Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”. Parte I
di Alessandro Visalli
L’ultimo libro di Giovanni Arrighi[1] conclude un lungo percorso nel quale il sociologo ed economista italiano passa dall’adesione al marxismo e vicinanza all’operaismo, alla svolta sistemica degli anni ottanta, quando insieme ad altri si sforza di generalizzare il punto di vista della ‘teoria della dipendenza’[2], che aveva contribuito a fissare nel decennio precedente insieme a Gunder Frank[3] e Samir Amin[4], in una teoria molto più comprensiva dei “sistemi mondo”[5]. In questo sforzo Arrighi, lavorando sulla traccia di Braudel e in associazione a Immanuel Wallerstein[6], tenta di produrre delle generalizzazioni feconde. Ovvero teorie e modelli in grado di gettare una luce nuova sul passato ed il presente, ed immaginare possibili futuri. La sua fama diventa larga dalla pubblicazione de “Il lungo XX Secolo”[7] nel 1994, e poi di “Caos e governo del mondo”[8], con Beverly Silver, nel 1999, ma le sue prime pubblicazioni sono sul sottosviluppo in Africa[9], quindi alcuni studi di diretta ispirazione marxista sull’imperialismo[10], alcuni studi sul mezzogiorno italiano[11], e relativi alla svolta[12].
Questo testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente, “guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. Il primo tema è dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio senza egemonia”.
Il secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in posizione centrale nel mondo.
Questo tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto di una serie ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la Thailandia, infine la Cina.
Ma l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso (anche se il Giappone già fa eccezione), non era sempre stato considerato una parte sottosviluppata del mondo. In effetti ancora Adam Smith, nel settecento, aveva un’immagine altamente positiva della Cina come del centro sviluppato del mondo e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una forte stabilità. Questa immagine degrada molto rapidamente durante l’ottocento, e alla fine della seconda guerra mondiale la Cina era arrivata ad essere ormai una delle nazioni più povere del mondo.
Questa situazione inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta in Vietnam gli Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere a patti, è da allora che accelera e prende sempre più forza quello che alcuni hanno chiamato “l’arcipelago capitalista” nell’oriente asiatico.
Il libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura non convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni”[13] per interpretare il particolare tipo di mercato impiantato con enorme successo in Cina, come “non capitalista” e continuo alla lunga tradizione del paese. Smith del resto sperava che potesse impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà, e quindi non fondata sulla forma a suo dire “innaturale” di sviluppo che il mercantilismo della sua epoca stava impiantando. Secondo il modo di leggere il filosofo morale (la sua prima specializzazione[14]) scozzese che propone questi non è affatto stato un teorico dello sviluppo capitalistico, o il suo difensore. Per Arrighi Smith intendeva i mercati come strumento di controllo e di governo della avidità e questo riveste importanza per comprendere le economie di mercato non capitaliste, come quella cinese prima che venissero incorporate in posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato dall’Europa.
Ma cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si vorrebbe creare in Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato elitaria” (secondo la denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si rischia di creare? Tra il “socialismo con elementi cinesi” dei discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio che si registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle lotte del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo secondo compito è quello che si dà.
Adam Smith e la nuova era asiatica
Il libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo neosmithiano” che lavora entro la frattura, ben ricordata nelle prime pagine, tra il marxismo de “Il Capitale”, concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei centri più avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle periferie del mondo, concentrato sulla questione del potere e della lotta nazionale di liberazione.
Come scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la teoria del sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro, Amilcar Cabral, Ho Chi Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva superare solo con un atto di fede nell’unità storica del movimento marxista” (p.32). Un tema fondamentale, recentemente ripreso con grande energia da Domenico Losurdo[15].
Questa frattura, continua, Arrighi:
“fra marxisti essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che si preoccupavano principalmente dell’emancipazione della classe operaia. Il problema era che se Il Capitale rappresentava effettivamente un’adeguata chiave di lettura del conflitto di classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo capitalistico su scala mondiale non sembravano reggere a un’analisi empirica. I presupposti di Marx richiamano molto più la tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas Friedman è andato diffondendo negli ultimi anni.” (p.33)
Un punto importante.
Alcuni anni prima, del resto, anche David Harvey, in un libro citato ed utilizzato da Arrighi, sottolineò lo stesso punto:
“L'impresa multinazionale, con la sua capacità di spostare rapidamente capitale e tecnologia da un posto all'altro, di sfruttare risorse diverse, mercati del lavoro, del consumo e opportunità di profitto, organizzando la propria divisione territoriale del lavoro, trae gran parte del suo potere dal comando spaziale e dall'utilizzo di differenziali geografici in modi non consentiti all'impresa familiare. In ogni caso le implicazioni delle grandi trasformazioni avvenute nella geografia della produzione, del consumo e dello scambio attraverso la storia del capitalismo sono di per sé, sicuramente, degne di essere studiate.
Il confronto diretto con questo compito potrebbe aiutare a curare gli scismi e le ferite all'interno della tradizione marxista. Lo stesso Marx ha coraggiosamente abbozzato una teoria della storia capitalista basata sullo sfruttamento di una classe da parte dell'altra. Lenin, dal canto suo, ha sviluppato una tradizione differente, in cui assume centralità lo sfruttamento delle persone in un luogo da parte di quelle che sono in un altro (la periferia da parte del centro, il Terzo Mondo da parte del primo).
Le due retoriche dello sfruttamento coesistono in modo non facile e la loro relazione resa oscura. Il fondamento del marxismo-leninismo è quindi ambiguo e ha scatenato aspri dibattiti sul diritto all'autodeterminazione, sulla questione nazionale, sulle prospettive del socialismo in un solo paese, sull'universalismo della lotta di classe, e così via”[16].
Secondo la valutazione di Arrighi la cosa si può vedere da questo lato: l’analisi empirica mostra che il mondo, nella globalizzazione in qualche modo prefigurata anche da Marx, non si è affatto “appiattito”. Al contrario è andato soggetto ad una sempre maggiore divergenza. Negli stessi anni in cui le sinistre occidentali si innamoravano dei luoghi più “avanzati” del “laboratorio della produzione”, ricorda l’autore, Andre Gunder Frank “varava la metafora dello ‘sviluppo del sottosviluppo’[17] proprio per descrivere e spiegare quella vistosa divergenza”. Un modello[18] che fu peraltro criticato proprio dal punto di osservazione del “marxismo occidentale”, perché “ridurrebbe i rapporti di classe a semplici epifenomeni della relazione centro-periferia”. In questo senso va, ad esempio, la critica di Brenner nel 1977[19], in un articolo della “New Left Review”, nel quale pur riconoscendo senso alla posizione di Frank ne contesta la pretesa conseguenza per la quale la classe sarebbe solo una sorta di “riflesso”.
Come inizia Brenner:
“la comparsa di barriere sistematiche all'avanzamento economico nel corso dell'espansione capitalista - lo ‘sviluppo del sottosviluppo’ - ha posto problemi difficili alla teoria marxista. È emersa, in risposta, una forte tendenza a rivedere bruscamente le concezioni di Marx in merito allo sviluppo economico. […] Sosterrò qui che il metodo di un'intera linea di scrittori nella tradizione marxista li ha portati a spostare le relazioni di classe dal centro delle loro analisi sullo sviluppo economico e il sottosviluppo. La loro intenzione è stata quella di negare il modello ottimista di progresso economico derivato da Adam Smith, in base al quale lo sviluppo del commercio e la divisione del lavoro determinano senza sosta lo sviluppo economico. Tuttavia, poiché non sono riusciti a scartare i presupposti del meccanicismo individualista sottostante di questo modello, hanno finito per erigere una teoria alternativa dello sviluppo capitalista che è, nei suoi aspetti centrali, l'immagine speculare della tesi ‘progressista’ che desiderano superare. Quindi, molto simili a quelli che criticano, concepiscono le relazioni (mutevoli) di classe come emergenti più o meno direttamente dai requisiti (mutevoli) per la generazione di eccedenze e lo sviluppo della produzione, sotto le pressioni e le opportunità generate da un mercato mondiale in crescita.
Solo, mentre i loro avversari tendono a vedere tali processi determinati dal mercato come innesco, automaticamente, di una dinamica di sviluppo economico, loro li vedono come rafforzamento dell'arretratezza economica. Di conseguenza, non tengono conto né del modo in cui le strutture di classe, una volta stabilite, determineranno in effetti il corso dello sviluppo economico o del sottosviluppo su un'intera epoca, né del modo in cui emergono queste stesse strutture di classe: risultato di lotte di classe i cui risultati sono incomprensibili in termini di sole forze di mercato”.
L’accusa a Frank e compagni è quindi di una sorta di meccanicismo che, in effetti, potrebbe anche essere inteso dalla dinamica del testo (ed in particolare dalla parabola complessiva della scuola). In particolare la polemica Frank-Amin, seguita alla pubblicazione nel 1999 di “Re-Orient”[20], mentre Amin prende la direzione esattamente opposta e riformula in termini più ampi i concetti della vecchia “teoria della dipendenza”, ribadendo la necessità di una, almeno parziale, “disconnessione” per acquisire autonomia e autogoverno, Frank ormai guarda alla totalità e considera quindi ogni sviluppo come effetto non di un movimento interno (ad esempio di sviluppo delle forze produttive nella dialettica tra le classi sociali, dalla quale si può verificare storicamente l’insorgenza del capitalismo), ma di una rete di influenze e determinazioni sempre estesa a livello mondiale. Nativamente estesa a livello mondiale. Se tutto dipende dall’economico, ma questo è sovradeterminato dall’insieme totale delle relazioni internazionali, allora la lotta, che pure continua a rivendicare nella forma dei “movimenti antisistemici”, non può più avere alcun progetto possibile.
La tesi circa l’insorgenza storica del capitalismo di Brenner riformula invece in modo più tradizionale quella di Marx evidenziando le condizioni, contingenti, per le quali paesi esposti al commercio internazionale, ed in esso quindi incorporati, sviluppano le condizioni dello sviluppo capitalistico (concentrazione dei mezzi di produzione fuori dei ceti produttivi e competizione causata dallo spiazzamento dei ceti dirigenti). A questo modello marxiano contrappone quello, che definisce “Neosmithiano”, basato su specializzazione e divisione del lavoro sotto la spinta della messa in contatto commerciale del quale quello di Frank sarebbe solo un caso particolare.
Arrighi utilizza questa distinzione, accettando la qualifica che non condivide fino in fondo di “neosmithiano”, per segnalare la differenza tra processi che costituiscono mercati non capitalistici e processi di sviluppo capitalistico. Secondo la sua ricostruzione i primi processi erano sviluppatissimi nell’oriente fino al diciannovesimo secolo in assenza del secondo; quindi, mentre, come vedremo, la Cina restava in qualche modo intrappolata in un “equilibrio di alto livello”[21], l’Europa ne venne liberata dalla scoperta dell’America. E’ per questo che mentre al tempo di Smith la Cina era considerata più avanzata, ad un certo punto partì una “grande divergenza”[22], malgrado l’Europa non avesse affatto mercati più efficienti né per le merci né per i fattori di produzione. Secondo Pomeranz, infatti, nel 1789 i principali mercati europei erano meno aperti alla concorrenza, nei termini delimitati da Smith, di quanto lo fossero quelli cinesi.
Le questioni teoriche e pratiche che derivano da questa “riscoperta di Smith a Pechino” sono diverse: occorre spiegare le cause del salto energetico che impiega l’occidente, passando al carbone fossile, presente in abbondanza ma non usato nella stessa maniera anche in Cina, e, seconda cosa, bisogna spiegare perché la globalizzazione a regia inglese, nel diciannovesimo secolo, porti con sé la divergenza. La prima domanda vede enfatizzato da Wong[23] il salto di intensità dato dall’uso del combustibile, invece da Frank[24] l’opposta condizione di relativa scarsità di capitale e lavoratori[25], e la Pomeranz[26] la diversa dotazione di risorse insieme al rapporto centro-periferia “ossia al fatto che i paesi chiave dell’Europa nordoccidentale ricavano dal continente americano materie prime e vi esportano manufatti in misura considerevolmente maggiore di quanto i paesi guida dell’Asia riuscissero a fare con le proprie periferie” (p.41). Naturalmente il nuovo tipo di periferia che la conquista dell’America crea, con la tratta degli schiavi e il sistema coloniale europeo, l’imposizione di forme mai viste di agricoltura intensiva ad altissimo sfruttamento (nella piantagione di Cortez lavoravano quindicimila indios in condizione di schiavitù[27]) fanno la differenza.
Un ruolo molto importante, in questo scambio, lo gioca l’argento americano, estratto in miniere-lagher e reinvestito in commerci di lunga percorrenza, in particolare con l’Asia. Anzi l’Asia per tutto il diciottesimo secolo in pratica lo drenava quasi tutto (tra l’altro, come vedremo, questo facile drenaggio è uno dei fattori che convince i Qing che non è indispensabile munirsi di forti flotte e autonoma capacità di commercio di lunga distanza).
Un modello che tenta di spiegare tutti questi fattori nella loro complessa relazione è quello tentato da Karou Sugihara[28] che pone l’accento sulla “rivoluzione industriosa”, che si sarebbe verificata in oriente dal sedicesimo al diciottesimo secolo insieme a tecnologie ed istituzioni ad alto contenuto di lavoro, a causa della scarsità relativa di risorse coltivabili. L’insieme di questi fattori ha comportato una notevole crescita della popolazione e anche del tenore di vita. Mentre in passato la popolazione cinese aveva oscillato entro la “trappola malthusiana” dalle parti dei cento milioni di persone, all’improvviso giunse infatti a quattrocento milioni. Nel 1800 quindi su basi di mercato, ma senza alcuna evoluzione in direzione industriale, si sviluppa una economia forte ed autosufficiente, fortemente introversa, basata sulla famiglia e la comunità di villaggio. Si tratterebbe in parole semplici di un sentiero di sviluppo del tutto diverso da quello seguito dall’occidente e che Marx inclinava a vedere come necessario[29]: la proletarizzazione e creazione delle classi contrapposte degli operai e dei capitalisti. Il modello antropologico che si impone predilige chi sa fare più lavori diversi ed è abituato a cooperare e di inserirsi armonicamente nel lavoro della fattoria, affrontando e risolvendo insieme gli imprevisti. Complessivamente il modello prediligeva l’impiego di risorse umane invece che di risorse materiali.
Su questo modello, ad esempio nel caso giapponese, si innesta la spinta tecnologica che viene dall’occidente, creando un modello ibrido, ovvero una “industrializzazione ad alta intensità di manodopera”. Un modello che iniziò ad essere competitivo solo nel secondo dopoguerra nelle sue particolari condizioni.
Ci sono quindi due modelli distinti di crescita economica:
1- Quello smithiano, nel quale “lo sviluppo si dipana in un contesto sociale dato, sfrutta in funzione della crescita tutti il potenziale che quel contesto racchiude, ma non arriva mai a modificarlo in misura significativa”,
2- Il modello marxiano in cui “lo sviluppo economico su basi di mercato invece, tende a distruggere il contesto sociale che lo ospita e a creare le condizioni per l’affermarsi di una nuova struttura sociale (che non necessariamente diventare realtà) caratterizzata da un diverso potenziale di crescita” (p.56).
Per Smith il mercato è del resto un vero e proprio strumento di governo e l’economia politica è un ramo delle scienze dell’uomo di stato. La sua presenza presuppone l’esistenza di uno stato forte, “capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso”. Si tratta di essere quindi molto lontani dalla pretesa fiducia dogmatica negli effetti benefici di una riduzione dell’intervento statale e nel mercato autoregolato.
Insomma, Smith, per Arrighi, “sarebbe stato d’accordo con Karl Polanyi”[30].
In relazione al tema della caduta del saggio di profitto[31] (come noto idea che Marx preleva da Ricardo e Smith), il compito dello stato è quindi esattamente creare la competizione e proteggerla per ridurre i profitti al minimo. Ovvero, per contenerli nei termini che siano socialmente accettabili. Lo stato deve operare per superare le contraddizioni che lo sviluppo economico produce.
Un punto molto rilevante nella trattazione di Smith è quando viene messo a confronto il tema della divisione del lavoro. Distinguendo tra divisione tecnica del lavoro (la “fabbrica di spilli” all’inizio del libro di Smith) e divisione sociale del lavoro (la relazione tra unità produttive indipendenti), il filosofo scozzese si concentra sulle relazioni tra settori, o tra territori, e i relativi scambi di mercato. Quindi “sulla concorrenza come agente di ulteriore divisione del lavoro e specializzazione fra vari comparti del commercio e della produzione; e in conseguenza su cosa debba fare un governo per promuovere, regolare e sfruttare la sinergia fra concorrenza e divisione del lavoro” (p.65). Quando si concentra esclusivamente sulla divisione del lavoro lo fa per evidenziarne i difetti (nel ridurre l’uomo a una sola dimensione).
Venendo ai sentieri di sviluppo nell’opera di Smith si trovano contrapposti uno sviluppo “naturale”, graduale e per linee interne, attribuito alla Cina, che passa gradualmente dagli investimenti sull’agricoltura, poi alle manifatture ed infine al commercio estero. Ed uno sviluppo “innaturale e retrogrado”, e quindi “completamente rovesciato”, attribuito al caso olandese. Qui si parte dal commercio estero, che induce lo sviluppo di manifatture di lusso e raffinate, di qui allo stimolo all’agricoltura con il surplus guadagnato.
Tornando alla questione del modello “smithiano” verso quello “marxiano”, e quindi alla discussione con Brenner, autore marxista con il quale Arrighi si confronta in tutto il libro, è riconosciuto che Marx sviluppa un programma di ricerca completamente diverso da quello del filosofo scozzese (di cui ha, comunque, grandissimo rispetto). Ad esempio, rispetto allo sguardo verso i governi che esprime il suo predecessore Marx esprime una prospettiva che guarda alle “classi sociali”; non gli interessa se una “nazione” si impoverisce o si arricchisce, ma chi, all’interno di questa, lo fa. Quindi al centro della ricerca non c’è più la concorrenza (che pure è accuratamente modellata, ma con uno sguardo che potremmo dire “micro”), ma “il conflitto di classe e il progresso tecnologico sui luoghi di produzione”. Ancora, c’è il “segreto laboratorio della produzione” e non la circolazione tra i luoghi di produzione (è chiaro che ognuno di questi elementi è presente in Marx, e su ognuno la sua analisi è accurata ed efficace, ma la narrazione che li tiene insieme è in qualche modo rovesciata).
Diamo da parola ad Arrighi:
“Questo spostamento nella natura e negli argomenti della ‘narrazione’ ha finito per creare una gran confusione relativamente alla teoria implicita di Marx dello sviluppo nazionale. Dico implicita perché di una simile teoria non v’è traccia esplicita nel pensiero di Marx. Vi si trova invece una teoria dello sviluppo capitalistico su scala mondiale che coglie, anticipandoli, i tratti di quella che oggi chiamiamo ‘globalizzazione’ ma sbaglia nel predire che lo sviluppo capitalistico avrebbe ‘appiattito’ il mondo, nel senso in cui Thomas Friedman usa questa espressione.
In effetti l’aspettativa di un imminente appiattimento del mondo era così viva in Marx da spingerlo a basare interamente la sua teoria dello sviluppo capitalistico sull’assunzione di un mondo senza confini, in cui la forza-lavoro è totalmente spossessata di ogni mezzo di produzione e tutte le merci, ivi compresa la stessa forza-lavoro, vengono liberamente scambiate, a un prezzo all’incirca pari alla sua riproduzione” (p.88)
Si tratta di una rappresentazione piuttosto semplificata[32], ma fondamentalmente corretta.
La differenza tra le teorie dello sviluppo economico nazionale di Marx (implicita) e di Smith (espressa) sono principalmente connesse con la critica dello scopo della trasformazione in merci fatta propria dal capitalista. Per Marx lo scopo è l’accumulo di denaro (D-M-D’) mentre per Smith di utilità (si potrebbe dire M-D-M’). Naturalmente il processo di circolazione completo è una stringa di M-D-M-D’-M’’-D’’-M’’’,…) e quindi si tratta di focalizzazione. La seconda differenza è che entrambi identificano nel commercio di lunga distanza l’elemento cruciale del decollo capitalista dell’Europa, ma per Smith è “innaturale”, mentre per Marx è semplicemente il capitalismo. Ne deriva una svalutazione radicale di tutto ciò che si oppone al pieno dispiegarsi della logica della borghesia, e quindi in primo luogo del “modello asiatico”. Modello che sarebbe sconfitto dalla maggiore efficienza e quindi dal minore prezzo delle sue merci[33].
Ma il centro della critica che Marx svolge all’economia politica di Smith è che i cambiamenti tecnici ed organizzativi che interessano la società non sono originati essenzialmente dalla concorrenza che induce la nascita di nuovi settori specializzati e stimola la divisione del lavoro, ma dall’incessante conflitto tra il lavoro ed il capitale per la divisione del surplus. Ne segue che i capitalisti scaricano la pressione della concorrenza sui lavoratori (come scrive già Engels nel 1844[34] mettendo in concorrenza i lavoratori anziché concorrere con gli altri capitalisti) attraverso la continua innovazione e quindi, al suo tempo, ampliando dimensione e concentrazione delle unità produttive. L’aumento della dimensione delle unità produttive e della divisione tecnica del lavoro sono quindi le condizioni essenziali della crescita della classe dei capitalisti e della stagnazione di quella dei lavoratori spossessati dei mezzi di produzione. Cioè, come si può dire, “i mutamenti tecnici ed organizzativi non sono neutri ma hanno un segno di classe”. Naturalmente gli effetti anche per Marx, come per Smith, sono deleteri per le qualità morali ed intellettuali dei lavoratori.
Altre differenze sono nella nozione di tendenza alla crisi, presente nell’uno e assente nell’altro (che, casomai vede una tendenza alla stabilizzazione, ovvero alla stagnazione di alto livello); per Marx la crescita della concorrenza e la riduzione del tasso di profitto non sono dirette ad uno stato stazionario, ma piuttosto ad una “distruzione creatrice” che in Arrighi ha tre possibili dimensioni: aumento delle dimensioni dei capitali e riorganizzazione del sistema di aziende; creazione di un sovrappiù di popolazione e di un nuovo schema di divisione del lavoro internazionale; comparsa di nuovi epicentri di accumulazione capitalistica. Nel suo insieme il capitalismo ha quindi una spinta immanente a infrangere i suoi limiti, superando le fasi di sovraccumulazione con l’allargamento.
Questa posizione di Marx è fatta propria da Giovanni Arrighi ma solo a livello globale, invece secondo lui a livello dello sviluppo nazionale, o dell’intera Europa, non è adeguato a dare conto della insorgenza del capitalismo stesso, o della rivoluzione industriale. In questo punto si allinea alle tesi dell’ultimo Gunder Frank o di Hosea Jaffe[35], “le differenze tra i processi di sviluppo dell’economia di mercato in Europa e nell’Oriente asiatico non sono riconducibili alla presenza o all’assenza di specifiche istituzioni politiche o economico-commerciali, ma piuttosto alla loro combinazione in due differenti strutture di potere”. In altre parole non si trattava di avere più o meno “capitalisti”, ma del potere di imporre il proprio interesse di classe a scapito dell’interesse nazionale.
Come scriveva Braudel:
“Si può parlare di trionfo del capitalismo solo quando esso si identifica con lo stato, quando si fa stato. Nella sua prima grande fase, quella delle città-stato italiane come Venezia, Genova e Firenze, il potere era saldamente nelle mani di una élite di ricchi. Nell’Olanda del diciassettesimo secolo, l’aristocrazia che esprimeva i Reggenti, governava a beneficio, e spesso sotto la direttiva dei mercanti, imprenditori e banchieri. Analogamente, la Gloriosa rivoluzione del 1688 in Inghilterra segnò l’accesso al potere degli imprenditori sull’esempio olandese”[36]
Questo fenomeno va connesso con la tendenza a reagire alla caduta del tasso di profitto con l’espansione finanziaria e con la competizione interstatale per attrarre questi flussi finanziari.
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