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metis

Che succede in Siria?

di Enrico Tomaselli

un miliziano armato scatta una foto vicino all aeroporto di aleppo foto ansaLa situazione nel paese mediorientale continua a restare instabile, e gli scontri feroci di questi giorni – nella regione a maggioranza alawita di Latakia – ne sono soltanto la più evidente manifestazione.

Proviamo a fare un quadro complessivo dello scenario siriano. A partire dall’esame dei diversi attori politico-militari.

 

Il regime di Damasco

Il nuovo regime guidato da Al Jolani (ex tagliagole ISIS, poi Al Qaeda, poi nel nuovo dress code in giacca e cravatta) cerca di ottenere lo sblocco delle sanzioni, precedentemente imposte soprattutto dagli europei, e di ottenere fondi dai paesi arabi sunniti, Qatar e Arabia Saudita in primis. In qualche misura, cerca anche di smarcarsi un po’ dal controllo turco.

I suoi problemi restano comunque la mancanza di risorse economiche, un paese devastato da anni e anni di guerra civile, il mancato controllo sull’intero territorio, e la mancanza di un vero e proprio esercito. Le varie formazioni jihadiste-democratiche (più di 100) riunite sotto la sigla-ombrello di Hayat Tahrir al-Sham, infatti, sono per lo più milizie prive di armamento pesante, e la sistematica distruzione preventiva della gran parte dei sistemi d’arma (di terra, aerei e navali) del vecchio esercito siriano, da parte dell’aviazione israeliana, impediscono lo sviluppo di adeguate capacità militari. Oltretutto, benché formalmente le varie milizie si siano riunite in un nuovo esercito, di fatto rispondono ancora ai diversi comandanti di ciascuna fazione, il che dà al governo centrale un controllo assai relativo su di esse. Poiché una parte non indifferente di queste formazioni armate è composta da fanatici islamisti, spesso nemmeno siriani o anche solo arabi (daghestani, tagiki, kirghizi, uiguri), le frizioni con le popolazioni non sunnite (alawiti-sciiti, cristiani, drusi) sono pressoché continue, e spesso sfociano in scontri armati.

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laboratorio

Il riarmo UE tra indipendenza dagli USA e keynesismo militare

di Domenico Moro

Difesa europea immagine.jpegDwight Eisenhower, presidente degli Stati Uniti, nel 1961 denunciò il pericolo rappresentato dal “complesso militare-industriale”, riferendosi all’intreccio di interessi tra l’industria bellica, i rappresentanti del Congresso e le Forze Armate, che poteva condizionare profondamente la politica statunitense. Pochi anni più tardi, nel 1966, uscì un importante lavoro di due economisti statunitensi, Baran e Sweezy, intitolato Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, nel quale si dimostrava che solo grazie alla spesa militare e all’industria bellica il capitalismo Usa poteva contrastare la sua crisi e contenere la disoccupazione.

In sostanza, la spesa bellica (e ancora di più le guerre) rappresentano una sorta di “keynesismo militare” che, come prevede la versione originale di Keynes, si basa sulla spesa pubblica per sostenere l’economia capitalistica. Soltanto che tale spesa, invece di essere indirizzata verso il settore civile (infrastrutture, Welfare state, ecc.), è indirizzata verso quello militare. La spesa militare rappresenta una tipologia di spesa pubblica che per il capitale è più accettabile, perché i finanziamenti statali vanno direttamente alle imprese e soprattutto perché gli investimenti pubblici non vanno a finanziare un concorrente dell’impresa privata. Ad esempio, un’ampia ed efficiente sanità pubblica rappresenta un pericoloso concorrente per la sanità privata.

Nel 2024 si è registrata una corsa dei fondi di investimento verso il settore della difesa statunitense. La ragione stava nella guerra in Ucraina e nel budget della difesa statunitense che è di gran lunga il più massiccio a livello mondiale, essendo pari a 913 miliardi di dollari (2023) contro i 313 miliardi della Ue, i 296 della Cina e i 109 della Russia[i]. Gli esperti prevedevano che la rielezione di Trump avrebbe determinato un ulteriore aumento della spesa militare, spingendo gli investimenti dei fondi anche nel 2025.

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analisidifesa

La “coalizione dei volenterosi” di Londra e Parigi affonda Ue e NATO

di Gianandrea Gaiani

DSC02223 0.jpgIl summit di Londra che ha riunito molte nazioni europee più NATO, UE e il presidente ucraino per discutere come gestire la situazione dopo la rissa nello Studio Ovale di venerdì scorso tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump ha varato iniziative che appaiono confuse e già col fiato corto.

A parte l’ormai consueto impegno degli europei a spendere di più per la Difesa e ad essere pronti ad “assumersi maggiori responsabilità”, come ha detto il premier britannico Keir Starmer, i punti salienti emersi al vertice di Londra sembrano celebrare più le divisioni tra gli alleati che unità d’intenti.

Francia e Regno Unito hanno avanzato la proposta di una tregua della durata di un mese mentre Starmer ha esposto i punti del piano britannico “volto a porre fine i combattimenti” in Ucraina, precisando che questo piano sarà discusso con gli USA e verrà attuato “insieme” a Washington. I leader presenti al summit hanno concordato su quattro punti.

 

I quattro punti

Il primo punto prevede di mantenere l’aiuto militare all’Ucraina durante la guerra e aumentare la pressione economica sulla Russia: quindi verranno inasprite le sanzioni a Mosca mentre gli Stati Uniti parlano apertamente di ripristinare relazioni commerciali con Putin. Inoltre è noto che l’Europa non ha più aiuti militari da offrire a Kiev mentre gli Stati Uniti potrebbero bloccare ogni fornitura dopo la lite con Zelensky alla Casa Bianca.

Il secondo punto sostiene che un accordo di pace dovrà garantire la sovranità e la sicurezza dell’Ucraina che dovrà partecipare ai negoziati. Un punto che meriterebbe chiarimenti poiché la sovranità dell’Ucraina non è mai stata messa in discussione ma nei negoziati è certo che Mosca imponga cessioni territoriali a Kiev. Inoltre, come ha più volte precisato Trump, l’Ucraina non è nelle condizioni di dettare condizioni.

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intelligence for the people

Retroscena e implicazioni della “lite dello studio ovale” fra Trump e Zelensky

di Roberto Iannuzzi

fb04d77a 2a5b 4841 a3a2 2d5f59f8ca98 808x455Mentre il presidente USA sembra determinato a intavolare un negoziato con Mosca, le élite politiche europee appaiono paradossalmente ostili a una pacificazione del vecchio continente

Il disastroso incontro del 28 febbraio fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca è una chiara conferma del fatto che delicate contrattazioni diplomatiche non devono essere condotte in pubblico.

Scontri verbali anche aspri, che possono aver luogo fra leader di governo durante colloqui a porte chiuse, hanno tutt’altro impatto se si verificano durante una conferenza stampa davanti alle telecamere di tutto il mondo.

L’incontro pubblico fra i due presidenti è stato evidentemente mal preparato, ma diverse indicazioni fanno ritenere che il problema sia sorto dalla malaccorta sovrapposizione di due questioni di calibro differente: un accordo per lo sfruttamento di minerali e altre risorse naturali ucraine, e il raggiungimento di una pace duratura fra Mosca e Kiev.

La firma del primo non avrebbe dovuto creare particolari problemi dopo che l’iniziale bozza americana, che secondo alcune fonti equivaleva a una sorta di “accordo capestro”, era stata riveduta per rassicurare il governo Zelensky.

Ma la visita del leader ucraino a Washington (incerta fino all’ultimo) era divenuta l’occasione per discutere ben altro tema, quello della composizione del conflitto fra Russia e Ucraina, che Trump sembra seriamente intenzionato a portare a casa.

Vari indizi fanno ritenere che il negoziato fra la Casa Bianca e il Cremlino stia procedendo più speditamente di quanto trapelato sui mezzi di informazione. Quantomeno, questa sarebbe la convinzione di Trump. Sulla carta, il presidente americano sarebbe intenzionato a concludere un accordo in tempi relativamente brevi.

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alternative

Il nichilismo di Trump

di Alfonso Gianni

1200x675 cmsv2 673400b0 11a6 51c3 a5aa 4184e45a9ce1 8835588Nel cercare di analizzare cosa significhi la netta vittoria elettorale di Trump sia per il suo paese che per il resto del mondo, come è necessario fare, bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o almeno mettere da parte, alcune caratterizzazioni che sono state appiccicate al personaggio e che non ci sono d’aiuto per comprendere a fondo la natura del fenomeno. Quale quella di essere un avventurista incline alla violenza in ogni campo; di interpretare il suo ruolo come messianico; di adottare atteggiamenti e dichiarazioni a dir poco sopra le righe; di ostentare il suo corpo ferito in un’immagine ricercata e diventata iconica; di brutalizzare il suo stesso agire politico; o addirittura di essere poco più di un “comico naturale”. In particolare dovremmo essere noi, nativi e abitanti dell’italico stivale, a essere sufficientemente vaccinati da simili devianti interpretazioni, avendo assistito increduli - senza necessariamente rammentare le posture mussoliniane, riportate all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche – al nascere e allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso, del berlusconismo e sapendo quanto ci sia costata l’altera sottovalutazione della sua fondata pericolosità, almeno al suo primo manifestarsi. Ma scorrendo anche autorevoli commenti offerti dal mainstream nostrano sembra riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la storia è una ottima maestra, ma non ha scolari.

Intendiamoci non si può negare che The Donald, rispetto alla sua prima apparizione come presidente sulla scena della storia statunitense e quindi mondiale, abbia accentuato aggressività e decisionismo nelle sue parole e nei suoi atti. Anzi si possono persino iscrivere questi suoi comportamenti in una nuova categoria, che forse aiuta a comprendere meglio con chi abbiamo a che fare. Si è fin qui e tuttora usato nei confronti dei protagonisti della destra sparsi per più continenti, compreso il nostro, il termine “populismo” per delineare un distorto, ma non meno reale, rapporto con il popolo, basato su promesse demagogiche e sulla esaltazione di un decisionismo governativo rafforzato da un presidenzialismo nelle sue varie forme e accezioni, che lo trasformavano in un populismo autoritario.

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futurasocieta.png

Trump, Putin, UE ed elezioni in Germania

di Fosco Giannini

1 Tutto un altro mondo edito1022CORRETTA.jpgLa vittoria militare della Russia, la “pace” di Trump con la strategia di guerra contro la Cina, la spinta bellica dell’Ue e le elezioni in Germania: lezioni per i comunisti italiani

Zeitgeist: con questo termine, nel “corpo” della filosofia romantico-idealistica tedesca tra il 18° e il 19° secolo, si indicava lo spirito dei tempi, cioè il clima politico, culturale, ideologico, tendente all’egemonia, di un’epoca. Vi è qualcosa che più di ogni altra, in questa fase, esprime l’attuale spirito dei tempi, del video pubblicato da Trump, sul proprio profilo “Truth”, Riviera di Gaza? Nell’orrendo clip musicale il genocidio israeliano su Gaza si trasforma in un trucido festival di danzatrici lascive quali esatte proiezioni del più bieco “appetito” maschile imperialista; le macerie senza fine di Gaza in grattacieli splendenti e riviere vacanziere per i ricchi americani. Con il popolo palestinese totalmente “fuori quadro” poiché espulso, come il popolo di Mosè dagli egizi, dalla propria terra e già vagante – nel film horror di Trump e Musk – in un nuovo deserto del Sinai.

Se la feroce volgarità di Riviera di Gaza è “Zeitgeist”, di quali sommovimenti profondi si fa paradigma, indicatore? Nell’ambito dell’uragano politico che scuote il pianeta (Trump-Putin-Unione europea, elezioni in Germania), essa è il segno dell’attuale metamorfosi in atto nel liberalismo nordamericano, che passa da una volontà di potenza imperialista “liberal” fondata sulla falsità del “libero scambio” mondiale, sulla verità dello “scambio diseguale” e adornata da orpelli pseudoumanistici “woke” (i “democratici”, che imperialisti rimangono anche nella loro postura di “estrema sinistra democratica” alla Ocasio-Cortez, paladina della guerra di Biden contro la Russia e a sostegno del palese fascismo ucraino, tanto palese da essere così definito persino da Trump), a una ancor più oscura e scarnificata volontà di potenza imperialista volta a una nuova accumulazione fondata sull’isolazionismo e sul protezionismo (i “repubblicani”), un “totalitarismo liberale” (così come magistralmente messo a fuoco dal compagno Alessandro Pascale nella sua opera omonima) che abbandona, irridendoli, gli “addobbi” ideologici umanitari per dedicarsi totalmente e seriamente alla definitiva guerra strategica contro il “nuovo mondo”, contro il multilateralismo crescente, contro la Cina.

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acropolis

La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025 (*1)

di Jeffrey D. Sachs

L’amministrazione Trump è imperialista nel profondo. Trump crede ovviamente che le grandi potenze dominino il mondo. Gli Stati Uniti saranno spietati e cinici, e sì, anche nei confronti dell’Europa. Non andate a chiedere l’elemosina a Washington. Non servirebbe a nulla. Anzi, probabilmente aumenterebbe la spietatezza. Piuttosto, si deve avere una vera politica estera europea

292873 1536 rgb copia scaled.jpgIntroduzione

Michael, grazie mille e grazie a tutti voi per la possibilità di stare insieme e di pensare insieme. Questo è davvero un periodo complicato, in rapida evoluzione e molto pericoloso. Abbiamo quindi bisogno di chiarezza di pensiero. Sono particolarmente interessato alla nostra conversazione, quindi cercherò di essere il più sintetico e chiaro possibile. Negli ultimi 36 anni ho seguito da vicino gli eventi nell’Europa orientale, nell’ex Unione Sovietica, in Russia e in Ucraina. Sono stato consulente del governo polacco nel 1989, del team economico del Presidente Gorbaciov nel 1990 e 1991, del team economico del Presidente Eltsin nel 1991-1993 e del team economico del Presidente Kuchma in Ucraina nel 1993-1994. Ho contribuito all’introduzione della moneta estone. Ho aiutato diversi Paesi dell’ex Jugoslavia, in particolare la Slovenia. Dopo il Maidan, il nuovo governo mi ha chiesto di venire a Kiev, mi ha portato in giro per il Maidan e ho imparato molte cose di persona. Sono in contatto con i leader russi da più di 30 anni. Conosco da vicino anche la leadership politica americana. Il nostro precedente Segretario al Tesoro, Janet Yellen, è stata la mia meravigliosa insegnante di macroeconomia 52 anni fa. Siamo amici da mezzo secolo. Conosco queste persone. Dico questo perché ciò che voglio spiegare dal mio punto di vista non è di seconda mano. Non è ideologia. È ciò che ho visto con i miei occhi e sperimentato in questo periodo. Voglio condividere con voi la mia comprensione degli eventi che hanno colpito l’Europa in molti contesti, e includerò non solo la crisi ucraina, ma anche la Serbia del 1999, le guerre in Medio Oriente, tra cui l’Iraq, la Siria, le guerre in Africa, tra cui il Sudan, la Somalia, la Libia. Queste sono in misura molto significativa il risultato di politiche statunitensi profondamente sbagliate. Ciò che dirò potrebbe sorprendervi, ma parlo per esperienza e conoscenza di questi eventi.

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ilponte

Le guerre e l’orizzonte di un mondo diverso

di Alberto Bradanini

Guerra fiori nei cannoni no copyright.jpg1. All’inizio c’è sempre l’Indignazione, cui segue un indistinto sentimento d’irritazione, non importa se intellettuale, etica o epidermica, che cresce a dismisura se si getta lo sguardo sulle ingiustizie perpetrate dai potenti e sulla macchina della manipolazione che modella una popolazione narcotizzata da consumismo e rimbambimento smartfonico, quella medesima manipolazione che sul piano internazionale impone il delirio paranoico bellicista del principale avversario della pace nel mondo, l’Impero americano. Non v’è dubbio che una sintesi estrema come quella che precede porta con sé il rischio di risultare apodittici. Essa tuttavia ci fa almeno guadagnare in chiarezza di posizionamento.

In dettaglio, se si getta lo sguardo al dipanare degli accadimenti è possibile identificare con buona approssimazione i nemici principali da cui occorre guardarsi: sul piano economico un capitalismo selvaggio e la società della mercificazione; su quello politico l’assolutismo neoliberalista; sul piano filosofico l’alienazione solipsista; su quello sociale il dominio mercantile e sull’arena geopolitica, ça va sans dire, gli Stati Uniti d’America.

Parafrasando l’incipit della Bibbia, all’inizio c’è il Verbo, americano beninteso, che andrebbe chiamato in realtà statunitense, perché i nobili abitanti di quel continente non andrebbero confusi con le oligarchie malate che guidano la locomotiva impazzita di quella nazione. Ma la lingua imperiale deforma senso e controsenso, imponendosi persino nel balbettio lessicale di ridicoli operatori mediatici. Per Verbo statunitense deve comunque intendersi una forma mentis, variante della nozione di caos, luogo metafisico che consente alla plutocrazia bellicista di quel paese di acquisire legittimazione abolitoria di ogni restrizione agli interventi armati contro chiunque osi mantenere la posizione retta. Da lì la patologia dell’eccezionalismo americanista si è poi diffusa nell’inconscio filosofico-valoriale di tante nazioni non solo occidentali, deformando la coscienza di miliardi di individui intellettualmente fragili e indifesi, corredati di difese deboli davanti alle nefande intimidazioni della «nazione scelta da dio per governare un mondo altrimenti ingovernabile» (W. Clinton, 1999).

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lantidiplomatico

L’effetto MAGA sulle relazioni USA-Cina: Cresce l’Ambiguità Strategica

di Laura Ruggeri

La politica di "ambiguità strategica" degli Stati Uniti nei confronti della Cina, l'amministrazione Trump e l'incognita neocon

aeoianvnikkfQuattro anni fa, dopo l’insediamento dell'amministrazione Biden, avevo ipotizzato la probabile traiettoria della sua politica di contenimento della Cina in un lungo articolo intitolato Hybrid War on China (Guerra ibrida alla Cina), poi ripreso da un organo di stampa cinese. Sostenevo che gli Stati Uniti, di fronte all'emergere di un ordine mondiale multipolare, avrebbero cercato disperatamente di arrestare il declino della loro egemonia e perseguito una politica aggressiva basata sulla rigida affermazione dell’ideologia liberale. Vale a dire, avrebbe continuato a inquadrare la competizione con la Cina come una battaglia esistenziale tra democrazia e autoritarismo, anche se questa narrazione, e l'ideologia che la sostiene, stavano diventando delle armi spuntate: molte società avevano infatti sviluppato, o stavano sviluppando, anticorpi contro la promozione messianica del liberalismo occidentale. Oggi che l'amministrazione Biden è stata relegata nella pattumiera della storia occorre rivedere quell'analisi per tenere conto della spinta ideologica e delle ambizioni della nuova amministrazione e delle riforme che sta attuando.

Nella squadra di Trump coesistono punti di vista diversi nei confronti della Cina che rispecchiano i pregiudizi ideologici e gli interessi commerciali dei suoi consiglieri e sostenitori e ciò può spiegare la dissonanza che si nota tra le affermazioni del presidente e quelle di vari membri della sua amministrazione. Marco Rubio, Segretario di Stato di Trump, vede la Cina come un paese totalitario che rappresenta una minaccia per l’egemonia americana; gli fa eco Michael Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale, che inquadra la sfida cinese in termini ideologici ed esistenziali, e sottolinea le implicazioni a lungo termine dell'ascesa cinese. Al contrario, Elon Musk ammira i progressi tecnologici e industriali della Cina e si oppone a un disaccoppiamento economico, sostiene un approccio cooperativo piuttosto che conflittuale, e intende farsi mediatore tra Stati Uniti e Cina.

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La guerra tra Deep State e Trump distruggerà l’Italia?

di OttolinaTV

1754269.jpgL’Europa non esiste e non è un incidente. E’ stato fatto scientificamente: il grande piano del super-imperialismo USA secondo il quale al mondo doveva esistere un solo Paese sovrano (e, cioè, il loro) e tutto il resto dovevano essere semi-colonie, anche se più fedeli a Wall Street che non direttamente a Washington. Alcuni paesi del Sud globale gli hanno dato il due di picche e la nostra propaganda li chiama regimi autoritari. L’Europa, invece, autoritaria non è; anzi: non è e basta. E’ terra di scorribande, amministrazione coloniale per conto delle oligarchie finanziarie che, però, ora sono in guerra tra loro: le big three, da un lato, e la PayPal Mafia dall’altro. Trump nella sua amministrazione ha fatto il pieno di membri della seconda, ma non può rinunciare ai soldi della prima; in Germania domenica ha vinto un uomo di BlackRock e, come prima cosa, ha annunciato che per lui “la priorità è raggiungere l’indipendenza dagli USA”: intendeva dire che invece che fare da zerbino alla cricca che insedia la Casa Bianca, farà da zerbino a quella che (al momento) è rimasta fuori. Scegliere a chi fare da zerbino è l’unica sovranità che c’è rimasta; chi pagherà il costo di questa guerra lo sappiamo già: noi, il 99%. Che dovremo rinunciare a sanità e istruzione per fare l’unica cosa che, nel frattempo, tiene insieme le due fazioni in guerra: armare fino ai denti l’Europa per permettere all’impero, dopo il time break ucraino, di poter sperare di vincere la guerra contro il nemico comune, il Paese più sovrano del pianeta, l’unico che ha tutti gli strumenti per sfanculare Wall Street e vivere felice: la Repubblica Popolare di Cina. Se proprio devo fare dei sacrifici, preferirei farli per una causa migliore…

Togliere ai poveri per dare ai ricchi: la risoluzione di bilancio approvata per un soffio ieri dal Congresso USA, in estrema sintesi, può essere riassunta così; la buona notizia è che poteva pure andare peggio. Trump aveva promesso tagli fiscali che, secondo studi indipendenti, sarebbero arrivati a costare fino a 10 mila miliardi: la manovra approvata ne costerà 4,5. Insomma: sarà lotta di classe dei ricchi contro i poveri, ma meno feroce di quanto promesso da Re Donald; cosa l’ha spinto a darsi una calmata?

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comedonchisciotte.org

Sì, l’Ucraina ha iniziato la guerra

di Joe Lauria

Donald Trump è stato scorticato vivo dai media e dai leader occidentali per aver detto che l'Ucraina ha iniziato la guerra. Ecco i fatti, non i miti, dice Joe Lauria

photo 2025 02 23 23 04 43.jpgIl clamore si è diffuso rapidamente in tutto il mondo occidentale: Donald Trump ha osato dire che è stata l’Ucraina a dare inizio alla guerra.

Il New York Times ha accusato Trump di “riscrivere la storia dell’invasione russa del suo vicino”. Il corrispondente del giornale alla Casa Bianca ha scritto :

“Quando le forze russe si sono schiantate oltre i confini dell’Ucraina nel 2022, decise a cancellarla dalla mappa come stato indipendente, gli Stati Uniti si sono precipitati ad aiutare la nazione assediata e hanno dipinto il suo presidente, Volodymyr Zelensky, come un eroe della resistenza.

Tre anni dopo, quasi esattamente il giorno dopo, il presidente Trump sta riscrivendo la storia dell’invasione russa del suo vicino più piccolo. L’Ucraina, in questa versione, non è una vittima, ma un cattivo. E il signor Zelensky non è un Winston Churchill dei giorni nostri, ma un “dittatore senza elezioni” che in qualche modo ha iniziato la guerra lui stesso e ha convinto l’America ad aiutarlo”.

La BBC ha riferito:

“L’Ucraina non ha iniziato la guerra. La Russia ha lanciato un’invasione su vasta scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, dopo aver annesso la Crimea nel 2014.

L’annessione è avvenuta dopo che il presidente filorusso dell’Ucraina è stato detronizzato da manifestazioni popolari.”

La CNN ha urlato: “Il presidente Donald Trump ha ora adottato pienamente la falsa propaganda russa sull’Ucraina, rivoltandosi contro una democrazia sovrana che è stata invasa a favore dell’invasore. … Trump ha accusato ingiustamente l’Ucraina di aver iniziato il conflitto”.

“In commenti ai giornalisti nel suo resort di Mar-a-Lago in Florida, Trump ha falsamente affermato che Kiev aveva iniziato il conflitto, il più grande sul suolo europeo dai tempi della seconda guerra mondiale”, si è lamentato il Financial Times.

La stessa cosa è accaduta nel panorama dei media occidentali, che hanno parlato con una sola voce.

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linterferenza

Superare la sfida dei Brics. Quale logica segue Trump?

di Alessandro Visalli

lònvyafdr«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.»

Tommasi di Lampedusa

Quello che segue è un tentativo del tutto prematuro di ipotizzare la logica d’azione della nuova amministrazione americana; una riflessione sugli eventi dal solo punto di vista del nuovo establishment statunitense. Prematuro perché dovrà essere lo svolgersi degli eventi a chiarire la direzione delle cose, e in parte retrospettivamente illuminare le intenzioni. La superficie delle cose ci dice che, da una parte, l’amministrazione Usa prosegue, esasperandola ulteriormente, la tendenza di fondo neoliberale di svuotare le macchine redistributive e di controllo dello Stato (affidando il compito di macellaio a una nuova agenzia e a un imprenditore senza scrupoli, come il sudafricano Elon Musk); dall’altra sembra condurre una brutale politica estera di radicale revisione dell’impostazione ‘wilsoniana’ prevalente in tutto il Novecento[1]. Accompagna questa doppia lama di forbice una retorica radicalmente ostile all’universalismo progressista, fondata su argomenti presi dal catalogo del conservatorismo tradizionalista.

Si tratta, dunque, di una costellazione di policy ancora apparentemente incoerente, che non può essere ricondotta direttamente allo schema liberali/fascisti (storicamente poi non tanto incompatibili[2]), dal momento che il fascismo storicamente esistito (quello ‘eterno’ lo possiamo lasciare ai fantasmi della propaganda) è sempre stato iperaccentratore e statalista, mentre qui tutto parla di una triplice ritirata.

La nostra ipotesi è che si tratti in sostanza della finale assunzione del fatto che il triplice deficit (bilancio dello stato, bilancia commerciale e saldo finanziario complessivo) è insostenibile ormai nel medio periodo, e la “sconfitta dell’Occidente” di cui parla Todd nel suo libro[3], rende non più sostenibile la sovraestensione imperiale pretesa dagli ultimi governi USA (da Clinton in poi, almeno, democratici e repubblicani).

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analisidifesa

Trump corregge la fallimentare strategia USA ma l’Europa stenta a comprenderlo

di Gianandrea Gaiani

hv99717gbni7wfNwJAP0BjWwcTbeRfz3.jpgGli Stati Uniti riconoscono gli errori compiuti con la Russia e li attribuiscono alla precedente amministrazione mentre l’Europa sembra non comprendere la necessità di correggere la strategia fallimentare adottata fino a ora. Infatti le conseguenze del vertice in Arabia Saudita tra il segretario di Stato americano Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov stanno scatenando scalpore e panico in Europa.

Un incontro definito da entrambe le delegazioni utile e proficuo e benché non siano emersi molti dettagli è apparso chiaro che le due superpotenze sembrano intenzionate ad accordarsi e a trovare intese che vanno ben oltre la conclusione del conflitto in Ucraina.

Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. “La conversazione, credo, è stata molto utile. Non ci siamo solo sentiti, ma ci siamo ascoltati a vicenda, e ho ragione di credere che la parte americana abbia capito meglio la nostra posizione”.

Da quanto emerso, come riportato sui siti internet dei ministeri degli Esteri di Russia e USA, verranno riattivate le relazioni le missioni diplomatiche (Washington ha già presentato le credenziali di un novo ambasciatore) e la priorità per i gruppi di lavoro russo-americani sembra essere più la ripresa delle relazioni commerciali ed economiche che non arrivare al più presto a concludere un accordo per far cessare il conflitto ucraino, di cui verranno informati (ma non coinvolti) anche ucraini ed europei.

Parte del dialogo in corso, ha detto Rubio, è incentrato “sull’assicurarsi che le nostre missioni diplomatiche possano funzionare”, per far ripartire relazioni diplomatiche “vibranti”. Per il segretario di Stato sarà importante “identificare le straordinarie opportunità esistenti qualora questo conflitto giunga a una conclusione accettabile… per collaborare con i russi in termini geopolitici, su questioni di interesse comune, e francamente anche sotto l’aspetto economico”.

Trovare un’intesa per chiudere il conflitto è “essenziale affinché sia possibile lavorare insieme su altre questioni geopolitiche di interesse comune, e naturalmente su alcune partnership economiche piuttosto uniche, potenzialmente storiche”.

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intelligence for the people

Conflitto ucraino e crisi transatlantica: il crollo dei tabù

di Roberto Iannuzzi

I discorsi di Hegseth e Vance, e le esternazioni di Trump su Zelensky, provocano un terremoto nelle relazioni tra USA ed Europa, mettendo a nudo verità troppo a lungo taciute

57e69542 c84b 41c4 938d 329d9a04e594 2800x1867C’è voluta una ventina di giorni, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, perché i contatti fra la Russia e la nuova amministrazione si mettessero in moto.

Ma quando il presidente americano (dopo una seconda telefonata al suo omologo Vladimir Putin, questa volta confermata dal Cremlino) ha annunciato l’immediato avvio dei negoziati per risolvere la guerra ucraina, ai leader europei è cominciata a mancare l’aria.

La vera doccia fredda è arrivata però dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, il 12 febbraio, in occasione dell’incontro del Gruppo di Contatto che riunisce i paesi che sostengono l’Ucraina.

Egli ha affermato che Trump intende porre fine a questo devastante conflitto ormai prossimo al suo terzo anniversario, giungendo a una pace duratura sulla base di una valutazione realistica del teatro di guerra.

 

Washington scarica l’Ucraina sulle spalle dell’Europa

Partendo da questa premessa, Hegseth ha aggiunto che:

1) Ritornare ai confini dell’Ucraina precedenti alla crisi del 2014 è irrealistico (dunque Kiev dovrà fare importanti concessioni territoriali);

2) l’adesione dell’Ucraina alla NATO non è un obiettivo perseguibile;

3) ogni eventuale garanzia di sicurezza all’Ucraina dovrà essere fornita da truppe europee e non europee, a esclusione di quelle americane;

4) qualora vengano dispiegate forze di interposizione in Ucraina, esse non faranno parte di una missione NATO e non saranno coperte dall’articolo 5 dell’Alleanza;

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metis

La commedia degli equivoci

di Enrico Tomaselli

6e18842e 39f3 4259 a75b a8272d084848 1536x864Sarà anche che l’irruzione dell’uragano Trump sulla scena internazionale ha sconcertato molti, o che le aspettative fossero esageratamente alte, ma si direbbe che ciò sta scatenando una serie di misunderstanding davvero considerevole.

Tanto per cominciare, la nuova America non è affatto orientata al multipolarismo, nemmeno nei termini di una semplice accettazione della realtà. Al contrario – e lo dimostrano molte cose – sta semplicemente operando una conversione tattica, che prende atto sì dell’emergere di un mondo multipolare, ma soltanto per combatterlo meglio, e riaffermare il predominio statunitense. Ciò non consegue soltanto dalle reiterate affermazioni (e azioni) che continuano a indicare la Cina come una minaccia, e la necessità di contenerla (anche militarmente), ma anche dal mutato atteggiamento verso la Russia.

Il rovesciamento di 180°, rispetto alle posizioni sostenute dalla precedente amministrazione USA sino a pochi mesi fa, è infatti dovuto a due elementi: da un lato, la constatazione dell’errore strategico commesso innescando il conflitto in Ucraina, che ha spinto Mosca a saldare un’alleanza strategica di fatto con Pechino, e dall’altro la rivalutazione del nemico russo come ostico ma comunque di livello inferiore. Da ciò la nuova politica americana che punta a separare Russia e Cina (e più in generale a rompere il blocco di alleanze quadrilaterale con Iran e Corea del Nord), aprendo una fase di dialogo e collaborazione con Mosca, che punta a coinvolgerla in un meccanismo di riduzione della conflittualità. Fondamentalmente, questo schema si basa sull’idea che depotenziando il conflitto con la Russia, e contemporaneamente accentuando quello con la Cina, ciò finisca con l’insinuare un cuneo tra i due paesi. Ovviamente, il presupposto è che le profferte statunitensi siano abbastanza allettanti per Mosca da convincerla a tenersi fuori da un eventuale acuirsi delle tensioni sino-americane. Vedremo più avanti come questa operazione sia in realtà molto più complicata, a partire dal fatto che Washington non ha effettivamente molto da offrire.