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"Vi spiego come uscire dall'euro da sinistra"

A. D'Amato intervista Emiliano Brancaccio

Emiliano Brancaccio, 42 anni, ricercatore e docente di economia politica presso l’Università del Sannio, a Benevento, è un volto noto grazie alle sue partecipazioni televisive, ma soprattutto è uno dei pochi economisti ad avere anticipato la crisi dell’euro. Nel 2007, quando la parola “spread” non era ancora entrata nel linguaggio comune, presentò un articolo che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo dalla rivista Studi economici, con il titolo «Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista». In esso annunciava la vendita in massa di titoli di stato italiani e l’aumento dei tassi di interesse: cioè gli avvenimenti che si sono effettivamente verificati nel 2011, portando tra l’altro alle dimissioni di Berlusconi e all’avvento del governo tecnico di Monti.


Professor Brancaccio, lei ha previsto con quattro anni di anticipo la crisi dell’eurozona e l’ondata di vendite di titoli dei paesi periferici, tra cui l’Italia.

Non sono il solo. Perplessità sulla tenuta dell’Unione monetaria europea erano già state espresse da alcuni studiosi, più autorevoli di me. Tra gli economisti italiani, il compianto Augusto Graziani si mostrò scettico sulla sostenibilità dell’euro anche prima che la moneta unica entrasse in vigore.

E’ vero peraltro che il mio articolo conteneva qualche elemento di novità. Per esempio, in esso criticavo l’ottimismo del capo economista del FMI Olivier Blanchard e di Francesco Giavazzi, due noti esponenti della visione macroeconomica prevalente. Loro ritenevano che l’eurozona sarebbe stata capace di assorbire spontaneamente i suoi squilibri interni e di evitare una crisi. Io avanzavo molti dubbi, al riguardo.


Alla fine ha avuto ragione lei o no?

Pare di sì. Eppure, le rivelerò un aneddoto curioso: l’ANVUR, la contestata agenzia governativa che valuta la qualità della ricerca ai fini dell’assegnazione dei fondi alle università, non sembra avere particolarmente apprezzato quell’articolo. E non si tratta di un caso isolato. Le analisi critiche verso la concezione dominante della macroeconomia trovano sempre più riscontri nella realtà dei fatti, ma in accademia sono tuttora osteggiate. La campagna tolemaica contro di esse è iniziata negli anni ’80 e dura ancora oggi, sebbene la crisi abbia messo in evidenza i limiti della visione prevalente. Di questo passo, se non si interviene per riaffermare il pluralismo della ricerca economica, si arriverà al paradosso di veder sparire la dialettica tra le diverse scuole di pensiero dalle aule universitarie, proprio quando ve ne sarebbe più bisogno.


Alcuni dicono che la crisi degli spread sia ormai passata. Invece, con Dani Rodrik, Alan Kirman e altri autorevoli economisti, Lei ha recentemente pubblicato un “monito” sul Financial Times in cui continua a mettere in guardia sulla sostenibilità dell’area euro (www.theeconomistswarning.com). Cosa ha calmato gli spread e perché le vostre previsioni continuano a essere pessimistiche?

Le vendite di titoli si sono arrestate e gli spread si sono ridotti non perché la crisi sia stata risolta, ma perché Draghi ha solennemente dichiarato che «la Bce farà tutto ciò che è necessario per preservare l’euro». Ossia la Banca centrale si è impegnata a comprare i titoli dei paesi in difficoltà per difenderli dagli attacchi speculativi sui mercati. Draghi sostiene che ciò sarà sufficiente per preservare l’euro. Nel “monito degli economisti” ravvisiamo nella posizione di Draghi una contraddizione. La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’eurozona.


Nel “monito degli economisti” criticate anche le cosiddette riforme strutturali chieste dalla Bce, ovvero riforme del mercato del lavoro che introducano ulteriore flessibilità nei contratti. Quali effetti possono avere queste politiche sul nostro paese e in generale sulla sostenibilità dell’Unione monetaria?

L’invito a fare le riforme strutturali del mercato del lavoro non è nuovo. In Europa le politiche di flessibilità del lavoro sono state una costante dell’ultimo ventennio. In materia di diffusione dei contratti precari l’Italia ha persino realizzato un piccolo record: tra il 1998 e il 2008 l’indice di protezione dei lavoratori italiani calcolato dall’OCSE è caduto più che in ogni altro paese europeo. Ma a che pro? Paesi che non hanno attuato politiche di precarizzazione così pesanti hanno fatto registrare andamenti dell’occupazione migliori del nostro. Del resto, come ha ammesso lo stesso Blanchard, non c’è prova empirica che la flessibilità del lavoro aumenti l’occupazione. La Bce tuttavia insiste con questa ricetta avanzando una spiegazione più articolata. La sua tesi è che la precarizzazione riduce la forza contrattuale dei lavoratori e quindi consente di ridurre i salari: in questo modo i paesi periferici dell’Unione dovrebbero essere in grado di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. Il problema è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso. Per questi motivi noi riteniamo che Draghi abbia solo messo in “coma farmacologico” l’eurozona malata. E che stia suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla.


Questa agonia potrebbe anche protrarsi per anni? quali sarebbero le conseguenze per l’Italia e gli altri paesi periferici?

In parte le conseguenze sono già sotto i nostri occhi. Dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del novanta percento, in Spagna addirittura del duecento percento. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti. Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’eurozona, a vantaggio del paese più forte.


Nel “monito” ricordate anche una vostra precedente lettera, pubblicata nel 2010 sul Sole 24 Ore. Alla fine della lettera affermavate che con l’aggravarsi della crisi «le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione», incluso lo sganciamento dall’eurozona. Per queste ultime parole siete stati criticati. Alcuni sostengono che una uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, e potrebbe addirittura condurre a nuove guerre.

E’ un modo allarmistico e fuorviante di affrontare la questione. L’eurozona di fatto è un particolare regime di cambio fisso. Guardando la storia di questi regimi, non è possibile stabilire una relazione tra abbandono dei regimi di cambio e guerre militari. Anzi, andrebbe ricordato che alla vigilia della Prima guerra mondiale era in vigore il gold standard, un sistema per molti versi simile all’euro. L’economista Barry Eichengreen ritiene pure che i tentativi di ripristino del gold standard favorirono la grande depressione, che creò i presupposti per la Seconda guerra mondiale. Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa.


Recentemente l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Come giudica l’emergere di dubbi sull’euro anche nell’area del PD?

Il protrarsi della crisi costringe tutti a rivedere le vecchie posizioni. Keynes sosteneva che i cambiamenti politici avvengono per l’incontenibile pressione degli eventi, molto più che per il decadere dei vecchi pregiudizi. Al di là di singole posizioni, tuttavia, mi pare che nel PD, e in generale in quel che resta dei partiti eredi più o meno diretti della tradizione del movimento dei lavoratori, si sconti ancora un notevole ritardo sul da farsi rispetto al deterioramento del quadro economico e sociale.


Sull’altro fronte sembra invece che il centrodestra voglia posizionarsi nell’area euroscettica. Testimoni autorevoli dichiarano che Berlusconi voleva uscire dall’euro già nel 2011, quando era ancora a Palazzo Chigi. La Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi.

Forse il dato più importante delle ultime elezioni è stato proprio questo: se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro. Ovviamente si tratta di una maggioranza solo numerica: queste forze sono fortemente antagoniste tra loro, incarnano visioni molto diverse e i voti che esprimono non sembrano sommabili nemmeno su un piano puramente tattico. Tuttavia il dato dovrebbe indurre a riflettere. In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi.


Lei però ha detto che occorre distinguere tra un’uscita “da destra” e un’uscita “da sinistra” dall’euro. Si riferisce alla necessità di proteggere i salari dall’inflazione?

Guardiamo la storia degli abbandoni dei regimi di cambio fisso dal 1980 ad oggi. Vedremo che i diversi modi in cui sono stati gestiti hanno determinato effetti diversi sui diversi gruppi sociali coinvolti, in particolare sui lavoratori subordinati. Per esempio, negli anni dell’aggancio al dollaro l’Argentina vide diminuire sia il potere d’acquisto dei salari sia la quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori; ma dal 2002, dopo l’abbandono della parità col dollaro, i salari reali e la quota salari (cioè la parte di reddito nazionale spettante ai lavoratori) iniziarono una rapida ascesa. Di contro, negli anni dell’adesione allo SME a banda stretta, l’Italia registrò una crescita del potere d’acquisto dei salari e una costanza della quota salari; ma dal 1992, nei tre anni successivi all’abbandono dello SME, i salari reali subirono una riduzione di quattro punti e mezzo e la quota salari fece registrare una caduta di oltre cinque punti. In definitiva, una eventuale uscita dall’euro solleva un problema salariale, che può essere gestito in vari modi. Per questo sarebbe bene chiarire come si vuole uscire. A mio avviso sarebbe importante ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile.


A proposito di come si deve uscire, lei ha pure accennato al rischio dei cosiddetti “fire sales”, cioè di svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro. Eppure vediamo già oggi numerose imprese del nostro paese finire in mani straniere. Ritiene quindi così grave il pericolo di svendite in caso di uscita dall’euro rispetto alla situazione attuale?

La ricerca economica ci dice che un pericolo del genere può sussistere. Per chiarire il problema guardiamo al prezzo del capitale. In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali. Tuttavia i prezzi dei beni capitali non hanno ancora scontato l’eventualità di una uscita dall’euro e di una svalutazione. Se questa si verificasse, il prezzo in moneta estera dei capitali cadrebbe in misura significativamente maggiore, e in un solo istante. E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato. Anche in questo caso si pone un problema su come gestire l’uscita dall’euro: cioè si dovrebbe decidere se introdurre vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali oppure no. Io credo che l’adozione di vincoli del genere sarebbe opportuna, in primo luogo in ambito bancario.


Per questi motivi nel “monito degli economisti” insistete sul fatto che esistono modalità alternative di uscita dall’euro?

Ho fatto solo un paio di esempi, i motivi sono tanti. Semplificando al massimo si tratta di scegliere tra due possibilità. Da un lato c’è una opzione di uscita dall’euro che potremmo definire “gattopardesca”. Sarebbe un’uscita in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni e che, ad avviso di molti studiosi, ci ha condotti al disastro in cui versiamo. Questa uscita gattopardesca sarebbe affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato. I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni. Questa soluzione di uscita è tuttora probabile: perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti. Penso agli speculatori, che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute. E penso pure al capitalismo tedesco. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».


E quale sarebbe l’alternativa a questa uscita dall’euro “gattopardesca”?

La seconda possibilità consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti. Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali.


Ma, se non si riuscisse a fare tutto questo bisognerebbe uscire comunque dall’euro?

Per lungo tempo in tanti abbiamo provato a perorare la causa di una riforma dell’Unione monetaria europea. Personalmente avevo anche avanzato una piccola proposta, lo “standard retributivo europeo”, che alcune forze politiche fecero propria e che venne presentata anche a Parigi, ai partiti del socialismo europeo. Ma tutte le ipotesi di riforma, persino le più moderate, sono rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici. Il risultato è che oggi l’eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere. A questo punto non sarò certo io a battermi per preservare l’euro: l’agonia dell’attuale situazione è insostenibile. Tuttavia è bene intendersi: una uscita “gattopardesca” dall’euro non risolverebbe i problemi di fondo, si limiterebbe a spostarli nel tempo. Mi permetta anche di segnalare un altro pericolo…


Quale?

Una opzione di uscita dall’euro lasciata in esclusiva alle nuove destre nazionaliste si affiancherebbe a un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili. Se così andasse, sarebbe un altro esito da imputare al ritardo dei liberali, dei cristiano-democratici e soprattutto dei partiti eredi della tradizione di sinistra nel cogliere l’estrema gravità della situazione.


Infine, la domanda delle cento pistole. Le capita, ultimamente, di parlare di questi argomenti con politici italiani? Non le chiedo chi, ma posso chiederle di quali partiti?

Le chiacchiere private tra politici ed economisti lasciano il tempo che trovano. Contano le dichiarazioni pubbliche e le azioni conseguenti delle forze politiche organizzate.

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