Fai una donazione
Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________
- Details
- Hits: 1274
Guai ai vinti! Ucraina e Ue costrette a pagare le “riparazioni di guerra”. Agli Stati Uniti
di Gianandrea Gaiani
Poche ore prima che a Riad russi e americani definissero i destini dell’Ucraina e riallacciassero le relazioni bilaterali, a Parigi come a Monaco ha trionfato l’aria fritta in salsa europea, cioè la dura espressione di ferree volontà basate però sul nulla, a partire dall’inconsistenza politica e militare. Nei contenuti infatti al summit europeo informale Parigi sembra essere andata in scena la replica della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, raccontata ai nostri lettori dall’articolo di Maurizio Boni apparso ieri sulle nostre pagine.
I leader europei riunitisi su invito del presidente francese Emmanuel Macron per provare a reagire alla soluzione trumpiana al conflitto in Ucraina, avrebbero concordato con il presidente americano su un approccio di “pace attraverso la forza”.
Non è ben chiaro cosa significhi ma questo riferiscono fonti Ue non meglio precisate, citate dalle agenzie di stampa, aggiungendo che “i leader ritengono che sia pericoloso concludere un cessate il fuoco senza un accordo di pace allo stesso tempo”. Affermazione paradossale perché esattamente aderente a quanto chiede Mosca che ha precisato da tempo che non accetterà tregue o cessate il fuoco ma solo un accordo complessivo che risolva il conflitto.
Sempre secondo fonti UE i leader europei “sono pronti a fornire garanzie di sicurezza, con modalità da esaminare con ciascuna parte, a seconda del livello di supporto americano”. E qui il paradosso rischia di scivolare nella comica perché l’Europa dichiara di essere pronta a mostrare muscoli che non ha e a correre rischi che nessun governo europeo è in grado di correre se vuole restare in sella.
Nel Paese delle Meraviglie
Per comprenderlo è sufficiente rilevare le ultime bellicose dichiarazioni rilasciate da alcuni leader riunitisi a Parigi e confrontarle con la realtà.
- Details
- Hits: 798
Fact-checking: i nuovi censori
di Matteo Bortolon
Il discorso di Monaco del vicepresidente Usa JD Vance è stato di una durezza quasi incredibile verso gli alleati europei, criticandoli aspramente anche per questioni di politica interna; particolare rilievo ha assunto il tema delle limitazioni della libertà di espressione che sono diventate moneta sonante per le classi dirigenti del Vecchio continente, nonché della precedente Amministrazione Biden.
Tale discorso va collegato al video, diffuso il 7 gennaio da Mark Zuckerberg – capo di Facebook e Instagram – a dir poco esplosivo, annunciando che si sbarazzerà (letterale: get rid of…) dei fact-checker per il controllo dei contenuti postati online (al momento solo negli Usa).
Per capire la carica polemica di Vance dobbiamo approfondire le forme di supervisione dei contenuti dei social e di come esse si siano radicate nel mondo del progressismo di establishment; quel mondo che la nuova dirigenza statunitense vede come un nemico ideologico. Con molte ragioni.
Cosa ha detto Zuckerberg
L’uscita del padrone di Meta ha suscitato reazioni forti, in particolare dei diretti interessati, che non ne avevano assolutamente avuto alcuna avvisaglia, apprendendo assieme al resto del mondo del proprio licenziamento.
Nel video Zuckerberg ammette che negli anni dal 2016 si è intensificata la pressione da parte di media tradizionali e governi per controllare i contenuti online, e il risultato è stato: sempre più censura ed errori. Cita anche le recenti elezioni statunitensi che avrebbero espresso una volontà di tornare a maggiore libertà online. I fact-checker avrebbero peccato di faziosità e distrutto più fiducia di quanto non ne abbiano creata.
Ma adesso intende tornare alle radici della sua mission aziendale e virare verso il free speech: vestendo i panni del difensore della libera opinione, indica diversi paesi e soggetti in cui c’è una grande voglia di censura, (fra cui la Ue!) che non riuscivano a contrastare avendo il loro stesso governo che premeva in tal senso.
- Details
- Hits: 881
L’alleanza transatlantica (forse) è finita
di Dante Barontini
La situazione internazionale sta cambiando a una velocità tale che nel tempo necessario a scrivere un articolo si accumulano notizie sufficienti a buttar via tutto e scriverne un altro. Quando questo uragano si fermerà avremo davanti un paesaggio piuttosto diverso e solo allora tutti saranno costretti a riconoscerlo.
Alcune linee fondamentali sono però sufficientemente chiare per chi non si è mai fatto catturare dalle “spiegazioni” della propaganda liberaldemocratica euroatlantica o da quelle “nazionaliste servili”.
Ma andiamo con ordine.
I fatti
1) Alti funzionari dell’amministrazione Trump si stanno recando in Arabia Saudita per avviare colloqui di pace con i negoziatori russi. Le prime voci da Washington davano per certa anche la partecipazione di una delegazione ucraina (complicato fare trattative di pace senza uno dei due belligeranti…), ma un funzionario ucraino ha dichiarato che Kyiv non è stata informata e non prevede, per il momento, di partecipare.
Il compito della delegazione Usa è ancora quello di preparare il terreno per l’inizio delle trattative vere e proprie, quando il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz si unirà al segretario di Stato Marco Rubio e all’inviato presidenziale per il Medio Oriente Steve Witkoff, nei prossimi giorni. L’inviato Usa alla Conferenza di Monaco, Keith Kellogg, ha confermato che Gli Stati Uniti stanno conducendo un approccio “a doppio binario” con Russia e Ucraina e stanno avendo colloqui separati con Mosca e Kiev.
Secondo il britannico Guardian, un incontro in Arabia Saudita tra i presidenti di Usa e Russia, Donald Trump e Vladimir Putin, potrebbe svolgersi già entro la fine del mese.
- Details
- Hits: 922
Il destino in bilico del NED (National Endowment For Democracy) e l’eterna presenza di Victoria Nuland
di Andrea Balloni
La scelta del Presidente Trump di ridurre finanze, potere e ruolo che l’agenzia UsAid (United States Agency for International Development)[1] ha avuto nella gestione delle relazioni internazionali negli ultimi decenni, pone forti interrogativi anche sul futuro di altre organizzazioni americane con fini filantropici consimili; in particolare il NED (National Endowment for Democracy) rischia di scomparire o di subire un grave ridimensionamento.
Sulla stampa di area conservatrice americana, hanno iniziato a comparire già da qualche mese articoli dove si invitano Elon Musk e il DOGE (Department of Government Efficiency), che sarebbe stato istituito di lì a breve (il 20 gennaio scorso), a prendere in seria considerazione il NED per la riduzione delle spese federali nel 2025, in quanto rappresenta una “voragine per i soldi dei contribuenti americani” e anche a ragione di tutta una serie di motivi assai criticamente analizzati e riguardanti le funzioni della suddetta fondazione e i suoi tentacoli sul mondo1.
Già nel 2018, in verità, Trump aveva proposto di ridurre i finanziamenti al NED; l’operazione tuttavia allora non riuscì per le accuse di volere così negare il sostegno alla affermazione della democrazia all’estero e di avere, al contrario, una inclinazione di simpatia verso regimi autoritari2, accuse che gli piovvero addosso da quelle stesse oligarchie neoliberiste che macchinarono poi per farlo fuori nel 2020.
D’altronde l’idiosincrasia tra i due ambienti si è manifestata a più riprese negli anni, che hanno visto funzionari e collaboratori del NED dichiarare il loro disappunto all’ipotesi di una rielezione di Donald Trump e di una sua nuova amministrazione, oltreché l’impossibilità concreta di una collaborazione, per gravi divergenze di opinioni intorno a questioni dirimenti, come la faccenda Ucraina.
Il quadro già abbastanza delicato degli equilibri interni al potere statunitense viene ulteriormente complicato dalla presenza di Victoria Nuland, figura importantissima dello stato profondo americano, che ha appena ripreso la sua attività di membro del Consiglio di Amministrazione della fondazione, dopo che averne fatto parte dal 2018 al 2021, per poi diventare, sotto l’amministrazione Biden, prima Sottosegretario di Stato per gli affari politici e poi vicesegretario di Stato ad interim.
- Details
- Hits: 1376
Piano A, piano B
di Enrico Tomaselli
La presidenza Trump – quello che rappresenta ed esprime – è ancora ai suoi esordi, per quanto rutilanti, non è quindi facile comprendere a fondo come si svilupperà, in quale direzione (e soprattutto come) cercherà di portare l’America – e il mondo. Alcuni elementi cominciano però a chiarirsi, e si incistano su quanto si poteva, anche facilmente, prevedere, già dal modo in cui è stata condotta la campagna elettorale.
Il primo di questi elementi è che gran parte dell’azione della nuova amministrazione è rivolta all’interno degli Stati Uniti; rifare grande l’America, nella visione di quel pezzo di potere statunitense che ha portato Trump alla Casa Bianca, significa innanzi tutto smantellare radicalmente quell’intreccio di apparati e istituzioni messo in piedi durante i decenni di dominio neocon-dem. Un’opera alla quale la squadra di Trump si sta dedicando con vigore – e, si direbbe, con un certo stupore da parte delle sue vittime – ma che, al di là degli effetti mediatici, necessita di tempo per produrre effetti concreti. Ovviamente è più facile la parte destruens, alla quale comunque presto si opporrà la resistenza degli stessi apparati [1], al momento ancora frastornati, ma prima o poi dovrà essere affrontata la questione del come / con cosa sostituirli. E questo sarà più lungo e più complesso.
L’altro elemento, fortemente caratterizzato dalla personalità del neo-presidente, è il medesimo approccio sbrigativo, ruvido – e in ultima analisi aggressivo – applicato sul piano internazionale. In un certo senso, simbolicamente riassumibile nella decisione di rinominare il Golfo del Messico in Golfo dell’America, ovvero una decisione unilaterale, sostanzialmente limitata negli effetti concreti ma di grande visibilità, e che soprattutto rilancia un’immagine muscolare degli Stati Uniti, che hanno deciso di mettere da parte le formalità diplomatiche e di riaffermare sin dai toni il proprio potere egemonico.
Ovviamente qui, come si suol dire, casca l’asino, perché se si tratta di rifare grande l’America, significa che a non esserlo più non è soltanto la sua immagine percepita, e quindi questo genere di maquillage non solo non è sufficiente, ma rischia di avere un effetto boomerang. Perché è tutta la realtà globale a essere mutata, non soltanto gli USA, e rifiutare di vedere la realtà è il primo passo per compromettere qualsiasi tentativo di cambiarla.
- Details
- Hits: 1340
Il materiale, l'immateriale e il conflitto
di Piero Pagliani
Andrei Martyanov è un ex ufficiale di marina russo che dissoltasi l'URSS si è trasferito negli Stati Uniti di cui è diventato cittadino. Pluridiplomato in prestigiose accademie militari sovietiche ha una solida formazione scientifica. Ritiene che la scarsa formazione nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) degli attuali ufficiali statunitensi e NATO sia una delle cause per cui l'Occidente non ha idea di come si conduca un grande conflitto continentale ad armi combinate come quello in Ucraina. A ciò si aggiunge una impossibilità materiale a combatterlo dovuta alla finanziarizzazione delle economie occidentali e alla loro deindustrializzazione. Non solo, ma proprio la finanziarizzazione secondo Martyanov ha portato a una diminuzione degli studi scientifici. A queste difficoltà se ne aggiunge una storica: gli Stati Uniti, l'unica vera potenza occidentale, non hanno mai combattuto per la propria difesa ma hanno condotto solo “expeditionary wars”.
La sfera di competenza delle analisi di Martyanov riguarda i rapporti di forza militari tra le grandi potenze - intesi nel senso ampio visto sopra - considerati fattori geopolitici dirimenti.
In questa sfera la sua critica è puntuale e informata, specialmente dal punto di vista della “operational art” nella guerra e dei suoi risvolti fisico-matematici.
Alle spalle dei rapporti di forza Martyanov vede dunque la potenza industriale delle nazioni. E la potenza industriale è valutata in base ai suoi “tangibles” in contrapposizione agli “intangibles” finanziari. Fin qui l'analisi è condivisibile, almeno parzialmente (vedremo nella nota [3] che non in tutti i contesti il livello di industrializzazione è un fattore sufficiente per vincere un conflitto tra stati – il Vietnam ne è una riprova; per le guerriglie e le insorgenze, come in Afghanistan, il discorso è ulteriormente diverso).
- Details
- Hits: 1423
Trump e Putin vanno all’incasso in Ucraina
di Gianandrea Gaiani
Dopo tre anni di retorica sulla democrazia da salvare contro l’autocrazia e la necessità di difendere la libertà e i valori del mondo libero dall’orco russo, Donald Trump ha riportato anche la guerra in Ucraina in un contesto più concreto e di facile comprensione per tutti: soldi, materie prime e interessi!
Dopo il colloquio tra Trump e Putin prende corpo l’ipotesi di un’intesa che veda Russia e Stati Uniti passare all’incasso in Ucraina, in termini di territorio, risorse e sicurezza ai confini per Mosca, in termini economici per Washington che con questa guerra già ha ottenuto il non scontato successo di mettere in ginocchio un’Europa cieca e suicida.
Il presidente statunitense ha chiarito il 10 febbraio di aver ottenuto dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky che ‘Ucraina paghi gli aiuti americani, che secondo le diverse dichiarazioni di Trump ammonterebbero a 175, poi 200 e infine 300-350 miliardi contro i circa 100 europei.
A Fox News ha detto che gli USA hanno dato l’Ucraina “più di 300 miliardi di dollari, probabilmente 350 miliardi di dollari, e l’Europa è dentro per probabilmente 100 miliardi di dollari, noi siamo dentro per più del doppio”.
A parte il fatto che la Casa Bianca potrebbe dotare il presidente di uno staff che includa consulenti in grado di non far pronunciare al presidente numeri a casaccio, come già fece quando disse che nella Seconda guerra mondiale i sovietici avevano avuto 60 milioni di morti invece dei 27 milioni passati alla Storia che gli vennero poi ricordarti da Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino.
Ciò detto tra 300 e 350 miliardi di dollari di differenza ne passa, e ancor di più tra 175 e 350. E’ interessante notare che Zelensky aveva evidenziato la scorsa e di aver incassato solo 75 miliardi dagli Stati Uniti e di non avere idea di dove fossero finiti gli altri.
Certo l’Ucraina è ultra-corrotta e già diverse istituzioni americane hanno lamentato l’assenza di controllo su armi e denario inviati a Kiev. Esiste però un altro tema che spiega perché le ingenti somme di denaro ufficialmente destinate all’Ucraina non sono mai arrivate a Kiev così come in passato parte dei fondi destinati all’Afghanistan non sono mai arrivati a Kabul.
- Details
- Hits: 1201
La morte improvvisa del “soft power” Usa
di Redazione Contropiano - Jonathan Martin
Il polverone sollevato da Trump e Musk è tale da confondere un po’ tutti gli osservatori, specie quelli ancora fermi alle giaculatorie “liberal” che contestano la rozzezza dei due tycoon ma naturalmente non ne rallentano neanche per un attimo la spinta eversiva.
E’ utile, in questa situazione, tenere d’occhio quanto accade su una scala magari più limitata, ma controllabile, in modo da intravedere meglio la portata della ristrutturazione reazionaria della superpotenza, le sue conseguenze immediate, i suoi rischi, anche di suicidio.
Nei giorni scorsi abbiamo tenuto un faro di attenzione su UsAid – una complessa e articolata Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) – improvvisamente chiusa per decisione dei due nuovi “boss”.
Stiamo parlando di un programma mondiale di intervento Usa, con un budget di circa 50 miliardi, che copre (copriva?) sia iniziative “umanitarie” vere e proprie sia spazi di manovra per la Cia, “formazione” di giornalisti e finanziamento di testate definite però “indipendenti” operanti in decine di Paesi, fino a operazioni “creative” come la distribuzione di contraccettivi in Afghanistan o campagne pro-Lgpt un po’ in tutto il mondo. Tutto documentato, non chiacchiere…
Insomma: è un’agenzia tuttofare, corrispondente all’immagine che Washington ha voluto dare di sé al mondo fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
- Details
- Hits: 1176
Il volto della guerra: Ucraina
di Enrico Tomaselli
L’ormai consolidata attitudine nel guardare agli avvenimenti con uno sguardo da hooligans – che è cosa ben diversa da un occhio partigiano – induce sfortunatamente molti di noi a posizionarci, rispetto anche ad avvenimenti tragici come le guerre, come se si trattasse di scegliere tra curva sud e curva nord. Mentre, ovviamente, la realtà è sempre più complessa e sfaccettata, e per essere davvero compresa e valutata richiede che si metta da parte la propria scelta di campo, cercando innanzitutto di selezionare le notizie e le fonti non in base alla coerenza emotiva col nostro sentire, ma alla loro veridicità.
Sentiamo ad esempio spesso dare, anche da autorevoli esperti, valutazioni diametralmente opposte dei medesimi avvenimenti. Sino a veri e propri contorsionismi verbali, come quello recentemente enunciato dal Segretario generale della NATO Mark Rutte, secondo cui “l’Ucraina non sta perdendo, ma il fronte si sta spostando nella direzione sbagliata”…
Non mancano neanche valutazioni superficiali, come quelle che paragonano il conflitto ucraino alla prima guerra mondiale – che fu invece, sostanzialmente una guerra di trincea, senza grandi spostamenti del fronte, e caratterizzata da un inutile reciproco massacro di fanti.
Se proviamo a guardare al conflitto russo-ucraino con uno sguardo non di parte, possiamo invece trarne delle importanti lezioni, che serviranno (probabilmente) agli stati maggiori per ripensare le proprie strategie, e ancor più i propri indirizzi operativi – con tutto ciò che ne consegue. Ma anche, al comune osservatore, per una più aderente comprensione di ciò che si sta evolvendo sul campo di battaglia, e che inevitabilmente si riflette poi anche sul piano politico-diplomatico.
La guerra russo-ucraina, o meglio la guerra Russia-NATO, è caratterizzata sicuramente da alcuni elementi assolutamente nuovi, primo fra tutti il ruolo predominante assunto dai droni.
- Details
- Hits: 1111
Gli USA, la lotta globale per l’egemonia e il miraggio dell’intelligenza artificiale
di Roberto Iannuzzi
Mentre arriva la sfida cinese di DeepSeek, la Silicon Valley guarda sempre più al settore militare, proponendo un’alleanza all’establishment USA che teme di perdere l’egemonia mondiale
DeepSeek, una startup cinese fino a poco tempo fa pressoché sconosciuta, ha scosso le convinzioni del mondo dell’intelligenza artificiale (IA), a fine gennaio, lanciando un modello linguistico di grandi dimensioni (large language model, LLM) con capacità paragonabili a quelle dei migliori modelli di compagnie americane leader nel settore come OpenAI, Anthropic e Meta.
Per anni, molti hanno dato per scontato che le compagnie della Silicon Valley fossero all’avanguardia nello sviluppo dell’IA, ed essenzialmente destinate a dominare un settore considerato strategico nella lotta per l’egemonia tecnologica mondiale.
DeepSeek R1 è un “modello di ragionamento” in grado di risolvere problemi matematici, logici e di programmazione anche complessi, con prestazioni equiparabili a quelle di OpenAI o1, ma con software “open source” e senza iscrizione a pagamento (richiesta invece da quest’ultimo, che è un modello proprietario).
In più, DeepSeek R1 è stato addestrato a una frazione del costo richiesto da OpenAI o1 (secondo stime tuttavia non unanimemente condivise, l’addestramento avrebbe richiesto circa 6 milioni di dollari), e senza l’impiego di microchip di ultima generazione, la cui esportazione in Cina è proibita dagli USA.
Il lancio del modello “a basso costo” di DeepSeek avviene mentre giganti come Microsoft e Meta si apprestano a spendere rispettivamente 80 e 65 miliardi di dollari nel 2025 in infrastrutture legate all’IA.
Nell’anno appena iniziato, ci si attende che i “magnifici sette” fra le Big Tech americane (Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Nvidia, Meta, e Tesla) investiranno complessivamente almeno 250 miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale.
Alla luce dell’exploit di DeepSeek, il timore degli investitori USA è che simili investimenti si rivelino eccessivi, e soprattutto che possano danneggiare la redditività delle grandi compagnie americane, se una startup cinese relativamente piccola può fornire applicazioni di intelligenza artificiale a costi molto più bassi.
- Details
- Hits: 1344
L’implosione imperialista prossima ventura
di Dante Barontini
L’Occidente neoliberista ha scoperto all’improvviso che, a proposito di dazi e guerra commerciale mondiale, Trump e i suoi amici tecnomiliardari facevano sul serio. Ma hanno anche capito con orrore, e parecchio in ritardo, che il bersaglio principale della prime mosse concrete era proprio… l’Occidente.
Il rinvio di un mese per Canada e Messico, entrambi “convinti” a mandare 10.000 soldati a testa per “controllare i confini con gli Usa” – 3.000 km a sud, quasi 9.000 a nord – non cambiano molto. E’ normale provare a trattare ogni singolo passo, prima di affondare i colpi, se si teme un’escalation fuori controllo.
A uno sguardo anche superficiale sui media mainstream lo sconcerto appare serio. L’analisi invece latita – se si usano gli schemi in voga “prima”, inevitabilmente la novità sfugge – e l’immaginare una reazione è tutto un friccicare di intenzioni sparse (“compriamo più gas dagli Usa per tenerli buoni”, da Tajani a Lagarde, che è tutto dire; oppure “anche armi“, ma è Kaja Kallas…) che non risolvono il problema. Strategico.
Uno dei più competenti e dunque preoccupati, Franco Bernabé, ex manager di molte cose importanti (Eni, Telecom, Acciaierie d’Italia, ma anche PetroChina), ha colto un punto: “la presidenza Usa piccona l’ordine mondiale costruito dagli Stati Uniti”, si tratta di “una svolta ancora più importante di quella dell’89” (la caduta del Muro e lo scioglimento dell’Unione Sovietica).
Altrettanto preoccupata Lucrezia Reichlin – economista “draghiana di ferro”, ma figlia di due icone del Pci e del manifesto come Alfredo Reichlin e Luciana Castellina – che equipara la rottura in corso a quella imposta da Richard Nixon nell’agosto del 1971, quando cancellò la parità tra oro e dollaro, ovvero l’architrave degli accordi di Bretton Woods e del primo ordine postbellico.
- Details
- Hits: 1120
Europa vaso di coccio
di Enrico Tomaselli
Tradizionalmente, si tende a pensare che i paesi europei – e segnatamente Italia e Germania – siano costretti ad un ruolo subalterno, rispetto agli Stati Uniti, non solo in virtù del ruolo di superpotenza di questi ultimi, ma anche perché ciò farebbe parte dell’eredità della sconfitta subita nella seconda guerra mondiale. In realtà questa tesi è smentita non soltanto dal fatto che ci sono paesi altrettanto subalterni, benché non ascrivibili al novero dei membri dell’Asse, ma anche dal fatto che – proprio nei paesi che persero la guerra – vi sono stati personaggi come Brandt o Moro che, pur nella loro assoluta fedeltà atlantica, erano comunque capaci di una (sia pur parziale) autonomia, che garantisse anche gli interessi nazionali, e non solo quelli imperiali.Basti pensare, appunto, alla Ostpolitik tedesca oppure al posizionamento italiano sulla questione mediorientale negli anni ‘70 del novecento.
Il dato reale è invece che, soprattutto a seguito della nascita dell’Unione Europea, che si è andata strutturando in modo sempre più centralizzato e a-democratico, è via via emersa una generazione di leader post-guerra fredda, estremamente attenta a soddisfare le attese delle varie amministrazioni americane, e che – nella convinzione di potersi con ciò dedicare esclusivamente alla cura del famoso “giardino” – hanno completamente delegato a Washington la difesa dello stesso, sino a perdere del tutto la cognizione stessa che gli interessi nazionali non sempre, e non necessariamente, coincidono con quelli della potenza egemone.Ciò è divenuto particolarmente evidente (e stringente) soprattutto negli ultimi due decenni, quando la saldatura tra neocon e democratici americani ha messo gli USA su una rotta di collisione con la Russia, e conseguentemente ha reso necessario un maggior controllo statunitense sull’Europa, individuata come il principale campo di battaglia per l’egemonia globale.
Questa subalternità, profondamente interiorizzata dalle classi dirigenti europee, ha poi raggiunto, nell’ultimo decennio, livelli di completo autolesionismo, sino alla tacita accettazione di un ruolo sacrificale nel confronto tra Washington e Mosca – coronata dal silenzio tombale con cui è stata registrata la distruzione dei gasdotti North Stream.In questo contesto psico-politico, le élite europee si sono avventurate non soltanto nel sostegno all’Ucraina, ma nell’adozione acritica di una ideologia russofobica senza precedente (e senza fondamento), tanto da diventare in ciò più realisti del re.
- Details
- Hits: 1371
Trump vuole invertire il declino dell’America ma il risultato sarà un fallimento
di Alessandro Scassellati
Trump e i suoi sostenitori vorrebbero opporsi alla corrente della storia, ma potrebbero finire per non avere modo di fermarla ed essere travolti. Queste prime settimane della sua amministrazione potrebbero rappresentare l’apice del potere di Trump, come riconoscono alcuni sostenitori
Dopo anni di analisi, dibattiti e conflitti su cosa significhi la sua ascesa, il discorso inaugurale di Donald Trump in occasione della sua seconda assunzione della presidenza ha chiarito tutto: lui è il sintomo del declino imperiale che pretende di essere la cura. Il suo discorso inaugurale in occasione del primo mandato si era soffermato sul declino nazionale: la “carneficina americana”. L’apertura del secondo discorso inaugurale, date le pretese monarchiche di Trump, tuttavia, è iniziata con il mito della “nuova età dell’oro”, proponendo un’immagine quasi idilliaca della fine del periodo di difficoltà dell’America, con il paese che dovrà tornare a suscitare quell’invidia e rispetto di cui un tempo godeva tra le potenze della terra. E, molto più chiaramente che nel suo primo discorso inaugurale e mandato, le parole e gli stratagemmi di Trump indicano una visione non solo di competizione, ma di ritorno a un’ascesa comparativa. Vuole che l’America si crogioli al sole della sua precedente vittoria nella competizione degli imperi. Sarà una “nuova entusiasmante era di successo nazionale”.
Sappiamo che Trump è un narcisista, un bullo e un cercatore di accordi che non desidera avere obblighi verso gli altri. Sta creando una monarchia elettorale non soggetta al controllo parlamentare, un sistema in cui tutto il potere è personalizzato e tenuto nelle sue mani, una ricetta certa per flussi distorti di informazioni, corruzione, instabilità e i(nco)mpotenza amministrativa. La miscela di politica, ideologia ed escatologia megalomane è particolarmente importante perché Trump ha legato il destino degli USA alle sue fortune personali come nessun altro presidente prima di lui. Come lui sostiene, la realizzazione del programma America First (arrestare il declino imperiale statunitense) è inestricabilmente legata al suo potere personale.
Sebbene alcuni analisti e commentatori, naturalmente, si oppongono al fatto che gli Stati Uniti siano mai stati un impero, Trump non sembra dubitarne.
- Details
- Hits: 1044
Gli interessi economici dietro la caduta della Repubblica araba siriana
di Maurizio Brignoli*
Dietro alle vicende siriane, e non ci riferiamo solo alla recente e repentina caduta di Assad bensì alle origini della guerra nel 2011, vi sono importanti elementi strutturali che meritano di essere presi in considerazione.
Gasdotti e oleodotti
La Siria non occupa una posizione strategica solo per l’Asse della resistenza, che ha infatti subito un duro colpo dato che la caduta del (legittimo) governo siriano aumenta le difficoltà di Teheran nel rifornire di armi Hizballah, ma ha una rilevanza per i diversi progetti, prioritario su tutti quello dell’imperialismo statunitense (con collaborazione dell’imperialismo regionale israeliano) di ridisegnare il Medioriente, che hanno contribuito prima allo scoppio del conflitto nel 2011 e poi all’abbattimento della Repubblica araba siriana tredici anni dopo.
A cavallo fra il 2009 e il 2010 sono stati scoperti nel Mediterraneo orientale giacimenti di gas e petrolio in grado di garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. La conseguente strategia delineata dall’imperialismo occidentale è stata quella di pensare a come sfruttare questi giacimenti in modo da eliminare la dipendenza energetica europea dai rifornimenti provenienti dalla Russia[1], mentre il capitale russo correva ai ripari stipulando una serie di accordi con i paesi rivieraschi (Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro) per costruire nuove infrastrutture con lo scopo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici puntando al duplice obiettivo di conquistare nuovi clienti e mantenere la posizione egemonica nel rifornire l’Europa. Gli altri paesi interessati alla realizzazione di nuovi corridoi energetici non restavano con le mani in mano, nello specifico per quanto riguarda la Siria nel 2009 il Qatar (potendo anche contare sulla messa fuorigioco dei rifornimenti iraniani all’Europa grazie alle sanzioni) aveva progettato un gasdotto di 5.000 chilometri lungo la direttrice Qatar-Arabia Saudita-Giordania-Siria-Turchia-Ue che avrebbe permesso a Doha di raggiungere più economicamente e rapidamente il mercato europeo al posto del trasporto via nave evitando al contempo le pericolose strozzature dello stretto di Hormuz (facilmente bloccabile dagli iraniani in caso di conflitto), all’Ue di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e alla Turchia di intascare le tasse di transito.
- Details
- Hits: 1311
L’alba di un nuovo equilibrio globale
di Alberto Bradanini
L'impero americano sarà l'ultimo della storia, ma Pechino non intende sostituirsi agli Usa quale dominus unipolare. La via cinese allo sviluppo – stabilità sociale, economia di mercato vigilata, controllo pubblico delle risorse – è un incubo per il capitalismo occidentale
I bolscevichi giungono alla vittoria persuasi di costituire il primo capitolo della rivoluzione proletaria universale, in un paese dove gli operai erano una sparuta minoranza rispetto ai contadini/schiavi dell’impero zarista.
La Cina tra Usa e Urss
Scomparso Lenin e dovendo sopravvivere come avamposto socialista sotto assedio, l’Unione Sovietica di J. Stalin accetta di convivere col mondo borghese in attesa di quella palingenesi proletaria che tuttavia si allontana sempre più. Il vanificarsi di tale speranza avrebbe portato alla russificazione del comunismo, che Mao Zedong, alla fine degli anni ’50, accuserà di esser divenuta l’avamposto dell’imperialismo russo mascherato da internazionalismo proletario.
In Cina, l’aspirazione alla palingenesi sociale si accompagna sin dagli esordi alla lotta contro colonialismo e imperialismo, prima britannico/occidentale, poi giapponese. Nel 1949, sconfitti il Kuomintang e gli americani, l’urgenza è quella di ricostruire un paese sterminato e arretrato, obiettivo che implica stabilità politica. In tali circostanze, il comunismo cinese non può certo impegnarsi in un’ipotetica rivoluzione proletaria universale. Mao era poi persuaso che entrambi, Stati Uniti e Unione Sovietica, puntassero a comprimere la sovranità della Cina, i primi per ragioni imperialistiche, la seconda per consolidare la leadership in seno alla galassia comunista. Lo strappo con l’Urss si consuma nel ‘59 con il rifiuto di Krusciov di fornire a Pechino la tecnologia per l’arma atomica, secondo Mosca perché questo avrebbe impedito la distensione con l’Occidente, in realtà perché ciò avrebbe reso la Cina ancor più svincolata dall’Unione Sovietica.
Nel 1969, con gli incidenti sull’Ussuri si giunge a un passo da un conflitto aperto. Il rischio d’isolamento e le tensioni con l’Urss, dunque, convincono Mao ad assecondare l’intento di Washington di giocare la carta cinese in funzione antisovietica, mentre a sua volta guarda all’ingresso della Cina alle N.U.[i] al posto di Taiwan (obiettivo poi raggiunto il 25 ottobre 1971).
Page 8 of 63