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azioni parallele

La passione del reale. Freud, la guerra e la pulsione di morte

di Caterina Resta

La morte di Klimt1. Il secolo di Nietzsche

Sono ormai trascorsi cento anni dalla conclusione della Prima guerra mondiale e in tutti i paesi europei, attraverso manifestazioni di ogni genere, si è ricordato questo evento davvero decisivo per la storia del Vecchio Continente. Al di là delle retoriche “patriottiche”, che quasi fatalmente ritornano in ricorrenze come questa, come pensare questa immane catastrofe, questa insensata carneficina, questa “guerra civile europea”? Al di là di ogni ricostruzione storica che ne indaghi cause e motivazioni, è toccato al pensiero del Novecento – che più da vicino ne ha subito l’onda d’urto, seguita a breve distanza dalla replica di un secondo conflitto ancor più devastante e distruttivo – tentare di gettare lo sguardo sul fondo oscuro di questo abisso, senza arrendersi di fronte all’incomprensibile. Tutto il pensiero del Novecento trema a causa di questa scossa, avanza a tentoni nel buio di questa notte senza stelle, poiché la Grande Guerra segna davvero uno spartiacque e una cesura tra un prima e un poi, preannunciando una vera e propria svolta epocale. Dopo, nulla sarà più come prima: alle spalle, «il mondo di ieri» irrevocabilmente perduto; davanti, nessun progresso può più essere assicurato. Crollano gli idoli che la ragione illuministica prima e positivistica poi avevano eretto, primo tra tutti quella illimitata fiducia nella razionalità umana e nel suo inarrestabile progresso, promessa di un radioso futuro, sul piano scientifico, tecnico, economico, morale e politico. Con furia iconoclasta la Grande Guerra provvide a spazzarli via, fin dai primissimi giorni, imprimendo il suo indelebile sigillo all’intero secolo.

È questa, allora, la Cosa1 che ancora ci resta da pensare nella sua intollerabile verità, quell’ottenebramento a causa del quale il Novecento ha dovuto trovare nuove parole, nuovi concetti, nuove forme espressive per dirla, per tentare di pensarla sino in fondo, nella consapevolezza di una certa afasia. Un tentativo, dunque, al limite del silenzio, costretto a confrontarsi con il “cuore di tenebra” di questa guerra.

Alain Badiou utilizza una formula davvero molto efficace per qualificare il Novecento, una formula lacaniana: «la passione del reale». Ciò che caratterizzerebbe il Novecento, differenziandolo da tutti i secoli precedenti, sarebbe, dunque, una passione che, investendo il reale, non può che tingersi di orrore e di fascinazione, di repulsione e di attrazione, di un vitale slancio mortifero, distruttore e creatore al tempo stesso. Nella sua analisi, Badiou muove da una constatazione quasi ovvia e che, tuttavia, non cessa per questo di destare sconcerto: com’è possibile che dalla straordinaria fioritura culturale primonovecentesca siano scaturiti, a breve distanza l’uno dall’altro, ben due conflitti mondiali? Com’è stato possibile che nel cuore dell’Europa, culla della gloriosa tradizione umanistica, sia potuta accadere una simile carneficina, sia potuta diffondersi tanta violenza, in due ondate successive che, a breve distanza l’una dall’altra, hanno seminato ovunque distruzione e morte? Per questo l’altro carattere distintivo del Secolo è senz’altro la guerra: «dopo la passione del reale, è senza dubbio la principale definizione del secolo: si tratta del secolo della guerra. Il che non significa solo che è pieno di guerre feroci, ma che è posto ». E, ogni volta, sarà per la fine del mondo, una guerra “ultima”, una lotta che escatologicamente si prefigge «una soluzione “assoluta” dei problemi», il tramonto definitivo del “vecchio uomo”, perché l’“uomo nuovo”, un nuovo inizio ed un ordine nuovo possano vedere la luce. Il Secolo è attraversato dalla conflittualità permanente perché aspira a l’impossibile: «la passione del secolo è il reale, ma il reale è l’antagonismo. È per questo che la passione del secolo, si tratti degli imperi, delle rivoluzioni, delle arti, delle scienze o della vita privata, non è altro che la guerra». Se questo è vero, «ne risulta che il nostro secolo, agitato dalla passione del reale, è stato in tutti i modi possibili, e non solo in politica, il secolo della distruzione».

La tesi di Badiou, sotto questo aspetto, è molto convincente: il Novecento è il laboratorio di una Grande Politica su scala planetaria, che persegue l’esperimento di “creare” politicamente l’uomo nuovo: «il secolo è stato ossessionato dall’idea di cambiare l’uomo, di creare un uomo nuovo. […] Questa idea serpeggia tra i fascismi e i comunismi. […] Creare un uomo nuovo comporta sempre l’obbligo di distruggere quello antico»8 . Tanto il nazismo che il comunismo, pur con le loro non irrilevanti differenze ideologiche, nutrono la medesima aspirazione a forgiare il Superuomo ed è per questo che ingaggiano una lotta all’ultimo sangue, per rivendicare la superiorità del proprio modello di umanità ed imporlo su scala planetaria. «Il secolo – conclude Badiou – è stato fedele alle proprie promesse. Ferocemente fedele»9 . Di qui l’orrore, ma anche la fascinazione, che ispira il Novecento, da parte a parte e da entrambe le parti – destra e sinistra –, attraversato com’è dalla medesima «passione del reale». Tale orrore, tuttavia, non si attenua se, come ancora con acutezza sostiene Badiou, tramontato il progetto politico di trasformazione radicale dell’uomo, quest’ultima viene perseguita, con risvolti non meno inquietanti, dalla scienza-tecnica, indossando la rassicurante maschera economica dell’ideologia neoliberale, attraverso l’offerta di infinite possibilità di cambiamento. Per altri versi, attraverso la sua “oscena” spettacolarizzazione, questo orrore ormai dilaga, con il crudele godimento che lo accompagna: «Com’è noto fin dai tempi del Basso Impero, quando il godimento è ciò che ogni vita vorrebbe assicurarsi e che si pone come imperativo, ciò di cui si finisce inevitabilmente per godere è l’atrocità. È giunta l’era dell’oscenità generale, dei gladiatori, dei supplizi in tempo reale, che ci farà rimpiangere perfino le carneficine politiche del secolo defunto»10 . Il reale si offre ormai in “presa diretta”, si fa spettacolo, inducendo una «passione del reale» a buon mercato, plasmando lo stesso immaginario collettivo, infiammandolo o anestetizzandolo: in ogni caso con esiti nefasti.

Ma su quale terreno, nel Secolo, si è giocata questa lotta senza quartiere, questa guerra assoluta e, ogni volta, finale, definitiva, per la creazione dell’uomo nuovo? Qual è stata la posta in gioco del Secolo, come già Nietzsche aveva colto con straordinaria preveggenza?

La principale questione ontologica del XX secolo ai suoi inizi è: che cos’è la vita? […] Che cos’è la vera vita? Che cosa significa vivere veramente, vivere una vita adeguata all’intensità organica del vivere? Questa domanda attraversa il secolo in relazione alla questione dell’uomo nuovo, di cui il Superuomo di Nietzsche è un’anticipazione. Il pensiero della vita interroga la forza del voler-vivere. Che cosa significa vivere secondo un voler-vivere?11

E – potremmo aggiungere – che cosa significa voler-vivere, quando la vita è identificata nella volontà di potenza? «Nietzsche risulta profetico, con la sua “volontà di potenza”»12 , osserva giustamente Badiou, e per questo «il secolo è stato nietzscheano»13 .

Non dobbiamo sorprenderci per questo singolare paradosso: il Secolo che vuole affermare a oltranza la vita, che persegue la massima intensità della vita, che ingaggia una guerra senza fine per la vita, ovunque semina morte, ovunque offre lo spettacolo crudele e seducente – come una festa14 – del grande macello, dello scannatoio, di una carneficina che campeggia in primo piano sulla scena del primo Novecento. Tale paradosso non è il risultato di un pervertimento o di un’eterogenesi dei fini; è solo il rovescio fatale di una stessa medaglia, di una vita che, aspirando al massimo grado di intensità, deve spingersi sempre oltre se stessa, fino alla fine, fino a “rovesciarsi” necessariamente nel suo (apparente) contrario: la morte. Badiou ha senz’altro ragione di riconoscere nella vita la questione ontologica fondamentale del Secolo, lasciata in eredità da Nietzsche. Sono infatti domande nietzscheane quelle con le quali Badiou interroga il Secolo, prima tra tutte questa, fondamentale: «il secolo è quello dell’animale umano in quanto essere parziale trasceso dalla Vita. Che animale è l’uomo?»15 . La conseguenza politica dell’aver posto ontologicamente in questi termini la questione è «la necessità del terrore. Dietro a tutto ciò giace la questione del rapporto tra vita e terrore. Il secolo ha sopportato senza tremare il fatto che la vita possa compiere il proprio destino positivo solo per mezzo del terrore. Da cui una sorta di reversibilità tra la vita e la morte, come se la morte non fosse che il veicolo della vita»16 .

La posta in gioco del Novecento, quella che lo caratterizza attraverso la guerra e la «passione del reale», è l’affermazione di una politica della vita17 , il tentativo di rispondere alla domanda che Nietzsche, più radicalmente e prima di ogni altro, aveva lasciato inevasa sulla soglia del Secolo: che tipo di animale è l’uomo? che cosa può diventare, se non rinnega la vita e la sua potenza? Solo assumendo la potenza della vita come soggetto e oggetto del proprio compito, la politica sarà stata all’altezza del Secolo. E ciò – Badiou ne è consapevole – comporta necessariamente il terrore. Tuttavia, la parola terrore non è forse la più appropriata per una politica della vita, per una politica mossa dalla «passione del reale». Il Terrore appartiene piuttosto al passato, è il sigillo finale della rivoluzione del 1789, annegata in un bagno di sangue, benché il suo scopo non fosse così ambizioso come quello di creare l’uomo nuovo. Assumere ontologicamente la vita come proprio presupposto – come è accaduto nel Novecento – si risolverà, politicamente, piuttosto, nella necessità dell’orrore. Il terrore è infatti inadeguato a descrivere l’esito fatale di una politica della vita, è una paura parossistica di qualcosa; das Ding, invece, non va in alcun modo confuso con die Sache: il reale non è una “cosa”, nulla che sia presente, presentabile o rappresentabile; per questo sfugge anche ad ogni possibile discorso o simbolizzazione. Il reale si accompagna sempre all’orrore e designa ciò che, nella realtà, vi è di intollerabile, di inaccettabile, dunque di impresentabile e persino, in ultima istanza, di impensabile o dicibile. Più che terrore, suscita orrore, repulsione, raccapriccio, disgusto, non privi di una certa attrazione. La Cosa è immonda, colpisce dritto allo stomaco, pur passando dagli occhi; fa, letteralmente, vomitare, tanto forte è la reazione di rigetto, di rifiuto. Ma, altrettanto irresistibile è la sua forza di attrazione: solo la Cosa promette un godimento senza limiti, celando tuttavia che questa massima intensità della vita proviene dalla morte e ad essa deve obbedire.

Ciò traspare anche da quanto Badiou ci ha appena detto, là dove registrava «una sorta di reversibilità tra la vita e la morte, come se la morte non fosse che il veicolo della vita»18 . Quasi di sfuggita, è qui colto l’intreccio essenziale che lega indissolubilmente la vita alla morte e come l’una si rovesci fatalmente nell’altra, come l’una trascini con sé anche l’altra, sicché non solo la morte non è il semplice opposto della vita, ma ne è il veicolo, così come la vita, l’affermazione intensiva e assoluta della vita, diventa veicolo di una morte che ovunque dispiega la propria potenza distruttrice. L’una “viaggia” sempre insieme con l’altra, si supportano a vicenda, alimentandosi l’una dell’altra.

È quanto Freud, proprio sull’onda della Grande Guerra, aveva infine, non senza tenaci resistenze, dovuto ammettere in Al di là del principio di piacere.

 

2. Denegare la morte

Allo scoppio della Grande Guerra tantissimi giovani, tra i quali anche Ernst Jünger, ma pure l’insospettabile Franz Rosenzweig19 , si arruolarono volontari per andare a combattere al fronte, attratti dall’irresistibile richiamo della guerra. La stragrande maggioranza dei civilissimi cittadini europei di ogni ceto sociale – e tra loro spiccavano intellettuali, artisti, illustri uomini di cultura – aderirono con slancio alle «idee del 1914»20 , se ne lasciarono contagiare e con entusiasmo si precipitarono al fronte, come si trattasse di un invito a nozze. L’irrompere della guerra fu in grado di provocare una “mobilitazione totale”21 di energie vitali quale mai in precedenza era accaduto. Il suo annuncio di morte, almeno nella fase iniziale, fu avvertito piuttosto come la promessa di una possibile palingenesi collettiva; il bagno di sangue, quasi un battesimo e un indispensabile abbeveratoio per popoli assetati di nuova linfa vitale rigeneratrice, fino all’ebbrezza.

A questo entusiasmo, almeno inizialmente, non riuscì a sottrarsi neppure il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud22 , che, in una lettera a Ferenczi del 23 agosto 1914, scriveva: «Tutta la mia libido si riversa sugli austro-ungarici»23 . Circa un mese prima, il 28 luglio 1914, aveva scritto ad Abraham che, per la prima volta, dopo trent’anni, si sentiva austriaco. Colti da un medesimo entusiasmo nazionalistico, i suoi due figli, Martin ed Ernst, si arruolarono volontari. Freud, il disincantato “maestro del sospetto”, nella primissima fase della guerra si abbandona al delirio di massa collettivo, che inneggia alla guerra, e sembra condividere molti luoghi comuni di quella Kriegsideologie che sta ottenebrando anche le menti più lucide d’Europa. Ma l’entusiasmo dura solo pochi mesi. Anche Freud, incredibilmente, come la maggior parte dei suoi contemporanei, aveva immaginato una rapida conclusione del conflitto e quando, sul finire del 1914, si rende conto che invece la guerra d’assalto lascia il posto alla guerra di posizione e di trincea, ad una guerra che si preannuncia lunga e cruenta, cambia umore e dall’euforia precipita nello scoramento, come testimonia una lettera del 28 dicembre 1914 all’amico psichiatra olandese Frederik van Eeden, nella quale fanno la loro prima apparizione molti dei motivi che confluiranno nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte24 , pubblicate pochi mesi dopo. Freud si lascia andare all’amara constatazione che«gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi, ma continuano a vivere, seppure rimossi, nell’inconscio di ogni singolo individuo […], aspettando l’occasione di potersi riattivare»25 . Esprime la propria disillusione rispetto all’eccessiva fiducia riposta nella ragione: «il nostro intelletto è qualcosa di fragile e dipendente, gingillo e strumento delle nostre pulsioni e dei nostri affetti, […] siamo costretti ad agire ora con intelligenza ora con stoltezza a seconda del volere dei nostri intimi atteggiamenti e delle nostre intime resistenze»26 . A queste conclusioni Freud confessa di essere pervenuto proprio a partire da quanto la guerra sta finalmente svelando ai suoi occhi: «Ebbene, guardi cosa sta accadendo in questa guerra, guardi le crudeltà e le ingiustizie di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede con cui si atteggiano di fronte alle proprie menzogne e iniquità a petto di quelle dei nemici; e guardi infine come tutti hanno perso la capacità di giudicare con rettitudine»27 .

Passato l’entusiasmo della prima ora, Freud ha con tutta evidenza riacquistato la sua consueta lucidità ed il bagno di sangue che si sta svolgendo sotto i suoi occhi gli appare adesso come l’irrefrenabile scatenarsi di pulsioni che nessuna ragione è stata in grado di dominare. Ma proprio questa débâcle lo spinge a interrogare più a fondo, attraverso gli strumenti della psicoanalisi, quanto alla razionalità classica sembra sfuggire, quanto essa non riesce a spiegare. Alla psicoanalisi Freud affida ora sempre di più il compito di essere analisi non solo della psiche individuale e delle sue patologie, ma anche dei fenomeni sociali e collettivi, allargando la sua visuale fino a comprendere che l’intera civiltà occidentale deve essere chiamata a rispondere della guerra, prima ancora che sul banco degli imputati di fronte a una corte di giustizia o di fronte alla propria coscienza morale, sul lettino dell’analista che ne sa interpretare le dinamiche inconsce.

Da queste esigenze improrogabili prende inizio una stagione di intensissimo lavoro: in primavera vedono la luce un impressionante numero di saggi, tra i quali alcuni, purtroppo, andati perduti. Soprattutto, per quel che più direttamente ci interessa, Freud scrive e pubblica nel 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. Ma questo testo è solo l’inizio di quel terremoto con il quale la Grande Guerra scuote la teoria psicoanalitica, costringendo Freud, proprio in quegli anni, ad una profonda revisione di tutto l’impianto teorico fino a quel momento elaborato, che lo porterà, nel 1920, in seguito all’analisi delle nevrosi traumatiche di guerra, alla scoperta della pulsione di morte nel celebre testo dal titolo Al di là del principio di piacere28 . Ciò che la guerra ha rivelato sotto la lente della psicoanalisi si riverbera anche in uno scritto dell’anno successivo, Psicologia delle masse e analisi dell’io29 , soprattutto là dove Freud si sofferma ad analizzare la pulsione gregaria, ed in modo ancor più significativo ne Il disagio della civiltà30 , un testo che, per molti aspetti, “completa” e approfondisce le analisi svolte nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. L’ultima parola sulla guerra, in dialogo con Einstein (Perché la guerra?31 ), sarà infine pronunciata da Freud nel 1932, sul bordo di una guerra e di un abisso ancor più spaventosi di quelli che si era lasciato alle spalle.

Non è nostra intenzione ricostruire passo dopo passo nei dettagli il percorso che abbiamo delineato e che, a partire dal 1915, conduce Freud ad individuare in una invincibile pulsione di morte (Todestrieb) l’origine dell’aggressività umana. Quello che è importante sottolineare, è che, innescata dallo scoppio della Prima guerra mondiale, si avvia una riflessione sullo statuto della guerra, sulle sue motivazioni inconsce, che porterà Freud alla scoperta del ruolo fondamentale delle pulsioni di aggressività (Aggressionstrieb) e di distruzione (Destruktionstrieb), che adesso balzano in primo piano.

Di fronte a quella «passione del reale», in nome della quale i giovani si precipitano esultanti nella guerra come pecore al macello, di fronte all’orrore di una carneficina di massa, la psicoanalisi non ammutolisce, non si arrende al cospetto dell’insensato, ma cerca nuove parole, nuove chiavi ermeneutiche per tentare, nonostante tutto, di comprendere da dove scaturisce, da dove trae energia quello slancio vitale che spinge tante esistenze a votarsi alla morte, a darla, come a riceverla. Per capire come, in nome della vita, si possa affermare la morte.

Occorrerà dunque prendere le mosse proprio dalle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, testo che vede la luce nellaprimavera del 1915, scritto, dunque, mentre la guerra è ancora in corso. Esso si apre con la confessione di una delusione:

La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, e ci ha portato… la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, e ciò a causa dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che è stato chiamato il diritto delle genti, disconosce le prerogative del ferito e del medico, non fa distinzione fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca.32

Com’è possibile che questa guerra, il cui inedito carattere tecnico e “totale” non sfugge a Freud, abbia d’un sol colpo distrutto quanto di più elevato, raffinato e nobile vi era nella cultura europea, tanto da precipitarla in una nuova barbarie? Da dove proviene questa «rabbia cieca» che, con straordinaria potenza distruttiva, abbatte ogni ostacolo si frapponga alla sua irrefrenabile esplosione? Da dove trae la sua straordinaria energia?

Gli Stati nazionali, del resto, non mostrano di essere migliori dei singoli individui, in preda anch’essi ad una indomita volontà di potenza, che li porta a scontrarsi, senza esclusione di colpi, gli uni contro gli altri. Tutti i vincoli sociali, morali e religiosi si sono non solo allentati, ma sembrano letteralmente spazzati via, come d’un colpo, travolti dal fiume in piena della guerra. Alla luce degli eventi bellici, Freud confessa la propria delusione, ammette d’aver coltivato una vana illusione della quale occorre liberarsi33 , poiché essa, stendendo un velo, rende ciechi e non consente di comprendere davvero quanto sta accadendo. Maestro del disincanto e del sospetto, Freud preferisce guardare in faccia la crudele realtà della guerra, senza ritrarsi di fronte al reale che essa svela. Anche lui si pone la domanda del Secolo: chi è quel funambolo che, avventurandosi sulla corda tesa tra la bestia e il superuomo, la guerra sta trasformando in “materiale umano” e carne da macello? Da dove ritorna questa nuova barbarie?

Il fatto è che, secondo Freud, le conquiste della civiltà sono costruzioni fragili, sono piante dalle radici poco profonde, pronte a sradicarsi al primo soffio di vento. Frutto di una millenaria evoluzione, l’uomo pensa d’aver raggiunto chissà quali traguardi, ritiene di essersi elevato fino a toccare il cielo, ed invece continua a covare dentro di sé quegli impulsi primitivi dai quali riteneva d’essersi liberato una volta per tutte nel lungo e faticoso cammino della sua “umanizzazione”. Nessun processo di civilizzazione è in grado di cancellare questo “passato” che determina le sue dinamiche pulsionali più profonde, le quali dunque possono riaffiorare in qualunque momento, facendo irruzione, incontrollabili, nel bel mezzo di una civiltà, come quella europea del primo Novecento, esemplare per la raffinatezza della sua cultura e per le sue straordinarie conquiste morali e politiche. Anzi, tanto più incontrollabili possono esplodere aggressività e distruttività, quanto più la civiltà è il risultato di una lunga, dolorosa repressione di queste primordiali pulsioni. Quando non si riesce a deviarli o a sublimarli, i moti pulsionali aggressivi e distruttivi erompono all’esterno con la forza travolgente di una valanga. Come la Grande Guerra esemplarmente dimostra.

Anche Nietzsche, prima di Freud, prima che il Novecento ne offrisse eclatante conferma, benché da una prospettiva opposta, era giunto genealogicamente ad una diagnosi non molto diversa. Se per Freud «la civiltà si è costituita mediante la rinuncia al soddisfacimento pulsionale ed esige da ogni nuovo venuto questa medesima rinuncia»34 , anche Nietzsche constata come «il senso di ogni civiltà sia appunto quello di disciplinare con l’educazione la bestia da preda “uomo” così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico»35 . Tuttavia, al contrario di Freud, proprio questo processo di incivilimento rappresenta ai suoi occhi «la retrocessione dell’umanità»36 , in quanto segna la vittoria dell’«uomo mansuefatto», degli schiavi, dei deboli e dei malriusciti, del loro ressentiment contro i valori vitali e guerrieri della razza aristocratica. Per Nietzsche la civiltà è la storia di una malattia, di una «intossicazione»37 , è un declino e una degenerazione della primigenia forza vitale, un deragliamento di un’umanità malata e contro-natura, imputabile al pervertimento dei valori introdotti dal cristianesimo. Per Freud, invece, la domesticazione dell’uomo, l’addolcimento dei suoi costumi e dei suoi comportamenti, se da un lato non rappresentano una conquista definitiva (la Grande Guerra pone fine, anche per Freud, al mito di un progresso irreversibile), dall’altro tuttavia rimangono il compito ineludibile di una civiltà che deve in ogni modo trovare forme di resistenza contro una barbarie sempre minacciante e risorgente, perché la “regressione” è sempre incombente: «Anche la trasformazione pulsionale, su cui poggia la nostra attitudine alla civiltà, può essere soggetta, transitoriamente o durevolmente, a un processo involutivo»38 . La razionalità classica rappresenta – come lo scoppio della Grande Guerra ha dimostrato – un baluardo davvero precario: «L’annebbiamento delle facoltà intellettuali che questa guerra ha spesso provocato proprio nei migliori dei nostri concittadini del mondo»39 – e Freud sta parlando anche di se stesso – è l’eloquente attestazione che ciò che le ha fatte soccombere si sprigiona da una forza ben più potente e tenace, oltreché più arcaica. Per resisterle adeguatamente sarà innanzitutto necessario stanarla negli angoli più bui dell’inconscio in cui si nasconde, riconoscerla, darle un nome, comprenderne il subdolo modo d’agire.

Ma ancora un’altra importante lezione Freud trae dalla Prima guerra mondiale: essa ci impone di pensare alla morte, impedendoci ogni facile scappatoia. Confrontandosi con i modi “arcaici” di rapportarsi alla morte, Freud riconosce che la naturale tendenza a denegarla dipende dal fatto che «è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte»40 . La propria morte è irrappresentabile. Alla nostra morte non riusciamo a credere – afferma Freud – benché sia la cosa più evidente e più ineluttabile, benché la guerra ci costringa a fare i conti con una morte che miete ogni giorno innumerevoli vittime, imponendoci di confrontarci con questo reale “impossibile”. Come l’uomo delle origini, «il nostro inconscio non crede […] alla propria morte, si comporta come fosse immortale»41 . Così come non conosce la negazione42 , l’inconscio non conosce nulla di negativo, tanto meno la propria morte, che è la negazione assoluta. Bisogna dunque constatare che «la credenza nella morte non trova in noi alcuna rispondenza pulsionale»43 . Ciò consente a Freud una lettura dell’eroismo a dir poco “provocatoria”, se messa a confronto con la retorica degli anni di guerra: «il segreto dell’eroismo»44 , un segreto inconfessabile, consisterebbe nel fatto che esso è, alla lettera, frutto di incoscienza, della denegazione della morte da parte dell’inconscio, più che adesione a nobili ideali. Il tanto decantato “sprezzo del pericolo” non sarebbe altro che l’espressione di una inconscia credenza nella propria invulnerabilità.

Benché sia cominciata da poco, la Grande Guerra offre dunque alla psicoanalisi notevoli spunti di riflessione, a partire dalla fragilità delle impalcature e delle sedimentazioni che sorreggono una civiltà, cui fa da contraltare la persistenza granitica di un inconscio che non si lascia minimante scalfire. Le sue dinamiche ripetono, regressivamente, quelle dell’uomo primitivo: la negazione della propria morte, una certa reazione giubilatoria nell’uccisione del nemico, una certa assuefazione alla perdita di persone care. Ma proprio perché le cause profonde della guerra mettono in gioco pulsioni e processi primari dell’inconscio, secondo Freud irrealistica appare la prospettiva di poterla sopprimere una volta per tutte. Suonano dunque abbastanza sconsolate le conclusioni del saggio – e questo disincanto accompagnerà Freud, come vedremo, fino all’ultimo –, anche se lasciano già intravedere gli sviluppi successivi della sua riflessione: se è inestirpabile la radice profonda che provoca la guerra, se dunque l’idea di una pace perpetua è destinata a scontrarsi con perduranti dinamiche inconsce che spingono in senso contrario, l’unico auspicio è quello di una maggior consapevolezza circa l’atteggiamento che il nostro inconscio intrattiene con la nostra propria morte, sforzandosi di non denegarla: «si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte»45 .

 

3. La vita la morte

Freud ha dunque scoperto nel 1915, attraverso la guerra, l’immane potenza delle forze distruttive che, dall’inconscio, erompono senza più freno all’esterno.

Nel 1920, cinque anni dopo, sarà costretto, per spiegare la coazione a ripetere dei sogni traumatici di guerra, ma anche per dar conto dell’origine di queste forze distruttive che la Grande Guerra ha messo in campo, a individuare un’altra pulsione, oltre a quella di vita, una pulsione rimasta alla psicoanalisi a lungo nascosta, proprio perché agisce nell’ombra46 , cui Freud dà il nome di pulsione di morte47 . Essa rappresenta quella tendenza fondamentale, che è propria di ogni organismo vivente, a ritornare allo stato inorganico, e la spinta, che è propria di ogni pulsione, a ripristinare uno stato precedente. Senza qui poterci addentrare nei singoli passaggi, spesso tortuosi, attraverso i quali Freud riesce a stanarla, quel che più ci interessa mettere in luce, per ricollegarci alle questioni da cui abbiamo preso le mosse, è che, in questo testo così complesso, costruito attraverso tanti sentieri interrotti, l’ipotesi dell’esistenza della pulsione di morte non solo è in grado di dar conto della coazione a ripetere, ma comporta anche, secondo Freud, l’ammissione di un masochismo primario e originario48 , di cui il sadismo rappresenterebbe una estroflessione secondaria. La pulsione di morte non è ancora espressamente collegata alla pulsione di aggressività e di distruzione, come Freud farà in seguito, ma si può già facilmente intuire la necessità di istituire questa stretta relazione.

Un altro aspetto degno di nota è che, proprio per il suo presentarsi quasi sempre intrecciata alla pulsione di conservazione della vita, la pulsione di morte non ne è semplicemente l’opposto, come una visione semplificata del dualismo pulsionale, talvolta avvalorata dallo stesso Freud, potrebbe indurre a ritenere. Se la vita non è altro che una deviazione momentanea di quel cammino che dalla morte riconduce alla morte, allora la vita non è semplicemente l’opposto della morte, ma l’una circola senza posa nell’altra, l’una è contaminata in ogni istante dall’altra. Come ha osservato Derrida: «questa morte s’inscrive come una legge interna e non come un accidente della vita»49 , la quale è, semmai, la differenza interna alla e della morte, solo una morte differita. Per questo il rapporto tra vita e morte non può essere ridotto ad una pura e semplice relazione binaria di opposizione. Come lo stesso Freud è costretto ad ammettere, le pulsioni conservatrici, il cui compito è quello di salvaguardare la vita, sono al tempo stesso, le sentinelle della morte50 ; il che significa che «ciò che conserva la vita resta nella sfera di ciò che riserba la morte»51 .

Per quanto l’individuazione di una pulsione di morte ebbe a incontrare non poche resistenze nell’ambiente psicoanalitico – e molte ne continui a trovare ancora oggi – Freud, a partire dal 1920, vi farà costante riferimento anche negli scritti successivi, confermando e chiarendo in Il problema economico del masochismo non solo la priorità di un masochismo originario nella dinamica sado-masochistica, ma mostrando soprattutto come la pulsione di aggressività e la pulsione di distruzione trovino nella pulsione di morte la loro origine. Esse sono il risultato di una estroflessione di una parte della pulsione di morte, la quale, peraltro, se non trovasse alcun varco all’esterno, sarebbe destinata a compiere all’interno la sua opera di auto-distruzione:

Nell’essere vivente (pluricellulare) la libido si imbatte nella pulsione di morte o di distruzione, che domina quest’organismo cellulare e cerca di disintegrarlo portando tutti i singoli organismi unicellulari [che lo compongono] allo stato della stabilità inorganica […]. La libido ha il compito di mettere questa pulsione distruttiva nell’impossibilità di nuocere, e assolve questo compito dirottando gran parte della pulsione distruttiva verso l’esterno contro gli oggetti del mondo esterno […]. La pulsione prende allora il nome di pulsione di distruzione, di pulsione di appropriazione, di volontà di potenza. Una parte di questa pulsione è messa direttamente al servizio della funzione sessuale nel cui ambito ha un ruolo importante da svolgere. È questo il vero e proprio sadismo. Un’altra parte, invece, non viene estroflessa, permane nell’organismo, e con l’aiuto dell’eccitamento sessuale concomitante […] viene libidicamente legata. In questa parte dobbiamo riconoscere il masochismo originario, erogeno.52

Non possiamo seguire passo dopo passo i nuovi sviluppi che la scoperta della pulsione di morte produrrà nella teoria freudiana. Una tappa importante, per quanto riguarda il tema della guerra e, più in generale, dell’aggressività umana, è costituita dal saggio del 1929, Il disagio della civiltà, in cui Freud svilupperà il tema, già adombrato nel testo del 1915, del fragile equilibro, sul quale si regge ogni civiltà (Kultur), tra spinte individuali e collettive, tra richiesta di libertà ed esigenza di ordine; esso richiede necessariamente una certa “repressone” dei moti pulsionali, così come, del resto, accade per ciascun individuo, il cui equilibrio psichico dipende sempre da una certa «rinuncia pulsionale». Se non trova compensazioni adeguate, essa genera conflitto, sia sul piano individuale intrapsichico, che collettivo, fino ad essere responsabile di conflitti particolarmente cruenti e devastanti come le guerre. La via della repressione è dunque assai rischiosa e non può imporre il superamento di una certa soglia. Per evitare che essa alimenti l’aggressività rivolta all’esterno o all’interno, vengono in soccorso diverse strategie, come la sublimazione o la possibilità di “deviare” rispetto alla meta oggettuale originaria, che assicurano comunque una qualche “compensazione” alla frustrazione. Quel che è più interessante rilevare, al nostro scopo, senza poterci addentrare nelle innumerevoli questioni affrontate da Freud in questo saggio, è la focalizzazione del fenomeno dell’aggressività umana. Con il consueto disincanto, egli osserva quanto il precetto morale, che comanda di amare il prossimo, contrasti con la naturale indole dell’uomo, il cui corredo pulsionale, viceversa, attesta una notevole dose di aggressività, tanto da corroborare l’adagio homo homini lupus. Freud menziona una «crudele aggressività»53 , che può scatenarsi spontaneamente, anche a prescindere da una reale provocazione, e che «rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie»54 . Di qui proviene la costante minaccia alla convivenza pacifica tra gli uomini e la necessità di doverla in qualche modo arginare:

L’esistenza di questa tendenza all’aggressione, che possiamo scoprire in noi stessi e giustamente supporre negli altri, è il fattore che turba i nostri rapporti col prossimo e obbliga la civiltà a un grande dispendio di energie. Per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società civile è continuamente minacciata di distruzione. […] La civiltà deve far di tutto per porre limiti alle pulsioni aggressive dell’uomo, per rintuzzarne la vivacità mediante formazioni psichiche reattive.55

Sono passati poco più di dieci anni dalla fine del primo conflitto mondiale quando Freud lancia questo appello e il clima che si respira in Europa sembra tutt’altro che pacificato. Ciò che nel frattempo è accaduto ha scosso profondamente la teoria psicoanalitica freudiana, tanto da costringerla a riconoscere una pulsione di morte che, se scarica all’esterno, si traduce in una pulsione di aggressività cui è necessario in ogni modo porre riparo, se si vuole evitare che nuove ondate di barbarie si abbattano nel cuore dell’Europa, mettendone a repentaglio la millenaria civiltà. Quanto vano risulti il suo appello, si incaricheranno di mostrarlo gli anni successivi, in cui Freud sarà costretto persino all’esilio per scampare allo Sterminio.

Ne Il disagio della civiltà, come abbiamo visto, Freud lega le pulsioni aggressive alla pulsione di morte, menzionando esplicitamente la svolta teorica impressa da Al di là del principio di piacere, e ricordando come, in base all’analisi svolta in quel saggio, fosse giunto alla conclusione che, «oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste, dovesse esistere un’altra pulsione ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primordiale inorganico. Dunque, oltre a Eros, una pulsione di morte; la loro azione comune o contrastante avrebbe permesso di spiegare i fenomeni della vita»56 .

Benché la pulsione di morte, al contrario di quella erotica, sia sfuggente57 , operando in silenzio e nascostamente, tuttavia, quando una parte di essa viene rivolta all’esterno, le sue manifestazioni divengono evidenti, trasformandosi in «pulsione all’aggressione e alla distruzione»58 . Ma Freud non manca di segnalare anche il fondamentale ruolo (positivo) che, paradossalmente, è affidato alla pulsione di morte, preposta a difendere e proteggere la vita (propria), da tutto ciò che, dall’esterno, la minaccia. Mettendosi al servizio della conservazione della vita, la pulsione di morte, infatti, scaricandosi all’esterno, preserva la vita (di sé), proprio dando la morte all’altro. D’altra parte, un’eccessiva limitazione dell’aggressività rivolta all’esterno, non può non provocare una spinta ulteriore all’autodistruzione. A partire da questa intricata dinamica pulsione, Freud lascia intravedere come, in realtà, il rapporto tra Eros e Thanatos sia ben più complesso di un rapporto di semplice opposizione tra due pulsioni, dal momento che esse si presentano spesso alleate e complici, mettendosi addirittura l’una al servizio dell’altra. Non si tratta, dunque, di un mero contrasto da due istanze che si contrappongono: è la vita stessa che, per conservarsi, deve dare/darsi la morte, deve trovare un difficile equilibrio nel rivolgere all’esterno una parte di quella aggressività che, permanendo tutta solo all’interno, la minaccerebbe di autodistruzione.

Resta, tuttavia, altrettanto vero che, quando è la pulsione di morte a mettere al proprio servizio quella di vita, l’eccesso di difesa della vita, l’affermazione assoluta della (propria) vita prenderà le forme, all’esterno, di un impulso di distruzione senza limite, di un’aggressività irrefrenabile. Affermare senza limiti la vita (di sé) equivale perciò ad un’affermazione senza limiti della morte (dell’altro), la quale non può non condurre, in ultima istanza, che a una ritorsione contro di sé, ad un’auto‑minaccia. Come vedremo meglio in seguito, preferire di rivolgere su di sé, piuttosto che sull’altro, almeno una parte della pulsione di morte, autolimitando la propria aggressività rivolta all’esterno, è senz’altro il migliore espediente non solo per salvaguardare la conservazione della vita degli altri, ma anche la propria, favorendo relazioni non ostili di coesistenza.

Freud non affronta fino in fondo l’intricato scambio di ruoli e di scettro tra queste fondamentali pulsioni e, pur mostrandone la costante commistione, talvolta, quasi smentendo se stesso, tende comunque – come abbiamo visto – a separarle, a distinguerle. Al di là di sadismo e masochismo, che attengono a forme erotizzate di aggressività, la scoperta della pulsione di morte impone di riconoscere «la presenza ubiquitaria dell’impulso aggressivo e distruttivo non erotico»59 , generato dalla pulsione di morte, che si accompagna alla crudeltà e – Freud lo constata di sfuggita – ad un intenso piacere: «anche nel più cieco furore distruttivo non si può misconoscere che al soddisfacimento della pulsione di morte si riallaccia un godimento narcisistico elevatissimo, poiché essa offre all’Io l’appagamento dei suoi antichi desideri di onnipotenza»60 .

Risulta adesso forse più comprensibile quanto nel saggio del 1915 appariva ancora nebuloso. La Grande Guerra, con i suoi massacri e le sue crudeltà, ha esercitato una potenza d’attrazione fatale poiché in essa ha trovato libero sfogo quella pulsione di morte, quell’aggressività e quella pulsione di distruzione, il cui soddisfacimento procura un inconfessabile godimento, legato all’inconscia negazione della morte che ci fa ritenere immortali e onnipotenti. Questo godimento scaturisce dal non trovar più ostacolo o limitazione all’affermazione di sé (perciò è detto da Freud “narcisistico”), alla propria pulsione di potere e padronanza; ma ciò che lo rende particolarmente insidioso è che, proprio in quanto godimento, da esso si trae un piacere assoluto e senza limiti, che sembra potenziare la vita, là dove, invece, è la morte a dispiegare la sua immane potenza di slegamento e di distruzione.

Come abbiamo visto, la «passione del reale» che caratterizza il Novecento, poiché aspira a un godimento assoluto, ovunque diffonde la morte e mette in scena l’orrore nel suo teatro di crudeltà. Ora appare finalmente chiaro, agli occhi di Freud, il conflitto insanabile da cui ogni civiltà – come ogni individuo – è attraversato: quello tra le forze di Eros, che tendono a tessere e a mantenere i legami, e quelle che, alimentate da Thanatos, slegano, sciolgono ogni vincolo e provocano distruzione. Questa lotta, da cui la vita di ogni vivente è lacerata, affinché diventi una lotta per la vita e non per la morte, si deve tradurre in una lotta per la civiltà contro la barbarie, in una lotta per la convivenza il più possibile pacifica tra gli uomini. Lungi dall’esaltare la «passione del reale» di cui il Secolo ha dato prova, Freud riconosce in essa una letale fascinazione che fa precipitare nel baratro: una passione che, perseguendo la pienezza traboccante della vita, ovunque fa opera di morte; in ultima istanza una passione per la morte che, se promette il godimento assoluto, d’altro canto lo attinge al prezzo della vita stessa, degli altri, come di sé.

Freud comunque ribadisce come «la tendenza aggressiva sia nell’uomo una disposizione pulsionale originaria e indipendente»61 . Se la pulsione di morte non può dunque essere sradicata, in quanto primaria, tuttavia si possono combattere i suoi effetti secondari – aggressività e distruzione – che si producono quando essa si riversa eccessivamente all’esterno, inducendo il movimento contrario, ossia attraverso una introiezione: «l’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta contro il proprio Io»62 . Questa dolorosa ferita narcisistica, che lacera l’Io, segna l’atto di nascita della coscienza morale e del senso di colpa, che divide l’Io da se stesso, che lo mette contro se stesso, con la stessa crudele aggressività che prima veniva rivolta all’esterno, attraverso l’istanza del Super-Io, voce della coscienza che richiama costantemente l’Io ad auto-limitare la sua sfera pulsionale. Ciò che è interessante sottolineare, in questa “genealogia della morale” freudiana, è come, per Freud, l’unico antidoto all’eccesso di violenza che si esprime all’esterno sia quello di rivolgerla contro di sé, al fine di contrastare quel delirio di onnipotenza narcisistica alimentato dal disconoscimento – proprio dell’inconscio – del nostro essere finiti, limitati, vulnerabili e mortali. Solo il senso di colpa – quando non risulti eccessivamente persecutorio – è in grado di svolgere questo salutare ridimensionamento delle pretese di un Io che si crede onnipotente.

Interrompiamo qui la nostra lettura de Il disagio della civiltà, nella consapevolezza d’aver trascurato molti aspetti importanti, per concludere il nostro rapido excursus con Perché la guerra?, il breve, ma intenso dialogo sulla guerra tra Einstein e Freud del 1932. Sorvoleremo sulla lettera di Einstein a Freud, non perché essa non ponga sul tappeto gli stessi quesiti sui quali, in quegli anni, anche Freud si interrogava, quanto perché ci preme di più, in questo contesto, verificare come, anche in quest’ultima circostanza, Freud ribadisca come un dato ormai acquisito l’esistenza di una pulsione di morte, che sarebbe all’origine dell’aggressività umana e dunque anche delle guerre. Sollecitato dagli interrogativi di Einstein, circa lo «smodato desiderio di potere politico»63 , insofferente di ogni limitazione, e la facilità con cui le masse si lasciano infiammare all’odio e alla guerra, di fronte alla domanda cruciale se «c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra»64 , Freud risponde ribadendo la necessità di una costante trasformazione pacifica del diritto in seno alle comunità, al fine di evitare crescenti disuguaglianze, fonte di ulteriori violenze e conflitti. Sul piano internazionale auspica poi il rafforzamento di istituti come la Società delle Nazioni, la quale è tuttavia condannata all’impotenza e dunque impedita di svolgere il suo fondamentale ruolo nella risoluzione dei conflitti – come ancora oggi accade con l’ONU – se non può disporre di una propria forza costrittiva. Ma ciò non basta. Freud ritiene indispensabile, sulla scorta delle ultime scoperte della psicoanalisi, che si comprendano meglio le dinamiche pulsionali che sono alla base dell’aggressività umana, per tentare di combatterle con maggiore efficacia. È perciò necessario fare i conti con quelle pulsioni di aggressione, di potere-padronanza-appropriazione o di distruzione che, a partire da Al di là del principio di piacere, possono essere riconosciute come manifestazione, all’esterno, di una più originaria e primaria pulsione di morte. Dopo aver ribadito l’inestricabile intreccio tra pulsione di vita e pulsione di morte, che le rende difficilmente isolabili e dunque spesso indiscernibili, e come entrambe concorrano alla conservazione della vita, Freud si sofferma ancora una volta sul «piacere di aggredire e distruggere»65 e sulla crudeltà che accompagna la pulsione di distruzione, la quale, alimentata dalla pulsione di morte, tende a ricondurre la vita allo stato inanimato. Ricordando quanto già aveva esposto ne Il disagio della civiltà, Freud sinteticamente illustra la possibilità di rivolgere all’esterno o all’interno questa pulsione, dando luogo al senso di colpa e alla nascita della coscienza morale, che rivelano, insieme alla necessaria protezione della vita da minacce esterne, come la pulsione di morte possa svolgere un ruolo anche positivo:

La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di determinati organi, si rivolge all’esterno contro gli oggetti. Per così dire, l’essere vivente intanto protegge la propria vita in quanto ne distrugge una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno.66

Freud insiste ancora una volta sui risvolti positivi della pulsione di morte, allorquando essa si mette al servizio della vita, mentre, quando prende il sopravvento sulla pulsione di vita, costringendola a porsi al suo servizio, si trasforma in una pulsione di distruzione che si scarica all’esterno, e in una pulsione di autodistruzione altrettanto crudele e senza scampo, quando si scarica all’interno.

L’intervento di Freud si conclude con la disincantata constatazione – già espressa negli altri scritti – che, attingendo la loro energia ad una pulsione primaria com’è quella di morte, «non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini»67 . Come già aveva suggerito ne Il disagio della civiltà,esse si possono tutt’al più deviare, rafforzando le forze antagoniste di Eros e moltiplicando gli sforzi per assoggettare la «vita pulsione alla dittatura della ragione»68 . Benché la guerra sia di per sé esecrabile – e Freud ricorda quanto disastrosi siano stati gli effetti della Grande Guerra – tuttavia bisogna riconoscere che essa risponde ad una pulsione fondamentale dell’uomo. Ciò, tuttavia, non esime il genere umano dall’impiegare ogni sforzo in quel processo di incivilimento il cui scopo principale consiste in «uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione dei moti pulsionali»69 . Per operare queste modificazioni psichiche Freud confida, come abbiamo visto, nelle risorse della ragione, di una ragione che, però, con l’avvento della psicoanalisi, non ha più alibi, dovendo confrontarsi con la scoperta dell’inconscio. Ma è necessario anche ricorrere all’«interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che da ciò conseguono»70 . Il cammino verso una convivenza pacifica tra gli uomini sarà ancora lungo e travagliato, fatto di progressi e regressioni, come emblematicamente la Grande Guerra ha mostrato. Nessuna postazione potrà dirsi conquistata una volta per tutte, e per questo è richiesta una costante vigilanza. L’unica stella polare che può guidare il nostro incerto cammino è quella che indica nella direzione di una convivenza pacifica tra gli uomini, nella consapevolezza che «tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra»71 .

«Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte»72 : suona così l’estremo monito, lanciato nei giorni incandescenti della Grande Guerra, che Freud ci ha lasciato in eredità e tutto ancora da pensare, non solo da realizzare. Se si vogliono evitare le più catastrofiche manifestazioni dell’aggressività umana quali sono le guerre, è necessario accettare la morte, non certo nel senso di rassegnarsi a queste inevitabili esplosioni di aggressività collettiva, ma nel senso, certo più difficile da praticare, di sopportare, di accogliere in sé, di ospitare la morte73 , che è il segno tangibile del nostro invalicabile limite. Se l’inconscio non conosce la morte e, per questo, si crede invulnerabile e onnipotente, l’Io deve invece riconoscere l’intollerabile verità di essere esposti al dolore, alla ferita, alla morte, ad una passività e ad una impotenza insuperabili. Con ciò la psicoanalisi freudiana si iscrive nel solco della millenaria riflessione filosofica sulla morte, inaugurata dal melete thanatou di Socrate, che giunge fino al Sein-zum-Tode di Heidegger e al mourir pour di Levinas, e di quella ricerca della verità dell’esistenza che l’accompagna.

Il Secolo non ha voluto udire l’appello di Freud, che ancora oggi è rimasto in gran parte inascoltato, se guerre e nuove forme di inaudita e crudele violenza dilagano sull’intero globo. Ospitare la morte – possibilità della fine di tutte le possibilità, possibilità della fine di ogni potere, possibilità dell’impossibile, del non potere, resa incondizionata che costringe a gettare le armi – è la più radicale contestazione (e limitazione) di ogni volontà (anche inconscia) di potenza, di ogni pulsione di aggressività e di distruzione, come di ogni pulsione di potere-appropriazione-dominio. Vuol dire riconoscersi vulnerabili, infinitamente distruttibili74 . Solo così, quando è zum Tode, un’esistenza può essere perla vita. Essere-per-la-vita significa, infatti, lasciarsi alle spalle il delirio di onnipotenza dell’infanzia, vuol dire non denegare la morte che ha già fissato con ciascuno il suo irrevocabile appuntamento, preferire di darsela, talvolta, la morte, di farsi soffrire,per evitare di darla all’altro.


Note con rimando automatico al testo
1 Per questo termine, che traduce il freudiano das Ding, si veda J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse (1959-1960), Paris, Seuil, 1986; trad. it. di M.D. Contri,Il seminario Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, a cura di G.B. Contri, Torino, Einaudi, 1994.Esso va messo in rapporto ad altre due fondamentali parole-chiave del vocabolario lacaniano: godimento (jouissance), come al di là del (principio di) piacere, e reale (differente dalla realtà), in quanto scarto irriducibile rispetto alla simbolizzazione e dunque al linguaggio.
2 A. Badiou, Le siècle, Paris, Seuil, 2005; trad. it. di V. Verdiani, Il secolo, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 46.
3 Da una prospettiva opposta a quella di Badiou, Adriana Cavarero ha parlato di “orrorismo” per descrivere l’eccesso di violenza esercitata su vittime indifese che connota il nostro tempo: A. Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007. Ci sembra un eloquente avvertimento che l’abisso spalancatosi con la Prima guerra mondiale non è per nulla alle nostre spalle, ma ci interpella sotto nuove forme.
4 A. Badiou, Il secolo, cit., p. 47.
5 Ivi, p. 49.
6 Ivi, p. 51.
7 Ivi, p. 70.
8 Ivi, p. 17.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 96. La «passione del reale», nel nostro tempo, non indossa più le maschere dei conflitti mondiali novecenteschi o i paraventi di ideologie totalitarie. Il reale si riversa direttamente sui nostri schermi televisivi ogni giorno, è “prodotto”, con effetti performativi, emulativi ed iper-realistici, per solleticare e soddisfare un voyeurismo che gode della spettacolarizzazione dell’orrore. Ne sono stati un esempio eclatante i video diffusi a scopo propagandistico-terroristico dall’ISIS, una sorta di osceno teatro della crudeltà che cerca di mettere in scena, di “rappresentare” il reale, ossia il puro orrore irrappresentabile. Ciò che, nel nostro tempo, viene sempre più prepotentemente sulla scena nella sua oscenità, anche in virtù di un’accresciuta potenza dei mezzi tele-visuali, è l’esibizione in presa diretta del reale stesso nella sua crudeltà senza fine, nel suo godimento senza limite.
11 Ivi, p. 25.
12 Ivi, p. 27.
13 Ivi, 160.
14 Nietzsche, ancor prima di Freud, non ha mancato di segnalare come il far-soffrire arrechi uno straordinario godimento; non vi è festa senza crudeltà, senza un inconfessabile godimento al cospetto di uno spettacolo cruento: «La crudeltà costituisce la grande gioia festiva della più antica umanità. […] Senza crudeltà non v’è festa». F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), inJenseits von Gut und Böse. Zur Genealogie der Moral (1886-1887), in Nietzsche Werke – Kritische Gesamtausgabe,Ab. 6, Bd. 2, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1968; trad. it. di F. Masini, Genealogia della morale, ed. dir. da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1984, pp. 54-55.
15 A. Badiou, Il secolo, cit., p. 26.
16 Ivi, p. 28(corsivo nostro).
17 Risulta, credo, abbastanza evidente come le questioni qui sollevate tentino, per quanto indirettamente e obliquamente, di confrontarsi con le diverse declinazioni oggi in voga della biopolitica e con i loro, talvolta impliciti, presupposti, ma soprattutto con il fatale sbocco di ogni biopolitica affermativa.
18 A. Badiou, Il secolo, cit., p. 28.
19 Impegnato dapprima, nel settembre 1914, come infermiere volontario presso la Croce Rossa, a partire dall’aprile del 1915 Rosenzweig si arruola volontario nell’artiglieria. Non va dimenticato che il suo capolavoro, La stella della redenzione, fu febbrilmente ideato e scritto durante la guerra e inviato per posta, mano a mano che procedeva la scrittura, al fine di metterlo al sicuro.
20 Per una documentata ricostruzione del clima intellettuale nel quale attecchì quella che Thomas Mann chiamò Kriegsideologie, la quale contagiò anche pensatori come Simmel, Scheler, Husserl, Weber, Jaspers, oltre ai già citati Jünger, Rosenzweig e, almeno inizialmente, lo stesso Freud, si veda D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Torino, Bollati Boringhieri, 1991. La tesi di Losurdo – e non solo sua – è quella di una profonda continuità tra le «idee del 1914» e l’irresistibile ascesa del nazionalsocialismo negli anni del dopoguerra, fino al suo trionfo: «il nazismo può assumere l’eredità della Kriegsideologie». Ivi, p. 18.
21 Cfr. E. Jünger, Die Totale Mobilmachung (1930), in Essays I: Betrachtungen zur Zeit, Sämtliche Werke, Bd. 7, Stuttgart, Klett-Cotta, 1980; trad. it. di F. Cuniberto, La Mobilitazione Totale, in Foglie e pietre, Milano, Adelphi, 1997.
22 Come ricorda, non senza sconcerto, Ernst Jones nella sua biografia: «La reazione immediata di Freud alla dichiarazione di guerra fu sorprendente. Si sarebbe supposto che un pacifico sapiente di 58 anni dovesse salutarla semplicemente con orrore, come fecero molti, mentre la sua prima reazione fu quasi di giovanile entusiasmo, qualcosa di simile ad un risveglio degli ardori militari della fanciullezza». E. Jones, The Life and Work of Sigmund Freud, New York, Basic Books, 1953;trad. it. di A. Novelletto e M. Cerletti Novelletto, Vita e opere di Freud. II Gli anni della maturità (1901-1919), Milano, Garzanti, 1977, p. 217.
23 Ibidem.
24 S. Freud, Zeitgemäßes über Krieg und Tod (1915), in Gesammelte Werke:Werke aus den Jahren 1913-1917, Bd. X, Frankfurt a.M., Fischer, 1991; trad. it. di C.L. Musatti, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Opere 1915-1917. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, vol. 8, ed. dir. da C.L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1976.
25 La lettera è citata nell’Avvertenza editoriale che precede le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 121.
26 Ibidem.
27 Ibidem.
28 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (1920), inGesammelte Werke:Jenseits des Lustprinzips. Massenpsychologie und Ich-Analyse. Das Ich und das Es. Und andere Werke aus den Jahren 1920-1924, Bd. XIII, Frankfurt a.M., Fischer, 1998;trad. it. di A.M. Marietti e R. Colorni, Al di là del principio di piacere, in Opere 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, vol. 9, ed. dir. da C.L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1977.
29 S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), inGesammelte Werke:Jenseits des Lustprinzips. Massenpsychologie und Ich-Analyse. Das Ich und das Es. Und andere Werke aus den Jahren 1920-1924, cit.; trad. it. di E.A. Panaitescu, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, cit.
30 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929), in Gesammelte Werke:Werke aus den Jahren 1925-1931, Bd. XIV, Frankfurt a.M., Fischer, 1976; trad. it. di E. Sagittario, Il disagio della civiltà,in Opere (1924-1929). Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, vol. 10, ed. dir. da C.L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1978.
31 S. Freud, Warum Krieg? (1932), in Gesammelte Werke:Werke aus den Jahren 1932-1939, Bd. XVI, Frankfurt a.M., Fischer, 2006; trad. it. di S. Candreva ed E. Sagittario, Perché la guerra? (Carteggio con Einstein), in Opere (1930-1938). L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, vol. 11, ed. dir. da C.L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1979.
32 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 126.
33 Come Freud spiegherà ne L’avvenire di un’illusione, l’importante saggiodedicato al fenomeno religioso, è auspicabile uno sguardo disincantato sulla realtà e non coltivare le illusioni. Cfr. S. Freud, Die Zukunft einer Illusion (1927), in Gesammelte Werke:Werke aus den Jahren1925-1931, cit.; trad. it. di S. Candreva e E.A. Panaitescu, L’avvenire di un’illusione, in Opere (1924-1929). Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, cit.
34 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 130.
35 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 31.
36 Ivi, pp. 31-32.
37 Ivi,p. 25.
38 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 134.
39 Ivi, p. 135.
40 Ivi, p. 137.
41 Ivi, p. 144.
42 Il tema della negazione sarà sviluppato da Freud successivamente in un breve, ma importante, scritto: S. Freud, Die Verneinung (1925), in Gesammelte Werke:Werke aus den Jahren 1925-1931, cit.; trad. it. di E. Fachinelli, La negazione, in Opere (1924-1929). Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, cit.
43 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 144.
44 Ibidem.
45 Ivi, p. 148.
46 «Le pulsioni di morte sembrano compiere il loro lavoro senza farsene accorgere». S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 248.
47 Per una puntuale e approfondita analisi della pulsione di morte e dell’evoluzione del pensiero freudiano riguardo alla complessa dinamica sadismo-masochismo, si veda J. Laplanche, Vie et mort en psychanalyse, Paris, Flammarion, 1970; trad. it. di A. De Coro, Vita e morte nella psicoanalisi, Bari, Laterza, 1972. Si vedano anche le voci “Pulsione di morte”, “Pulsione di aggressione”, “Pulsione di appropriazione”, “Pulsione di distruzione” e “Sadismo-masochismo” in J. Laplanche, J.B. Pontalis, Vocabulaire de psychanalyse, sous la direction de D. Lagache, Paris, PUF, 1967; trad. it. e cura di G. Fuà, Enciclopedia della psicoanalisi, Roma-Bari, Laterza, 20109, II. Ѐ noto come la scoperta freudiana di questa nuova pulsione non abbia trovato facile accoglienza in ambito psicoanalitico, anche se destinata a produrre originali sviluppi, come nel caso di Melanie Klein o di Jacques Lacan. Ѐ stato Derrida a mostrare il carattere non dualistico e non opposizionale tra pulsione di morte e di vita, tanto da coniare l’espressione «la vie la mort»,senza la congiunzione di una “e” o la pausa di una virgola, per rimarcarne l’inestricabile intreccio (si veda la minuziosa lettura di Al di là del principio di piacere in J. Derrida,Spéculer – sur “Freud”, in La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, Paris, Flammarion, 1980; trad. it. di L. Gazziero, Speculare – su “Freud”, a cura di G. Berto, Milano, Cortina, 2000), attirando anche l’attenzione sul Bemächtigungstrieb, pulsione di appropriazione, di dominio, di potere, e intraprendendo, a partire da essa, una radicale decostruzione del principio di potere e dell’istanza della sovranità. Nella prospettiva schiusa da Derrida, cfr. R. Major, Au commencement. La vie la mort, Paris, Galilée, 1999. Sulla decostruzione della pulsione di potere, mi permetto di rinviare a C. Resta, La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, Genova, il melangolo, 2016, capp. 4 e 5.
48 Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., pp. 239-240.
49 J. Derrida,Speculare – su “Freud”, cit., p. 113.
50 «Anche questi custodi della vita sono stati in origine guardie del corpo della morte». S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 225.
51 J. Derrida, Speculare – su “Freud”, cit., p. 120.
52 S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), in Gesammelte Werke: Jenseits des Lustprinzips. Massenpsychologie und Ich-Analyse. Das Ich und das Es. Und andere Werke aus den Jahren 1920-1924, cit.;trad. it. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo, in Opere 1924-1929. Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, cit., pp. 9-10.
53 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 599. La crudeltà – sulla quale già Nietzsche si era interrogato –, che spesso accompagna, non senza un certo godimento, le manifestazioni di violenza, è una delle tracce più vistose dell’esistenza della pulsione di morte. Rinviamo ancora a Derrida per questo intreccio, da lui affrontato soprattutto in J. Derrida, États d’âme de la psychanalyse. L’impossible au-delà d’une souveraine cruauté, Paris, Galilée, 2000; trad. it. di C. Furlanetto, Stati d’animo della psicanalisi. L’impossibile aldilà di una sovrana crudeltà, Pisa, ETS, 2013. Su questo cfr. in particolare R. Major, La cruauté originaire et le principe de pouvoir, in Aa.Vv., Emprise et liberté, Paris, l’Harmattan, 1990 e S. Geraci, Pulsione di crudeltà. Derrida e la psicoanalisi, in Aa.Vv., L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta, Milano-Udine, Mimesis, 2013.
54 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 599.
55 Ivi, p. 600.
56 Ivi, pp. 605-606.
57 Anche ne Il disagio della civiltà Freud richiama il carattere “sfuggente” della pulsione di morte, che lavora «in silenzio», ivi, p. 606, e il suo mescolarsi alla pulsione di vita; essa, infatti, si mostra solo attraverso i suoi effetti, quando si estroflette, e perciò «la indoviniamo soltanto nello sfondo, dietro l’Eros, e addirittura ci sfugge se non si svela frammischiandosi ad esso», ivi, p. 608.
58 Ivi, p. 606.
59 Ibidem.
60 Ivi, p. 608.
61 Ibidem.
62 Ivi, p. 610.
63 S. Freud, Perché la guerra?, cit., p. 290.
64 Ivi, p. 289.
65 Ivi, p. 299.
66 Ibidem.
67 Ivi, p. 300.
68 Ivi, p. 301.
69 Ivi, p. 303.
70 Ibidem.
71 Ibidem.
72 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 144.
73 Per lo sviluppo di questo tema, a partire da Derrida, mi permetto di rinviare a C. Resta, Ospitare la morte, in La passione dell’impossibile, cit.
74 Riferendosi al libro di Robert Antelme, L’Espèce humaine, straordinaria testimonianza dell’internamento in un campo di concentramento nazista, Blanchot ha osservato:«L’uomo è l’indistruttibile che può essere distrutto […]. L’uomo è l’indistruttibile, e ciò significa che non c’è limite alla distruzione dell’uomo». M. Blanchot, L’entretien infini, Paris, Gallimard, 1969; trad. it. di R. Ferrara, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, p. 183.

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