazio nazionale è ancora lo spazio principale delle identificazioni culturali, e dunque pure delle identità politiche.

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Eros Barone
Wednesday, 21 November 2018 14:36
"Per il momento la battaglia per costruire una nuova sinistra post-crisi si deve fare soprattutto paese per paese. Perché volenti e nolenti lo spazio nazionale è ancora lo spazio principale delle identificazioni culturali, e dunque pure delle identità politiche." Così afferma l'autore dell'articolo, e io condivido la sua tesi sul rapporto tra Stato nazionale, spazio delle identificazioni culturali e delle identità politiche. In effetti,le culture definiscono l’àmbito delle soggettività sociali: un àmbito che, se per un verso è più ampio di quello dell’ideologia ma più ridotto di quello della società, è per un altro verso più impalpabile di quello dell’economia ma più tangibile di quello della teoria. Da questo punto di vista, è opportuno osservare che il
post-modernismo (al quale Hanselmo mi sembra molto vicino per il suo approccio culturalistico) non è universalista ma cosmopolita, il che è cosa ‘toto coelo’ differente dall’internazionalismo (così come Varoufakis, che è un prototipo della piccola borghesia intellettuale radicalizzata, è una figura intellettuale e morale 'toto coelo' differente dal proletariato e ad esso antagonista). Infatti, mentre per l’internazionalismo operaio l’universale è compatibile col nazionale, talché la cultura universale è una ‘summa’ delle opere migliori delle culture nazionali, la cultura cosmopolita prescinde dai confini nazionali né più né meno di come fanno i soldi e le imprese transnazionali. Ma vi è di più: il cosmopolitismo appartiene alla cultura del capitale globale, mentre l’internazionalismo marxista è una forma di resistenza politica a questo mondo. Vi è un passo dei “Grundrisse” che merita di essere rammentato, poiché in esso Marx definisce sinteticamente il comunismo come “la forma della comunità”; ebbene, se è vero che questa “forma della comunità” è lo scopo e l’internazionalismo proletario (riassumibile nella parola d’ordine che conclude il “Manifesto del partito comunista”: “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”) è il mezzo, è altrettanto vero che, essendo i lavoratori sempre legati a un ‘luogo’, a differenza del capitale che è un ‘perpetuum mobile’, lo scopo può essere raggiunto e il mezzo può essere utilizzato solo in termini di locale e di particolare. Ciò comporta che il movimento operaio impari a coniugare il particolare e l’universale esattamente come ha tentato di fare la borghesia con lo Stato-nazione, ma in modo tale che il recupero del terreno fondativo dello Stato-nazionale - terreno su cui il movimento operaio è più forte - costituisca la ‘conditio sine qua non’ del suo superamento verso la ‘forma della comunità’, ossia verso la realizzazione dell’universalità a livello della specificità individuale (ossia verso il comunismo che, sempre nel “Manifesto”, è definito come “società di liberi e di eguali”). In conclusione, è possibile affermare che, se il cosmopolitismo postmoderno è un particolarismo universalizzato, la visione del socialismo è quella di un universalismo diventato particolaristico, vale a dire di un universalismo per cui la molteplicità delle diverse culture rappresenta la necessaria premessa di una cultura universale. Si potrebbe obiettare, magari appellandosi alla legge di Hume, che ciò che per il capitalismo è un fatto diventa per il comunismo un valore, ma a questo riguardo occorre sottolineare che Marx, ponendosi dal punto di vista del materialismo dialettico, respinge l’idea di ‘astrarre’ l’universalità dalle differenze, così come l’idea di scindere il “citoyen” dal “bourgeois” o il valore di scambio dal valore d’uso. In breve, per il pensiero comunista l’universalità è insita nel locale, non alternativa ad esso.
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Mario Galati
Tuesday, 20 November 2018 17:44
Non credo che ci possa essere qualcuno a sinistra che non sappia che la rivoluzione francese è stata una rivoluzione borghese e che le rivoluzioni borghesi hanno liberato lo sviluppo capitalistico sino ai monopoli ed all'imperialismo, con gli stati nazionali condizione e strumento di tutto ciò. Ma da ciò ad affermare che la rivoluzione francese è stata soltanto un episodio isolato ce ne passa. Mi sembra un po' troppo schematico e per nulla dialettico non considerare il suo posto nella storia e trascurare completamente l'apporto delle masse popolari (contadine, prevalentemente) e la sua carica emancipatoria universale (nei limiti borghesi, ovviamente, che dialetticamente si tramutano in seguito in legacci oppressivi). Come altrimenti collocare l'abolizione della schiavitù nelle colonie operata dai giacobini? E come giudicare le punte più avanzate e radicali del pensiero giacobino, che arriva a sfiorare e prefigurare uno sviluppo in senso socialista e comunista della rivoluzione? E come trascurare il carattere progressivo della tradizione rivoluzionaria (sempre valorizzata da Marx, Engels e da tutta la tradizione comunista), diffusa anche tra le masse popolari? Tutto ciò è soltanto, in se stesso, germe del dominio borghese? La storia, le forze storiche in campo, le classi e gli interessi in gioco sono così unilaterali e uniformi, senza contraddizioni, tutte tese verso l'imperialismo capitalistico, o, piuttosto, la loro omologazione avviene a posteriori in certi ragionamenti ? Il significato di certi avvenimenti storici, come la realtà, è sempre contraddittorio.
Ora, mi pare di notare nel suo intervento, che Hanselmo critichi Melenchon per la sua agitazione della tradizione repubblicano-giacobina nazionale (da Hanselmo collocata, tra l'altro, su di un filo di continuità con la tradizione socialdemocratica di collaborazione con l'imperialismo capitalistico nazionale, di partecipazione delle aristocrazie operaie occidentali ai superprofitti capitalistici di origine coloniale), non invece per l'aspetto di populismo aclassista (o, almeno,quasi aclassista. Tendente a mettere in secondo piano il discorso classista) di Melenchon.
E questo perchè, mi sembra, anche il suo è un discorso populista: il discorso del 99% (Noi) contro l'1% (Loro) e della lotta alla finanza globale, non al capitalismo. Il discorso del popolo di Seattle, nel quale l'analisi classista e marxiana sfuma. In questo populismo ci farei rientrare anche le visioni negriane moltitudinarie e cognitarie. In fondo l'unico soggetto della trasformazione o della rivoluzione che Negri riesce ad individuare è una indistinta moltitudine. O meglio, la moltitudine dei cognitari cosmopoliti, motore della trasformazione, che confliggono con “l'impero” anch'esso cosmopolita. Se quello populista nazionale è un wishful thinking, non vedo come altrimenti definire le fantasie cognitarie e del popolo di Seattle. E' stata forse la sinistra sovranista a impedire ai cognitari ed al popolo di Seattle di costruire un vero soggetto rivoluzionario e di combattere la lotta sul terreno cosmopolita da loro individuato? E' questa la causa del fallimento della sinistra, ovvero, del loro stesso fallimento?
Credo sia un tantino presuntuoso spacciare per novità assoluta della storia e del capitalismo “la capitalizzazione dell'intelletto come merce”, come se questa capitalizzazione non faccia parte del capitalismo in sé, anche di quello ottocentesco. Ho la sensazione che questo risalto “cognitario” che si dà alla conoscenza, all'attività intellettuale, al lavoro nel campo informatico, ecc. non sia altro che l'"autosovrarappresentazione" di un ceto “intellettuale” (i cognitari, il cosiddetto “proletariato cognitivo”, a loro detta, e così via) che non si sente più organico agli altri strati di lavoratori (i quali, non hanno altrettanta voce e mezzi per farsi sentire. Da ciò la loro scomparsa), che intendersi distinguersi dalla "plebe" operaia. Da ciò la tendenza a sminuire, a trascurare il lavoro nelle altre sue determinazioni (che non è affatto scomparso. Tutt'altro) e a mettersi al centro del mondo. Da questa loro posizione nel terziario e nelle reti informatiche deriva anche la tendenza al cosmopolitismo, non all'internazionalismo. Mi sembrano tendenze tutto sommato piccolo borghesi, “bias cognititivi del wishful thinking” cosmopolita cognitario, “serve utili del capitale globale”.
E' chiaro che il sovranismo nazionalista come chiave di lettura del conflitto è di destra e va avversato. Ma è anche chiaro che si pone su questo medesimo piano, sul medesimo terreno, sullo stesso livello di lettura, chi individua nel “nazionalismo”, quasi fosse una categoria indipendente, la causa e non gli effetti di un certo equilibrio economico-sociale.
Ora, secondo Marx, i proletari senza patria, sono internazionalisti e si “elevano a classe nazionale” per conquistare il “dominio politico”. Non c'è nessun interdetto e tabù verso il terreno di lotta nazionale (altra cosa è il fine della lotta), che, anzi viene individuato come il più adeguato. Il più adeguato in quel momento storico, potremmo aggiungere. Le cose potrebbero stare in modo diverso adesso, come sostengono i teorici dell'”impero”, della fine degli stati nazione, ecc. D'accordo, ammettiamolo pure.
Ma bisogna dimostrare concretamente che le cose stanno davvero così. Invece, l'esperienza degli ultimi decenni ha sancito l'esaurimento dei movimenti (No global, Seattle, ecc.) che si ponevano su quel piano. E il bello è che si sono dissolti senza lasciare nessuna traccia, neppure organizzativa. Attualmente si possono anche elencare i problemi del mondo (“global warming”, sicuramente più avanzato e cosmopolita di “riscaldamento globale”, crisi ecologica, capitalizzazione dell'intelletto come merce) e prendersela col nazionalismo che impedisce la nascita di “veri movimenti democratici”, ma mi sembra un po' poco. Occorrerebbe indicare con più precisione i soggetti del conflitto e le forme organizzative possibili sul terreno di lotta globale, dopo aver fatto un bilancio degli ultimi due decenni. A meno che non intendiamo semplicemente accontentarci di qualche movimento che ogni tanto nasce e muore così come è nato: spontaneamente.
In caso contrario, la nostra, cioè della sinistra, sarebbe una lamentazione impotente che pretende di dare lezioni.
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Hanselmo
Tuesday, 20 November 2018 12:43
"Perché volenti e nolenti lo spazio nazionale è ancora lo spazio principale delle identificazioni culturali, e dunque pure delle identità politiche."

Come riportato da Laclau, le identificazioni culturali non sono la base dei progetti politici, ma gli interessi di una classe sociale sono la base della politica di interesse.

Gerbaudo, come al solito gioca con il fuoco, diventando per l'ennesima volta il servo utile del capitale globale, senza mai confrontarsi con i bias cognitivi del wishful thinking "sovranista di sinistra". Unendo l'identificazione culturale all'identità politica come unica soluzione, replica per l'ennesima volta gli errori delle vecchie socialdemocrazie del XX secolo, che sono fallite perché basate su una gigante contraddizione di fondo, e la negazione della stessa. Gli stati socialdemocratici del XX secolo hanno goduto di privilegi sociali (welfare, economici, etc.) grazie ad un imperialismo soft e allo sfruttamento di risorse provenienti dalle proprie ex-colonie (vedasi soprattutto la Francia, appunto). In questo Mélenchon rappresenta il perfetto esempio di post-capitalismo francese in chiave nazionalista. JLM descrive la Francia come un principio universale che non è, appellando al sovranismo del "popolo francese", ma tralasciando quello che la cultura francese è veramente. La Francia è imperialismo, colonizzazione, capitalismo e patria del neoliberismo. La rivoluzione francese, un episodio isolato che ha portato alla formazione di un impero (nonché alla cessione del nord-est all'Austria per dirne una) . Ignorare queste "chiavi identitarie" appellando ad un "sovranismo popolare" significa traghettare ancora una volta verso l'imperialismo ed il nazionalismo dei secoli scorsi (cosa che la Cina capitalista ha ben capito e sta applicando da 20 anni). Parafrasando l'opera di N.Srnicek (che forse Gerbaudo dovrebbe considerare di più, visto che entrambi al King's C.), Gerbaudo spaccia concetti di folk politics ed identitari come progressisti, non capendo che il "localismo sovranista" che promuove è la causa del fallimento della "sx", nonché un mezzo con cui non si potrà mai risolvere la crisi mondiale (global warming in primis). Una crisi che nasce perlopiù dall'avvento dell'automazione, la capitalizzazione dell'intelletto come merce (capitalizzazione del terziario, data business, machine learning) e la crisi ecologica.

Per concludere, le uscite di Gerbaudo, Fazi e Fassina spostano le forze verso il nazionalismo, impedendo per l'ennesima volta la nascita di veri movimenti democratici che auspichino alla costruzione di una vera lotta al 1% ed alla finanza globale.
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Geopardi
Saturday, 17 November 2018 12:40
La tua analisi è da tenere in conto Lorenzo, grazie.
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Geopardi
Saturday, 17 November 2018 12:38
Quoting Lorenzo:
Ovviamente all'autore non passa per la mente di chiedersi se "la rappresentazione salviniana della sinistra come una buonista, cosmopolita e fighetta, priva di contatto con la realtà" possa essere corretta. La (ex-)sinistra ha assorbito così profondamente lo spirito anarcoide e narcisistico del Sessantotto da aver completamente dimesso le sensibilità socialiste (cioè centrate sul primato attribuito alla società, al collettivo, rispetto alla tutela dei diritti individuali) che le avevano consentito di diventare una grande forza politica.

Ma Varoufakis è migliore dei suoi seguaci. Sa perfettamente che il suo progetto di un internazionalismo sinistrorso è velleitario e che una riforma dell'eurodittatura dall'interno è irrealizzabile. E' perfettamente conscio che tutto ciò che fa non serve a niente. Lo fa perché è consapevole che l'unica alternativa realistica al neoliberismo è il trionfo delle nuove destre identitarie, e preferisce l'ancient regime alla weimarizzazione del panorama politico europeo.

La sua è la battaglia di retroguardia di chi, pur sapendo che il neoliberismo gli ha distrutto metà del suo Manitù umanista ed egualitario, preferisce tenerselo stretto piuttosto che rendergli la pariglia, con il risultato di farsi distruggere anche l'altra metà del totem.


Un'analisi da tenere in conto la tua. Grazie
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Lorenzo
Thursday, 15 November 2018 22:16
Ovviamente all'autore non passa per la mente di chiedersi se "la rappresentazione salviniana della sinistra come una buonista, cosmopolita e fighetta, priva di contatto con la realtà" possa essere corretta. La (ex-)sinistra ha assorbito così profondamente lo spirito anarcoide e narcisistico del Sessantotto da aver completamente dimesso le sensibilità socialiste (cioè centrate sul primato attribuito alla società, al collettivo, rispetto alla tutela dei diritti individuali) che le avevano consentito di diventare una grande forza politica.

Ma Varoufakis è migliore dei suoi seguaci. Sa perfettamente che il suo progetto di un internazionalismo sinistrorso è velleitario e che una riforma dell'eurodittatura dall'interno è irrealizzabile. E' perfettamente conscio che tutto ciò che fa non serve a niente. Lo fa perché è consapevole che l'unica alternativa realistica al neoliberismo è il trionfo delle nuove destre identitarie, e preferisce l'ancient regime alla weimarizzazione del panorama politico europeo.

La sua è la battaglia di retroguardia di chi, pur sapendo che il neoliberismo gli ha distrutto metà del suo Manitù umanista ed egualitario, preferisce tenerselo stretto piuttosto che rendergli la pariglia, con il risultato di farsi distruggere anche l'altra metà del totem.
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