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intrasformazione

Confini, frontiere, capitale

Sandro Mezzadra

global s utopia la globalizzazione dell arte 41341. “Che cos’è un’economia e, ancor prima, dov’è un’economia?” Si può riprendere la domanda di Immanuel Wallerstein1 per impostare un ragionamento sul rapporto che il capitale intrattiene in epoca moderna e contemporanea con i confini e le frontiere. Ogni economia – ogni “reticolo di processi produttivi più o meno strettamente interdipendenti” – si sviluppa all’interno di determinati “confini spazio-temporali”, aggiunge Wallerstein: la storicità di un sistema economico, la sua origine, la sua crescita, le sue trasformazioni corrispondono cioè a una specifica (ancorché mutevole) collocazione all’interno dello spazio, circoscritta da un insieme di “limiti”. Sorge dunque immediatamente il problema di comprendere “come questi confini si colleghino e interagiscano con quelli definiti da altre dimensioni sociali, in particolare dalla dimensione politico-legale e da quella culturale”.2

Posta in questi termini generali la questione, occorre specificare il modo in cui essa si pone a fronte dei caratteri storicamente specifici del capitalismo moderno. Particolarmente rilevante, da questo punto di vista, è il rapporto tra la produzione di spazio che contraddistingue il capitalismo e le modalità con cui lo spazio è prodotto e organizzato sotto il profilo politico. Molti studi hanno ricostruito i processi che hanno condotto all’emergere in Europa del confine lineare come astrazione geometrica, capace di circoscrivere (di produrre) lo spazio omogeneo della moderna forma-Stato3. Nel corso degli ultimi anni, sulla base di una consapevolezza sempre più accentuata delle coordinate globali al cui interno la storia della modernità si è venuta svolgendo fin dalle sue origini, altri studi hanno contribuito a collocare in una prospettiva più ampia la formazione e lo sviluppo dello Stato sovrano in Europa. Le molteplici storie della sua proiezione coloniale e imperiale sono via via apparse di rilievo fondamentale per la stessa ricostruzione delle metamorfosi del confine in senso politico e giuridico: a venire in primo piano è stato il rilievo costitutivo per la storia dello Stato moderno e della sovranità di un insieme profondamente eterogeneo di dispositivi di governo degli spazi e delle popolazioni assoggettate, irriducibili a quelli che si organizzano attorno all’istituto del confine lineare.4

Conviene valorizzare questa prospettiva globale sulla storia moderna del confine in senso politico e giuridico per comprenderne i mutevoli rapporti (le articolazioni, le tensioni, i conflitti) con le profonde trasformazioni degli “spazi economici” determinate dall’emergere del capitalismo moderno. Il “capitale” è evidentemente esistito anche in altre epoche storiche e a latitudini diverse da quelle europee. Spazi economici e politici delimitati (come quelli delle città tardo-medievali o di leghe come quella anseatica) hanno giocato un ruolo indubbiamente importante alle origini dello stesso capitalismo moderno. Ma uno degli essenziali caratteri distintivi di quest’ultimo consiste da una parte nel fatto che il capitale si pone qui, su un asse “intensivo”, come matrice di un insieme di rapporti destinati a penetrare in profondità e a riorganizzare complessivamente le formazioni sociali sottoposte al suo dominio. Dall’altra parte, su un asse “estensivo”, l’orizzonte spaziale all’interno del quale il capitalismo moderno si sviluppa è immediatamente il “mercato mondiale”.

Quella che ho schematicamente ricapitolato è una definizione che deriva da una specifica interpretazione della critica marxiana dell’economia politica.5 Conviene riprendere in questo senso una breve citazione tratta dai Grundrisse: “la tendenza a creare il mercato mondiale”, scrive qui Marx, “è data immediatamente con il concetto stesso di capitale. Ogni limite (Grenze) si presenta qui come un ostacolo (Schranke) da superare”6. E’ un passo per molti versi interessante per il nostro tema: il mercato mondiale è presentato come una tendenza connaturata alle operazioni del capitale (nella modernità), e questa tendenza agisce in termini profondamente destabilizzanti su ogni “limite” – su ogni “confine”, se è vero che il termine Grenze è quello che in tedesco viene utilizzato per indicare lo stesso confine in senso “geopolitico”. In questo senso, io e Brett Neilson abbiamo proposto la formula “frontiere del capitale” per cogliere questa essenziale tendenza espansiva che caratterizza l’azione del capitale dal punto di vista della produzione di spazio.7 D’altro canto, abbiamo sottolineato che questa tendenza non può per definizione realizzarsi nella sua “purezza”: il modo in cui le “frontiere del capitale” si articolano con un insieme di confini territoriali è piuttosto all’origine di specifiche formazioni del capitalismo (differenziate tanto sotto il profilo storico quanto sotto quello geografico). E lo stesso rapporto tra capitale e Stato si presta in questo senso a essere ridefinito dal punto di vista, necessariamente globale, del confine.

 

2. Quello del “mercato mondiale” è un principio che si potrebbe definire astratto, nella misura in cui inerisce al “concetto stesso di capitale”. Attorno a tale principio si organizzano tuttavia una serie di potenti condizionamenti a cui singoli attori capitalistici (e lo stesso svolgimento dell’antagonismo tra capitale e lavoro) non possono in ultima istanza sottrarsi. La spazialità caratteristica del modo di produzione capitalistico è fin da principio caratterizzata da una profonda tensione tra la tendenza verso il mercato mondiale e le specifiche geografie che caratterizzano l’azione di specifici attori, il ciclo di specifici prodotti e la stessa circolazione di pratiche di resistenza e di lotta (spesso collegate alla mobilità del lavoro). Queste geografie sono state variamente descritte da storici, economisti e geografi, ad esempio attraverso concetti quali “centro” e “periferia”, elaborati dalla “teoria della dipendenza” latinoamericana e ripresi dalla “teoria del sistema mondo” di Immanuel Wallerstein. Dall’interno di questa impostazione, Giovanni Arrighi ha proposto un’ambiziosa ricostruzione della storia del “sistema mondo” capitalistico organizzata attorno al concetto di “transizioni egemoniche”.8 A suo giudizio, le geografie globali del capitalismo si sarebbero profondamente modificate nella storia, incrociandosi con il principio del “territorialismo” (ovvero con l’azione degli Stati) all’interno di configurazioni caratterizzate dall’egemonia mondiale di una specifica potenza (prima la Repubblica di Genova, nella sua alleanza con la monarchia spagnola, poi l’Olanda, quindi l’Inghilterra e infine gli Stati Uniti).

Si tratta di uno schema sicuramente utile dal punto di vista storico, che non è qui possibile discutere in dettaglio (per farne emergere anche qualche limite). Basti aggiungere che consente di tradurre sotto il profilo analitico alcune delle tensioni che si sono precedentemente individuate: in particolare quella tra la dimensione globale che caratterizza il “concetto stesso di capitale” e la sua necessaria articolazione con un assetto determinato di confini territoriali. Tanto all’interno dell’Europa quanto al suo esterno, le transizioni egemoniche analizzate da Arrighi sono caratterizzate da profonde trasformazioni, che investono sia i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale, sia gli attori protagonisti di questi processi, sia le forme politiche e giuridiche assunte dalla statualità, dall’espansione coloniale e dalla costruzione imperiale. Le frontiere del capitale, all’interno di questa storia, si sono spesso fissate all’interno di spazi “confinati”, come si può ad esempio vedere considerando le geografie e le enclave estrattive del colonialismo spagnolo nella Americhe, le factories della Compagnia delle Indie Orientali inglese e le “concessioni” in Cina dopo le guerre dell’oppio. Contemporaneamente, l’espansione di quelle stesse frontiere ha “striato” i mari, disegnando fin dal XVI secolo un complesso mosaico di corridoi per la circolazione delle merci, “agganciati” ad avamposti costieri, estuari, isole e arcipelaghi:9 entro questo mosaico, in particolare, hanno preso forma le geografie globali della schiavitù, del lavoro coatto e dei sistemi di piantagione.

All’interno di questa storia e di queste geografie (a cui hanno fatto fin da principio riscontro formidabili contro-storie e contro-geografie di resistenza e di lotta), una significativa cesura si produce nel corso del XIX secolo, quando comincia a emergere quello che si può chiamare il “momento industriale e nazionale” del capitalismo,10 I processi di industrializzazione si accompagnano da una parte alla progressiva nazionalizzazione dei mercati all’interno dei Paesi europei: è in particolare la formazione di un mercato nazionale del lavoro che assegna nuovi significati “economici” ai confini statuali, ponendo le basi per un insieme di attriti e tensioni che si manifesteranno sul terreno della “regolazione” dell’immigrazione (solo verso la fine dell’Ottocento questa diviene del resto una funzione fondamentale dei confini statuali). Dall’altra parte, l’emergere di un nuovo interesse per la distribuzione spaziale delle attività produttive e delle materie prime si traduce sotto il profilo teorico nella formazione del concetto di “divisione internazionale del lavoro”,11 mentre sotto il profilo storico è all’origine di un’intensificazione della violenza coloniale e degli scontri tra potenze nell’età dell’“imperialismo”.

Il concetto di divisione internazionale del lavoro tende a presentare la tensione tra l’espansione delle frontiere del capitale e la configurazione dei confini territoriali come risolta, nella misura in cui assume la scala nazionale come scala essenziale di organizzazione tanto degli spazi economici quanto degli spazi politici. A prescindere dal fatto che proprio i dibattiti sull’imperialismo di inizio Novecento registrarono i limiti di questa “soluzione” (tanto più in una situazione in cui in buona parte del mondo prevalevano forme di dominio coloniale che negavano proprio il principio dell’autodeterminazione nazionale), le grandi lotte per la decolonizzazione del Novecento hanno certo determinato un contraddittorio processo di globalizzazione dello Stato nazione, che vediamo oggi riflesso nelle mappe e negli atlanti. Pur nel contesto della contrapposizione bipolare tra USA e URSS, all’indomani della seconda guerra mondiale molti progetti di “sviluppo” puntarono in varie parti del mondo a far coincidere i confini politici con i confini delle “economie nazionali” (e in particolare, ancora una volta, di mercati del lavoro nazionali). L’analisi delle condizioni di “dipendenza” che restringevano radicalmente i margini al cui interno di muovevano questi progetti è d’altro canto un capitolo particolarmente importante dei dibattiti economici del secondo dopoguerra, in particolare in America Latina come già si è accennato: e ha contribuito a illuminare le persistenti tensioni tra la continua espansione delle frontiere del capitale e le geografie politiche postcoloniali in cui si erano assestati i confini territoriali tra gli Stati.

 

3. Sotto l’incalzare di grandi lotte sociali e di processi rivoluzionari in molte parti del mondo, il relativo equilibrio che nel secondo dopoguerra si era determinato tra spazi economici e spazi politici è entrato decisamente in crisi fin dai primi anni Settanta dello scorso secolo: lo sganciamento del dollaro dall’oro, nel 1971, fa da cornice a un insieme di processi che investono violentemente tanto la natura del capitalismo quanto i suoi rapporti con il lavoro e con lo Stato. Finanziarizzazione, deregolamentazione, produzione flessibile, aggiustamento strutturale, neoliberalismo sono alcune parole chiave che interpretano queste trasformazioni, dilagate a livello globale dopo la fine dell’Unione Sovietica. Ne derivano, per riprendere un concetto introdotto da Saskia Sassen, potenti di effetti di “denazionalizzazione” degli stessi spazi economici e politici, sulla base di una nuova violenta espansione delle frontiere del capitale.12

All’interno dei dibattiti che hanno accompagnato queste trasformazioni, si possono delineare diverse tendenze per quel che riguarda il problema che si è qui definito nei termini del rapporto tra le frontiere espansive del capitale e i confini territoriali. Per semplificare, possiamo distinguere tra le analisi che si sono concentrate sull’emergere di una nuova configurazione della “sovranità capitalistica”, imperiale, a livello globale13 e quelle che fin dagli anni Ottanta hanno descritto il formarsi di una “nuova divisione internazionale del lavoro”,14 soffermandosi ora sulla nuova geografia della produzione, ora sulle sue implicazioni “culturali” e dal punto di vista dei rapporti tra i generi (per via dei grandi processi di femminilizzazione del lavoro e delle migrazioni che ne costituiscono un aspetto essenziale). Mentre la prima ipotesi enfatizza le trasformazioni che anche sotto il profilo del rapporto con lo spazio sono intervenute all’interno del capitalismo, in particolare per via dei processi di finanziarizzazione, la seconda assume piuttosto le dinamiche di delocalizzazione delle attività industriali come criterio fondamentale per descrivere un nuovo assetto dei rapporti tra centro e periferia. Il concetto di spatial fix, introdotto dal geografo marxista David Harvey per indicare nello spostamento spaziale di determinate attività economiche la “soluzione” a una crisi di profittabilità del capitale, ha avuto grande influenza in questo senso, al pari di categorie come “catena delle merci” e “catena del valore”.15

In Border as Method, io e Brett Neilson abbiamo proposto di leggere i rapporti tra espansione delle frontiere del capitale e confini territoriali nel tempo della globalizzazione in una diversa prospettiva. A noi pare, per dirla in breve, che un’essenziale mobilità abbia investito le configurazioni spaziali che caratterizzano il nostro tempo.16 Lungi dal determinare una tendenziale irrilevanza dei confini, tuttavia, questa mobilità si accompagna a una loro proliferazione. In questione non è qui soltanto la “contraddizione”, molte volte rilevata e di grande importanza, tra la libera circolazione dei capitali e gli ostacoli frapposti alla migrazione e ai movimenti del lavoro. Più in generale, tanto i confini intesi in senso tradizionale quanto nuove delimitazioni amministrative (come ad esempio quelle che in molte parti del mondo circoscrivono le “zone economiche speciali”) giocano un ruolo essenziale nell’articolazione dei processi capitalistici globali proprio in quanto questi processi sono sempre più guidati da una logica diversa da quella industriale, da una logica di natura essenzialmente finanziaria. Da una parte è importante sottolineare che la stessa finanza opera all’interno di specifiche coordinate geografiche e attraverso specifiche frontiere.17 Dall’altra parte sostenere che oggi la logica della finanza “guida” i processi capitalistici globali non significa certo affermarne l’autonomia: si tratta, al contrario, di richiamare l’attenzione sul ruolo che essa svolge nella sincronizzazione di un insieme profondamente eterogeneo di attività economiche dal punto di vista della valorizzazione del capitale.

Fondandosi su questa sincronizzazione “in ultima istanza” il capitalismo contemporaneo è caratterizzato da una tendenza a moltiplicare le forme di lavoro e attività sottoposte a sfruttamento economico – per fare qualche esempio: da quelle collegate all’economia della conoscenza alla produzione industriale alle reti delle “economie popolari” e “sociali” sempre più assunte dalla finanza come terreno essenziale per le proprie operazioni.18 Al tempo stesso, la scala globale su cui si determinano la valorizzazione e l’accumulazione del capitale è all’origine di una continua rivoluzione degli spazi: alla contraddittoria formazione di mercati regionali e continentali corrispondono processi di scomposizione degli ambiti territoriali nazionali, l’emergere di nuove “città globali” e la formazione di nuovi spazi “logistici” che assumono una propria autonomia anche sotto il profilo normativo e governamentale.19 In questi processi l’articolazione delle frontiere del capitale con una molteplicità di confini territoriali sembra presentarsi come un’essenziale posta in gioco, senza che siano in vista ipotesi di stabilizzazione del rapporto. Potenti condizionamenti strutturali sono qui operanti, antiche relazioni di dipendenza tra centro e periferia sono continuamente messe in gioco e al tempo stesso ridefinite in una molteplicità di conflitti e negoziazioni che investono direttamente la produzione dello spazio – fino ad assumere in molte parti del mondo la forma della guerra. Sul terreno della produzione dello spazio, del resto, si sono collocate anche alcune delle più significative lotte sociali degli ultimi anni, a partire da quelle in cui più forte è stato il protagonismo dei soggetti migranti: sottolineare le tensioni che oggi caratterizzano il rapporto tra l’espansione delle frontiere del capitale e i confini territoriali ha anche l’obiettivo di contribuire alla definizione di una politica capace di reinventare, articolandosi su molteplici scale geografiche, l’eredità dell’internazionalismo.

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Note
1 I. Wallerstein, Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema-mondo, Torino, Einaudi, Torino, 1985, p. 93.
2 Ivi, p. 96.
3 Cfr. ad esempio C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna, 2001 e P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, Mimesis, Milano, 2007.
4 Cfr. ad esempio Th. Winichakul, Siam Mapped: A History of the Geo-Body of a Nation, University of Hawaii Press, Honolulu, 1994 e L. Benton, A Search for Sovereignty. Law and Geography in European Empires 1400-1900, Cambridge University Press, Cambridge, 2010.
5 Si veda, per un più ampio svolgimento, S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, Manifestolibri, Roma, 2014.
6 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1978, vol. II, p. 9.
7 S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham, NC – London, 2013, in specie capitolo 3.
8 Si vedano in particolare G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996 [1994] e Id., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Milano, Feltrinelli, 2008 [2007].
9 Cfr. ancora L. Benton, A Search for Sovereignty, cit.
10 Si veda S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, cit., capitoli 3 e 5.
11 Cfr. J. Viner, Studies in the Theory of International Trade, Harper and Brothers, New York, 1965.
12 S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all'età globale, Milano, Bruno Mondadori, 2008 [2006].
13 Cfr. M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002 [2000].
14 Cfr. F. Fröbel, J. Heinrichs e O. Kreye, The New International Division of Labor, Cambridge University Press, Cambridge, 1980.
15 Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993 [1989].
16 Si veda anche il recente libro curato da P. Perulli, Terra mobile. Atlante della società globale, Einaudi, Torino, 2014.
17 Cfr. M.S. Fischer e G. Downey (eds), Frontiers of Capital. Ethnographic Reflections on the New Economy, Duke University Press, Durham, NC – London, 2006 e G.L. Clark e D. Wójcic, The Geography of Finance. Corporate Governance in the Global Marketplace, Oxford University Press, Oxford, 2007.
18 Cfr. ad es. V. Gago, Financialization of Popular Life and the Extractive Operations of Capital: A Perspective from Argentina, in “South Atlantic Quarterly”, 114(1/2015), pp. 11-28.
19 Si veda in particolare D. Cowen, The Deadly Life of Logistics. Mapping Violence in Global Trade, University of Minnesota Press, Minneapolis, MI – London, 2014.

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