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“Secret City” e il complesso industriale militare
di Gerardo Lisco
Premetto che sono convinto che non ci sarà nessun conflitto mondiale nucleare a parte la “guerra mondiale a pezzi”, per citare il defunto Papa Francesco I, già in corso. Nonostante la propaganda guerrafondaia dei media, di opinionisti e di politicanti da ascrivere alla categoria degli psicopatici, penso che nessuna potenza nucleare provocherà un tale conflitto.
Detto questo, di recente mi ha colpito in modo particolare una serie televisiva trasmessa dal canale NETFLIX. Continuo a pensare che questo canale sia uno dei tanti strumenti di soft power finalizzati a educare il mondo al modello culturale americano ed è per questa mia opinione che la serie TV dal titolo “Secret City” mi ha particolarmente colpito. Non è mia intenzione anticipare la conclusione della serie, ma dal punto di vista narrativo l’ho trovata avvincente e stimolante sul piano della riflessione politologica.
La storia è un thriller politico, ambientato in Australia, si ispira a fatti veri tratti dai libri scritti da Chris Uhlmann e Steve Lewis, intitolati “The Marmalade files” e “The Mandarin Code”. La serie è stata trasmessa per la prima volta nel 2016, mentre in Italia la trasmissione della prima stagione risale al 2018. Ciò che mi intriga della serie è come il sistema politico, la comunicazione pubblica, gli interessi nazionali e internazionali si intreccino tra di loro e con le ambizioni personali dei protagonisti.
Ciò che emerge è il ruolo della stampa quando è indipendente, ben rappresentata dalla protagonista della serie TV, e la figura del premier. A differenza della comune vulgata un premier, pur se legittimato dal voto popolare, in realtà, può essere tenuto all’oscuro di ciò che membri del governo, vertici militari, consiglieri ecc. tramano nell’ombra alle sue spalle ed è per questa ragione che il personaggio del Primo Ministro australiano può essere stereotipo dei tempi in cui viviamo. In una delle puntate, nel pieno della tempesta politica che coinvolge tanto il suo governo quanto i maggiori vertici burocratici e militari del paese, mettendo in crisi le stesse relazioni internazionali con le due potenze che gravitano sull’Oceano Pacifico ossia USA e Cina, il primo ministro si sofferma ad ascoltare e riflettere sul discorso di addio del Presidente degli USA Dwight Eisenhower del 1961.
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Il conflitto di civiltà odierno
di Michael Hudson
Questo è un articolo importante di Hudson, che offre un’altra importante prospettiva storica a lungo termine, qui sull’uso del commercio come strumento di sfruttamento coloniale. Tuttavia, mi sento in dovere di mettermi il cappello da pignolo e di offrire qualche cavillo.
Il primo è l’uso del termine “libero scambio”. Viviamo in un sistema di scambi regolamentati. I beni importati devono ancora rispettare standard di sicurezza e spesso specifici per quanto riguarda i contenuti. Esistono anche barriere commerciali non tariffarie. I giapponesi non amano la carne di manzo o il riso americani, considerandoli (giustamente) di qualità inferiore. Sono particolarmente diffidente nei confronti del termine “libero” usato in relazione agli accordi economici perché è stato propagandato con grande successo dai libertari (si veda ad esempio il libro di Milton Friedman “Liberi di scegliere” e la sua serie correlata della PBS, a dimostrazione della durata di questa campagna). Sarei stato più soddisfatto di una definizione del termine “libero scambio” e di un minore affidamento sulla parola “libero”, che ormai porta con sé un peso eccessivo.
In secondo luogo, la Cina, correttamente presentata come un ripudio dell’economia neoliberista, non è stata trattata dagli interessi occidentali, in questo caso dalle moderne multinazionali che hanno influenza politica, come un tipico progetto di estrazione coloniale ricca di risorse. Gli Stati Uniti hanno fatto sì che l’OMC ignorasse le proprie richieste per l’ammissione della Cina all’inizio degli anni 2000.
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In Ucraina Trump somiglia sempre più a Biden
di Roberto Iannuzzi
Chiuso lo spiraglio negoziale, torna la logica delle armi e il rischio di escalation
E’ probabile che chi ancora nutriva speranze nella possibilità che il presidente americano Donald Trump risolvesse il conflitto ucraino per via negoziale le abbia perse in questi giorni.
Una reale trattativa fra Russia e Ucraina non è mai decollata, e la bizzarra mediazione dell’amministrazione Trump (gli Stati Uniti sono parte cobelligerante piuttosto che arbitro) è stata inefficace fin dall’inizio . Ma gli eventi di questi giorni segnano uno spartiacque probabilmente definitivo.
Dopo una breve pausa nell’invio di armi a Kiev apparentemente motivata dall’assottigliarsi delle riserve americane, lo scorso 7 luglio Trump ha annunciato la ripresa delle forniture giustificandola con gli intensificati attacchi russi e l’urgente bisogno di sistemi di difesa aerea da parte dell’Ucraina.
L’amministrazione ha pertanto deciso di prelevare dalle riserve del Pentagono armi per un valore di 300 milioni di dollari in base alla Presidential Drawdown Authority (PDA), per mandarle a Kiev.
E’ la prima volta nel suo secondo mandato che Trump fa ricorso alla PDA, uno strumento abitualmente utilizzato dal suo predecessore Joe Biden.
La decisione è coincisa con un cambio di toni da parte del presidente USA, che per la prima volta ha impiegato un linguaggio molto aspro nei confronti del presidente russo Vladimir Putin, accusato di “uccidere un sacco di gente” e di non far seguire alle parole azioni concrete.
Trump e i sostenitori della “linea dura”
Sebbene il presidente americano ci abbia abituato da tempo a repentini cambi di rotta e improvvisi sbalzi d’umore, il differente approccio nei confronti di Mosca è parso nei giorni successivi come qualcosa di meno estemporaneo.
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I cinque problemi strategici di Israele
di Enrico Tomaselli
Storicamente, Israele ha sempre avuto una leadership pienamente consapevole dell’importanza delle sue forze armate, intese non come ipotetico baluardo difensivo del paese, ma come strumento attivo e costante della politica statuale. A loro volta, le forze armate israeliane hanno spesso fornito importanti leader alla politica, e tutto questo ha fatto sì che la guida politica e militare dello stato ebraico è sempre stata caratterizzata da una piena integrazione dei due aspetti. Questo equilibrio è però cominciato a venire meno quando, all’interno della società israeliana, si è andato affermando un radicalismo di destra, con forti accenti messianici, che ha trovato in Netanyahu la figura di riferimento. Per il leader del Likud, infatti, l’esercito è a tutti gli effetti uno strumento del potere politico, che ne dispone a suo piacimento; e benché il personaggio sia indiscutibilmente un pragmatico – diciamo pure uno spregiudicato – è anche assai poco disponibile ad ascoltare chi non è d’accordo con lui.
Nel corso della sua ormai ventennale carriera politica, Netanyahu ha via via esercitato un controllo sempre più stretto sull’apparato statale (proprio al fine di consolidare e difendere il suo potere personale), in primis sulle forze armate e sui servizi di sicurezza. Trovandosi spesso in disaccordo con entrambe, ma imponendo sempre il proprio volere. Questa divaricazione, che in qualche misura si è riflessa sulla società, ha sicuramente aperto una crepa nella stessa capacità operativa di Israele.
Ciò risulta macroscopicamente evidente a partire dallo spartiacque del 7 ottobre 2023.
Senza entrare qui nel merito dell’operazione Al Aqsa Flood, e delle varie interpretazioni che ne sono state fatte (e sulle quali ho più volte scritto), appare evidente che a partire da quel momento Israele si è impegnato in una serie di conflitti – praticamente ininterrotti – che hanno visto il culmine con l’attacco all’Iran del 13 giugno scorso.
Questi conflitti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria, Iran – hanno opposto l’IDF essenzialmente a formazioni di guerriglia (Resistenza palestinese, Hezbollah), con le quali ha ingaggiato un confronto a contatto, mentre con le realtà statuali (Siria, Yemen, Iran) il confronto è sempre rimasto a distanza.
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Trump finge di minacciare la Russia ma spreme l’Europa
di Gianandrea Gaiani
Il 14 luglio Donald Trump ha precisato i contorni della nuova iniziativa statunitense nei confronti della Russia e della guerra in Ucraina. Con al fianco il segretario generale della NATO, Mark Rutte, Trump ha ribadito di essere “deluso dal presidente Putin, perché pensavo che avremmo raggiunto un accordo due mesi fa, ma non sembra esserci riuscito. Quindi sulla base di ciò imporremo dazi molto severi se non raggiungeremo un accordo entro 50 giorni. Dazi pari a circa il 100%” fa applicare alle nazioni che commerciano con Mosca. “Spero di non doverlo fare” ha detto Trump alla Casa Bianca, annunciando nuovi invii di armamenti a Kiev ma ribadendo, come aveva già anticipato, che saranno gli alleati europei a pagare il conto molto salato.
Trump e Rutte hanno presentato un accordo, peraltro ancora vago, in base al quale la NATO (cioè i partner europei dell’alleanza) acquisterà armi dagli Stati Uniti, comprese le batterie antimissile Patriot, per poi darle all’Ucraina. “Gli Stati Uniti venderanno miliardi di dollari di equipaggiamento militare alla NATO che li porterà’ rapidamente sul campo di battaglia”, ha dichiarato Trump.
Rutte ha aggiunto che grazie a questo accordo l’Ucraina riceverà “un numero enorme di armi”. “Quello che faremo è lavorare attraverso i sistemi Nato per assicurarci di sapere di cosa hanno bisogno gli ucraini, in modo da poter preparare i pacchetti” ha detto il segretario generale dichiarando che “è del tutto logico che gli europei paghino per le armi inviate all’Ucraina” e di essere in contatto con “numerosi Paesi” che vogliono aderire all’accordo, fra cui Finlandia, Danimarca, Svezia, Norvegia, Gran Bretagna, Olanda e Canada. “Ed è solo la prima ondata, ce ne saranno altri”, ha aggiunto.
Rutte, nei confronti di Trump più nei panni di un maggiordomo che di un segretario generale, sembra aver ormai sdoganato il fatto che la guerra in Ucraina contro la Russia riguarda solo l’Europa mentre gli Stati Uniti, bontà loro, ci vendono le armi necessarie a tentare di sostenere Kiev.
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Terroristi i partigiani quando sono palestinesi? --- Medioriente, carta vince, carta perde
di Fulvio Grimaldi
Non solo RAI, La7, Mediaset
La BBC, magistra informationis, che mi avviò, con notevole rigore e ricchezza di istruzioni, al mestiere che da quegli anni ’60 cerco di praticare, quanto meno con integrità, è sotto schiaffo. Uno schiaffone non da poco, somministrato nientemeno che da oltre un centinaio di suoi giornalisti, alcuni tra i più prestigiosi e da più di 300 professionisti del reparto audiovisivo. Il documento, pubblicato su tutti i media, denuncia dell’augusta “Auntie” (zia, come la si chiama da sempre) le indecenti manipolazioni, falsità, distorsioni, gli occultamenti. Il tutto sotto il titolo “Disinformazione sistematica dell’informazione BBC sul conflitto israelo-palestinese e, specificamente, su Gaza”.
I rimproveri, a volte dure proteste, mirati personalmente al direttore generale Tim Davie e che chiedono le dimissioni di Sir Robbie Gibb, Consiglier d’Amministrazione e già capo delle Comunicazioni del governo tory di Theresa May, parlano di strutturale faziosità filo-israeliana e filoccidentale, di censure editoriali, pressioni interne e silenziamento delle voci fuori dal coro, con minacce di rappresaglie a chi non sta agli “ordini di servizio”.
“Ci hanno negato il nostro lavoro di giornalisti. Ci hanno censurato articoli critici di Israele. Si pretende da noi una neutralità che in realtà si traduce nell’invisibilizzazione della sofferenza dei palestinesi e della loro resistenza”, dichiara il testo. Con particolare indignazione viene poi menzionata la cancellazione del documentario “Medici sotto attacco”, che documenta le distruzioni e stragi israeliane di tutti gli ospedali di Gaza.
Il documento, che solo un’allucinazione potrebbe immaginare ripetuto dai giornalisti e dipendenti del nostro servizio pubblico e magari indirizzato anche a Enrico Mentana, così conclude: “Siamo collassati in termini dei nostri tradizionali standard deontologici. Non stiamo informando con correttezza e contesto, né rappresentando le vittime palestinesi con umanità. Si priorizza la protezione di Israele da qualsiasi critica piuttosto che riferire la verità”
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Il Medio Oriente e il ruolo di Israele nell'arena Geopolitica globale
di Salvatore D’Acunto
Negli ultimi 12 mesi, lo scenario mediorientale ha acquisito una centralità sempre più evidente nel quadro delle tensioni nelle relazioni internazionali. Alla sempre più feroce persecuzione della popolazione palestinese nella striscia di Gaza, in atto da Ottobre 2023 e che non accenna ad arrestarsi, si sono andati via via sovrapponendo, nell’ordine: il conflitto tra Israele ed Hezbollah nel sud del Libano nell’autunno del 2024; il conflitto in Siria, che nello stesso periodo ha portato alla destituzione di Bashar-el-Assad e all’instaurazione di un governo di transizione di matrice jihadista; infine, il violento attacco che Israele e Stati Uniti hanno condotto nei confronti dell’Iran nelle settimane appena trascorse, ufficialmente finalizzato a metter fine a un ipotetico programma nucleare bellico iraniano.
Il concentrarsi di tante esplosioni di violenza nella stessa regione solleva evidentemente questioni interpretative di non facile soluzione. Siamo di fronte a una dinamica caotica, in cui semplicemente vengono a maturazione conflitti lungamente latenti e solo per caso scatenatisi in un arco temporale estremamente ristretto? Oppure c’è un filo sotterraneo che lega i singoli fenomeni bellici attualmente in progress? E nel caso, in cosa consiste questo “filo”? Cosa c’è precisamente in gioco in quell’esercizio quotidiano di violenza che da un anno a questa parte infiamma quasi quotidianamente la regione mediorientale? La tesi che vorrei provare ad argomentare in questo breve commento è che il filo esiste eccome, e ha a che fare fondamentalmente con il destino della globalizzazione. Più precisamente, quello che sembra in gioco oggi sul tavolo del Medio Oriente sono, a mio avviso, le regole che presiedono alla distribuzione dei guadagni della globalizzazione.
Come è noto, la globalizzazione è l’espressione di una tendenza che caratterizza ormai da alcuni secoli, seppure tra “ondate” e successive “risacche”, la dinamica dell’organizzazione economica mondiale.[1] In genere nella storiografia si usa distinguere una prima globalizzazione, che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.
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La guerra ineluttabile
di Enrico Tomaselli
Possiamo certamente affermare che la lunga fase di transizione che stiamo vivendo, che cerca di traghettare il mondo dall’epoca dell’illusione unipolare statunitense a una nuova epoca, basata sul multilateralismo, è caratterizzata più che mai dalla presenza pregnante della guerra.
Non che questa sia mai stata assente dall’orizzonte globale, e segnatamente da quello occidentale, ma – com’è storicamente sempre stato – l’approssimarsi di grandi cambiamenti geopolitici è sempre preceduto dall’accentuarsi delle tensioni conflittuali. E quello che stiamo attraversando è, con tutta evidenza, particolarmente significativo, epocale: stiamo infatti parlando del tramonto dell’occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), cioè della fine di una egemonia militare, economica e quindi politica, protrattasi per secoli. La guerra, sia essa cinetica o ibrida, è dunque il terreno su cui si consuma la transizione, in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. È l’inevitabile passaggio per arrivare alla definizione di un nuovo ordine mondiale. La Pace di Westfalia, il Congresso di Vienna, il Vertice di Yalta, sono stati il punto d’arrivo di un processo, che in quelle sedi ha ridefinito il quadro geopolitico, ma che è stato delineato sui campi di battaglia. Pensare che si possa eludere oggi questo passaggio è una grande ingenuità. Il massimo per cui si può operare è la riduzione del danno.
La prima cosa di cui dobbiamo avere consapevolezza, è la necessità di spersonalizzare il conflitto. Rimuovere l’idea che questo dipenda – per un verso o per un altro – da questo o quel leader politico, e che quindi l’affermarsi di tizio o la rimozione di caio abbiano una qualche significativa incidenza sul processo in atto. A essere in azione sono forze profonde, radicate nella storia e nella geografia, e dobbiamo pensarle come uno scontro tra faglie tettoniche, piuttosto che come un duello tra leader politico-militari. La cui leadership può modificare lo sviluppo tattico dello scontro, ma non può arrestarlo né modificarne la natura strategica.
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L’arma MOSAIC dell’AIEA: spionaggio predittivo e guerra all’Iran
di Redazione - Kit Klarenberg*
Kit Klarenberg è un giornalista britannico che ha prodotto varie inchieste di spessore sull’Ucraina e sul complesso quadro mediorientale. Per questo, è finito nel mirino della repressione della corona di Londra, secondo la quale non è possibile criticare gli indirizzi di politica estera del Regno Unito, degli Stati Uniti e dei loro alleati in guerra.
Per questo, nel giugno 2023, fu addirittura detenuto e interrogato per ore dall’antiterrorismo britannica all’aeroporto di Luton, a Londra. In quell’occasione, i poliziotti gli sequestrano i dispositivi elettronici, le carte bancarie e le schede digitali di memoria. Questo è il modo in cui la libera informazione viene trattata in Occidente… lo abbiamo visto bene anche con Julian Assange.
Oggi pubblichiamo un suo articolo, apparso il 2 luglio sul giornale online The Cradle. Pochi mesi fa, ne avevamo pubblicato un altro sulle interferenze statunitensi in Iran, che avevano tra l’altro l’effetto finale di scoraggiare qualsiasi genuina crescita di un’opposizione reale al governo degli Ayatollah.
Ora Klarenberg è tornato sull’Iran, e sul suo rapporto con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. A suo avviso, gli strumenti usati da quest’ultima istituzione, forniti da Palantir (l’azienda stelle-e-strisce che si occupa di analisi di Big Data e di piattaforme di gestione per l’IA, ma sempre più interessata al settore bellico) e ‘nutriti’ di dati creati ad arte da Israele, hanno aiutato le attività di spionaggio sioniste e hanno poi costruito delle propagandistiche motivazioni pubbliche alla guerra illegale aperta da Tel Aviv contro Teheran.
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Cane pazzo
di Enrico Tomaselli
Sono gli Stati Uniti a guidare Israele, che ne è il docile strumento per il controllo del Medio Oriente, o viceversa è Israele a controllare di fatto gli USA, anche grazie alla capillare azione dell’AIPAC [1], che tra finanziamenti e ostracismi ad hoc tiene in pugno l’intero Congresso?
C’è da lunghissimo tempo un acceso dibattito sulla relazione tra Stati Uniti e Israele, sulla natura di questo rapporto – che certamente non può essere semplicemente riassunto in termini geopolitici. L’opinione prevalente, quantomeno negli ambienti del cosiddetto dissenso, sembra essere che siano gli USA a tenere le redini del comando, e come sempre in questi casi, una volta assunta una tesi si finisce per leggere ogni fatto come coerente con la tesi stessa.
La mia personale opinione, in merito, è che la natura di questa relazione sia in effetti assai più complessa di quanto possa essere riassunto nella scelta binaria, A o B. E che, in ultima analisi, entrambe abbiano potenti leve per condizionare le scelte dell’altro, così come – conseguentemente – entrambe abbiano bisogno l’uno dell’altro. Il recente conflitto con l’Iran, la cosiddetta guerra dei 12 giorni, è un’ottima occasione per verificare queste diverse tesi.
Quello che possiamo dare per certo, è che Washington sapeva che Tel Aviv stava preparando l’attacco. E, ovviamente, questo può essere letto in modi diversi. Può significare che il negoziato avviato da Witkoff con la mediazione del Qatar era, sin dall’inizio, null’altro che una cortina fumogena per coprire l’attacco stesso. O, viceversa, poiché la fermezza iraniana stava bloccando le trattative, Trump ha pensato che l’azione israeliana potesse indurre Teheran a più miti consigli. In entrambe i casi, però, la vera domanda è: tenuto conto del fatto che sia a Washington che a Tel Aviv non potevano non essere consapevoli dei limiti strutturali dell’operazione Rising Lion, qual’era il vero obiettivo?
Ovviamente quella del nucleare militare iraniano è una favoletta per il pubblico occidentale, che oltretutto se la beve pari pari da trent’anni [2], quindi ciò che si voleva conseguire non era la distruzione del programma nucleare di Teheran.
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Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria
di Fabio Vighi
Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo. E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna Marchi.
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I russi accelerano mentre crollano le forniture di armi occidentali all’Ucraina
di Gianandrea Gaiani
(Aggiornato alle ore 23,55 del 3.7.25)
L’esercito russo ha compiuto a giugno la sua più grande avanzata in territorio ucraino dal novembre 2024 e ha accelerato la sua avanzata per il terzo mese consecutivo.
Nonostante i commenti scettici sull’incremento dei progressi russi espressi nei giorni scorsi da diversi osservatori in Occidente, ispirati dall’articolo di Michael Carpenter su Foreign Affairs dal titolo perentorio “L’Ucraina può ancora vincere”), sono i dati provenienti da fonti russe, ucraine (come il sito Deep State) e dall’Institute for the Study of War (ISW), think-tank neocon smaccatamente filo-ucraino con sede negli Stati Uniti, a confermare l’accelerazione delle forze di Mosca su tutti i fronti, come Analisi Difesa ha evidenziato già nell’articolo sul conflitto ucraino del 30 giugno.
Secondo l’ISW le truppe russe hanno conquistato in giugno 588 km² di territorio ucraino (556 secondo Deep State), ne avevano conquistati 507 km² a maggio (449 secondo deep State), 379 km² ad aprile e 240 km² in marzo.
Le conquiste territoriali sono il frutto anche di una crescente superiorità qualitativa e numerica delle truppe e dei mezzi russi. Nella prima metà del 2025 oltre 210.000 russi si sono arruolati a contratto nelle forze armate nella prima metà del 2025, e altri 18.000 si sono uniti alle “unità di volontari”. Come ha detto ieri il vice segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale, Dmitry Medvedev.
Lo stesso Medvedev lo scorso gennaio aveva detto che nel 2024 i contrattisti arruolati erano stati 450.000 e quelli entrati nelle formazioni di volontari 40.000. Mentre nel 2023, secondo quanto affermato lo scorso anno dal presidente Vladimir Putin, i contrattisti arruolati erano stati 486.000.
Alla fine del 2023 Putin aveva detto che due terzi dei militari impiegati a quel tempo in Ucraina erano contrattisti e un terzo riservisti richiamati alle armi. Lo scorso anno la testata Moscow Time aveva scritto che lo stipendio mensile minimo di un soldato a contratto in Russia era di 210.000 rubli (oltre 2.000 euro), vale a dire tre volte di più del reddito medio del Paese, a cui andavano aggiunti una serie di corposi benefit.
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Ecco le prove che Israele ha perso la guerra
(e i segni che il conflitto sta per riprendere)
di Mike Whitney - unz.com
Al popolo americano non viene detto perché Israele ha accettato il cessate il fuoco con l’Iran. Sì, Israele stava rapidamente esaurendo gli intercettori della difesa aerea (rendendosi più vulnerabile agli attacchi iraniani), ma questa questione è solo di secondaria importanza. Il vero motivo per cui volevano un cessate il fuoco era che stavano venendo sistematicamente polverizzati e avevano bisogno di fermare l’emorragia in fretta. Ecco perché Israele ha “gettato la spugna” meno di due settimane dopo la salva iniziale, perché l’Iran stava polverizzando un bersaglio dopo l’altro senza che ci fosse alcuna fine in vista. Quindi, Israele ha capitolato.
Naturalmente, questa non è la storia che abbiamo letto sui media occidentali, dove non si parla della vasta distruzione di obiettivi strategici israeliani (da parte dei missili balistici iraniani); questa notizia è stata completamente omessa dalla copertura mainstream. Ma è per questo che Israele ha convinto Trump a trovare una via d’uscita diplomatica, perché le perdite stavano cominciando ad aumentare e l’Iran non stava “mollando”.
Sapevate che in Israele è illegale pubblicare video o foto di edifici colpiti da missili iraniani? In altre parole, se pubblicate foto di edifici, infrastrutture o basi militari in fiamme, finirete in prigione. È così che il governo controlla la narrazione e convince l’opinione pubblica che sta vincendo una guerra che, in realtà, sta perdendo. Ma non credetemi sulla parola: ecco il video di un giornalista israeliano che spiega come la censura governativa stia influenzando la capacità della popolazione di capire cosa sta succedendo:
⚡️🇮🇱🇮🇷JUST IN: CH13’s Raviv Drucker:
“There were a lot of missile hits in IDF bases, in strategic sites that we still don’t report about…It created a situation where people don’t realize how precise the Iranians were and how much damage they caused”pic.twitter.com/sYVBM8hdOp
— Suppressed News. (@SuppressedNws) June 26, 2025
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Iran-Usa, a che punto è la guerra mondiale non dichiarata?
di nlp
La prima pagina della Handelsblatt di pochi giorni fa titolava sulla esistenza di guerra mondiale non dichiarata poche ore prima dell’attacco degli Usa all’Iran. Per il quotidiano tedesco si tratta della guerra tra democrazie e autocrazie, esprimendo una visione del conflitto globale ferma al conflitto tra stati e piegata alla contingenza politica. Allo stesso tempo, proprio se guardiamo alla contingenza, l’attacco Usa all’Iran lascia diversi dubbi su quanto siano reali gli effetti fine-di-mondo dichiarati da Washington come conseguenza dei bombardamenti di questi giorni. Ma capire cosa sta accadendo bisogna uscire dalla contingenza, quella degli schieramenti degli stati e quella degli effetti dei bombardamenti visto che da metà degli anni ’10, specie in Medio Oriente, di attacchi fatti più di messaggio politico che di distruzione materiale, ce ne sono stati e la guerra del mondo non dichiarata si è comunque estesa su scala planetaria come se il contenuto diplomatico di alcuni bombardamenti (dalla Siria del 2017 allo scambio di missili Israele-Iran di questa primavera) praticamente non esistesse.
Quindi la guerra mondiale non dichiarata esiste, si tratta di capire cosa è, a che punto siamo in questo genere di guerra e quali sono le prospettive che ha davanti a sé. Dall’inizio degli anni ’90 la guerra, come da sua costante antropologica, ha alimentato le rivoluzioni tecnologiche (dalla microelettronica alla rete fino alla AI) si è estesa fino ai confini temporali (guerra permanente), ha raggiunto ogni attività umana (guerra senza limiti), ha moltiplicato i piani di realtà sui quali si esercita necessitando di una strategia che li sincronizzasse (guerra ibrida). La guerra mondiale non dichiarata emerge da questo contesto di moltiplicazione delle mutazioni dei conflitti basati su una violenza sia esplicita, tradizionale fino a sembrare ancestrale, che mimetica o innovativa tanto da sembrare magica a causa della performatività tecnologica che la pervade. È quindi analiticamente necessario parlare oggi di “guerra mondiale non dichiarata”.
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La guerra all'Iran è una lotta per il controllo unipolare del mondo da parte degli Stati Uniti
di Michael Hudson, Geopolitical Economy
L’economista Michael Hudson spiega come la guerra contro l’Iran miri a impedire ai paesi di liberarsi dal controllo unipolare degli Stati Uniti e dall’egemonia del dollaro, e a interrompere l’integrazione eurasiatica con Cina e Russia
Gli oppositori della guerra con l’Iran affermano che la guerra non è nell’interesse americano, dato che l’Iran non rappresenta alcuna minaccia visibile per gli Stati Uniti.
Questo appello alla ragione trascura la logica neoconservatrice che ha guidato la politica estera degli Stati Uniti per oltre mezzo secolo e che ora minaccia di travolgere il Medio Oriente nella guerra più violenta dai tempi di Corea.
Questa logica è così aggressiva, così ripugnante per la maggior parte delle persone, così in violazione dei principi fondamentali del diritto internazionale, delle Nazioni Unite e della Costituzione degli Stati Uniti, che c’è una comprensibile timidezza negli autori di questa strategia nello spiegare chiaramente cosa è in gioco.
Ciò che è in gioco è il tentativo degli Stati Uniti di controllare il Medio Oriente e il suo petrolio come baluardo del potere economico statunitense e di impedire ad altri paesi di muoversi per creare una propria autonomia dall’ordine neoliberista incentrato sugli Stati Uniti e amministrato dal FMI, dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni per rafforzare il potere unipolare degli Stati Uniti.
Gli anni ’70 videro un ampio dibattito sulla creazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale (NIEO). Gli strateghi statunitensi lo consideravano una minaccia e, poiché il mio libro “Super Imperialismo” fu usato ironicamente dal governo come una sorta di libro di testo, fui invitato a commentare come, a mio avviso, i paesi si sarebbero liberati dal controllo statunitense.
Lavoravo all’Hudson Institute con Herman Kahn e, nel 1974 o 1975, mi chiamò per partecipare a una discussione sulla strategia militare dei piani già elaborati all’epoca per un possibile rovesciamento dell’Iran e la sua frammentazione etnica. Herman scoprì che il punto più debole era il Belucistan, al confine tra l’Iran e il Pakistan.
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